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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

umberto bieco

Transizione verso Mondi Sotterranei

12 Aprile 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

«Presto, se tenete a voi!» incalzò Babbo Naziale, e li indusse a seguirlo, trafelatamente.

Sui pavimenti si notavano lunghe strisce colorate. Vi era un mezzo variopinto.

Salirono a bordo, e il vecchio avviò a tutta velocità, nel contempo premendo un pulsante che aprì una botola sul tettuccio. La botola aveva scoperto un quadrato buio, insondabile.

«Infilatevi lì – e niente lamentele: o devo prendervi a calci per farvi entrare?».

«Perché dovrei andare nel tettuccio, e per di più mentre stai andando a tutta velocità? Mi sa che le ultime rotelle rimaste ti sono finalmente rotolate via. E in ogni caso, cosa stiamo facendo?».

«Metti dentro la testa e fammi sapere» ghignò lui ridacchiando sconnessamente.

Perplesso, esitante, ma incuriosito, il figlio di Pyotr eseguì, mentre Miss Inoculo li guardava ancora  ansimante.

Da sopra il tettuccio, la sua bocca, inserita nell'apposita testa, esclamò cose confuse.

Nel quadrato cieco sparirono le mani, le quali issarono il resto del corpo, a sua volta inghiottito da quel nero lucido da cui non trapelavano forme o luce. Infine una mano esitante perforò quel buio in direzione di Miss Inoculo.

«Accontentiamo il vecchio. Vieni su, è piuttosto interessante qui sopra» le gridò, reso audace dall'adrenalina. Lei si aggrappò, e si spinse su, mentre Naziale guidava per vie sotterranee dai pavimenti lucidi e psichedelici.

Era un angolino confortevole. Una stanzetta dotata di moquette, poltroncine con cuscini, mobiletti con oggetti. Vi erano arrivati percorrendo una breve rampa di scala, sul cui pianerottolo d'intermezzo era posto un portaombrelli di ottone. Tutto ciò era inconcepibilmente sopra il mezzo su cui stavano viaggiando, invisibile dall'esterno, materialmente inesistente per ogni ostacolo.

Miss Inoculo si sedette e lo guardò in silenzio con aria stanca e grave. Poi proferì un «grazie».

«Non c'è di che, non c'è di che» rispose il figlio di Pyotr. Rifletté un momento.

«Quindi, non ti abbiamo rapito? Bene. È già una buona cosa. Mi sento un po' sollevato. Stavo sospettando di essermi messo nei guai, per colpa del vecchio demente».

«No, non mi avete rapito» sorrise lei. «Mi avete sottratto alle grinfie imperiali. E ora cominceranno a cercarci ovunque».

In quel momento, i corridoi sotterranei cominciarono a pulsare di una luce rossa, accompagnata da una sirena d'allarme.

«Oh, tutto qui» rispose Crispin, deglutendo rumorosamente.

E, in effetti, sentirono il rombo del bolide sottovolante sfumare, il movimento cessare, le sirene aumentare. Babbo Naziale era stato fermato da qualche pattuglia della Città Sotterranea.

«STOP. Fornisca documento d'identità, patente, libretto di circolazione, passaporto, certificato Inoculare, diploma di maturità e licenza elementare» intimò lo Psicopoliziotto.

«Ma certo, certo, mi lasci il tempo di cercarli, sa, son vecchio, non ricordo dove metto le cose» gli sorrise paffutamente il rubicondo e anziano negazionista. Si frugò attentamente addosso, svuotò svariati cruscotti, e infine consegnò al rappresentante delle forze dell'ordine una catasta di carte, papiri e documenti.

«Ecco, ecco qui. Per completezza ho aggiunto anche delle lastre intestinali e la mia autobiografia non autorizzata» spiegò il vecchietto ammiccando festivamente.

«Noto, noto. Lei ha dei bellissimi intestini» concesse il tutore della legge, grattandosi pensosamente il mento, ammirato. «Chi è il suo intestinologo di fiducia? Per caso il dottor Crasso? Sa è da anni che cerco di risolvere i miei problemi di colon irritabile con diverticolosi incrociata. Ah, ma che dico, lei mi distrae»

«Oh, mi scusi, mi scusi» proferì Naziale, tenendosi le guance con le mani, fingendo costernazione.

«Beh, nel Bolide Sottovolante c'è senz'altro solo lei» continuò l'altro, infilando nel contempo la testa attraverso il finestrino con notevole invadenza. «Sa, è successa una cosa grave. Una bella ragazza è fuggita»

«È terribile!» reagì il signore biancobarbuto al volante. «Se le belle ragazze fuggono, rimangono solo le brutte. Ciò non va bene.»

«È quello che dico anch'io, caro cittadino nell'ultimo segmento della sua esistenza. Ma in questo caso la situazione è ancora più grave. Ha insultato pubblicamente i Fondamenti della nostra Civiltà. Ed è pure famosa. Ma potrà vedere tutto all'Ipnogiornale, che le inculcherà i concetti base a cui dovrà attenersi per essere a norma di legge. Vedrà che scandalo. Sicuro di non aver visto nessuna? Sospettano sia scappata qui sotto.»

«No, mi spiace, agente» si contrì l'interlocutore nell'abitacolo.

«Tenga gli occhi aperti, e non esiti ad avvertirci» rispose l'essere in divisa, accennando un saluto con la testa, mentre le mani erano impegnate a riversare nel Bolide le tonnellate di documenti fornitigli da Naziale. Che sgommò via.

Il poliziotto lo seguì con lo sguardo. Non vedeva alcuna persona sul tettuccio.

 

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La torre mobile

10 Aprile 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Un buco. Un bel buco. In cui sopprimersi. In cui comprimersi. In cui deprimersi.

Un buco che contenesse la sua voragine. Un buco nel battiscopa per scappare dalle stanze del mondo, in cui si sentiva rincorso dalla realtà, con una scopa in mano. Un portale, un varco, un tunnel sotto il campo di concentramento dell'ordine e della disciplina, dell'implacabile, del riflesso, del compromesso. Ricordava quando da piccolo, durante lunghi, noiosi e interminabili viaggi in macchina, sognava che si aprisse una botola sul tettuccio dell'auto, da cui potesse evadere in una torre, disposta su innumerevoli piani, invisibile e intangibile per il resto del mondo, che quindi permettesse comunque al mezzo di passare sotto a ponti, attraverso gallerie, di lasciare fili elettrici e telefonici intatti. Visualizzava come saliva le scale, incrociava un portaombrelli su una sorta di pianerottolo, sbucava in una stretta stanzetta dotata di comfort, moquette e passatempi, quando si stancava si arrampicava alla successiva – e il viaggio continuava senza di lui, svagato nella sua torre mobile, fin ad arrivare alla meta, senza accorgersene. Era una sua fantasticheria. Volume e forma interni che non corrispondevano a quelli esterni. Sarebbe stata una grande innovazione. Aveva questa immagine di un covo scavato dentro un cartellone pubblicitario, dotato di stanze e ampiezze impensabilmente, impossibilmente contenute in quel modesto spessore. Un labirinto in una scatola, un castello in un cassetto. Un altro progetto poteva essere svitare il collo, alzare le ancore, ritirare le scalette, e soffiare aria calda nella testa fino a sollevarla come un pallone aerostatico, lontana dal corpo, lontana dal mondo.

Babbo Naziale l'aveva arruolato per mettere in ordine il suo orrido e polveroso appartamento.

Vi si recò. Incontrò i soliti drappelli di gente dal viso appeso ai lampioni, sotto alla fuliggine del cielo. Uno, bocca spalancata e sguardo verso l'alto, sembrava perdere una bava lungo il mento.

La banda di luce li informava delle solite cose: che il leader della Seul del Nord era pazzo, una minaccia per l'universo, e doveva essere bombardato. La settimana dopo sarebbe toccato di nuovo a quello della NovoVodka. Quella successiva a quello della NeoPersia. E così via, passando in rassegna psicopatologica tutti gli avversari, a seconda del momento, o agglomerandoli in un'unica e alleata minaccia che prima o poi sarebbe occorso contrastare, giacché l'universalcrazia e l'incolumità dell'innocente cittadino eran senz'altro sotto minaccia a causa loro. Erano storie che venivano utilizzate e riciclate nel tempo, senza troppa fantasia e indubbiamente senza vergogna. Erano già state sfruttate in precedenza per invadere e attaccare l'Urik, il Talebanistan e innumerevoli altri nazioni, mondi, pianeti e galassie. Ma non importava, ogni volta la gente ci cadeva smemoratamente, perché stavolta era senz'altro vero, avevamo imparato dagli errori del passato e dai falsi pretesti, gli stessi Divulgatori Informativi si erano corretti, ora eravamo più consapevoli della differenza tra propaganda e realtà, ed eravamo realmente minacciati, e conseguentemente realmente caricati della responsabilità di confrontare il Male. Qualche anno dopo, come al solito, avrebbero cominciato a trapelare le infondatezze, le bugie, le distorsioni, le macchinazioni. Ma, ogni volta, il martellare informativo era così insistente, urgente e convinto, che gli accadimenti e le ombre che si addensavano sulla civiltà stavolta dovevano per forza essere reali, e dovevano per forza essere affrontate, combattute – neutralizzate con conquiste e invasioni. In luoghi usualmente, quanto coincidentalmente, ricchi di materie prime e preziosi.

Stava spolverando un alambicco incastrato in un grammofono collegato con un lettore DVD connesso con un vetusto tostapane, reperti di un mondo ormai dimenticato, dagli usi confusi – quando irruppe nella stanza Babbo Naziale, concitato e agitato agitato agitato agitato agitato agitato, in breve esa-gitato, che lo ghermì per il braccio esclamando:

«Ah bene, sei qui, dunque, sbrigati, dobbiamo andare!»

«Sei stato morso dal ragno della demenza? Voglio dire, di nuovo? Ho appena iniziato a pulire.»

«Pulire, chi se ne importa, gli acari sono i miei animali da compagnia – vieni via, non sei qui per questo.»

Si lasciò stancamente trascinare dal vecchio misteriosamente ringalluzzito. Forse aveva trovato qualche aliena di Phobos pronta ad offrirgli qualcosa di molto privato in cambio di un matrimonio di convenienza. Babbo Naziale lo strattonò in una specie di buio garage, gli infilò un casco rotto sulla testa, dalla cinghia penzolante, lo spinse in una cabina e gridò “ho ho!”: subitaneamente un portone si aprì come un sipario e l'abitacolo venne trascinato fuori, prendendolo di sprovvista e facendogli sbattere la testa, tanto da fargli dubitare di quel che vedeva: sei renne robot tiravano la slitta passeggeri a tutta velocità verso destinazione ignota, tra la nebbia fumigante e il cupo asfissiante, sinistramente illuminato di fiotti arancioni.

«Non ti sei calato un po' troppo nella parte?» chiese Pyotr jr, persino più istupidto del solito.

«Non voglio certo deludere il mio pubblico!» eruppe l'immondo vecchietto.

Grattacieli d'acciaio, che continuavano per chilometri sotto la superficie, si facevano slalomare spericolatamente, mentre il volto del disorientato Crispin sbiancava, e l'anziano panciuto ridacchiava seminando il traffico della sera irto di robot che tornavano a casa dal lavoro.

Parcheggiò in un parcheggio per disabili mentali, per cui aveva un tesserino, legò le renne di metallo a qualche lampione, prendendo a calci gli pseudo-zombie che lo attorniavano, e saltellando smaniosamente rutilò “muoviti, muoviti!” all'aiutante riluttante che lo seguiva meccanicamente, indeciso, come al solito, se essere morto o vivo. Lo seguì.

S'infilarono in un tunnel, oltre il quale si percepiva un gran boato, un costante clamore.

Alzò un tombino clandestino che dava nel dedalo sottocittadino, corsicchiarono lungo svariate passerelle e piattaforme, poi si fermarono, sotto un'altra botola.

«Shhhh!» gli intimò il vegliardo.

«Chi dice nulla» bofonchiò l'altro.

Ricevette uno schiaffo sulla faccia.

Il rumore aumentava.

Babbo scostò il tombino, e qualcuno cadde in testa a Crispin.

Naziale richiuse il tombino con un grugnito.

Crispin si strusciava la faccia e la testa lamentandosi, esclamando cose poco graziose.

Guardò davanti a sé, e vide una creatura spaventata e ansimante, nonché certamente più graziosa delle sue esclamazioni.

Era Miss Inoculo.

 

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Palingenesi di una mitopoiesi

8 Aprile 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Salì sul palco. Era il palco della vita. Da quando l'Inoculo era stato eletto Principio Fondante della Civiltà, non vi era esposizione più prestigiosa e brillante, occasione dalla visibilità maggiore, per qualsiasi aspirante modella, che l'incoronazione a Miss Inoculo e il conseguente Gran Galà degli Inoculi, qualche settimana dopo – su cui si focalizzavano ritualmente i riflettori, rimbalzandone le immagini ovunque, facendo vibrare la ragnatela di satelliti del cosmo. Era la serata che aveva aspettato per tutto questo tempo. Calici d'argento, brillanti, diamanti, vestiti eleganti, platea delle grandi occasioni, ricchi signori, rappresentanti delle istituzioni, le massime cariche della CSK, e centinaia di videocamere spianate. Tra una canzone e un balletto, un tuffo nei coriandoli, una parata e una battuta ingessata, fu evocata alla ribalta, circonfusa di clamore e musica lussureggiante. Ora era un simbolo. Simbolo del Principio Fondante della Civiltà, della Sacra Scienza, delle Benigne Verità dell'Impero del Bene Assoluto, della Salute e della Bellezza inestricabilmente legate a questi concetti.

Si presentò al microfono, radiosa, irraggiante luccichii nel suo vestito di Diamanti di Eidos – il suo viso riflesso e rifratto in miliardi di schermi, in infiniti occhi e menti. Fu accolta da un applauso fragoroso e prolungato, che lasciò spazio a un silenzio trepidante. Miss occupò quello spazio con il proprio sguardo, proiettandolo attorno, rivolgendolo lentamente a tutte le latitudini e longitudini, adagiandolo su tutti loro.

 

«Mi spiace dirvi quel che devo dirvi. Ma non lo sta dicendo nessun altro. Ci sono informazioni che non vengono divulgate. E che provano che tutta questa è una fantasia, una buffonata, una mascherata. Dieci anni fa le principali riviste medico-scientifiche del mondo si unirono in un editoriale condiviso in cui denunciavano l'ingerenza delle multinplanetarie del farmaco nella ricerca scientifica. Descrivevano come i ricercatori, anche quelli all'interno delle università, con la minaccia della rimozione dei finanziamenti, venivano legati con contratti che impedivano loro di riportare fedelmente e liberamente i risultati delle sperimentazioni e dei test clinici. L'ultima parola su quali dati dovevano essere diffusi, e su come dovevano essere diffusi, spettava ai finanziatori stessi.»

 

Ovali agghiacciati osservavano dalle balconate, in un'espressione congelata di terrore. I dirigenti della CSK non credevano stesse davvero accadendo. Erano ancora nei loro letti. E stavano avendo il peggior incubo.

 

«Avete mai sentito parlare di tutto questo? Solo un paio di anni fa la rinomata rivista Scientific Empire ha confermato queste pratiche, chiedendosi: possiamo davvero fidarci dei dati di queste ricerche? La scienza a cui ci appelliamo per combattere l'oscurantismo è davvero scienza, o è una nuova forma di fede, riposta nella falsificazione del metodo sperimentale a scopo di profitto?

Come possiamo quindi fidarci della reale efficacia e sicurezza di ciò che ci obbligano a inocularci? Come possiamo fidarci delle modalità e delle quantità che ci impongono? È un processo a cui ci sottopongono per una reale necessità sanitaria, o per una gretta ingordigia monetaria?»

 

Alcune delle massime cariche istituzional-industriali si stavano risvegliando dal torpore incredulo dello shock e cominciavano ad agitarsi, a contattarsi, a coordinarsi e a ordinare ordine. Altri stramazzavano a terra ansimando, o si tenevano il petto, o cominciavano a perdere sangue dal naso. Porchinstein, con ammirevole snodatezza, si stava mordendo un piede.

 

«La stessa CSK è stata diverse volte colta sul fatto: nell'atto di corrompere funzionari pubblici affinché agevolassero i propri farmaci. Nell'atto di immettere e mantenere sul mercato prodotti con gravi effetti collaterali, talvolta mortali, per anni, nonostante fosse provatamente fin dal principio consapevole di questi. Quindi, ripeto, come possiamo fidarci, e perché dovremmo farlo?»

 

Si tolse la corona che le cingeva la testa, e la posò per terra, facendovi scivolare sopra anche la fascia recante l'acronimo farmaceutico.

 

«Per quel che mi riguarda, questi orpelli, queste cariche, non significano più niente: niente di bello, niente di civile e niente in cui credere. Rappresentano solo menzogna, sfruttamento della credulità, bramosia insana e pericolosa»

 

Agenti si stavano accalcando ai lati del palcoscenico, pronti a fermarla, ma lei scese frontalmente, verso il pubblico attonito e ronzante. Il pubblico casalingo era costernato, metà critico, metà giubilante, affascinato dall'eccitazione della novità, dalla sensazione del dramma incipiente, del fatto che qualcosa di sensazionale era successo.

 

Lei si era tolta le scarpe col tacco e aveva cominciato a correre, mentre le Forze dell'Ordine con sempre minor timidezza sciamavano dietro di lei.

 

Dall'alto i droni inquadravano Miss entrare nel tunnel d'uscita del teatradio, un misto tra uno stadio e un teatro, e la ciurma di Poliziotti Inoculari infilarvicisi dopo di lei.

Poi si vide la mandria di tutori precipitarsi fuori di esso, dall'altra parte, all'esterno. Ma lei non era uscita. Determinati e confusi, erano all'inseguimento di un fantasma. Giacché lei sembrava sparita.

 

 

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Animaletti

5 Aprile 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Non ci poteva credere. Crispin aprì del tutto i balconi e si sporse verso l'esterno, scrutando il marciapiede sottostante, tentando di scorgere qualcosa sotto i raggi arancione dei lampioni. Lentamente si ritrasse sconcertato. Era iniziato tutto poche ore prima, quando, per burla ed esperimento, aveva calato il filo di un qualche alimentatore nel bidone giallo, per osservare se avrebbero tentato la scalata e se sarebbero riusciti ad uscire. Tornò dall'altro lato della stanza esaminando le carte che stava sistemando, e dimenticando il resto per non più di 40 secondi – quando finalmente si volse, e vide che sul bordo del bidone giallo vi era Madre Snatura, la cicciobombola, che si guardava alle spalle con il suo sguardo malinconicamente ingordo, e vedendolo avvicinarsi per fermala, si decise finalmente a buttarsi e scappare lungo le pareti sotto qualche mobile. Era sorpreso dalla rapidità con cui aveva sfruttato l'occasione di fuga, lei, o almeno presumeva fosse una lei, ovvero la madre, che si era sempre dimostrata la meno audace, la meno coraggiosa e la meno attiva: eccetto quando si trattava di rubare il pranzo agli sfortunati figlioletti. Guardò nel contenitore e non vide movimenti. Dovevano essere tutti sotto il cartoncino che usavano come riparo. Lo alzò. Nessuno. Niente.

La Panciona doveva esser stata l'ultima: erano spariti tutti e quattro. Tutti e cinque, contando quello che era riuscito a scappargli quella mattina, arrampicandosi sul suo braccio, come avevano imparato a fare, dribblando la sua mano che si raccoglieva a fermarlo, sbucando tra indice e pollice, saltando sul bordo del bidone e poi gettandosi senza pressoché indugio, per saettare più veloce dell'occhio umano che aveva cercato di seguirlo, da qualche parte, forse fuori dalla stanza. Era straordinario.

Per fortuna non era il custode di qualche zoo. Quindi li sopportò per due ore mentre spuntavano ovunque, facevano capolino da dentro i cassetti, si arrampicavano fin sopra la porta seguendo l'anacronistico filo del suo antico modem d'antiquariato o d'anticagliato, spiavano da sotto le doghe del letto, quando non apparivano direttamente SUL letto e venivano a tormentargli le ascelle e fargli solletico alle costole per poi sparire precipitosamente non appena li squadrava scocciato, per poi tornare e leggere con lui qualche pagina del quadernone che reggeva. Di quello che era sparito durante la mattina, non aveva più trovato tracce. Ora stavano mordendosi vicendevolmente la coda scalando libri sugli scaffali e annusando qualsiasi cosa.

Decise infine che era ora di riprendere controllo della stanza, portò la trappoletta disfunzionale, da cui erano in grado di entrare ed uscire a piacimento, vi sistemò dentro una fetta biscottata sormontata da un'olezzante fettina di formaggio, e guardò la prima preda avvicinarsi, studiando, sniffando, circumnavigando prima di fidarsi ad entrare, iniziare a banchettare e farsi sorprendere dall'improvvisa calata dall'alto di una ciotola di plastica con cui lui ostruiva l'uscita – poi, tenendo premuta quest'ultima – si portava presso il bidone giallo, e lasciava saltassero giù. Riuscì tre volte consecutive senza problemi, aveva preso tutti i piccoli, ed era rimasta solo la Bombolona, ultima.

Data la mole, con lei fu ancora più semplice. Si spaventò molto. Lui tenne sospesa la trappoletta all'altezza dei propri occhi, tentando di rassicurarla e chiedendole se non vedeva, era lui, possibile avesse ancora paura? Decise per un cambiamento. Aveva esumato da una cantina, e lavato, la gabbietta di un criceto, con tanto di ruota, e voleva trasferire Madre Snatura lì, in maniera tale che la piantasse di rapinare pezzetti di pane dalla bocca dei supposti figli, e che facesse anche un po' di moto per bruciare i numerosi grassi in eccesso. Aprì la porticina, infilò dentro la trappoletta, e la Bombolona saltò fuori, dentro la gabbietta. Ma non si fermò lì. Con suo grande stupore proseguì la sua corsa OLTRE la sua nuova casa, riuscendo a infilarsi attraverso le sbarre, e lanciandosi oltre la fessura dei balconi. Aprì del tutto i balconi. Non era sull'estremità esterna del davanzale. Non era più da nessuna parte. Si era suicidata. Scese in strada sul marciapiede, ma non trovò nulla, seguito da un gatto annusante. Era amareggiato, e allo stesso tempo a una porzione di lui non spiaceva essersene liberato. Tornò a letto pensieroso, quando alla luce dell'abat-jour vide lo sciocchino che era fuggito la mattina. Lo catturò facilmente e lo inserì nel bidone giallo, insieme agli altri tre.

Stava pensando a quale sarebbe stata la morale se questa fosse stata una storiella. Forse di non spaventare un animaletto ansioso proprio mentre è sul davanzale di una finestra.

 

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Porchinstein

3 Aprile 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Sbarcò all'astroporto dove fu accolta da un entourage della CSK che la portò in un albergo a cinque nane gialle. Fu informata che Porchinstein era nella sua stanza e voleva vederla.

Vi fu condotta. Ora era faccia a faccia con il suo grugno.

«Eccoti cara» sbavò lui, divorandola con le fauci degli occhi, melliflui come piranha in uno stagno di miele.

«Hai avuto quello che volevi» disse avvicinandosi ulteriormente. «Forse è arrivato il momento di essere simpatica con me» aggiunse, tentando un sorriso soave, cosa che lo fece diventare ancor più un raccapricciante colabrodo di bave e acquolina.

Lei rimase impassibile. Lo guardò per qualche momento.

Poi proferì «Potremmo affrontare l'argomento dopo il mio discorso di debutto. Ora sono stanca e necessito di concentrazione. Per il bene della CSK. E della Inoculazione Universale.»

Lui deglutì. Rischiando di soffocare. O annegare. Tentò di controllarsi.

Diventò paonazzo. Esplose.

«Maledetto pesce! Ne ho abbastanza della tua ritrosia. Non è più tempo di contrattare.»

E accompagnò queste parole con un brusco movimento del braccio destro, che condusse la sua mano verso il collo, dove era presente un bottone, e quel bottone fu premuto e il premerlo produsse un'improvvisa apertura del suo vestito. Si ruppe a metà, e le due porzioni cominciarono a cadere lateralmente sul pavimento, rivelando una progressiva nudità.

Quell'essere era una discarica di pustole, verruche, foruncoli, ruvidi superfici epidermiche da cui spiccavano brancolanti tentacoli, tenaglie, ventose e chele. Il tutto innaffiato di abbondante muco e viscidume. Forse significava che era bramoso, se non smanioso.

«Sei meraviglioso, Orrido» gli sorrise lei con, non avrei dubbi, sincera ammirazione.

«Mi è davvero difficile resisterti, ma, come detto, sono molto stanca. È davvero il caso che vada» e s'indirizzò risolutamente verso la porta automatica bilaterale startrekiana.

«Credimi. Tu non stai andando da nessuna parte» ringhiò lui arrancando verso di lei. Ma inciampò goffamente sul vestito afflosciato ai suoi piedi, o zampe, la qual cosa concesse a Miss Inoculo tutto il tempo per raggiungere l'uscita con assoluta calma: poi, una volta nel corridoio, si girò a guardarlo. Si era rialzato, si era avvicinato con due occhi spaventosi e stava per uscir fuori anche lui – e del resto in parte lo era già.

«Beh, buonanotte caro. Mi raccomando, pensami» gli disse lei con semplicità, e premette un pulsante sulla parete.

La porta elettronica si richiuse con decisione sul tentacolo del signor Orrido Porchinstein.

 

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Babbo Naziale

1 Aprile 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Fu preso per il bavero e trascinato nel buio di un covo, una tana, un tugurio scuro che odorava di scarafaggi – la porta che si chiudeva prima che lui potesse formulare un pensiero coerente, ma del resto per formulare un pensiero coerente egli poteva impiegare interi minuti, se non ore, quindi ciò non era un riferimento molto utile per stabilire la velocità con cui l'uscio era stato nuovamente sbarrato.

In ogni caso ora lo era.

«Tu» sibilò un alito non del tutto sconosciuto, «Tu sei il figlio di Pyotr».

«Vecchio idiota, lo so che lo sono, lo so che sai che lo sono, e so chi sei e chi sono: non è un buon motivo per trascinarmi via dalla strada mentre cammino per i fatti miei».

Era Babbo Naziale.

«Shhhh, potrebbero sentirci»

«Ma chi»

«Gli annegazionisti» sussurrò strabuzzando gli occhi ed emettendo un risolino e un ululato, un fischio e uno schiocco.

«Basterebbe che ti adeguassi alle nozioni storiche ufficiali e non avresti problemi» rispose il figlio di Pyotr, spolverandosi dopo esser caduto a causa degli strattonamenti del vecchio.

Babbo Naziale era un sostenitore della teoria anti-olocaustica secondo cui la setta degli Abramoidi non era stata maciullata e tritata in massa attraverso macinacarne giganti per essere trasformata in würstel alla fine della Seconda Guerra Interstellare – la qual cosa, nell'ambito di una società comunque democratica e fondata sulla libertà di espressione, era considerata un'eresia sanzionabile con lo stritolamento dei testicoli. Chi sosteneva che gli Abramoidi non avessero sofferto quello che avevano sofferto, e che del resto non potevano non aver sofferto perché altrimenti non si spiegava il perché avessero sofferto, era considerato un Naziale. I Naziali erano coloro che avevano obbedito a Dark “Adolf” Vader, detto Führer, e sguinzagliato i dobermann della guerra nella galassia, trasformandola in un cruento grumo di sangue che aveva schizzato e imbrattato le pareti del cosmo.

Le spese per ripulire erano state enormi. Ecco perché le Imprese di Smacchiatori erano tra le maggiori sostenitrici della guerra. Ad ogni modo, i Naziali ce l'avevano in particolare con gli Abramoidi, che, come recitava la Storiografia Ufficiale, erano finiti nei tritacarne – per essere sminuzzati fino all'estinzione. Negare questa verità, che veniva, per qualche motivo, costantemente ribadita attraverso ologrammi filmici, videogiochi letterari, fumetti tridimensionali e sculture interattive, nonché iniziative commemorative e culturali come La Giornata del Guai a Te se lo Scordi!, era come dichiararsi razzisti anti-Abramoidi, sostenitori del loro annientamento, la qual cosa era ormai uno dei peggiori insulti e motivi di emarginazione sociale, specie negli ambienti culturali, persino peggio che avercela con i Nettuniani, o i Marziani, o i Saturnini, o tutte e tre le cose insieme. Era più o meno al livello della infantofilia, ma con in più connotati politici, filosofici e di Adesione Metafisica al Male Assoluto, laddove, in definitiva, per quanto compissero uno degli atti peggiori del mondo,  gli stuprinfanti erano solamente dei disgustosi, rivoltanti debosciati che seguivano istinti snaturati, belve dai cervelli divorati da vermi – non assaltavano alcuna visione del mondo, alcuna gerarchia di idee - o forse era perché nella classe dominante c'era del resto una ben protetta porzione di loro, soprattutto attorno a Betelgeuse.

E Babbo Naziale era, come forse intuibile, proprio un Naziale. O, ad ogni modo, così veniva considerato in virtù della sua posizione in conflitto con la Storia Ufficiale. Si poteva fare scelta più sconsideratamente scellerata, e più scientificamente appropriata, se lo scopo era il suicidio sociale?

Ma lui era così. E somigliava a Babbo Natale. Aveva questa morbida barba bianca da cui spuntavano rubiconde gote paffute e un bonario sguardo ridente. Era certamente il Naziale più grazioso e rassicurate del circondario, se non della contea. Era anche, per qualche motivo, vestito con un tutù, dalla cintola in giù, e saltellava irrequietamente di mattonella in mattonella, di mobile in mobile, di balzo in balzo, il prominente ventre leggiadramente sobbalzante.

«Non posso smettere, è così divertente – così divertente!» cinguettava alacremente.

Il figlio di Pyotr lo guardava con l'espressione di qualcuno che s'era appena versato del latte cagliato nella tazza.

«Seriamente. Come puoi sostenere ciò che sostieni? È comprovato che esistono contratti con i fornitori dei Tritacarne Giganti, i Trytzon B – cosa se ne facevano?»

«I Tritacarne Giganti erano stati forniti a tutti i Campi di Abramocentramento, compresi quelli ufficialmente non considerati di tritamento. Quindi, come può costituire una prova di Abramicidio di massa? »

«Ma c'è il Verbale Fuhrioso dell'Incontro di Uanseh, in cui si parla esplicitamente di Tritamento Finale, come soluzione al problema Abraimico»

«E, dove, in quel documento, il Tritamento Finale viene definito come sminuzzamento degli Abramoidi?»

«Ebbene, cos'altro può significare? Non mi pare il caso di fingere non sia chiaro: si tratta di minuto squartamento dei Nasopotati[1] – operazione che spesso risulta letale per l'organismo»

«Orbene, figliolo, nel contesto dei documenti interni dell'Impero del Male Assoluto, il Tritamento Finale non era altro che l'ultima macellazione di carni (di infima qualità) con cui farli pasteggiare prima di catapultarli definitivamente su Endor, pianeta vegetale vegetariano. Dark “Adolf” Vader aveva tre pallini: disfarsi degli Abramoidi, sottomettere l'Universo e diffondere la dieta vegetariana. E lì voleva confinarli.  C'è scritto nei documenti imperiali certificati ed esaminati dalle Commissioni di Giustizia contro il Nazialismo istituite dopo la sua disfatta.»

«L'ammissione di colpevolezza del luogotenente Horst Tappert...»

«Ottenuta con la tortura»

«Ho capito. Hai una risposta ingannevole per ogni obiezione ragionevole. Ma puoi dire quello che ti piace e tentare di farmi credere quel che preferisci. Perché, del resto, io stesso non conosco approfonditamente l'argomento. Ma lo conoscono gli Espertoni. E quindi perché dovrei fidarmi di te, invece che di loro? Sono un'intera comunità di persone che ha studiato la faccenda per anni condividendo le stesse conclusioni. Tu sei una singola persona, socialmente emarginata, derisa, dalla dubbia preparazione. Quindi, ripeto, perché dovrei fidarmi di te?»

«Potresti  metterla in quest'altro modo: perché dovresti fidarti di chiunque?» rispose lui, mentre roteava sulla propria stessa testa sogghignando.

 

Quella notte il figlio di Pyotr sognò la cantina di casa. Era uno dei suoi sogni ricorrenti. Ma ogni volta la cantina era diversa. Come al solito vi si accedeva da un comparto separato, in fondo al laboratorio di suo padre. Spesso nel sogno c'era anche lui, con i suoi attrezzi, i suoi lavori misteriosi, i suoi utensili incomprensibili. E ogni volta il numero di piani attraverso cui si poteva scendere era differente, l'estensione e la forma delle stanze umide e diroccate variava, così come le sue nicchie, i suoi passaggi, i suoi varchi. Era un luogo indecifrabile, forse un po' inquietante, ma al medesimo tempo in esso si sentiva più protetto che in pericolo. Nascosto al mondo.

 

 


[1]    Era un modo popolare di chiamare gli Abramoidi, dovuto ad una loro pratica religiosa che richiedeva la potatura della punta del naso

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Miss Inoculo II

30 Marzo 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Miss Inoculo, splendore della notte. Mi sposti e rimesti come un relitto nell'oceano.

Mi sciacqui e lavi di desideri e ricordi. Mi spezzi a poppa e a prua. Ghermisci le mie vele e le soffi verso il sole. Vuoi forse vedermi bruciare? Tessi nuvole di zucchero filato in cielo, e lo dipingi terso e incontaminato. Come l'ho immaginato. Com'era in un tempo lontano privo di turbamenti. Ora le menti si turbano. Ora son turbe di pensieri oscuri, invocati da un mondo di tenebra. Ora son turbolente nubi di procelle scagliate contro i galeoni della bellezza.

 

Leggeva la corrispondenza, la posta dei suoi ammiratori, ammaliati dal suo viso, dai suoi riccioli, dalle sue fossette. Dalle sue squame.

 

Miss Inoculo, quando sono nel reparto ortofrutta, penso sempre a te.

 

Alcuni forse più dal suo corpo.

 

Era in viaggio verso la prossima destinazione, nel suo tour promozionale per la CSK, e la sensibilizzazione verso la Inoculazione, nonché la promozione della Inoculazione contro la Inoculazione.

 

Miss Inoculo, vorrei inocularti tutto il mio siero.

 

Tutti volevano pezzi di lei, o la volevano a pezzi, come il direttore della CSK, Porchinstein.

L'aveva fatta eleggere solo per quello. Per averla. La votazione del pubblico era solo una farsa.

Lei aveva fatto intendere che dopo l'incoronazione si sarebbe concessa. Era un bluff.

Voleva solo raggiungere il suo obiettivo. Ora avrebbe dovuto affrontarlo.

Le lettere che riceveva dagli ammiratori variavano da manifestazioni rigurgitanti di lussuria, a passionali dichiarazioni, da ridondanti espressioni romantiche che nascondevano meri impulsi primari, a goffaggini sgrammaticate a malapena comprensibili. Poi c'erano i visionari e i disperati, e i disperati visionari: per cui era uno schermo su cui proiettare le loro fantasie di salvezza.

 

L'alba sorge con lo schiudersi delle tue palpebre, nel sole dei tuoi occhi.

 

Costui probabilmente scriveva dalla galassia di Tattoine, se non era stata definitivamente detonata dall'Impero del Male. O da quello del Bene.

 

So che se ti incontrassi, la disperazione si dissiperebbe come nebbia, e potrei trovare la forza di vivere. Questo è il potere che hai su di me. Per favore, usalo bene. Rispondimi, e uno spiraglio fenderà la mia notte. Sei la mia unica speranza. Giacché percepisco la tua purezza. Giugno è il mese preferito del tuo calendario. Cordiali saluti.

 

Ad ogni modo, sperava fosse sito in una galassia davvero lontana lontana. Nella gamma delle specie che l'assediavano, questo esempio si poneva all'estremo opposto di Porchenstein. Se per quest'ultimo lei era solo un pezzo di carne, o di pesce, da consumare e su cui sfogare le proprie pulsioni bestiali, per l'Uomo di Tattoine o Simili, lei era un essere etereo, intoccabile, ma dotato di tutte le virtù metafisiche in grado di sciogliere quel nodo che gli legava la testa e stringeva la psiche in qualche morsa incomprensibile. Le facevano entrambi paura, in modo diverso. Porchinstein anche un po' schifo, in effetti. L'Uomo di Tattoine pena. Ma entrambi costituivano un assedio. Il secondo, con l'attribuzione taumaturgica, l'affardellava di una responsabilità che non poteva essere sua, e che non poteva essere vera. Lei, forse, poteva sembrare una creatura speciale, in virtù della grazia irradiata dal proprio aspetto, ma era solo una normale, ordinaria sirena. E aveva una missione da cui non poteva essere distratta.

 

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La Madre

28 Marzo 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

La Madre, liberatasi dal Dottor della Morte e finito il pasto, si ritirò in camera, per il riposo pomeridiano.  Un'altra giornata di lavoro era finita. Ora, per qualche ora, era libera.

Libera di fare la lavatrice, stendere, stirare, spazzare, andare a trovare i parenti malati e preparare la cena. Queste erano le sue ore ricreative. Suo figlio non era particolarmente utile, in casa. E nemmeno fuori. A volte si rendeva conto che non l'aveva particolarmente svezzato: e con le sue costanti premure, attenzioni e preoccupazioni non l'aveva nemmeno particolarmente spinto ad autonomizzarsi. Ma era più forte di lei. Il suo istinto materno prendeva il sopravvento, unitamente ad un indefinito senso di colpa, che la induceva a una compensazione nel prendersi cura di lui.

Il suo affetto superava la delusione di avere un simile figlio. Anche questo sentimento di delusione, che percepiva come indegno di una madre, rinforzava il suo senso di colpa. Una madre doveva comprendere la debolezza o la stranezza di un figlio, se quella era la sua natura. Le potenzialità inespresse, non concretizzate, non applicate di cui era portatore, da una parte la consolavano, dall'altra rendevano la situazione ancora più amara: quel che sarebbe potuto diventare, e non era! Un cittadino rispettabile, una persona attiva e indipendente – queste ardite vette sognava, o aveva sognato, per lui. E invece al mondo non poteva che offrire questo figlio ripiegato su stesso.

E un po' se ne vergognava. Per poi vergognarsi della propria vergogna. Aveva così tante qualità!

Da qualche parte, dentro di lui. Frugando. Certamente c'erano.

Come sarebbe vissuto senza di lei? Perché quel figlio non prendeva atto dell'angoscia che provocava con la sua inconcludenza e non reagiva per risolverla? Non era giusto che anche di lei ci si prendesse cura?  Ma non accadeva.

Era stata una ribelle, in gioventù, in relazione al suo contesto: la qual cosa significa che non aveva dovuto sforzarsi molto per esserlo, data la natura religiosa, pia e bigotta del suo ambiente originario.

Difatti, non le era in seguito costato molto tornare indietro e adeguarsi alla figura della donna tradizionale che dona tutta se stessa alla famiglia, impavida e ineluttabile, nonostante tutte le delusioni, le mancanze, le frustrazioni. Nonostante tutto, quella matrice le era dentro.

Lei era come un organismo estremofilo, una tardigrada, un orso delle acque, in grado di resistere dieci anni senza bere, in grado di resistere al freddo estremo: la qual cosa era provvidenziale, perché il calore dell'affetto non sembrava qualcosa che i suoi familiari erano in grado di fornirle, darle, portarle, consegnarle, regalarle.

E ora era sparito anche suo marito.

 

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Il dottore della Morte

26 Marzo 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Un'altra giornata. Addensata di plumbeo. La finestra irradiava solo grigio.

Sembrava di vivere sotto strati di sporco, polvere, smog e pioggia nera coagulata.

Si liberò in qualche modo, e suo malgrado, dai tentacoli del sonno, ed emerse dal piacevole bacino dell'oblìo.

Preparò il pranzo per sua madre. Ella tornò a pomeriggio inoltrato. Aveva ormai perso conto dei suoi anni, probabilmente volontariamente. Secondo leggi ormai antiche, e altrettanto incrostate di sporco, polvere, smog e pioggia nera, sarebbe dovuta essere in pensione da lustri. Ma non funzionava più così. Si poteva andare in pensione solo un paio di anni dopo il decesso. Difatti, attualmente i contributi si pagavano anche dalla tomba, attraverso la propria decomposizione.

Utilizzavano l'energia liberata dal processo di dissolvimento, con essa si alimentavano gli uffici pubblici, i palazzi governativi, e il sovrappiù era venduto dallo stato sul mercato libero dell'energia. Il ricavato e il risparmiato andavano, forse, a mitigare il debito pubblico, e di certo nella compravendita d'armi e negli appalti gonfiati di milioni. Il cittadino doveva donare se stesso alla comunità, e doveva farlo con generosità e partecipazione – anche da morto. In effetti, lo stato era diventato così zelante nel procurarsi nuovi cadaveri da drenare, che tendeva a seppellirli persino prima del tempo: era conveniente.

Ecco perché alcune famiglie facevano installare telecamere e strumenti di comunicazione nelle bare, nel caso si scoprisse che in realtà il caro defunto fosse ancora vivo. A loro era capitato.

Videro una prozia muoversi attraverso lo schermo sulla lapide. La tirarono fuori e le diedero un tè.

Madre stava consumando il suo pasto, quando suonò il campanello. Coincidentalmente, era il Dottore della Morte. Ogni tanto passava.

«Come si sente oggi, signora?»

«Meglio di quel che lei spera, immagino»

«Orsù, faccio solo il mio lavoro, signora, non la prenda sul personale. È sicura di essere ancora viva?»

«Proprio sicura no – dato che per certo sono stanca morta. Ma nel dubbio rimanderei la sepoltura»                                                                                                                                          

«Ci pensi bene, sono arrivate delle nuove bare che sono uno splendore, gliel'assicuro, e siamo in periodo di saldi»                                                                                                                         

«Sembra allettante»                                                                                                                        

«Può dirlo forte. Ne ho fatta provare una alla signora del piano di sopra e ne è rimasta entusiasta»  

«Capisco. Mi lasci il catalogo.»

Voleva intervenire per confermare che sua madre non era ancora morta, ma era troppo timido e titubante. Inoltre, sapeva bene che il Dottore della Morte gli avrebbe risposto che quella del cadavere parlante era una sindrome certificata dall'Organizzazione Galattica della Sanità, e quindi non provava niente. Ora le auscultava il battito con lo stetoscopio elettronico.

«Io non sento niente»

«Faccia provare a me» disse Madre, prendendogli gli auricolari.

«Non sento niente nemmeno io. Devo proprio essere morta»

Lui si fece finalmente avanti e premette un pulsante sullo strumento.

«Prova ora, madre»

«Oh. Ora va meglio. Mi sento. Un vero sollievo. Per un attimo avevo davvero creduto di essere morta.»

«Bel tentativo, dottore» disse lui rivolgendosi al medico, superando con difficoltà la propria introversione.

«Oh, che sbadato» rispose il Dottore della Morte con una risatina un po' imbarazzata.

Ma non troppo.

 

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Il gigante di smeraldo e La Storia di Pyotr Arlanovich

24 Marzo 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Il Gigante di Smeraldo

 

Lentamente, gocce dalle vaste foglie tropicali convergevano.

Gradualmente, una forma da esse nutrita cresceva

 

- il gigante di smeraldo.

 

 

La Storia di Pyotr Arlanovich.

 

Nacque nella casa colonica dei nonni materni, nella stanza in cui si diceva avesse per una notte riposato il principe di Metis, sceso in Stivalonia per guidare le truppe gioviane sull'Altopiano delle Sette Supernova, durante la prima Guerra Astrale.

Visse qualche mese lì, poi un anno e mezzo nella casa dei nonni paterni. In seguito si trasferirono nella cittadina di Sciame d'Asteroidi, in via Matilda Maggio.

Era appassionato di allevamento di girini, a causa del quale il suo cane si suicidò gettandosi sotto ad una macchina, sentendosi trascurato.

Sviluppò un interesse per la scienza e per il conflitto con l'autorità paterna, che aveva cromosomi Imperialisti maligni nel sangue. A scuola era distratto, a parte momentanei sprazzi di lucidità in cui stupiva qualche insegnante con intuizioni risolutive sfuggite al docente stesso. Era anche esperto nell'infrangere sogni altrui, come dimostrò durante il Caso dei Triangoli d'Oro, in cui il club di giovani scienziati locali aveva stabilito che, per un mistero insondabile, sommando quattro particolari triangoli rettangoli per formare un parallelogrammo, si otteneva un'area maggiorata tale che stavano cominciando a sfregarsi le mani pensando di applicare il trucco a materiale aureo – ma lui dimostrò loro l'amara fallacia dei loro calcoli. O forse era unendo due triangoli e due trapezi. Ad ogni modo, non importa.

In età adulta la sua maggiore ambizione era subire un incidente sul lavoro, cosa verso cui si adoperava in tutti i modi, in ciò molto aiutato dagli incarichi commissionati dalla fabbrica che l'aveva assunto, la Cometh, sita a Sanobiwan, e dall'ambiente di lavoro da essa fornitogli.

Alcune notevoli esperienze furono: strisciare immerso in polvere di ferro lungo una trave sospesa a diversi metri dal pavimento, con fili scoperti fulminanti mezzo metro sopra di lui.

Poi c'erano vasche alte un metro, piene di acido, e lui e il suo compare dovevano tirare fili sopra di esse, appendendosi e appigliandosi ovunque possibile. Il mestiere era il suo pericolo.

In un'altra occasione lo misero per così dire in castigo per aver partecipato ad una vertenza sindacale. Per un periodo fu incaricato di fare i raggi X a delle tubature, come forma di controllo qualità, e per evitare le radiazioni dovevano attivare il macchinario e poi spostarsi celermente nella gabbia di piombo a ripararsi, con un contatore Geiger per controllare i livelli di radioattività. Poi sarebbe dovuto andare a lavorare nella nuova sede, la Second Cometh, appena costruita, ma si licenziò prima che accadesse. Poco prima avevano assunto un nuovo elettricista, per sostituire un altro sottrattosi allo sterminio, o forse a sua volta caduto e scioltosi in una vasca d'acido, e insieme lasciarono il lavoro e formarono una società. Ma non prima di aver passato una settimana in ospedale in seguito a un incidente - uno scoppio in faccia lavorando sulla linea, una pinza che si stava fondendo, diventando incandescente, a causa di un inappropriato contatto tra fasi. Il bagliore fu talmente forte che non vedeva più niente, e rimase accecato per un paio di giorni.

Gli infortuni erano pressoché quotidiani.

In una occasione morirono tre operai in un solo giorno, alla Happy Factory.

Pyotr, inoltre, preparò l'impianto elettrico per la sede dell'Istituto Sottocromosomico della Città di Ciubecca, con momenti di grande acrobazia circense, sospeso fuori dal quinto piano su una tavola appoggiata in un angolo tra un paio di davanzali perpendicolari.

Diventò quindi un Condivisionista Universale. Il proletariato galattico doveva ribellarsi all'oppressione della borghesia interstellare, quando i tempi sarebbero stati maturi e sarebbero caduti come frutti dall'albero della storia. Così aveva predetto il profeta scienziato Karl Mars, dal pianeta rosso.

Svariati anni dopo, il giorno prima che venisse spiaccicato qualche manifestante all'infame e infausto Summit del Grand Guignol 8, convegno tra i presidenti dei pianeti del sistema solare, cadde in bicicletta e traumatizzò le proprie chiapposità.

Si gonfiarono eminentemente. Fece cinque sedute in ospedale per drenare via il siero, il liquido che s'era formato tumefacendolo posteriormente. Nella sua mente, il personale ospedaliero pensava lui fosse un reduce del Grand Guignol 8, che, tornato a casa dopo il pestaggio, non si era recato nell'ospedale della città del vertice, per non essere piantonato dalle forze dell'ordine, le quali peraltro avrebbero senz'altro pensato, data la sua novella voluminosità, stesse nascondendo qualcosa nel didietro – una spranga quantistica, una catapulta molecolare, un fucile laser. Ma stiamo forse divagando con un aneddoto non particolarmente fondamentale.

Circondato da questo vociferare, nella fabbrica dove lavorava fu licenziato a causa di uno sciopero che gli avevano imputato, e lui se ne andò. Salvo poi ricordarsi, qualche tempo dopo, che in effetti non aveva organizzato alcuno sciopero - ma era timido e non aveva voglia di farlo presente alla direzione. Diventò quindi un Eroe della Classe Proletaria, nomina per la quale non gli veniva però corrisposto alcuno stipendio – la qual cosa non era molto auspicabile. Divenne dunque un artigiano elettronico iscritto regolarmente all'Associazione, cosa che gli drenava un po' tutto in tasse – la qual cosa non era molto anelabile.

Di conseguenza, s'inabissò nelle turpi profondità del lavoro grigiastro, per quanto fosse pseudo-illegale, e non fosse molto consigliabile. Era un vero criminale.

Ma ciò non era abbastanza sedizioso. Il suo progetto era demolire l'Impero. Il suo scopo era soppiantarlo e instaurare un governo Condivisionista – l'ideologia osteggiata a cui si attribuivano miliardi di miliardi di vittime, che si paragonava all'Impero del Male, e che altri, invece, vedevano come l'unica soluzione dall'oppressione di tutti gli imperi.

 

Continua...

 

 

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