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Inside out

27 Gennaio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Con oggi sono tre anni, ormai, che sto dentro. Il mondo fuori comincia un poco a sbiadire. Mi hanno chiuso qui quando l’ho deciso io, mi sono fatto prendere. Non che si stia proprio male, ma lo spazio è molto limitato. Pochi metri quadri, tanta gente di tutti i colori, un bagno sempre intasato e un lavandino che cola e ci tiene svegli la notte. Il vitto è un po’ scadente, il caffè una ciofega, però si mangia tre volte il giorno, abbiamo pasti caldi, televisione, infermeria, connessione a internet, un piccolo cinema per la domenica. Questa prigione non è peggiore di tante altre ed era quella più a portata di mano.

Sto in carcere perché me lo merito, mi sono guadagnato questa cella. Anche gli altri compagni. Ne parliamo spesso quando ci incontriamo nel corridoio, in biblioteca e nella sala comune, dove la televisione è sempre accesa su telegiornali che riportano orrendi fatti di cronaca. Madri che strozzano i figli, mariti che accoltellano le mogli, medici che ammazzano i pazienti, e poi corruzione, tangenti, malaffare, omicidi, stupri, rapine a mano armata, risse. Non seguiamo nemmeno, non vogliamo più sapere niente, siamo qui per dimenticare quella vita.

Anche lo psicologo che incontriamo una volta la settimana ci aiuta molto a comprendere la portata della nostra situazione e a viverla al meglio. Parla di accettazione, di serenità ritrovata, di far buon viso a cattivo gioco. Me lo merito di stare qui, ripeto, per come mi sono sempre comportato fin dal primo giorno della mia vita, con i colleghi di lavoro, con i miei genitori, gli amici, mia moglie e i miei figli. Sono sicuro che qui è dove devo stare.

La vita fuori, quando ci ripenso, mi spaventa, anche se mantiene un certo fascino romantico: libera, sempre sul filo del rasoio, piena di azzardi e pericoli. Qui è tutto un po’ troppo uguale, troppo piatto dall’alba al tramonto. Ma la consapevolezza di meritare questo posto e questo genere di esistenza aiuta a superare i momenti di nostalgia. Come dice sempre il mio compagno di cella, che fuori faceva l’avvocato: “Ognuno raccoglie ciò che ha seminato”.

Ed io, questo ho seminato e questo raccolgo.

Nell’anno 2069 il tasso di criminalità era ormai a livelli così alti da rendere impossibile una vita normale. La corruzione, il malaffare, gli omicidi di mafia, gli stupri, le violenze dentro e fuori la famiglia, erano cresciuti a un livello intollerabile, rendendo le città invivibili e provocando l’esplosione delle carceri. Ciò costrinse i governi ad una rivoluzione copernicana. I pochi cittadini onesti ormai rimasti sulla terra ottennero la possibilità di entrare in carcere al posto dei detenuti, i quali furono rimessi in libertà. Chi lo desiderava, poteva far domanda per essere imprigionato, in modo da vivere protetto da quattro mura sorvegliatissime e non correre più rischi. Le file per entrare si allungavano di giorno in giorno, e, alla fine, solo i migliori, quelli che con interminabili certificazioni potevano comprovare una vita specchiata, meritarono l’ambito posto dentro.

I've been inside for three years now. The world outside begins to fade a little. They closed me here when I decided, I got caught. Not that it feels bad, but space is very limited. A few square meters, many people of all colors, a bathroom always clogged and a sink that runs and keeps us awake at night. The food is a bit poor, the coffee is a “ciofega”, but we eat three times a day, we have hot meals, television, infirmary, internet connection, a small cinema for Sunday. This prison is no worse than many others and was the most handy.

I'm in prison because I deserve it, I earned this cell. Even the other companions. We often talk about it when we meet in the corridor, in the library and in the common room, where the television is always on on news programs that report horrible news. Mothers who choke their children, husbands who stab their wives, doctors who kill patients, and then corruption, bribes, malfeasance, murders, rapes, armed robberies, fights. We don't even follow, we don't want to know anything anymore, we're here to forget that life.

Even the psychologist we meet once a week helps us a lot to understand the extent of our situation and to live it to the fullest. It speaks of acceptance, of newfound serenity, of making the best of our new life. I deserve to be here, I repeat, because of how I have always behaved since the first day of my life, with work colleagues, with my parents, with friends, my wife and children. I'm sure this is where I have to be.

Life outside, when I think about it, scares me, even if it maintains a certain romantic charm: free, always on a tightrope, full of risks and dangers. Everything is a little too equal here, too flat from sunrise to sunset. But the awareness of deserving this place and this kind of existence helps to overcome the moments of nostalgia. As my cellmate, who was a lawyer outside, always says: "Everyone reaps what he sowed".

And this I sowed and this I reap.

 

By 2069 the crime rate was at such high levels that a normal life was impossible. Corruption, malfeasance, mafia murders, rape, violence inside and outside the family, had grown to an intolerable level, making cities uninhabitable and causing prisons to explode. This forced governments into a Copernican revolution. The few honest citizens now left on earth were given the opportunity to enter prison instead of prisoners, who were released. Those who wanted it could apply to be imprisoned, so as to live protected by four closely guarded walls and not take any more risks. The queues to enter lengthened day by day, and, in the end, only the best, those that with endless certificates could prove a life beyond reproach, deserved the coveted place inside.

 

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Poveri loro

26 Gennaio 2015 , Scritto da Paolo Mantioni Con tag #paolo mantioni, #racconto

Poveri loro

Pasquale Sorrento era annoverato nella categoria degli scassacazzo-pagatori. Gli scritturisti, i venditori e i proprietari delle ditte del mercato generale del pesce di Roma classificavano i compratori, i pescivendoli al dettaglio, in base alle potenzialità d’acquisto, al grado di malleabilità nelle trattative e, soprattutto, alla celerità dei pagamenti (subito, in contanti, a fine settimana, a fine mese, alla fine di reiterate e sbraitanti richieste, mai). Pasquale Sorrento comprava tanto, pagava subito e, da conoscitore del mercato, spremeva da queste sue qualità il massimo di rigidità nelle trattative e del rispetto che gli era dovuto. Girovagava con fare distratto tra i plateatici, fiero del suo addome prominente (“omo de panza, omo de sostanza”), dei suoi scarponi larghi e slacciati, che strascinava come zoccoli, quasi indifferente al febbrile movimento che gli si svolgeva intorno, come se lui quel giorno non dovesse comprare (il grosso e il meglio glielo avevano già messo da parte le tre o quattro ditte di fiducia), si fermava, guardava questa o quella cassa, aspettava che il venditore gli dicesse “Pasca’, che te posso leva’?” (togliere, scansare, levare = mettere da parte, riservare a). “Pe’ prima cosa, nun me chiamo Pasca’. Quanto sfocano ‘sti merluzzi?” “15.” “Sì, te saluto.” E si allontanava senz’altro. “Pasquale, dai, vie’ qua.” Si riavvicinava. “’Sta cassa de merluzzi e ‘ste du’ casse de frittura, l’un per l’altro a 10 mila lire”. Metteva una mano sulla spalle del figlio che lo seguiva come un’ombra e passava oltre. Il figlio di Pasquale Sorrento era un giuggiolone grande e grosso come e più del padre con qualche ritardo nello sviluppo mentale.

A fine mercato lo raggiungeva la moglie Nerina. Una donna che in condizioni normali, a passeggio per il Corso, o in un ristorante di Testaccio, o più semplicemente di giorno, non avrebbe attratto sguardi di unanime concupiscenza, ma di notte, in un ambiente frequentato per la stragrande maggioranza da maschi fanfaroni, faceva la sua figura. E nella formazione composta in testa da Pasquale Sorrento e il figlio, seguiti da carrello trainato dal fido Romeo (facchino della ditta dove il Capo faceva gli acquisti più consistenti) e dall’operaio Rossano e chiusa dalla moglie Nerina, si passava nelle diverse ditte dove s’erano fatti acquisti, si pesava, si caricava sul carrello e la donna pagava il conto, subito, in contanti (portando un po’ d’ossigeno alle ditte sempre finanziariamente periclitanti).

Tutt’al contrario, Pieretto era cronicamente in debito. Il martedì e il venerdì notte in particolare (nei giorni, cioè, di massima affluenza al mercato) svicolava furtivo tra le ditte, era inavvicinabile, tesissimo, impegnatissimo, concentratissimo, perché doveva conciliare due esigenze pressoché inconciliabili: comprare la molta merce di cui aveva bisogno per un banco frequentatissimo dal popolino del Tufello e respingere i molti attacchi dei creditori pregressi che reclamavano la corresponsione di quanto loro dovuto. Abile quant’altri mai nella vendita, esperto e tempestivo nel fiutare l’aria del mercato, inarrivabile nel rimandare al giorno dopo i pagamenti, avrebbe potuto costruire un impero economico, se la natura non lo avesse appesantito del fardello del Vizio. Giocava. Ai cavalli. Ai cani. A carte. A battimuro. Era industre quanto un’ape mellifera nel produrre reddito e coglione quanto un levriero da corsa nel gioco. E Darwin avrebbe affermato che le due qualità erano reciprocamente correlate: produceva ricchezza per sprecarla e la sprecava perché la produceva. E tra lo spreco e la produzione lasciava sempre quel margine che lo costringeva a tirare il collo allo spasimo, fino a che, ogni tanto, doveva mettere un punto e ricominciare tutto daccapo.

Come tutti gli uomini virtuosi, Pasquale Sorrento aveva una debolezza ridicola: a dispetto del nome e di un ambiente infestato da napoletani, pugliesi, siciliani e tunisini, di nascita o d’origine, ostentava con orgoglio la sua romanità. Nella parlata, innanzitutto, sforzandosi di dire “drento” per “dentro” o “annammio” per “andammo”, ma anche negli atteggiamenti, nella grevità delle espressioni e delle posture, nella ricercata indolenza, nelle occhiate sprezzanti di chi sa già tutto, e quando gli capitava di accettare una proposta altrui guardava come per dire “me faccio frega’ solo perché nun me va de sbuggiardatte”. Il suo modello era l’Aldo Fabrizi della televisione e faceva mostra d’essere così pigro che, diceva, non si sedeva per non far la fatica di rialzarsi. I bambini ben’educati per i loro coetanei più poveri e più monelli usavano un’espressione che Pasquale Sorrento avrebbe volentieri sottoscritto per sé: “romanaccio”, con quanto di volgare, ma anche di positivamente definito essa comporta. Un romanaccio dice le parolacce, fa il gradasso, strilla e ride sgangheratamente, ma proprio per questo non può essere un farabutto, un usuraio o un criminale. Mutate le coordinate geografiche, una quindicina d’anni dopo lo si sarebbe definito un leghista antelitteram. Condivideva della Lega la meschinità bottegaia e la lacrimuccia scintillante per i bei tempi passati, sotto le quali si nascondeva un fondo più melmoso e nero che tanti vorrebbero considerare inestirpabile: un mondo di padroni, sottopadroni, servi e sottoservi.

Anche a non voler tener conto degli oggettivi ostacoli ai rapporti franchi e cordiali, lavoro notturno, sotto luci abbaglianti che indolenzivano le palpebre e ricordavano continuamente che si doveva aver sonno, in mezzo ad una folla turbinosa di persone, cose e merci, tra le qualion mancavano i bari, gli assassini e i tipi strani, e nemmeno il pericolo di vedersi tranciata una gamba da un carrello impazzito, o, più pacificamente, di vedersi rifilare una fregatura, anche a non tener conto di tutto questo, Pasquale Sorrento e Pieretto non potevano essersi simpatici. Uno era consumato da un fuoco esterno: la considerazione e il rispetto che gli altri dovevano avere di lui; l’altro da una tara interna che lo rosicchiava fino al midollo, che lo rendeva agile e scattante, ma sempre sul punto di sentirsi mettere una mano sulla spalla “Prego, venga con noi, la commedia è finita”.

“Piere’, tu ‘o sai, i sordi nun so’ li mii, so’ de Barbablu”. Ciò dicendo Settimio intendeva evocare magicamente attorno a sé quattro facciacce da galera che addossassero a Barbablu il lubidrio dei tassi d’usura e delle conseguenze spiacevoli per gli eventuali mancati pagamenti delle rate. Per Pieretto, invece, al colmo della gioia per l’aiuto prestatogli da Settimio, quella frase era un apriti sesamo che lo introduceva al possesso dei quei soldi con cui avrebbe pagato i conti più urgenti e che gli avrebbero consentito di riprendere una vita di mercato, di lavoro e di gioco più tranquilla. Riceveva 16 milioni e rilasciava un assegno scritto a matita di 20, che gli sarebbe stato restituito dopo aver pagato tutti i sabato 20 rate da un milione. Dopo aver esaurito i “crediti affettivi”, sorella, madre, qualche amico, era la terza volta che Pieretto provava un sollievo del genere. Nel buco creato con la prima aveva buttato dentro i terreni agricoli che la moglie aveva ereditato dai genitori, la seconda volta l’aveva coperto con le frasche dell’ipoteca della casa, ora, consumati i “crediti legali”, aveva trovato in Settimio il suo salvatore. Naturalmente, tutti sapevano, e Pieretto per primo, che i soldi non erano di Barbablu e non si poteva essere nemmeno sicuri che Settimio fosse autorizzato a servirsi del terribile nome – se non fosse per un pranzo del quale si favoleggiava e per il quale Settimio aveva passato tutta la notte di mercato ad accaparrarsi la mercanzia migliore seguito da una facciaccia brutta che presentava fieramente come “’n’amico de Barbablu”. Stavolta Pieretto, grazie alle premure e all’amicizia di Settimio, aveva aperto un buco enorme che poteva essere colmato solo dalla promessa indefettibile di non giocare più e di usare i suoi buoni guadagni per coprirlo. Solo dopo aver escogitato la soluzione, Pieretto fu scosso da un breve fremito di inquietudine, come di scampato pericolo: non era necessario promettersi di non giocare più, bastava non perdere più, convincendosi fermamente che cambiando le modalità del gioco, facendosi più furbo, mettendo a frutto una ineguagliabile esperienza di perdente, avrebbe invertito il corso, fino ad allora funesto, della fortuna. Povero lui.

S’era quasi alla fine del mercato, tra poco sarebbe comparsa Nerina e si sarebbe iniziato il giro del ritiro e del pagamento della merce, Pasquale Sorrento chiacchierava svogliatamente con uno dei venditori, il figlio a pochi metri da lui lo guardava estasiato. Un infame, profittando del passaggio di un carrello stracarico, senza farsi riconoscere, sibila all’orecchio del figlio di Pasquale Sorrento “Chiama tu’ padre, dije che Nerina l’aspetta ar cacatore”. E quello prese a gridare “Papà, Mamma ar cacatore…” Pasquale Sorrento pensa subito ad un malore, accelera il passo remando con le braccia affianco all’addome gonfio, alzando a fatica la pesante tara degli scarponi slacciati, raggiunge il figlio, “aspettame qui”, e prosegue uscendo dalla navata e avviandosi verso i bagni, quasi correndo e attirando, così, l’attenzione di quelli che lo vedevano. Nel frattempo gli occhi dell’infame, acquattati da qualche parte, si godono lo spettacolo. Sulla soglia dei bagni, come sempre, Scascione, il mitico guardiano dei cessi, è seduto su uno sgabello dietro ad un tavolino con su la ciotola delle monetine e i rotoli di carta igienica, vedendo arrivare Pasquale Sorrento gli si fa incontro come a volerlo fermare, preoccupandolo ancora di più. Lo scansa con un gesto autoritario, “’ndo sta?”, apre la porta della toilette delle signore e non la trova, così spalanca quella dirimpetto riservata ai signori (le porte non erano mai chiuse a chiave perché Scascione ne regolava impeccabilmente il traffico). La trova con le mutande e la calzamaglia calate fino alle ginocchia e la sottana tirata su, seduta su Romeo, a sua volta seduto sul water, che la teneva per le anche. Nerina si alza di scatto e solo allora Romeo s’accorge della presenza inopportuna di Pasquale Sorrento. Approfittando dell’umano stupore del marito, Nerina in un tutt’uno si ricompone alla bell’e meglio e lo scavalca, avvicinandosi quasi correndo al parcheggio delle macchine, inseguita dal figlio rincuorato nel vedere la madre in buona salute e in grado quasi di correre. Dopo un attimo di sbalordimento, Romeo, mentre si riabbottonava i pantaloni, dovette quasi piegare la testa per non far vedere che gli scappava da ridere. In piedi superava di una buona testa il rivale in amore e sarebbe andato via senza ulteriori danni se Pasquale Sorrento non lo avesse preso a spintonate. “A pezzo de merda” gli diceva. Romeo era uscito dai bagni senza reagire, camminava lentamente e guardava oltre la piccola folla che s’era radunata, Pasquale Sorrento lo raggiunse e lo spintonò di nuovo, disperato e quasi piangente, “a stronzo, a pezzo de merda”. “Bono, Pascà, sta bbono. Finimola qui, che è meglio pe’ tutti”.

S’era radunata un po’ di folla e, in mezzo ad essa, Pieretto, che sapeva sempre, per istinto, qual era il posto del mercato dove si doveva trovare (e ancor meglio sapeva quello dove non si doveva trovare). S’era radunata un po’ di folla, “Ch’è successo?” “Chi, Romeo co’ Nerina!” “Ansenti, aho!”, perciò Pasquale Sorrento non poteva finirla lì: si avventò di nuovo. Ma prima di essere raggiunto, Romeo si voltò di scatto e gli assestò un ceffone a tutta forza che lo buttò a terra, supino. Pasquale Sorrento, alla sua età, non aveva ancora imparato che non basta avere ragione per essere forti.

Saranno stati gli scarponi troppo larghi e slacciati che non facevano presa sull’asfalto, o l’addome così imponente, o le spalle troppo strette, o l’agitazione, ma Pasquale non riusciva a rialzarsi. Agitava le braccia e la gambe, ma proprio non riusciva a tirarsi su. Nessuno tra i divertiti spettatori si decideva ad aiutarlo, solo Scascione, il mitico guardiano dei cessi, in un moto di pietà si chinò offrendogli un braccio come appiglio.

Per qualche settimana Pasquale non frequentò più il mercato e affidava i suoi acquisti ad una persona di fiducia (si fa per dire). Nello stesso periodo Pieretto si godeva gli ultimi barbagli d’un sole occiduo: i soldi ricevuti stavano per finire e la certezza di non perdere più era stata sostituita dalla fiduciosa attesa di una grossa vincita risolutiva; e si fermava spesso, nei giorni di minor affluenza, a chiacchierare appoggiato sulla stanga di un carrello, facendo ciondolare una gamba, “…pareva un bacarozzo rivortato, pareva” raccontava e, povero lui, si sbellicava dalle risate.

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Valentino Appoloni, "Ombre"

25 Gennaio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #valentino appoloni, #recensioni, #racconto

Valentino Appoloni, "Ombre"

Ombre

Valentino Appoloni

Ilmiolibro.it

pp 256

10,90

ebook 0,99 su La Feltrinelli e Amazon.

“Ombre”, ventisette racconti sorprendenti, non tanto per il contenuto, quanto per l’aura ottocentesca che li pervade. Sembrano scritti da Tolstoj, da Gogol e di certo Appoloni è debitore verso i maestri russi che così ben conosce e sa analizzare, ma anche verso il primo novecento, di Kafka prima e Calvino poi.

Seppure alcune novelle traggano ispirazione dalla storia (ad esempio la Rivoluzione francese) mantengono tutte un sapore fiabesco, ambientate in tempi e luoghi dove sogno e inconscio intrecciano trame fantastiche ma con una morale di fondo. Surrealismo, insomma, o meglio, realismo magico.

Allegorie con fine pedagogico, in un ambiente che, seppur rarefatto, non è solo simbolico. La bellezza delle storie non è nella trama e nemmeno nello stile, pur elegante e raffinato, quanto proprio nella vivezza fiabesca di certe ricostruzioni sceniche e nella maestria con cui sono descritte. Paesi, colline, boschi, regni, contee, chiese di campagna, castelli, vicoli, piazze e palazzi. Oggetti che hanno un’anima, libri, statue, ponti, una ghigliottina, buchi nel terreno, muri che acquistano una loro vita segreta per vendicarsi della malvagità, dell’incuria o dell’incredulità degli uomini. Spesso è il diavolo a metterci di nascosto lo zampino e a punire chi rifiuta la sua esistenza. Ogni storia mette in evidenza le storture dell’animo umano, l’ipocrisia, l’avidità, la cattiveria cieca della folla, degli uomini di potere e della politica, come “Il santo”, dove viene ucciso chi brama il potere ma anche chi se ne tiene lontano. “Le statue” ricorda il Marcovaldo di Calvino; qui non è la natura a sopravvivere alla cementificazione ma l’arte, i monumenti, le vestigia del passato violentate dalla modernità che si riappropriano del loro spazio. Le ombre del titolo ricorrono nel tema del doppio e del sosia. La parte oscura, il rimosso ma anche, forse, il moltiplicarsi del possibile, del reale, lo specchio, il labirinto.

Alcuni racconti hanno il passo lento e morale dei testi dei maestri russi o di Dickens, altri la lieve ironia, la satira dei difetti umani propria di una fiaba come “I vestiti nuovi dell’imperatore” di Andersen. La narrazione è supportata da uno stile di notevole respiro. Forse non è un caso se fra i personaggi minori sono citati proprio due fratelli che si chiamano Grimm.

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Pietas per i volatili che più non siamo

24 Gennaio 2015 , Scritto da Paolo Mantioni Con tag #paolo mantioni, #racconto

Pietas per i volatili che più non siamo

La finestra della mia camera affaccia sul marciapiede che conduce alla piccola stazione del treno metropolitano. Il treno degli studenti, degli impiegati, degli operai e degli immigrati pendolari. Osservo spesso e a lungo le persone che percorrono quel segmento di marciapiede offerto al mio sguardo. Tra questi passanti, visti e rivisti più volte, in diverse stagioni, in condizioni meteorologiche diverse, ad orari diversi, due mi colpiscono in modo particolare. La prima è una donna, sui trentacinque, quarant’anni, non bella, con gli occhiali spessi, i capelli castani lisci e fini, stretti in trecce o crocchie che lasciano fluttuare ciocche ribelli o troppi esili per essere raccolte, camicetta leggera, gonna aderente, a tubino, che le imprigiona le cosce fino allo spacco all’altezza delle ginocchia, scarpe lucide, a punta, tacco alto. Forse perché incapace di indossare questi abiti con il sussiego richiesto o perché istintivamente refrattaria ad attirare lo sguardo del maschio o per il viso anonimo e gli occhi spenti, nulla in lei suscita sensualità, così gli abiti che dovrebbero esserne il viatico sono come stilemi raffinati di una lingua che non sa parlare, o non vuole.

L’altro è un uomo anziano, sulla sessantina, addosso al quale la giacca, la camicia, la cravatta, i pantaloni sembrano calati quasi alla rinfusa e solo per caso al posto giusto. Nel modo di camminare svagato, nella figura bislacca, nella rotondità del cranio e dell’addome ricorda Poldo, il mangia-panini del fumetto di Braccio di Ferro (il galeotto domesticato a mo’ di tenerone instupidito che del perturbante vitalismo cieco e violento delle sue origini mantiene solo i segni esteriori: la testa rasata e il tatuaggio. Segni oggi adibiti ad altre domesticazioni). Da lontano, non posso esserne sicuro, ma non mi stupirebbe vedergli la giacca calata da un lato, il lembo della camicia che fuoriesce dalla cintola dei pantaloni, una stringa slacciata.

Sono figure innocue, quasi tenere, se non provocassero una profonda compassione quando, sentendosi in ritardo, corrono trafelati per non perdere il treno. Nella donna, la gonna troppo stretta accentua la protuberanza dei glutei, rendendola sproporzionata, e le cosce, imprigionate dal tessuto, non possono allargare il raggio d’azione, sicché deve alzare le ginocchia, slanciare in avanti i piedi, rendendo ogni passo insidioso per via delle scarpe scomode. Solo il martellamento dei tacchi sull’asfalto indurrebbe chiunque a rallentare il passo, non lei, di certo incalzata da una forza superiore. L’uomo, fors’anche per l’età, è ancora più compassionevole: le braccia semiprotese all’altezza del petto (immagine stilizzata di un vero corridore) dalle quali pendono, a destra, la ventiquattrore, e, a sinistra, l’ombrello, che, oscillando, lo intralcia e lo tortura proprio là dove nessuna donna lo accarezzerà più per amore. Vista la quasi impercettibile differenza di velocità tra il suo camminare e il suo correre, questa postura faticosa sembra quasi un’espiazione. E le facce contratte nella deformazione, disperate, nell’apnea del pensiero e del fiato, ricordano quelle di una gallina scacciata da un invisibile gallo e di un pinguino minacciato dallo scioglimento dei ghiacci. Perché, dopo aver rinunciato alla bellezza, grattano via in questo modo anche quel po’ di serenità che ogni rinuncia reca in dono? Se potessero vedermi, distoglierei lo sguardo.

Mi sono informato: lei è intermediatrice finanziaria, lavora per un’agenzia immobiliare, vende appartamenti, in tutt’altro modo, evidentemente, degli ambigui e infidi sensali d’un tempo; lui è un impiegato del catasto vicino alla pensione. Perché non possono tardare? Quale giovane concorrente o quale potente capufficio potrebbero cancellare il solco del loro passaggio sul pianeta? Riesco a sentirne finanche il dolore fisico del dopo-corsa, i conati di vomito, la ribellione del braccio atrofizzato che si rifiuta di riprendere la posizione naturale. Quale treno in anticipo rincorro o ho rincorso anch’io? E questa sedia? E queste ruote? Cosa sono? Una grazia, una disgrazia?

La donna l’ho rivista, una volta, alle otto di sera, agganciata al guinzaglio di un cagnetto, prima della cena, sui bordi asfaltati ai confini delle pinetina, per i bisogni fisiologici del tirannico animaletto, non proprio in vestaglia e ciabatte, concedendo quel tanto di corda che non la facesse entrare troppo all’interno, in blusa e sandaletti, più distesa, sempre un po’ in ansia, però. Il cagnolino bizzoso la strattona, le fa sfuggire di mano il manico del guinzaglio, fallisce il tentativo di bloccarlo con il piede, il cagnetto scaracolla tra gli alberi all’imbrunire, trascinandosi dietro la corda e il manico a ricordo di un’antica schiavitù. Il mio angusto punto di osservazione, lo sguardo fisico ed empirico, non m’ha concesso di saperlo: gli sarà corsa dietro, in una comica finale?

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Reportage: Londra, una città che vale la pena visitare più volte

23 Gennaio 2015 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

Reportage: Londra, una città che vale la pena visitare più volte

Londra, la città dei Windsor, è il centro della moda che fa tendenza, delle ultime novità della musica d’avanguardia, è un crogiolo di culture diverse, un melting-pot che trasforma il soggiorno nella città in un viaggio nel mondo.

Il fascino dei suoi contrasti la rende una città cosmopolita. Infatti, alle singolari tradizioni monarchiche, alle sfarzose cerimonie regali, agli innumerevoli edifici storici, si affiancano i numerosi grattaceli, i centri commerciali, le grandi multisala e tutte le altre attrattive del “mondo moderno”.
Chi la visita per la prima volta lo può fare prendendo l’autobus che attraversa la città, giusto per avere una prima impressione e farsi un’idea della sua grandezza, oppure facendo una gita in battello. Ma la scelta è più ampia, perché si può attraversare la città anche in metropolitana, arrivando più velocemente nei luoghi scelti evitando il traffico o con i taxi londinesi, famosi in tutto il mondo, che risultano convenienti se si è in quattro persone a dividere i posti e la spesa.

Londra è una città verde e nel cuore della città si trovano enormi parchi, luoghi di evasione dalla frenesia quotidiana dove gli inglesi abitualmente consumano il loro lunch e riposano per qualche minuto, prima di tornare a lavoro. Il più grande parco al centro di Londra è il noto Hyde Park, lungo circa due chilometri, dotato di una grande varietà di piante ed uno stagno artificiale dove sostano cigni e anatre.

Attraversando un ponte si passa direttamente da Hyde Park a Kensington Gardens, giardino boscoso, dove si possono fare lunghe passeggiate e, se si osserva verso la parte occidentale, si può notare la residenza reale del Principe Carlo.

Anche culturalmente la capitale inglese è molto ricca perché presenta molti luoghi di interesse tra monumenti, strade, ponti e quartieri. Simbolo della città è il Big Ben, la famosissima campana che si trova in una torre e con i suoi rintocchi scandisce le ore.

A Londra non si può fare a meno di visitare il Buckingam Palace, la residenza reale, dove si può assistere al cambio della guardia. L’elenco dei luoghi storici inglesi da visitare continua con l’House of Parlament, palazzo che ospita il Parlamento inglese e “culla della democrazia politica”. Un edificio molto caratteristico è la Torre, che ancora oggi incute soggezione, ed è un’enorme fortezza grigia che deve la sua fama ai numerosi illustri prigionieri che vi furono rinchiusi, come Anna Bolena, moglie di Enrico VIII.
Londra è anche “la città dei ponti”, infatti ne vanta circa 17 e tra i principali da visitare c’è il London Bridge – che è il più antico – e il Tower Bridge, uno dei più famosi ponti d’Europa in stile gotico.
Nessun turista però lascia Londra senza aver visto una delle piazze più conosciute nel mondo, quella di Piccadilly Circus, dove si trova la statua di Eros. Molti la preferiscono di sera quando lampeggiano le insegne luminose ed è tutta un luccichio.

Di fronte ad essa si trova il Trocadero, centro dei divertimenti di Londra, con spettacoli di realtà virtuale, show con proiezioni al laser, tutto avvolto in un’atmosfera di fantascienza. E’ qui che i giovani amano incontrarsi. Trafalgar Square, invece, è sicuramente un’altra piazza amata dai turisti e anche questo ritrovo per la gioventù londinese.

Percorrendo le strade della capitale come Oxford Street e Regent Street si incontrano negozi alla moda, magazzini di buon livello dove fare shopping. Il “tempio” del design è King’s Road, la via in frequentata da attori e artisti non solo per le sue boutique ma per i suoi ristoranti di alto gusto.

Inoltre, non si può non visitare il grande centro commerciale di Harrod’s. I prezzi sono piuttosto elevati per noi italiani, ma vale la pena di andarci solo per vedere la quantità e la qualità dei prodotti che vengono venduti. Una passeggiata per il quartiere di Brixton può essere invece istruttiva ma anche un po’ pericoloso perché è noto come il centro degli immigrati neri e il suo nome è legato alle risse dei giovani di colore. Negli ultimi anni ha cercato di cancellare la sua immagine negativa diventando un importante punto di ritrovo per i giovani che amano il reggae e il rap.

Altro quartiere vivace, che desta curiosità, è Coven Garden nel quale si sono affermati i primi negozi alternativi. E’ il luogo dove tutti i giorni c’è il mercatino che propone oggetti di artigianato, cianfrusaglie varie, stoffe, mentre nei negozi si può trovare quello che vende aquiloni di tutti i tipi.
Proseguendo nel nostro tour è sicuramente da visitare la Tea House, che ha una vastissima scelta di teiere tipiche inglesi e poi, partendo da Piccadilly Street, risalendo verso Great Widmill Street, si arriva al quartiere Soho, una specie di Chinatown dalle forti sfaccettature, patria della popolazione cinese.
Chi viene a Londra e non visita almeno un paio di musei commette un grave errore, primo perché la maggior parte di essi sono gratuiti poi anche perché nei musei londinesi si trovano tesori di tutti i paesi del mondo. Alcuni dei pezzi forti sono i marmi, le sculture e i fregi del Partenone presenti nelle sale del British Museum, uno dei più importanti musei del mondo, che raccoglie anche preziose testimonianze dell’antichità greca, egizia e romana. Un altro museo da vedere è anche lo Science Museum, articolato su cinque piani, dove sono esposte in modo comprensibile le meravigliose scoperte della scienza e della tecnica.
Nella città si può trascorrere qualche ora divertente nella famosa galleria delle cere, “Madame Tussaud’s” dove è possibile fare un viaggio con “il taxi del tempo”, ripercorrendo tanti anni di storia e passando davanti a figure animate, rivestite in cera e a statue dei personaggi famosi anche contemporanei.

Una delle sorprese più piacevoli è la scoperta della nuova cucina britannica. Una volta si pensava ad una cucina scialba e poco varia (cosa vera) o al famoso Fish and Chips, invece Londra è una delle città culinarie più invitanti d’Europa, soprattutto per le tantissime specialità di più di 100 paesi.
La ragione? E’ presto detto. Grazie agli influssi di coloro che si sono trasferiti a Londra negli ultimi cinquant’anni è possibile mangiare di tutto: dai piatti italiani alla cucina etnica, da quella messicana a quella indiana fino a quella giapponese, etc.
Per tutti gli amanti del tè, come da tradizione, alle cinque del pomeriggio scatta “l’afternoon tea” e allora si può gustare in un locale vicino Green Park, che si chiama “Thomas”, e dove si può bere il tè nelle tipiche tazze di porcellana inglesi, accompagnandolo con sandwich e deliziosi pasticcini alla panna, alla crema di fragole o biscotti alla marmellata.
Londra ha tantissimi alberghi di ogni categoria e dai prezzi che possono accontentare ogni esigenza economica. I più giovani possono utilizzare i Bed&Breakfast mentre per gli studenti ci sono molti ostelli della gioventù.
Anche per i visitatori più intraprendenti sarà impossibile riuscire a sperimentare tutte le possibilità di divertimento offerte da Londra. Ogni sera ci sono innumerevoli manifestazioni teatrali, sportive e concerti per tutti i gusti musicali, in quasi ogni angolo della città.
I più mondani possono andare negli accoglienti pub londinesi dove la birra scorre fino alle 23, e per i nottambuli che vogliono scatenarsi nel ballo fino a notte fonda ci sono club e discoteche.
Londra è senza dubbio una città vivace e dalle mille sfaccettature e dove c’è sempre qualcosa da ammirare. E’ una città che non si visita solo una volta perché ha sempre qualcosa di nuovo da offrire ai turisti.

Reportage: Londra, una città che vale la pena visitare più volte
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Marco Melani

22 Gennaio 2015 , Scritto da Paolo Mantioni Con tag #paolo mantioni, #racconto

Marco Melani

D’improvviso, nel pieno di un sonno che avrebbe ritenuto profondo, Marco Melani fu risvegliato dal suo stesso russare. Un rumore sgradevole, volgare e insistito, che lasciava in bocca un sapore acre, secco e caccoloso.

La stanza era avvolta nel buio, lo schermo convesso del televisore rifletteva, distorcendola, la luce rossa della radiosveglia: 3:45. La finestra era chiusa. Tastò di lato: il corpo silenzioso di Milena giaceva addormentato accanto a sé. Pensò di aver sognato.

Si riaddormentò quasi subito. E quasi subito si risvegliò per lo stesso motivo. Stavolta non poteva aver sognato, il rumore doveva averlo sentito veramente, si sollevò torcendo il collo per guardare la radiosveglia: 3:50. Milena continuava a dormire e non sembrava disturbata dai rumori e dai movimenti di Marco. Cercò di riagganciare il rumore alle ultime immagini oniriche: nulla, non ne aveva conservata nessuna. Sorrise pensando a quando lo avrebbe raccontato alla moglie: “Mi sono svegliato per quanto russavo, ma tu non ti sei accorta di niente? Poi dici che c’hai il sonno leggero.” Da supino passò sul fianco, chiuse gli occhi. Di nuovo il rumore e di nuovo gli occhi aperti. Scattò seduto sul letto “Cazzo, ma che c’ho?” Infilò i sandali, andò in bagno, nettò con cura il naso, tornò a letto irritato per la perdita di sonno e perché l’irritazione gli faceva perdere il sonno. Si riaddormentò ancora altre due o tre volte e sempre fu immediatamente risvegliato.

Alle 7:15 Milena lo trovò lavato, sbarbato, vestito. “Già sei pronto?” constatò sonnacchiosa aprendo il frigorifero. “Mi sono svegliato alle tre e mezza e non mi sono più riaddormentato” “Si vede, c’hai na faccia…Com’è?” “Non lo so, mi sembrava di russare…” Come aveva immaginato, Milena rise di gusto.

Allo sportello dell’ufficio comunale dove fungeva da impiegato, tutto si svolse pressoché regolarmente. Solo fu un po’ più sensibile agli squilli improvvisi del telefono, rispose un po’ più seccamente alle domande stupide degli utenti e chiese gentilmente alla collega della postazione affianco di spegnere la radio “Ho un po’ di mal di testa, ti dispiace…”.

Per tutta la notte successiva si addormentò e si risvegliò di continuo sotto lo sguardo allarmato di Milena. “Ma possibile che tu non lo senti. Non senti che russo?” “Sì, ma è proprio un attimo, ti risvegli subito”. Lei provò tutto quello che era in suo potere: camomilla, carezze, massaggi, cantilene, canzonature, profferte sessuali. Marco camminava avanti e indietro lungo la stanza, andava in bagno, accendeva la televisione in soggiorno, apriva la finestra e respirava l’aria gelida della notte, bestemmiava. Poi guardò Milena che si stava addormentando e ne fu sollevato, non fece rumore e aspettò il mattino.

“Allora?” domandò lei appena sveglia. “Niente, t’ho guardata dormire” “Oggi vai dal medico, però”.

Né il farmacista né il medico riuscirono a trovare rimedi efficaci. Marco non provava nemmeno più ad addormentarsi sperando di crollare da un momento all’altro, perciò aveva smesso di uscire di casa. Tisane, calmanti, sonniferi sempre più forti e pericolosi lo avevano soltanto rincoglionito.

Durante la terza notte, Milena l’aveva convinto a turarsi le orecchie, lei lo avrebbe vegliato, accarezzato, coccolato. Appena addormentato, la moglie si chinò su di lui, accostando l’orecchio alla sua bocca. Marco si svegliò di colpo e, come per liberarsi da un incubo, si tirò su colpendo violentemente con la fronte il viso di Milena che prese subito a sanguinare. Lei corse in bagno, metà ridendo e metà piangendo, lui si alzò e rimase ad osservare, senza pensieri, la macchia di sangue sul lenzuolo bianco che prima si era allargata rapidamente e ora, conquistato il terreno, si consolidava e si espandeva lentamente.

Dopo dieci giorni d’inferno, il neurologo propose il ricovero in una clinica specializzata nel trattamento dei disturbi del sonno. Ma Marco e Milena erano sempre stati in buona e giovanile salute, non avevano l’assicurazione necessaria e coprire i costi del ricovero superava ogni loro più generosa possibilità. Sempre più intontonito, vacillante, consunto, non sapeva che fare: l’assicurazione… dormire… no, la corda!... offrirsi come cavia… lo sgabello, aiuto… Milena, aiutami… sì, confesso… dormire… sono stato io.

Cadde in uno stato di prostrazione catatonica: il cervello non coordinava più le funzioni vitali al pensiero, continuava a mantenere in vita il corpo per inerzia e sfruttando quel po’ di cibo che Marco controvoglia e solo per la tenacia di Milena continuava ad ingurgitare. Ma le funzioni psichiche erano disarticolate, i centri nervosi inviavano impulsi discontinui, scentrati, fuoriluogo. Non era più in grado di produrre volontà e comportamenti conseguenti.

Si allettò, senza mai più riaddormentarsi, dapprima a casa, poi in una stanza d’ospedale alimentato artificialmente, sotto lo sguardo implorante di Milena.

Morì un mese più tardi e nell’ultimo lampo di lucidità, quello dell’agonia, si ritrovò fratello di Pio Angelucci seviziato in nome del Papa-Re nel 1754 con la tortura del sonno e morto per il terrore di addormentarsi.

“L’imputato veniva fatto sedere su uno sgabello appuntito, tenuto in precario equilibrio da una cinghia di cuoio che gli passava intorno al petto alla quale erano attaccate delle corde fissate alla parete; i piedi erano legati ad un bastone in maniera che le gambe fossero divaricate al massimo, e il bastone era fissato con una corda alla parete di fronte; le braccia infine erano tirate dietro la schiena, legate per i polsi e tese da una corda fissata alla parete dietro l’imputato. Talora per l’enorme sforzo fisico provocato da questa posizione, l’imputato aveva un collasso e moriva, e spesso lo sgabello provocava gravi ferite ai glutei” (Luigi Cajani, Giustizia e criminalità nella Roma del Settecento, in Ricerche sulla città del Settecento, a cura di Vittorio Emanuele Giuntella, Edizioni Ricerche, Roma 1979, pag. 275).

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Salonicco

21 Gennaio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia

Salonicco

All’inizio della grande guerra, quando l’Italia non era ancora scesa in campo, la strategia dell’impero britannico mirava al controllo, oltre che del canale di Suez, anche dei pozzi petroliferi dell’Arabia, dell’Iraq e della Persia, quindi ritenne utile che lo stretto dei Dardanelli, quale accesso al Mar Nero, dovesse essere conquistato. Sottraendo i Dardanelli al dominio turco, le forze dell’Intesa avrebbero avuto passaggio libero per i rifornimenti alla Russia che, conseguentemente, avrebbe potuto incrementare la pressione sul fronte orientale ai danni di Austria e Germania.

Lo stretto dei Dardanelli era una roccaforte delle difese turche e Churchill, allora in carica come primo Lord dell’ammiragliato inglese, inviò per la battaglia un corpo di spedizione della Royal Navy denominato ANZAC, dalla nazionalità dei componenti tutti soldati australiani e neozelandesi. Il contingente sbarcò nei Dardanelli per quella che fu una delle più sanguinose pagine della guerra: la campagna di Gallipoli.

I soldati ricevettero una pessima accoglienza dalle mitragliatrici e dalle mine turche e caddero a migliaia sulla spiaggia nel tentativo di prendere terra, il resto lo fecero le condizioni ambientali e climatiche; il caldo e la scarsità d’acqua causarono disidratazione, dissenteria e un’epidemia di colera. La battaglia si concluse dopo 259 giorni col reimbarco delle truppe inglesi e dopo aver lasciato sul campo 205.000 caduti.

Resosi impossibile conquistare i Dardanelli e venuti a mancare i rinforzi provenienti dalla Russia, le truppe dell’Intesa si concentrarono in uno sforzo unanime nei territori dell’Epiro greco a sostegno degli alleati ivi impegnati. Si rese necessario dunque sollecitare l’Italia, appena scesa in guerra, all’invio di aiuti e il nostro esercito approntò un corpo di spedizione di 44.000 uomini che sbarcò a Salonicco ai primi di agosto del 1915.

Negli anni successivi molti furono i bersaglieri che si fecero onore in terra di Macedonia. Desidero ricordare, uno su tutti, il Maggiore Tonti Ulrico, di Forlì del Sannio (IS), un molisano che venne insignito di Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione: «In aspro combattimento preparava una colonna d’assalto di forza superiore alle competenze del suo grado con ammirevole calma e grande riflessività, infondendo fiducia in tutti, e, alla testa di essa, percorrendo terreno scoperto e sconvolto dal violento tiro nemico, con meraviglioso slancio e magnifica opera personale, brillantemente occupava gli obiettivi assegnatigli. Si poneva poi, di sua iniziativa, alla testa di un’ulteriore ondata d’assalto formata di due sole compagnie, per la conquista delle seconde linee e delle artiglierie nemiche, dando fulgida prova di coraggio, e, nel momento in cui raggiungeva lo scopo, rimasto colpito a morte, noncurante di sé, continuava ancora ad eccitare i suoi uomini, fin quando cadde esanime. Eroico esempio di suprema virtù militare ». — Nord Meglenci (Macedonia), 9 maggio 1917

La nostra discesa in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa, col Trattato di Londra, prevedeva come condizione finale il ritorno di parte della Dalmazia all’Italia, l’occupazione di zone minerarie in Anatolia (Smirne),oltre ai possedimenti delle isole del Dodecanneso e della Libia. Con l’entrata in guerra della Grecia, a metà 1917, e degli Stai Uniti, che non ci riconobbero la validità di quanto firmato, tutti gli “accordi preliminari” saltarono e finì come sappiamo…

Salonicco
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Giovanni Buffoni

20 Gennaio 2015 , Scritto da Paolo Mantioni Con tag #paolo mantioni, #racconto

Giovanni Buffoni

Giovanni Buffoni pregustava già il piacere che avrebbe avuto dicendolo a Marlene. Finalmente dopo un anno e mezzo di bella vita, le avrebbe potuto offrire qualche settimana di vita bellissima. Finora la bella vita era stata inframmezzata da qualche noia: gli impegni di lavoro, gli incontri con il figlio, gli appuntamenti con l’avvocato, le udienze davanti al giudice affianco a quella strega della ormai (Dio mio, che liberazione) ex-moglie. Ora che tutte le villette del comprensorio Poggio Ameno erano state vendute e che le banche erano state pienamente soddisfatte e che le minacce s’erano trasformate in invito a intraprendere nuove avventure, che il figlio aveva programmato un soggiorno di due mesi negli Stati Uniti, ora sì, aveva potuto prenotare quella crociera sul Mediterraneo che avrebbe lasciato Marlene a bocca aperta. A sessant’anni in giro sul mare azzurro assieme a una bella ragazza di venticinque, bionda, formosa, gentile, sì, forse un po’ imbronciata qualche volta, ma comunque sempre disponibile alle carezze o al sesso, beh, cosa poteva chiedersi di più! L’entusiasmo gli aveva fatto prendere sottogamba che di venerdì pomeriggio 24 giugno volersi spostare da Viale Marconi verso Torvajanica percorrendo la Pontina è cosa da sfidare il più placido degli uomini, figurarsi lui che bolliva dal desiderio di far saltare di gioia la sua Marlene e non voleva certo dirglielo per telefono, voleva averla davanti a sé, farsi inondare dal suo (presunto) stupore estatico. Giovanni Buffoni non aveva né l’attitudine né la pazienza per chiedersi se veramente per Marlene quella notizia sarebbe stata poi così eccitante, fatto sta che il più delle volte, quando ritardiamo la comunicazione di una notizia che riteniamo entusiasmante ubbidiamo a un impulso egoistico (non molto diverso dall’impulso che guida la beneficienza pubblica): la persona attinta da tanta benevolenza ne deve godere non per sé e in sé, bensì per nostro tramite e dev’essere un mezzo per aumentare la considerazione che desideriamo che quella persona abbia di noi.

Già all’altezza del Raccordo, prima e seconda, prima e seconda, freno, frizione e acceleratore, quest’ultimo appena sfiorato, il muscolo della coscia e il tendine della caviglia già cominciavano a dolere. In più la suoneria del telefonino, con il display che annuncia, non Marlene, come aveva sperato, no, non Marlene, il display annuncia, e proprio non se l’aspettava e proprio non voleva crederci, Adele. Non rispondere sarebbe stato inutile, perché la sua ex-moglie avrebbe continuato a farlo squillare fino a notte inoltrata e gli avrebbe rimproverato che neanche per un grave incidente del figlio sarebbe stato rintracciabile.

  • Sì, pronto.
  • Ah, buongiorno. Dove sei?
  • Cosa importa a te dove sono io.
  • Giusto. Stai venendo a prendere Gianluca? O te ne sei dimenticato?

Se n’era proprio dimenticato. Prima che Gianluca partisse per gli Stati Uniti, spettava loro o dovevano sopportare un altro fine settimana insieme.

  • Non me ne sono dimenticato. Ci ho parlato e gli ho spiegato che ci vediamo domenica pomeriggio. Lui sa perché. Ciao e buon fine settimana

Contava di poterlo avvertire subito dopo essersi liberato dal morso canino di Adele, ma non fece in tempo a premere il tastino rosso e del resto sarebbe servito a poco conoscendo l’ostinazione della ex-moglie.

  • Ah, e quando glielo avresti detto, visto che Gianluca è qui affianco a me e non ne sa niente ed è così scrupoloso che prima di uscire per fatti suoi ha voluto che ti avvertissi…
  • E tu giustamente non ti sei fatta pregare. Da madre premurosa e tutta votata al benessere del figlio, soprattutto dopo che il bel Maurizio…
  • Sei proprio egoista e meschino.
  • Tu invece sei una rompipalle frustrata. E ti ricordo che hai cominciato tu con il bel Maurizio, il quarantenne palestrato che si è tolta la curiosità per la babbiona in calore e poi…
  • Io invece ho qualche comunicazione da darti. Lo sapevi che la dolce Marlene prima di trovare il grande amore, il padre putativo, o il nonno, il vecchio porco, tanto per dire, divideva una monocamera con tre marocchini…
  • Non me ne frega nien…
  • Ma ancora non sono riuscita a sapere se l’affitto lo pagava in natura o coi quattro soldi guadagnati pulendo i cessi!
  • E tutte queste belle cose tu come le sai?
  • Le so, le so mi sono inform…
  • Un investigatore privato! Hai preso un investigatore privato! Ma è fenomenale! Sei molto peggio di quanto si poteva mai immaginare! Oppure mi ami talmente tanto da interessarti ancora dei cazzi miei.
  • Per carità, bello mio! Voglio solo impedire che il culo e le tette di un’immigrata si mangino il patrimonio di mio figlio…
  • Che madre deliziosa…Sappi comunque che Marlene diventerà mia moglie e che tra pochi giorni andremo in crociera. Sì, proprio quella crociera che non abbiamo fatto per colpa tua e del bel Maurizio. Te lo ricordi? Il medico me l’ha sconsigliata, potrei soffrire il mal di mare, non me la sento di lasciare Gianluca da solo…Quante cazzate: erano i pettorali di quel cretino che non volevi lasciare. Povera imbecille!
  • Ah, un’altra cosa ho saputo. La dolce Marlene faceva i bocchini al tuo avvocato prima di trovare il grande amore: gli faceva le pulizie a studio e gli faceva i bocchini. Com’è non te l’ha detto il tuo grande amico, il grande avvocato De Santis?
  • Tu vedi troppo televisione, Mora, Fede e la Minetti ti hanno fatto dare di volta al cervello. E almeno in televisione ci mettono il bip, visto che Gianluca è lì vicino a te…
  • Vuoi fare l’innamorato e invece sei solo un vecchio porco!
  • Sì, ma c’è solo una cosa peggiore di un vecchio porco, una vecchia porca!!

Stavolta il tastino rosso l’aveva premuto e non avrebbe saputo dire se “stronzo” l’aveva sentito o solo immaginato. E non fece nemmeno in tempo a domandarselo perché aveva dovuto frenare a secco per non tamponare la macchina che lo precedeva, per altro con la paura di farsi beccare dalla macchina dietro: aveva preso un po’ di velocità prima della curva, prima, seconda, terza, 40, 60, 80 all’ora e subito dopo di nuovo come prima, tutti fermi, a smadonnare per telefono, de visu o nel pensiero.

“Se morirò in un incidente stradale, morirò a questa maledetta curva della Pontina!”

Avevano gridato tutto il tempo, fino a farsi dolere la gola e le vene del collo. Aveva bisogno di rifarsi un po’ la bocca, e giacché aveva ancora il telefonino in mano, decise che non avrebbe aspettato di essere chiamato.

  • Ciao, dolcezza mia, che fai?
  • Sono in spiaggia e mi rompo.
  • Sto arrivando. Sono sulla Pontina, una mezz'ora e sono lì.

Press’a poco le stesse parole che migliaia di mariti, fidanzati, amanti stavano dicendo a quell’ora, su quella strada e con quel tono alle migliaia di mogli, fidanzate e amanti da sole sulla spiaggia. Per fortuna le cose si stanno un po’ mescolando e cominciano a esserci centinaia di mogli, fidanzate e amanti che possono dire la stessa cosa.

  • Mi avevi detto che stavi qui ieri sera.
  • Dolcezza mia, sono rimasto a Roma a prepararti una sorpresa…Ma ti dico dopo, sennò va a finire che vado addosso a qualcuno.

Ritardare, invece, una brutta notizia è spesso un atto d’amore: prolungare l’inconsapevolezza dell’altra persona di una morte o di una malattia grave o di un licenziamento o di una bocciatura, significa tenerla più lontano possibile da una sofferenza. Ma anche quest’atto d’amore ha una coda controversa: la persona salvaguardata potrebbe rimproverarci di aver nascosto una verità. Se invece la brutta notizia è contenuta in una domanda che a sua volta contiene un sospetto, e la brutta notizia sarebbe “ho motivo di dubitare di te”, allora il ritardo o la cautela tornano ad avere un’origine egoistica: se il sospetto è fondato non avremmo più la possibilità di credere che la cosa non sia avvenuta e dovremmo sobbarcarci il faticoso compito di ricostruire una nuova architettura d’illusioni per continuare a vivere e considerarci come prima.

Glielo avrebbe chiesto? Avrebbe avuto il coraggio di domandarle “Prima di conoscermi, andavi a letto con Vito, l’avvocato De Santis?”

Se lo avesse fatto, la cosa sarebbe andata press’a poco così. Immerso nell’acqua della piscina, avrebbe goduto dei movimenti rallentati, grazie al liquido che l’avvolgeva, alla frescura, alla quiete che gli offriva, avrebbe sentito che le cose più spigolose, gli aculei più fastidiosi possono ammorbidirsi, possono sciogliersi in modo quasi naturale o magico, si farebbe fatto l’idea che in fondo era una domanda come un’altra. Poi seduto sul lettino, continuando a frizionarsi la testa con l’asciugamano, sfruttando la scia di benevolenza che la notizia della crociera avrebbe dovuto assicurargli, “Senti, Marlene, ho bisogno di sapere una cosa. Prima di conoscermi o quando ci conoscevamo appena, andavi a letto con Vito?” Marlene, immobile, sdraiata sul lettino, senza togliersi gli occhiali da sole, senza dare a vedere un minimo di turbamento, come se le avesse chiesto se non volesse un gelato, avrebbe risposto “ma che dici, che ti viene in mente?” “Davvero, solo per curiosità.” Marlene si sarebbe alzata di scatto, avrebbe gettato sdegnata gli occhiali sul lettino, “no, non ci sono stata a letto, va bene adesso?” avrebbe detto. E se ne sarebbe andata verso la piscina a passo rapido, portandosi via quel bel corpo bianco nonostante i tentativi di rovinarlo con l’abbronzatura e sodo.

Sì, ma in realtà Adele aveva parlato di altro, si sarebbe detto Giovanni. Ma al ritorno dalla piscina non avrebbe avuto modo di precisare la domanda.

Il disgusto e il disprezzo che Marlene provava per quest’uomo che sembrava spiarla quando si vestiva, che era tutto contento quando, durante le compere – lo shopping, diceva lui -, tra le due paia di occhiali firmati lei sceglieva non quello che le piaceva di più, ma quello che costava il doppio dell’altro, e che prima di metterle le mani addosso le chiedeva ogni volta “ti va, amore mio. Sei sicura che ti va?”. Ora a quel disgusto e a quel disprezzo dissimulati e tradotti in sorrisini timidi e imbarazzati, ora poteva aggiungere il corpo flaccido, abbandonato, soddisfatto di sé e della grandiosa notizia che le aveva portato, mezzo o tutto addormentato su questo lettino da spiaggia sotto il sole e, soprattutto, poteva aggiungere questo filo di bava che colava da un lato della bocca e che Giovanni, mezzo o tutto addormentato, non sembrava sentir colare e non asciugava. Quel disgusto e quel disprezzo erano stati sovrastati, dopo che gli aveva gettato sul viso un piccolo asciugamano, “pulisciti, non vedi che sei sporco?”, dopo che l’aveva scosso sempre più violentemente, dopo che aveva gridato, dopo che aveva tentato di svegliarlo a voce sempre più alta, dopo aver chiamato aiuto, dopo essere inorridita, quel disgusto e quel disprezzo erano stati inghiottiti dal ribrezzo retrospettivo per aver toccato un morto.

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DIALOGO DI CRISTOFORO COLOMBO E DI PIETRO GUTIERREZ

19 Gennaio 2015 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #saggi

DIALOGO DI CRISTOFORO COLOMBO E DI PIETRO GUTIERREZ

Il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez è stato composto nel 1824 e fa parte delle Operette Morali, il grande affresco filosofico in cui Giacomo Leopardi espresse il suo pensiero in forma discorsiva o dialogica.

Gutierrez accompagna il celebre navigatore nel viaggio alla ricerca delle Indie; una notte, la stanchezza per la finora frustrata attesa di arrivare alla terraferma fa sorgere questo dialogo. L’uomo chiede a Colombo se crede che lo scopo verrà raggiunto: “... se ancora hai così per sicuro come a principio di trovar paese in questa parte del mondo; o se dopo tanto tempo e tanta esperienza in contrario, cominci niente a dubitarne”.

La risposta accoglie alcuni dubbi: “... confesso che sono entrato un poco in forse”. Perciò, di primo acchito, sembra di leggere un testo dedicato alla vanità dell’agire umano; tanti calcoli, studi, progetti destinati ad approdi incerti, insicuri, contradditori o diversi da quanto ci si era prefissato. Il genovese passa in rassegna i segni che nel viaggio lo avevano fatto inutilmente sperare. Ora è giunto a pensare perfino che sia “ … vana la congettura principale, cioè dell’avere a trovare terra di là dall’oceano”. La pratica, nota ancora, spesso discorda dalla speculazione e quindi ogni ipotesi potrebbe rivelarsi fondata o infondata. Si potrebbe trovare solo un immenso mare, oppure effettivamente la terra, o un elemento diverso da acqua e terra. Magari sarà un posto disabitato e inabitabile. Nonostante tanto sferragliare di cervelli, nulla si sa con certezza. Il sapere deve attendere il vaglio della realtà: “… veggiamo che molte conclusioni cavate con ottimi discorsi, non reggono all’esperienza”. A questo punto Gutierrez, in modo misurato ma esplicito assesta una dura domanda diretta. Il navigatore sulla base di una semplice opinione speculativa, ha esposto la vita sua e degli altri? Una mera ipotesi, una labile congettura giustifica un viaggio così pericoloso? È la fase più drammatica del dialogo, quella in cui la debolezza della ragione umana viene smascherata pienamente e con essa una certa consapevole spavalderia dell’uomo che vuole comunque “andare a vedere”, rischiando col suo azzardo di trovare con lo smacco per le proprie teorie sbagliate anche la morte. Ma da qui in avanti il tono si apre alla speranza e a una certa fiducia, per quanto tutto il testo in generale si mantenga su un livello sobrio. Colombo ammette che c’è solo una congettura dietro al suo viaggio. Forse si arriverà alla terra tanto cercata, forse invece i calcoli si riveleranno errati. Ma già questo permette di fare passi avanti; il viaggio consente di rilevare gli errori negli scritti del passato e questo fa crescere tutta l’umanità. Il genovese all’inizio era parso come l’uomo che erra due volte, sia nel senso di viaggiare, sia in quello di sbagliare. Ora invece appare come un faro dell’umanità, conscio della limitatezza dei mezzi della scienza, ma pronto a cogliere nel calcolo smentito dall’esperienza un’occasione di crescita. Il viaggio di Colombo è il viaggio dell’uomo che procede per tentativi, fa tesoro degli errori, si muove con raziocinio e senza drammi, poiché fin dall’inizio non nega la propria fallibilità. Soprattutto, e questo appare il nucleo più leopardiano, il viaggiare permette di tenere lontana la noia che fa scoprire il vuoto del vivere. Cercare e arrischiare permettono di tenere cara la vita, facendo stimare cose altrimenti non tenute in debito conto come la vita stessa, la casa, la tranquillità. Quindi lo stimolo che viene da questo scritto è un invito all’azione, all’attività, all’avere obiettivi anche ambiziosi. Cosi la piaga della noia resta distante e cercando le grandi cose si apprezzano le piccole che stanno nella quotidianità. Se nel Dialogo tra un venditore d’almanacchi e di un passeggere si insisteva sul fatto che l’uomo pone il piacere sempre nell’avvenire, non avendone esperienza nel passato e nel presente e là questo era un disincantato prendere atto di come ci si voglia autoingannare nel pensare che la felicità (mai vissuta né ieri né oggi) sia sempre possibile in un domani (cui forse mai si giungerà), qui il testo offre, invece, puntelli di speranza e fiducia. Colombo tiene sempre lo sguardo alla natura e ne osserva attentamente le manifestazioni. Le nuvole, l’aria, il vento, gli uccelli, qualche ramicello nell’acqua lo inducono a un cauto ottimismo: “… tutti questi segni, per molto che io voglia essere diffidente, mi tengono pure in aspettativa grande e buona”. Così termina il dialogo, con queste note di azzurro; i due personaggi non sono per niente spaventati dall’immensità dell’oceano, tanto che la loro apprensione si fa sempre più tenue. La natura qui non incute timore all’uomo, ma si offre docile alla sua osservazione. Le congetture di Colombo sono una teoria nel senso greco del termine, sono ossia un attento osservare, un ragionare tenendo gli occhi sul mondo circostante. Si potrebbe dire che il bellissimo dialogo in realtà è un “trialogo”. Tre sono infatti le voci; Gutierrez, Colombo e la natura stessa.

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Aggrappati alle recinzioni

18 Gennaio 2015 , Scritto da Paolo Mantioni Con tag #paolo mantioni

Aggrappati alle recinzioni

Anch’io ho fatto parte di quel popolo di genitori che, tra il sabato pomeriggio e la domenica mattina, aggrappati alle recinzioni, prendono d’assedio i campetti di periferia e guardano il proprio figlio disputare la partita che corona una settimana di allenamenti, d’impegni per accompagnarlo e andarlo a riprendere, incastrando turni, orari e percorsi, accumulando fatica da lavoro e dovere di genitore. Una settimana ripagata anche dalla piccola soddisfazione che proviene dagli ammaestramenti fatti di consigli tecnico-atletici e di giudizi sui compagni e sui metodi e le scelte del mister. Un popolo, nella gran parte dei casi, sommesso e disponibile, che talvolta ha travalicato il confine che ne certifica l’invisibile esistenza finendo sulle pagine di cronaca dei giornali per le maleparole, le baruffe, le violenze vere e proprie che hanno provocato la sacrosanta indignazione della comunità visibile, quella che può parlare, perché ne ha i mezzi materiali e perché dispone della strumentazione analitica, culturale, linguistica e retorica necessaria. Denunce e sdegni che hanno condannato, genericamente, superficialmente, e presto dimenticato, quelle escrescenze tumorali di un’epidermide, per il resto, tutto sommato, sana. Un popolo di genitori che ha dentro di sé un magma di valori civili, etici e sociali che si scontra, nelle occasioni delle partitelle e spessissimo in tutte le altre occasioni della vita quotidiana, con un fuori che li nega, talvolta addirittura li disprezza, rendendoli inservibili e inapplicabili. Un magma, bisogna ammetterlo, scarsamente coltivato dall’interno e quasi mai irrorato dall’esterno. Dunque, più che delle escrescenze tumorali, bisognerebbe sorprendersi della loro relativa rarità.

Sono stato uno di quei genitori e lo sono stato in diverse versioni, in momenti diversi e secondo stati d’animo diversi, contradditori e complessi. Dalla linea cronologica che tiene insieme quest’esperienza, posso estrarre tre o quattro situazioni privilegiate, a mio modo di vedere, particolarmente significative, senza però dimenticare che fanno parte di una linea per lo più piatta e opaca, semi-cancellata dalla memoria.

Ho rivissuto, empaticamente, le emozioni primordiali del piccolo calciatore che ero stato, ho trattenuto il respiro insieme a quello del piccolo calciatore attuale, separato da lui da qualche metro e da un monte di anni, prima del rigore decisivo, assieme a lui ho fatto istintivamente partire la gamba uscendo dall’apnea.

Ho dapprima subito silenziosamente e poi reagito collericamente per i comportamenti aggressivi di alcuni genitori di parte avversa. E ho visto trasformarsi la collera in rabbia, l’ho vista separarsi dal suo motivo attuale e contingente, una partitella tra ragazzini condizionata surrettiziamente dal vocio esacerbato dei troppo interessati spettatori, per unirsi a principi superiori, giustizia, correttezza, tolleranza, ma l’ho vista esprimersi, però, nelle stesse forme e nello stesso linguaggio del loro esatto contrario.

E me lo sono ricordato quando, in un’altra versione, alle prime avvisaglie, prima che l’aggressione verbale altrui e la rabbia mia montassero, ho difeso il giovanissimo arbitro gridando frasi come “ma lasciatelo in pace! Dovreste ringraziarlo di sacrificarci le domeniche per farci divertire!” Ridicolizzando, in un incongruo afflato sentimentalistico, me stesso, l’arbitro, le domeniche e il campetto tutto.

In un'altra versione ho avuto paura: le parole, le posture, le facce livide di quelli che avrei dovuto provare a far ragionare non promettevano nulla di recuperabile. Ho taciuto esattamente come quelli pretendevano che facessi. Ho avuto paura della mia incolumità fisica? O ho avuto paura di finire sui giornali come un bell’esempio diseducativo?

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