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racconto

LA PAURA di FEDERICO DE ROBERTO (1861 – 1927)

16 Agosto 2015 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto

LA PAURA di FEDERICO DE ROBERTO (1861 – 1927)

"Nell'orrore della guerra l'orrore della natura; la desolazione della Valgrebbana, le ferree scaglie del Montemolon, le cuti delle due Grise ... uno scenario da Sabba romantico, la porta dell'inferno".

L'inizio della novella, ambientata nel Primo Conflitto Mondiale, rivela in modo magistrale la sensazione di violento disagio dei soldati nelle inospitali zone di guerra. Il dramma della vicenda è accresciuto dalla sostanziale unità di tempo, luogo, azione.

I fatti si svolgono in una postazione italiana mal difesa, ma ritenuta cruciale dai Comandi. Bisogna che una vedetta stazioni regolarmente in un punto poco protetto da dove si possono osservare gli eventuali movimenti degli austriaci. Tutto è tranquillo finché un implacabile tiratore inizia a sparare, uccidendo la sentinella. Secondo gli ordini ricevuti, il tenente Alfani deve far uscire un altro uomo. Il cecchino colpisce ancora efficacemente. Un altro deve allora prendere il posto del caduto. Passano davanti all’ufficiale soldati provenienti da mezza Italia; ciascuno è inquadrato nella sua specificità regionale attraverso la parlata. De Roberto, nato a Napoli e vissuto principalmente in Sicilia, si fece aiutare per il lato linguistico da amici di altre regioni.

Alfani vede cadere altri dei suoi; ma l'ordine è chiaro e viene ribadito dai superiori. La postazione deve essere presidiata a tutti i costi, nonostante sembri tragicamente inutile. La sofferenza e lo strazio raggiungono il loro apice quando un soldato, prima di andare allo scoperto, chiede di parlare col cappellano che però non c’è. Qui c'è un punto molto intenso; il tenente si sente tenuto a fare non solo da superiore, ma anche da confessore e confidente nel momento in cui la morte del subordinato è vicina. Nelle piccole unità, in effetti, il rapporto tra truppa e graduati era molto forte.

Alfani capisce la paura dei suoi uomini; non si tratta di combattere e rischiare come hanno sempre fatto, guadagnandosi encomi e medaglie. La minaccia non è imprecisata; non viene da una pallottola che può colpire o no. Qui si tratta di subire una fine certa, una morte che sta acquattata e pronta subdolamente a ghermire. Questo il soldato non può accettarlo e il coraggio non basta: lo sforzo anche fisico di affrontare il pericolo fatale richiede una capacità sovrumana. De Roberto è davvero profondo nel cogliere gli aspetti psicologici della guerra e delle relazioni gerarchiche. In un contesto militare l'obbedienza è dovuta. Senza di essa il sistema “salta”. Ma si deve obbedire anche a un ordine stupido o insensato? Spesso i superiori non hanno lo sguardo sulla realtà più prossima all’azione e non tollerano obiezioni dal basso da chi vede i limiti di certe direttive. All'ordine deve seguire l'obbedienza senza discutere, se non altro per tutelare l'aspetto formale dell'obbedienza e non creare un pericoloso precedente di rifiuto. E così nella novella la catena delle morti inevitabili prosegue perché pure il cecchino fa il suo dovere. All'autore de I Vicerè, che non prese parte al conflitto, va il merito di aver colto, da scrittore, alcuni nodi importanti della tragedia della Grande Guerra che fu in varie occasioni una tragedia legata al dovere di obbedire.

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Il mio primo e unico furto (fuori casa)

5 Luglio 2015 , Scritto da Paolo Mantioni Con tag #paolo mantioni, #racconto

Il mio primo e unico furto (fuori casa)

All’epoca eravamo un gruppo di monelli tra i dodici e i quattordici anni. Passavamo il tempo tra giochi infantili – nascondino (da noi chiamata nascondarella), partite di pallone, e altre simil cose – e occupazioni più smaliziate – partite di poker nel garage momentaneamente libero d’uno di noi; chiacchierate indolenti seduti sul muretto della chiesa o tra i tavoli del piccolo bar dei paraggi, a dispetto della non sempre contenuta irritazione del proprietario, che vedeva i suoi tavoli occupati per molte ore a fronte di poche e povere consumazioni; sigarette fumate tra le dunette di un campetto circostante ai limiti del nostro territorio e da noi chiamato “I monticelli”, e altre simil cose. Eravamo un gruppo di monelli ognuno dei quali aveva un che da fuggire in casa propria. Chi altri quattro o cinque tra fratelli e sorelle ingombranti, chiassosi e tendenzialmente prevaricatori, impegnati a costruire e mantenere una gerarchia della quale facevano le spese i minori, magari a petto d’un padre ubriaco se allegro o ingrugnito se sobrio; chi fuggiva invece dubbie reputazioni di madri o sorelle, troppo spigliate o simpatiche, pagando il fio di una colpa non sua e risarcendo qualcuno di noi dell’ospitalità con saltuarie e non del tutto impegnative prestazioni omosessuali; chi fuggiva l’onta di genitori separati: oggi si stenterebbe a crederlo, ma allora un padre non morto o non emigrato o non carcerato che non vivesse in casa era un mistero che rendeva i figli bisognosi di comprensione e sempre a rischio d’esclusione; chi, più semplicemente, fuggiva le botte dirette su di sé o indirette sulla madre d’un padre perennemente sbronzo – fotocopia sputata del Ferribotte dei Soliti ignoti - che sostentava la famiglia e la sua macchina sportiva guardando lavorare moglie e figlio nel lucroso negozio di casalinghi e servizi vari. Io per la verità non ricordo cosa fuggissi o se avessi qualcosa da fuggire: madre e parenti mi volevano bene, mi stimavano, mi ritenevano in rampa di lancio per un profittevole futuro, ero riflessivo, educato, preoccupato; soffrivo un po’, forse, dell’indifferenza arrogante d’un fratello troppo maggiore d’età e già impegnato in attività cui non potevo partecipare: insomma nulla di veramente serio. Eravamo un gruppo di monelli che s’aggirava o sostava su un territorio circoscritto che comprendeva le case d’ognuno di noi, la scuola, la chiesa, il bar, i “Monticelli”: questo era il cerchio spaziale. Il cerchio ideale che costituivamo era altrettanto reale, sebbene duttile e permeabile sia in entrata che in uscita. Eravamo un gruppo di monelli e in mezzo a noi capitava talvolta un ragazzo un po’ più grande, di pochi mesi da alcuni, di un anno o poco più da altri. Un ragazzo di esperienza e di prestigio. Per l’una faceva fede il suo lavoro fisso – barista al bar del mercatino rionale, ben distante dal nostro territorio – per l’altro un fratello in carcere, che se non era proprio il famoso bandito era comunque oggetto di suggestione e soggezione. Eravamo un gruppo di monelli e un ragazzo d’esperienza e prestigio saltuariamente ospite del nostro circolo ognuno con un nome. Mi correrebbe l’obbligo di indicarlo, di chiamare con il loro nome o con un nome fittizio questi personaggi (me compreso). Ma l’una o l’altra cosa mi risultano difficili. Se li indicassi con il loro vero nome, temo, nel caso improbabile vengano a conoscenza di queste righe, che possano urtarsi, possano rivendicare d’aver visto le cose in maniera diversa, o che non gradiscano vedersi imprigionati in una verità parziale, com’è, e come non può essere altrimenti, una verità. Se usassi nomi fittizi e mi consegnassi, come sarebbe giusto, a tutte le prerogative del fare letteratura, mi sembrerebbe quasi di tradirli, di svellere da loro una parte della loro verità. Un residuo, forse, del pensiero magico che contesta l’assoluta convenzionalità di parola e cosa, nome e persona. Del resto, però, chiamarsi Giovanni o Kevin o Goffredo, oppure Concetta, Sharon o Lucrezia, converrete con me, non è la stessa cosa, soprattutto quando si è ancora in tenera età, quando la personalità è ancora una nebulosa di opportunità. Ma in questa constatazione c’è poco di magico: qui entrano in corte la Storia, la Sociologia con gli spregevoli cortigiani dell’autocompiacimento e dell’intellettualismo. Eravamo un gruppo di monelli e un ragazzo ospite e ci chiamavamo, alla rinfusa, Gianni, Paolo, Daniele, Stefano (due occorrenze), Giorgio, Massimo, Giancarlo; nessun Goffredo, nessun Sigismondo, nessun Manfredi e nemmeno un più spendibile Riccardo; per la verità non c’erano nemmeno Carmeli o Concetti o Santini. Il ragazzo ospite aveva una per noi stupefacente disponibilità economica che gli permetteva d’aprire giornalmente il suo pacchetto di Marlboro morbide (soft), che, quasi snobisticamente, ripagavano della minor praticità della confezione rispetto alla Marlboro dure (box) con una leggera maggior lunghezza e un gusto più pieno. Poteva consumare al bar e fare il gesto che alcuni di noi sognavano la notte: infilare la mano in tasca, trarne una manciata di monete e trascegliere tra queste quelle da consegnare al cassiere. Intendiamoci, noi gruppo di monelli, avevamo disponibilità economiche personali superiori a quelle dei Goffredo - che magari avrebbe potuto possedere e giocare con una pista a quattro corsie, due ponti e un giro della morte, ma non avrebbe potuto decidere d’andarsi a prendere un gelato - o dei Concetto, ma dovevamo pur sempre contare mentalmente le 500 lire per il cinema o le 250 da mettere insieme per le MS da 10. E se riuscivamo a mettere insieme ognun per sé le 2500 lire per la piscina – avendo il mare a poche centinaia di metri, ovviamente agognavamo d’andare nella piscina inaugurata di fresco, come una grande novità – non potevamo certo dire, come faceva il ragazzo talvolta ospite, “dai, un biglietto ve lo pago io”. La letteratura non ha solo il sacro e santo, fumoso e controverso compito di dire la verità, ma, assieme ad altri ancora, anche quello di mostrare agli Stefano, ai Goffredo e ai Concetto che il mondo è un prisma cangiante e che se ci si riduce ad una striminzita figurina – foss’anche nudo su un panfilo a largo o in costume da bagno a bordo piscina o in mutande bianche su una spiaggia libera – se ne perde gran parte del gusto. Il ragazzo ospite aveva anche il privilegio di lasciare, purché non glielo richiedessimo esplicitamente, gli ultimi due tiri o addirittura l’intera mezza sigaretta a qualcuno di noi che lui opzionava a caso o secondo sue imperscrutabili elucubrazioni. Caso e elucubrazioni insollecitabili, pena l’evaporare della possibilità. Il ragazzo ospite aveva disponibilità economiche per noi fantasmagoriche perché lavorava, perché a fine mattinata poteva portarsi via le mance e perché rubava. Era specializzato nel furto delle autoradio dalle macchine in sosta. Come poi trasformasse l’aggeggio in monete e banconote, ovvero l’esistenza di ricettatori o committenti, era per noi gruppo di monelli un mistero che rendeva il ragazzo ospite ancora più affascinante e soggiogante. Come invece svolgesse concretamente l’operazione, anziché limitarsi a raccontarcelo, decise, colta una circostanza favorevole, di mostrarcelo. In un’aula a cielo aperto il ragazzo ospite tenne un seminario di ladroneria. In uno spiazzo poco lontano dalla spiaggia, un assistente del professore – l’inconsapevole e malcapitato proprietario – aveva depositato una Cinquecento gialla con la cappotta apribile di cotone plastificato. Il ragazzo ospite ci fece dapprima notare che non aveva gli ammortizzatori abbassati, quindi non poteva appartenere a qualcuno che, informandosi in giro, avrebbe potuto scoprire l’autore (o gli autori?) del misfatto. Poi estrasse dalle tasche i ferri del mestiere, un coltellino e un rampino (che altro non era che un’antenna da autoradio, appunto), che spiegò sotto i nostri occhi. (Ah, che meravigliosa storia è compresa tra il rampino del secentesco Cavalier Marino e quello del ragazzo ospite). Sbirciò dal finestrino, si girò di nuovo verso i suoi pigolanti allievi e disse, con l’aria di chi la sa lunga, “c’è l’impianto, ma lo stereo non c’è”. Pensammo (o forse sperammo) che fosse suonata la campanella e che la lezione sarebbe stata rimandata ad altra data o a mai più; invece, dopo aver studiato le nostre estatiche espressioni, dopo aver di nuovo maliziosamente sorriso, “sti coglioni tante volte lo mettono sotto il sedile” aggiunse. D’un sol colpo di coltellino disegnò uno squarcio a forma di 7 sulla cappotta, infilò il rampino, sollevò il pomello di chiusura dello sportello, controllò sotto entrambi i sedili, scassinò, per sicurezza, e già che c’era, il vanetto portaoggetti, il tutto in non più di cinque o sei secondi, ma lo stereo non c’era per davvero. Evidentemente il coglione, sordo alle derisioni dei cabarettisti, se l’era portato dietro e ora passeggiava per mano alla fidanzata tenendo nell’altra il suo stereo in sicurezza. E noi gruppo di monelli fummo sollevati dall’idea che in fondo, mancando il bottino, non avevamo partecipato ad un furto, eravamo ancora vergini, per così dire. Il ragazzo ospite non se la prese più di tanto: uno squarcio in più o in meno non avrebbe influito più di tanto sulla sua esecranda carriera.

Cionondimeno quella lezione ebbe i suoi frutti. In una bella sera d’estate, ridotto momentaneamente il gruppo di monelli a una coppia, passeggiavamo per una delle nostre strade senza marciapiede e superavamo macchine in sosta alla nostra destra. Notai, notò, notammo una Seicento nera (se mal non ricordo) con il finestrino completamente aperto: non ci sarebbe stato bisogno né di coltellino né di rampino. Proseguimmo per un po’ senza parlarne, solo guardandoci, poi feci, fece, facemmo un’inversione a U e ripassammo di fianco alle lamiere tentatrici. Non c’era nessuno stereo, ma c’era in bella evidenza sul cruscotto un pacchetto di sigarette Astor morbide, involucro marrone, cammeo all’inglese proprio al centro, che aveva tutta l’aria di essere pressoché intonso. Al terzo passeggio presi, prese, prendemmo la decisione: il mio buon amico, poco più grande, più risoluto e, diciamolo francamente, più bello di me, protese il braccio nell’abitacolo e senza nemmeno aprire lo sportello, arpionò l’agognato pacchetto di sigarette. Cominciammo a correre a perdifiato, svoltammo subito a destra su una stradina laterale meno illuminata e più stretta e non ci fermammo fino a quando gli immaginati giustizieri con bastoni e forconi avrebbero esaurito l’ultima stilla d’energia. Io e il mio buon amico ci eravamo sverginati, per così dire. Come si evince dal titolo di questo pezzo letterario e, per chi fosse interessato, dal mio casellario giudiziale, io interruppi lì la mia carriera: troppa paura, troppa preoccupazione di far soffrire la mamma, di deludere i parenti. Il mio buon amico invece perseverò con conseguenze, che il fallace e lungimirante, a volta a volta lungimirante e fallace, senso comune, considererebbe disastrose. Il mio buon amico agì secondo il fallace e lungimirante detto “chi non risica non rosica”, io secondo l’altrettanto fallace e lungimirante “male non fare paura non avere”.

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Laboratorio di Narrativa: Mari Nerocumi

27 Giugno 2015 , Scritto da Mari Nerocumi Con tag #mari nerocumi, #racconto, #Laboratorio di Narrativa, #ida verrei, #poli patrizia

Laboratorio di Narrativa: Mari Nerocumi

Monologo, dialogo, flusso di coscienza: sofisticate strategie narrative attraverso le quali l’autrice ricostruisce la storia dolente di una donna. Un cerchio che si apre e si chiude sulle stesse parole, su un nome che riporta al passato. Un loop fra ciò che è e ciò che è stato, dove tre donne e un uomo si muovono attraverso dialoghi serrati, riannodando il filo della memoria per ricostruire la trama. Queste quattro persone sono “Le variabili del cerchio” di Mari Nerocumi: Delphine, malata di cancro, Roxane, sua ex compagna, David, fratello dell’una e marito dell’altra, Cécile, madre di Delphine, moribonda in un letto d’ospedale. Un cerchio fatto di omosessualità, di famiglia, soprattutto di affetti intrecciati e intersecati.

L’amica “speciale” di un passato ormai lontano, l’eterno senso di abbandono che accompagna ricordi dolce-amari, una verità mai svelata e poi, l’ultima beffa della vita, la scoperta della malattia. È questo che e convince Delphine, la protagonista, a riprendere la ricerca di una madre mai conosciuta e, nella scoperta del segreto rivelato, ritrovare la vita che proprio la madre morente ancora una volta le regala. Delphine rintraccia Cécile quando sembra essere troppo tardi, quando è in procinto di pederla ma, invece, tardi non è, perché proprio questa donna che per salvarla ha rinunciato a lei, sta per offrirle nuovamente se stessa con una donazione di organi.

Qullo che colpisce Delphine, più che la possibilità di salvezza insperata, è l’idea di essere stata burattino sul palcoscenico, manovrato a sua insaputa da Cécile prima e da David e Roxane poi, essere stata, appunto, “variabile del cerchio”. “È come se non avessi mai vissuto la mia vita, è come se mi fosse stata negata la capacità di scegliere e agire.” Ma anche lei, anche Delphine, mente sulla malattia, e il gioco del non detto si moltiplica come in un labirinto di specchi.

È forse la figura della madre il punto debole del racconto. Una “madre-eroina” disposta a rinunciare alla figlia per preservarla dalla violenza di un padre aggressivo e pericoloso, è in verità, oggi, poco probabile. L’abbandono, il distacco, appare piuttosto come la scelta di una donna debole, incapace di ribellarsi e di costruirsi un’ esistenza autonoma, lontana dal dominio maschile, libera con la propria creatura. L’altro punto è, forse, il non aver saputo ben integrare l’interessante antefatto del collegio - con la ribellione saffica delle due ragazze - al resto della storia.

È un racconto scritto con grande delicatezza di linguaggio, ma anche con forza, con un ritmo serrato che arricchisce tutta la narrazione di pathos. Lo stile è molto pulito e questo, al giorno d’oggi, è già tanto.

Patrizia Poli e Ida Verrei

Le variabili del cerchio

Mari Nerocumi

Nel buio della stanza d'ospedale le parole della donna risuonano come un’eco interminabile.

D’impulso le chiedo come si chiama.

–Renée, ma il mese prossimo sarò Suor Teresa.

Un tuffo al cuore mi porta su una giostra irrefrenabile mentre la mente cerca di rallentare, ha paura dei vari buchi in cui può incappare, sparsi qua e là.

Uno di questi è proprio il nome della suora cui mi affidasti ancora prima che nascessi. I ricordi mi riportano alla disperazione di due mesi fa, quando ho saputo della malattia e ai tentativi fatti per accettarla. Mi sono illusa di recuperare la mia dignità mantenendo un segreto bugiardo. Un altro buco in cui sono inciampata. Per accettare quello che mi stava succedendo, sono arrivata persino a registrare la mia voce, nel tentativo di acquisire quelle poche sicurezze che ora tu, immobile in questo letto, stai demolendo a una velocità insostenibile.

Ma sei stupida!– mi urla il cuore ora – Quale altro segno dovevi ancora darmi? Seduta, con le braccia conserte, avverto il tumulto dal di dentro. Come ho fatto a non capire?

Sono diventata così cieca da non comprendere che stai morendo per me, per darmi nuovamente la vita.

Affondo la faccia nelle mie lacrime, ma stavolta non hanno a che fare con la disperazione: è il tuo amore che mi assale. Sfinita mi arrendo e scelgo finalmente di credere che tutto questo non sia frutto del caso. Accasciata sul tuo corpo mi addormento mamma, ora che so che non voglio più lasciarti e che tu, non mi lascerai più.

–Ho bisogno di tornare a Le Mans e vorrei che tu venissi con me. È un favore che ti chiedo!

–Le Mans?...Ma come ti salta in mente, tornare lì è da pazzi, dopo tutto quello che abbiamo passato.

Non contare su di me. Io ho deciso di metterci una pietra sopra.

–Io no, Roxane, non posso –

Sento la vita che mi sfugge dalle mani e mi sembra l’unica alternativa alla pazzia.

Ho mentito a me stessa troppo a lungo e ora è arrivato il momento di fare ordine.

–Perché? Non capisco. Sono anni che ci vediamo solo per le feste comandate, raramente affrontiamo discorsi diversi da che tempo fa oggi e dal nulla mi chiedi un favore così grande.

Mi stai nascondendo qualcosa … Cosa ti avrà riportato a quel periodo?

–È vero, è strano che io lo chieda proprio a te.

–Soprattutto dopo quello che è successo. Era questo che stavi per dire?

–Roxane, in ballo c'è la nostra amicizia. Non conta niente che te lo chieda io?

–La nostra amicizia? La nostra storia la chiami… “amicizia”? Ma ti ricordi come sono andate le cose? Come ci siamo lasciate te lo ricordi?

–Non volevo riferirmi a questo.

–Che mi hai lasciato per un uomo, lo ricordi?

Sembra tu stia parlando di un’altra persona e di un’altra vita.

– A quel tempo eravamo molto confuse.

– No, tu eri quella confusa.

– Sì io ero molto confusa. Ero un’adolescente con le idee poco chiare sulla propria sessualità, in un collegio di sole donne ...

–Che faccia tosta … Continui a infierire?

–Ma se David me l'hai presentato proprio tu.

–Non mettere in mezzo mio fratello!

–Ma è possibile che dopo tanti anni ce l’hai ancora con me? Hai la tua vita adesso e pensi ancora a quello che è successo tra noi?

–Alcune delusioni sono difficili da superare e basta!

–Lo vedo.

–E poi… Eravamo confuse, lo so, ma nonostante tutto una parte di me l’ho lasciata in quel collegio e certe volte provo ancora nostalgia.

– Già, è vero, allora ci torni con me? Voglio liberarmi dai rimpianti una volta per tutte.

– Che intendi? C’entra ancora la ricerca di tua madre?

Era questo che mi nascondevi?

– Sì, è così. Ma c'è dell'altro. Il Saint Julien è stato il luogo che ha visto le nostre menti in subbuglio, io con la mia ansia, tu con i tuoi complessi, dare una svolta significativa ai falsi perbenismi e moralismi che imperavano chissà da quando. Siamo state capaci di smontare i castelli di conformismo che ci circondavano, abbiamo seminato perenne agitazione in quel convento.

– Ricordo come sbiancavano le suore quando sentivano odore di guai, la nostra unione sfidava la loro legge naturale e più si sentivano minacciate e più ci divertivamo.

– E ti ricordi il periodo in cui volevano tenerci a distanza? Suor Celine dopo la predica serale ci chiudeva a chiave ognuna nella sua cella di punizione. Rimanevamo l’intera notte sveglie a parlare e il muro che ci divideva diventava invisibile.

– Tutto diventava una sfida! Il Saint Julien è stato il nostro castello incantato.

– In quel periodo solo grazie a te sono riuscita a cambiare ciò che ero, facendo spazio alla parte migliore di me ma mi sono illusa di aver finalmente cancellato tutte le mie angosce.

– Già, e poi …

– Avevamo fatto un patto, ricordi?

Lo sapevo che tiravi fuori il patto.

No.

– Ci siamo impegnate a rimanere sempre legate. E invece cosa abbiamo fatto? Cosa ne è stato delle ragazze del Saint Julien, dove sono state nascoste per tutti questi anni?

– Abbiamo semplicemente smesso di fare la guerra. Eravamo delle ragazzine, Delphine!

– Abbiamo smesso di sognare, Roxane.

I portici del Saint Julien erano la nostra finestra sul mondo. Lo squarcio di cielo che accoglieva quel chiostro era il nostro sguardo rivolto alla libertà. Quelle mura se potessero parlare scriverebbero poemi di solitudini sconfinate.

– Ma tutto questo è successo prima della nostra storia.

Lo sapevo che mi facevi piangere.

– Perché non recuperiamo quello spirito tornando lì? Non ho altra scelta Roxane, sento che solo tu mi puoi stare accanto in questa che potrebbe essere la mia ultima sfida

– Ma cosa dirai a David? E ai ragazzi? Come giustificherai la tua assenza ai tuoi corsisti?

E poi hai già provato tempo fa a cercare tua madre e i risultati non sono stati così incoraggianti. Non vorrei che rimanessi di nuovo male.

– Ora più che mai devo trovarla e la troverò.

Non ho pensato ancora bene cosa dire a David, vorrei raccontargli la verità mezza verità, come sto facendo con te vorrei che sapesse che ritorniamo Le Mans, io e te per fare una gita in nome dei vecchi tempi e per ritrovare… mia madre.

Avevo dimenticato l’effetto che mi fai, sei vento leggero che mi accarezza la faccia e che mi fa respirare aria pulita dopo la pioggia.

Avevo dimenticato quanto senso pratico avesse Roxane.

I suoi bagagli sono già pronti in macchina quando bussa alla porta.

Scende David ad aprirle. Li osservo dalle scale, si abbracciano con una strana aria negli occhi...come se sapessero qualcosa che non so.

Faccio per scendere, ne voglio capire di più, ma Matt ha bisogno di me, prima di partire.

Matt ha la mia stessa sensibilità di quando ero bambina e sono sicura che la mia partenza lo rattrista parecchio.

Ricordo come mi sono sentita quando Suor Teresa se n’è andata. Sono rimasta settimane senza scambiare una parola con nessuno e temo che anche Matt possa provare le stesse sensazioni per poi rinchiudersi in se stesso. Al mio ritorno spero di avere ancora occasioni per farmi perdonare per questa ed altre mille mancanze.

Forte è la spinta che mi impedisce la resa e ora come ora non ho la possibilità di tornare indietro.

Forte è il bisogno di cercare quella parte di me che mi è sempre mancata. Ma forte è anche l’ansia che mi assale...

Chi cerco a Le Mans adesso che è passato così tanto tempo?

Chi troverò? Qualcuno che ha il mio stesso sangue? Una madre affettuosa disposta a starmi vicino? Mi sento stupida ed egoista a pormi queste domande, forse è l'istinto di sopravvivenza di chi è malato mi rispondo. E se non vivesse più a Le Mans?

Di lei so che mi ha negato il suo affetto, la sua presenza, ma ora che sto male non può più continuare a ignorarmi né posso continuare a ignorarla io.

– Pronta?

– Sì eccomi...

– Povero cucciolo, te la riporterò presto quest'impiastro di madre.

– Sì ma è l'unica madre che ho, risponde un po' imbronciato Matt.

L'unica madre che ho è la risposta di un figlio

– Mamma mi porti un profumo francese?

Non mi sorprende la richiesta di Becky che invece è contenta di liberarsi per un po' di me.

– Certo. Hai qualche preferenza?

– Sì voglio Chanel n.5, l’original, mi raccomando.

– Stai attento ai ragazzi.

– E tu starai attenta a te? – mi chiede David con la solita dolcezza.

Gli rispondo di sì con un sorriso, cercando di infondergli sicurezza, ma dal suo sguardo non ne traspare tanta.

Mi chiude lo sportello della macchina e vuole che apra il finestrino prima di andare, per sussurrarmi all'orecchio il suo ti amo.

Gli stringo la mano mentre con l’altra saluto i ragazzi seduti sugli scalini, sono tutto quello che ho, mi dico soffocando le lacrime per la paura di perderli.

Ci dirigiamo verso il porto e mi suona strano ora stare in macchina con Roxane. Guardo fuori dal finestrino e mi sento in imbarazzo, come se avessi il dovere di porgerle delle scuse ma non certo la volontà.

E nemmeno lei a quanto pare ha voglia di parlare, assorta in chissà quali pensieri, guida in silenzio, incurante di tutto ciò che la circonda.

A un certo punto il suo silenzio mi incuriosisce così tanto che mi dimentico del mio imbarazzo e sono io a voler rompere il ghiaccio.

– Tutto ok Roxane? Ci hai ripensato?

– No, al contrario... mi ci voleva un bel viaggio, certo non avrei mai pensato di farlo a Le Mans, ma avevo bisogno anch'io di staccare la spina.

– Era a questo che stavi pensando?

– Sì anche... un po' di cose messe assieme.

– Non mi hai detto come l'ha presa Anne.

– Beh la conosci no? La sua diffidenza è proverbiale e nemmeno questa volta si è smentita, dati i nostri precedenti.

– Dipende da cosa le hai raccontato.

– Dici?

– Sì dico.

– Lei pensa che la storia che abbiamo vissuto abbia ancora importanza per me.

Sono sicura che questo è quello che pensi tu

– E poi ci sono diverse cose che mi frullano in testa e soprattutto una che ancora non ti ho detto: Anne ha espresso il desiderio di avere un figlio e mi ha proposto di adottarne uno.

– Gesto coraggioso, è davvero ammirevole da parte vostra, e tu? Condividi il suo stesso entusiasmo?

– Ecco è proprio questo il nodo della questione, io non so se ho tutto questo coraggio. Diventare madre mi spaventa, sento che è un ruolo che non mi si addice.

– Forse dovresti dirlo ad Anne, dovresti parlarle chiaro.

L'arrivo al porto interrompe il nostro discorso. Il mio sguardo si perde all'orizzonte e mi lascio pervadere dall'odore salmastro del mare. Era da tempo che non ci venivo.

Il traghetto per Le Havre sta per partire per cui decidiamo di non tornare sull'argomento.

Ci affrettiamo a raggiungere la banchina per l'imbarco e mentre ci avviciniamo sento l'aria che mi accarezza la faccia e torno a quindici anni fa quando affrontai il viaggio di sola andata verso Portsmouth.

L'immaginazione mi riporta a quei momenti e mi restituisce una pace interiore che non pensavo di poter più provare. Quell'orizzonte era una nuova vita per me e avevo cercato di abbracciarlo in tutta la sua immensità.

– Una volta arrivate a La Havre, prenderemo un taxi per arrivare alla stazione, mi informa Roxane, interrompendo il percorso dei miei ricordi.

Realizzo solo ora che si è occupata del viaggio nei minimi dettagli, ricordandosi soprattutto che io non amo volare.

– Avremmo impiegato molto meno tempo con un volo aereo, le chiedo guardandola.

Lei sorride a occhi bassi.

– Grazie Roxane, le dico con il viso traboccante di sincerità, mentre riponiamo i bagagli nel vano.

Nel ringraziarla avverto la sensazione che aspettavo da quando ci eravamo messe in macchina. Lei mi guarda stavolta e sono io ora a sorriderle. La mia gratitudine è riuscita a rompere il velo che sembrava annebbiare la vista e impedire di guardarci negli occhi. L'imbarazzo di prima è svanito, ritrovo finalmente la persona cui avevo donato il mio cuore un tempo, una persona affidabile, a cui confidavo i miei pensieri più oscuri, che mi sapeva capire senza fare tante domande, ora so che il forte affetto che ci legava non si è mai spento. Sono contenta di averlo ritrovato, come lo è anche Roxane.

– Pronto? David, ci siamo appena imbarcate sul traghetto. Ho lasciato Delphine in bagno e sono corsa a chiamarti.

– Calmati, andrà tutto bene.

– Spiegami come? Non so se ce la faccio a resistere. Sono anni che le nascondiamo la verità. I sensi di colpa mi stanno divorando e non ho il coraggio di guardarla negli occhi. Non riesco a sopportare più questo peso che porto da quindici anni sulla coscienza.

– Ricordati che se abbiamo scelto di non dirle la verità è perché è stata sua madre a volerlo.

– E credi che questo basti a far tacere la mia coscienza?

– Ascolta Roxane, io non so perché Delphine abbia deciso dopo quindici anni di ritornare a Le Mans e ritrovare sua madre, ma se è quello che desidera noi non possiamo impedirglielo. Cécile mi ha fatto promettere di non dirglielo e cavolo si tratta di mia moglie! Non credere che non mi sia costato nasconderle la verità per tutti questi anni.

– Allora devi dirglielo, David! Io non posso continuare a vivere questa farsa,

mi sono tenuta alla larga apposta, ma nonostante questo lei è me che ha cercato per questo viaggio.

Ma come credi che reagirà quando saprà che la madre ha sacrificato la sua vita, il suo amore per tenerla lontana da un padre drogato e manesco e soprattutto che noi ne eravamo al corrente?

– Non lo so. Non riesco a immaginare quali possano essere le conseguenze.

Delphine è sempre stata così imprevedibile.

– Allora raggiungici. Ho la sensazione che il momento giusto sia arrivato e non si possa più rimandare. Se non vuoi dirglielo tu, glielo dico io.

– Roxane, non essere impulsiva. Va bene, prendo un volo e vi raggiungo alla stazione. Aspettatemi lì.

Delphine, spero solo tu ci possa perdonare.

Mi ricordo di lei come se la vedessi adesso...con le dita nelle grate del giardino del Saint Julien, quasi a volerle strappare...

ti osservava durante la ricreazione, gioiosa al vederti e così triste al lasciarti.

Spero non dubiterai della nostra buona fede, volevamo solo proteggerti e quando decidesti di venire a vivere a Portsmouth ci sembrò il momento meno opportuno per rivelarti una verità che si presentava così scomoda a tutti.

– David? Cosa ci fai qui? È successo qualcosa ai ragazzi?

– No, i ragazzi stanno bene. Li ho accompagnati dai nonni.

– E perché? Tu lo sapevi, Roxane?

– Beh…Sì, mi ha avvisato che avrebbe preso un volo per raggiungerci.

– Delphine devo parlarti…

– Io vi lascio da soli. Vi aspetto al caffè di fronte all'edicola.

– Ma come? Dove vai, Roxane?

– Delphine, vieni, troviamo un posto per sederci.

– Ma si può sapere cos’è tutto questo mistero?

– Nessun mistero, cara. O meglio, voglio che non ci siano più misteri sulla tua vita a Le Mans.

Ora che siamo qui scoprirai la verità, quella che cercavi quando ci siamo conosciuti. Non so come la prenderai e mi sento un codardo per non avertene mai parlato.

– Ma di che stai parlando?

– Quindici anni fa ero giovane e soprattutto innamorato perso di te. Avrei fatto qualsiasi cosa per proteggerti ed è quello che feci. In cuor mio sapevo di negarti un diritto ma l'istinto di proteggerti ebbe il sopravvento.

Delphine, quindici anni fa ho conosciuto tua madre e non te l'ho mai detto. Roxane è stata mia complice nel cercare informazioni su di lei dopo che mi riferì che il tentativo di rubare il tuo fascicolo personale era fallito. Ci servimmo di un investigatore privato che in poco tempo ci fornì le notizie che cercavamo. Scoprimmo che tua madre si chiamava… si chiama Cécile Le Blanc,

originaria di Nantes, e che abita nei pressi di Place de Jacobines. Rue Wibur Wright per la precisione.

– Cosa?

– Calmati Delphine, fammi finire.

Allora aveva quarantotto anni. La sua storia è molto diversa da quella che tu hai immaginato per anni. Quando bussammo alla sua porta ero arrabbiato quanto te, ma quando la vidi apparire all'uscio, senza che avesse ancora aperto bocca, sfumarono tutte le mie più agguerrite intenzioni.

Era una donna minuta e la somiglianza con te era incredibile. Il viso era scavato da una tensione perenne più che dal peso degli anni. Aveva i capelli del tuo stesso colore, raccolti alla nuca, ma ciò che tradiva più di tutto la somiglianza con te era la bellezza disarmante, di chi seduce senza rendersene conto. Forse era la sua perenne aria di tristezza ad aumentare il suo fascino.

Rimanemmo fermi e freddi sulla porta io e Roxane. Non fece cenno di farci entrare.

Capite le nostre intenzioni, uscì lei. Si chiuse la porta alle spalle e ci portò all'altro lato della piazza vicino al fiume Sarthe. Lì seduta su una panchina si sciolse in un pianto e ci rivelò il suo grande segreto. Era come se ci stesse aspettando da tempo. Iniziò a parlare con la sua voce calda e sia io che Roxane ci abbandonammo a quella familiarità estemporanea. Ci raccontò di averti avuta giovane, a ventidue anni. Aveva sposato tuo padre da un paio d'anni, durante i quali aveva già avuto modo di conoscere il suo lato oscuro e di pentirsi dell'errore commesso sposandolo.

Lui si era dimostrato un insoddisfatto che non riusciva a realizzare le proprie ambizioni e che sfogava con la violenza la propria inadeguatezza. Abusava dei farmaci che maneggiava per lavoro e che gli servivano più per stordirsi che per reale dipendenza.

Varie volte era finita in ospedale, e un po' per paura, un po' per mancanza di alternative non aveva mai avuto il coraggio di liberarsi di lui. Si sentiva una vittima ma era giovane e non aveva perso ancora le speranze che le cose potessero cambiare. Lunghi periodi di assenza, dovuti al lavoro, tenevano via tuo padre, dandole una finta tregua e l’illusione di riprendersi la sua vita, fino al successivo ritorno. Io e Roxane la guardavamo increduli senza avere il coraggio di interromperla.

– Continua...

– Ci raccontò che fu proprio durante uno di questi viaggi che si accorse di essere rimasta incinta. Era al secondo mese quando già prese la decisione di affidarti al Saint Julien. Conosceva suor Teresa della quale si fidava e con lei prese accordi.

Alla tua nascita non raccontò niente a nessuno, era tornata a casa dei suoi,

dove tua nonna era morta e tuo nonno era diventato ormai così vecchio da non rendersi più conto del mondo che lo circondava.

Le sembrò un segno del destino, avere la possibilità di vivere un'esperienza solo sua: te. Pensò di fuggire per sempre lontano da lui, ma il peso della fuga continua, l'angoscia di vivere con la paura di essere inseguita e scoperta la fece tornare alla realtà. Il Saint Julien era la scelta più giusta, valeva la pena di starti lontana ma saperti sana e protetta. Mi fece promettere di non dirti la verità. Sarebbe stata lei un giorno a dirtela. Ogni tanto ci scriviamo, io l'aggiorno su di noi, sui ragazzi, e lei è contenta di saperti felice con noi.

Non avercela con Roxane, la decisione di tacerti i fatti è stata mia.

So di essermi comportato da egoista ma ti ho vista felice e non me la sono sentita. Non volevo ostacoli al tuo desiderio di liberarti del passato.

– Cosa ti chiese esattamente?

– Mi chiese di non rivelarti la sua identità, era importante che lo facesse lei al momento giusto.

– Sei stato un vigliacco.

– Delphine cerca di capirmi, ti ho nascosto la verità per tutto questo tempo al solo scopo di evitarti una sofferenza.

– O per egoismo David?

– Non sopportavo l'idea di vederti infelice, finalmente la vita sembrava sorriderti e l'ossessione della ricerca delle tue origini sembrava ormai acqua passata.

– Perché non hai cercato un altro modo per risolverla? Perché vedo un tuo tornaconto in tutto questo?

La tua protezione mirava alla tua tranquillità non alla mia. Il tuo tacere non ha fatto altro che aumentare il mio senso di inadeguatezza. Ho passato la mia vita a cercare di sentirmi bene con me stessa e in mezzo agli altri ignorando che ci fosse qualcuno come mio marito a tirare i fili dall'alto. Prima mia madre, poi Roxane, poi tu, tutti con l’intenzione di proteggermi senza nemmeno avvisarmi quale pericolo potessi correre. È come se non avessi mai vissuto la mia vita, è come se mi fosse stata negata la capacità di scegliere e agire.

– Mi rendo conto solo adesso di aver fatto male i conti, certe cose non si possono rimuovere con un colpo di gesso dalla lavagna, e ora che stai per ritrovare tua madre ti chiedo solo un favore: ricordati di quello che siamo stati e di quello che siamo. Cerca di capirmi ti prego.

– Non so cosa dire David, mi sento ingannata da te e non riesco a perdonare niente adesso, ti prego torna a casa dai ragazzi e lasciami in pace.

– Ok, ti lascio sbollire la rabbia, ma pensa a quello che ti ho detto, ti prego.

– Dove è andato David?

– Gli ho detto di tornare a casa. Non ho bisogno della sua protezione adesso e tanto meno della tua!

– Che cosa stai dicendo?

– Cosa ci fai con quel registratore in mano? Ridammelo e non osare più frugare nella mia borsa.

– Non ho frugato, avevo mille cose in mano tra cui la tua borsa, mi è caduta in terra e...

– Eh cosa?

– Ho ascoltato parte della registrazione Delphine. Quando hai saputo della malattia? Non posso crederci, perché non me l'hai detto subito?

– Cosa avrei dovuto dire? Che posso morire? Tutti possiamo morire da un momento all'altro, e poi dirlo a chi... a te?

– Che intendi con “a te”? E a David e ai ragazzi non ci pensi?

– È proprio perché penso a loro che non l'ho detto!

– Ma hanno il diritto di saperlo.

– Come io avevo il diritto di sapere chi era mia madre?

– Sì, te lo ha detto David?...finalmente!

– Quindici anni di menzogne, come avete potuto?

Siete stati dei vigliacchi, nascondermi la verità sapendo quello che significava per me.

– Abbiamo cercato di proteggerti, era solo questo il nostro scopo credimi. Pensavamo fosse il momento sbagliato, tua madre lo pensava.

– E quando sarebbe stato il momento giusto? Quando lo decidevate voi? E se fossi già morta, non avrei mai potuto sapere che mia madre MI AMAVA così tanto da sacrificare la sua stessa vita per me?

– Non piangere ti prego.

– Lasciami stare...non mi toccare, lasciami da sola!

– No, non posso, mi sento così in colpa e in più adesso che so della tua malattia, vorrei solo scomparire.

– Ecco brava scompari.

– No, non dirmi così, dobbiamo mantenere la calma e riflettere, quando torneremo a Portsmouth, David prenderà contatti con il dottor Milestone, chiederemo il parere di altri medici e stabiliremo il da farsi.

– Basta! Sono stanca del “vostro da farsi”, non l’ho detto a David appunto per questo motivo e non osare farlo tu, altrimenti….altrimenti

– Va bene smettila di piangere, lasciati asciugare le lacrime. Farò come dici tu ma calmati adesso.

– Non c'è molto da fare...morirò e non voglio Roxane, non voglio…

L’afa della città aumenta il mio stato di confusione. Il sole sta calando, dovrebbero essere le quattro ma il mio orologio? L’ho dimenticato e vorrei averne la certezza. Ho la testa frastornata. La confessione di David mi ha messo ko. Sono combattuta. Vorrei comprenderlo ma la rabbia è troppa. Lui che ha sempre predicato la verità come principio indiscusso alla base della nostra vita insieme. Me lo sarei potuto aspettare da chiunque ma non da lui. Eppure lo conosco, lui è uno che se fa una promessa cascasse il mondo la mantiene.

Il taxi preso al volo alla stazione si dirige di corsa a Rue Wibur Wright.

Roxane è accanto a me col viso preoccupato. La guardo mentre il pensiero di mia madre si sostituisce a quello di David.

Non mi aspettavo di poterla conoscere in così breve tempo.

L'immaginazione non indugia a partire. Nei miei sogni è sempre stata una donna di bell'aspetto, dai tratti gentili e remissivi, un non so che di rosso nell’abbigliamento, i capelli raccolti, orecchini di perle e tacco alla francese. Ora ne ha 63 di anni. Chissà se sente il peso dell’età. Chissà come ha fatto a vivere col pensiero di dover sacrificare l’amore di una figlia per saperla in vita.

Rue Pierre Mendès France, siamo quasi arrivate.

Ecco la prossima dovrebbe essere Rue Wibur Wright.

Il taxi si ferma davanti a un palazzo enorme grigio con le finestre bianche, mentre scendo le gambe mi tremano. Roxane mi ha parlato di un appartamento al piano terra, potrebbe essere questo o quello laggiù. Mi fa segno di seguirla, avanziamo verso l’interno dove si apre un ampio giardino con al centro una piccola fontana, la statua di un putto offre acqua dalla bocca, dovrebbe essere quello lì facendomi segno con la mano.

Vedo fiori, tanti fiori sul davanzale della finestra, le cui tende a righe lasciano intravedere poco dall’esterno. La porta di ingresso è quella con gli scalini, ricorda Roxane. Cécile Le Blanc e Philippe Dupont riporta la targhetta affissa sulla porta. Roxane suona il campanello che io non oso toccare. Il cuore mi balza in gola.

Non avverto alcun movimento, né si percepiscono rumori…

Roxane si sporge per suonare di nuovo, ma nessuno viene ad aprire.

Il cigolio di una finestra dall’altro lato del palazzo attira la nostra attenzione, la vecchina che si affaccia ci chiede:

– Chi cercate?

Trattengo il respiro e la voce stenta ad uscire, come quando mi nascosi sotto la scrivania di Suor Celine in cerca dei documenti sulla mia identità.

– Cerchiamo la Signora Le Blanc, sa dov’è?

– Ah Cécile, la mia amica, è in ospedale la povera Cécile al Centre Hospitalier.

– E come mai? Le è successo qualcosa?

– Siete parenti?

– Sì ehm sì, questa donna è una sua parente…

Il respiro non si ferma stavolta.

– Ah ma come…? Ma avvicinatevi vi prego io non vedo bene.

Cécile è sempre stata sola, come me, povera donna.

Il marito l’ha lasciata, un mesetto fa si è trasferito a Parigi quel farabutto. Lei era così contenta di essersene finalmente liberata, non le sembrava vero, diceva di voler partire anche lei per andare lontano da qui, voleva raggiungere una persona, ma non mi ha mai detto chi fosse questa persona. E si stava preparando a lasciare tutto quanto quando è successo quello che non doveva succedere.

Io ero con lei sapete, un improvviso malore…alla testa, non so dire il termine che i medici hanno usato, apo...qualcosa ma quello che so è che da quel momento non si è più svegliata.

Io ho fatto tutto quello che potevo fare, ho raccolto le poche cose che aveva preparato in borsa e ho fatto chiamare l’ambulanza dalla signora Lacroix.

Povera Cécile, la circolazione le ha sempre dato problemi.

È successo tutto così velocemente.

– Quando signora, quando è successo? Le chiedo con la voce affannata.

– Nel primo pomeriggio di ieri, saranno state le tre.

Mi aveva chiamata per dirmi delle piante, quando innaffiarle in sua assenza, ho visto le valigie preparate ma non ha fatto in tempo a dirmi tutto la povera Cécile.

Le infermiere dell’ospedale mi hanno consigliato di parlarle.

La mia voce avrebbe potuto risvegliarla…mi hanno detto, lo credete vero?

Soprattutto se ero una persona a cui voleva bene, ma lo sapevo che l’episodio della spazzatura se l’era legato al dito. Io non volevo farlo, è stata la signora Lacroix a dirmi di attaccarle un cartello per la spazzatura fuori la porta.

– Va bene signora la ringraziamo. Ha detto il Centre Hospitalier?

– Si signorina sì, può darsi che riuscirete a svegliarla voi Cécile, così la riportate a casa.

Roxane mi osserva con sguardo interrogativo …

La ruga in mezzo alla sua fronte tradisce la stanchezza e la tensione.

Ho bisogno di sedermi le dico.

Raggiungiamo l’altra parte della strada, mi siedo su una panchina.

– Perché? Perché le cose non possono mai andare come voglio? Mi sento la testa girare in un vortice.

– Calma Delphine, vado al bar a prenderti qualcosa da bere.

– No per favore, non ti muovere da qui. Non lasciarmi sola, ho paura di sentirmi male.

– Che intendi fare adesso?

– Non lo so, mi ritrovo a conoscere l’unica madre che ho in ospedale, al suo capezzale.

E per dirle cosa? Che sono la figlia che cercava di raggiungere? Che fare? Andare lì e sperare che si svegli come dice la vicina? Povera me, povera stupida, che pensavo di ottenere? Di colmare finalmente il vuoto di una vita spesa a pensare a come sarebbero state le cose se fossi vissuta con lei?

Che strazio Roxane! Che strazio! Mi sento il cuore scoppiare.

Le lacrime mi inondano il viso e i singhiozzi diventano sempre più rumorosi.

Roxane mi stringe la testa con le mani accostandola al suo corpo sudato, un passante mi guarda stranito e rattristato.

Il destino mi ha beffato ancora una volta.

In preda a un torpore generale, non riesco più a decidere e lascio che Roxane lo faccia per me.

Saliamo di nuovo su un taxi diretto al Centre Hospitalier.

– Che io ricordi è un buon ospedale, vedrai che la rimetteranno in sesto, cerca di rincuorarmi Roxane.

Salire le scale non mi è mai pesato così tanto. Guardando il marmo degli scalini, sento risucchiarmi dal basso come se fossero sabbie mobili. Cerco di distrarmi ma la pesantezza del mio corpo me lo impedisce.

Arrivate nel reparto di neurochirurgia, l’infermiera ci indica la stanza.

D’improvviso risento il cuore che comincia a battere così forte da non poterlo controllare, come se prima avessi potuto farlo. La porta è aperta, intravedo un letto. Sono circa due metri distante da te, ora il cuore mi si ferma.

Roxane mi sorregge e sento che mi spinge a camminare verso l’interno della stanza.

Arriviamo all’uscio e ho voglia di fuggire. Faccio per voltarmi ma Roxane mi afferra per un braccio – siamo venute per lei – mi ricorda con sguardo duro.

Sei da sola in questa stanza, hai gli occhi chiusi, le mani stese lungo il corpo, il viso pallido.

Mi siedo accanto al tuo letto, gli ospedali hanno tutti lo stesso odore: alcol misto a polvere.

La vetrata della finestra è ampia e la luce del sole si propaga avvolgendo completamente il tuo corpo.

Il bianco è accecante e si espande fino a me seduta al lato opposto sulla punta della sedia.

Mi alzo. Forse perché il riflesso del sole mi impedisce di vedere chiaramente il tuo viso o forse perché presa da una smania non riesco a crederci ancora… che sei qui davanti a me.

Respiri come se stessi dormendo.

Nemmeno il colorito tradisce il tuo stato di salute.

La vicina ha detto di parlarti e io ti parlo con il cuore in mano e col desiderio che tu davvero possa sentirmi.

Le tue dita sono lunghe e affusolate, le so riconoscere le dita giuste per suonare l’arpa mi dico.

Guardo le mie per vedere se somigliano alle tue. Forse sì, ma le lacrime iniziano a riempire gli occhi e a stento riesco a osservarti come voglio. Mi giro per cercare Roxane ma non vedo più nemmeno lei.

Al collo non hai una collana di perle, ma una piccolissima croce, di diamanti, credo.

Forse riponi speranze in un Dio che non ti ha mai aiutata, non ha mai esaudito il tuo desiderio più grande.

Porti ancora la fede, segno della tua integrità morale e della tua fedeltà a un uomo che ti maltrattava, tradiva e ingannava. Come hai fatto a resistere tutti questi anni?

Non avresti mai potuto abbandonarmi di tua volontà, sapevo che non era un’attenuante che volevo a forza concederti. Quante volte ho pensato che qualcosa o qualcuno ti costringesse a stare lontana da me e che un giorno sarebbe poi scomparso come per magia.

Mi avvicino al letto.

Ora in controluce è la mia ombra a stendersi sul tuo corpo.

Tento di sfiorare il tuo viso, rugoso e vellutato, le tue ciglia lunghe, i tuoi capelli bianchi e le ciocche ancora castano grigio.

Avverto il calore del tuo corpo che riscalda le mie mani fredde e scioglie il mio cuore ormai colmo di preghiera e d’affetto per te.

Mi stringo al tuo petto inalando il tuo profumo sconosciuto.

Il tuo respiro è a tratti irregolare forse per il peso del mio corpo su di te.

Avvicino il mio viso al tuo mentre le lacrime ti bagnano con l’ingenua speranza di poterti svegliare.

Oh se mi potessi stringere, se le tue braccia potessero cingermi la vita, il collo,

se mi potessi baciare la fronte con le tue labbra, se tu potessi abbandonare la tua testa sul mio petto. Mamma, oh mamma non riesco a non pensare al tempo che ci è stato tolto, quanto desiderio di te nell’anima che questo momento sta colmando, quanti abbracci sognati che ora sembrano realtà.

– Delphine, David non è partito, è fuori e vorrebbe entrare.

– No, non ora Roxane, non so che dirgli.

– Hai qualcosa da dirgli Delphine.

– Ha aspettato quindici anni per dirmi di mia madre, ora spero non si dispiaccia se non uso la cortesia di dirgli subito ciò che mi ha spinto a venire qui.

– Ascolta, devo parlarti di una cosa importante.

– Non so di cosa tu voglia parlarmi ma non trovo ragioni più importanti che stare qui accanto a lei adesso.

– Delphine, posso solo immaginare come ti senti. Cécile ha affrontato una vita di sofferenze e il coraggio di questa donna difficilmente l’ho conosciuto in vita mia.

Anzi no…lo vedo solo ora, lo riconosco in te, che per anni hai lottato contro i tuoi stessi sentimenti cercando di trovare una giustificazione valida a quello che ti succedeva senza cedere a commiserazioni sterili e senza cercare colpevoli a tutti i costi.

Ma ora siamo alla resa finale e non possiamo tornare indietro.

I medici ci hanno appena riferito che Cécile non ha speranze, le sue condizioni non sono migliorate da ieri e si aspettano che possa lasciarci da un momento all’altro.

Abbiamo scoperto anche che tra la documentazione medica di Cécile c’è il suo consenso alla donazione degli organi.

So che può sembrarti una mostruosità da parte mia pensare a una cosa del genere,

ma… tua madre può salvarti la vita e per quanto possa avere dell’incredibile questa storia, non sembra affatto un caso che tu sia arrivata qui proprio in questo momento.

– No, non continuare ti prego, non riesco e non voglio pensare a niente in questo momento.

– Tua madre può salvarti la vita una seconda volta e non puoi rifiutarti di considerarlo, non sei qui per caso.

– Non avrei mai potuto pensare che il sostegno che ero venuta a chiederle potesse essere un sacrificio pari alla sua stessa vita.

– Nessuno poteva immaginarlo, ma è opportuno che ora ci pensi. Tra poco farà buio. Vado a prendere qualcosa da mangiare. Porto David con me, nel frattempo aspettami qui.

La luce che entra nella stanza è diventata soffusa, non vedo il tramonto dalla finestra, ma raggi lontani timidamente illuminano le pareti.

Ti guardo ancora incredula e con la testa piena di se. Tante le domande, nessuna ha risposta.

Una voce proveniente dalla porta sospende i miei pensieri, provo a ignorarla evitando di distogliere lo sguardo da te, ma quel tono quasi familiare cattura inevitabilmente la mia attenzione.

– Salve, volevo avvisarla che tra poco l’orario delle visite termina.

Guardo l'ora dell'orologio appeso sopra l’uscio, sono le sette, questa volta non mi manca la certezza, anzi forse preferirei tornare a prima, a quando non ne avevo di certezze su di te.

– A che ora esattamente? – chiedo, con ingenuità e forse speranza di poter avere più tempo.

– Alle sette e mezza viene richiesto ai familiari di lasciare la stanza.

– Solo mezz’ora – bisbiglio quasi senza rendermi conto.

– Mi dispiace, so che la signora Le Blanc sta molto male. Volevo proporle una preghiera prima di andarsene, se per lei va bene.

– Ecco io non saprei o forse non sono in animo di fare preghiere in questo momento.

– Permette che lo faccia io in silenzio?

– Lei è una suora?

– No, sono una novizia volontaria qui al Centre Hospitalier.

– Ah capisco.

– È sua madre?

– Sì, si chiama Cécile e l’ho conosciuta solo oggi.

– Ah... mi scusi non si offenda se mi vede sorridere ma la trovo proprio una bella storia: riuscire a sentire la voce della propria figlia prima di lasciare per sempre questa vita ha del miracoloso.

– Un miracolo sarebbe se si svegliasse.

– Vede, al contrario di quanto si possa pensare i miracoli non hanno nulla di sensazionale.

– Che intende?

– È facile avere fede se otteniamo quello che chiediamo senza problemi, è difficile avere fede quando ci viene chiesto di abbandonarci a circostanze che sembrano inconciliabili con la nostra vita.

– Ho ritrovato mia madre nel momento in cui non potrò vederla mai più, nel momento in cui ho saputo di avere una malattia grave e lei non potrà mai essermi di sostegno. Questa le sembra una circostanza conciliabile con la vita di qualcuno?

– In alcuni momenti della nostra vita non è importante come andranno le cose, se le riteniamo giuste o no. Non sta a noi agire, c’è chi lo fa per noi. Conosce quella pratica di lasciare andare il proprio corpo all’indietro sapendo che c’è qualcuno che ci prenderà?

Basta fare questo e credere che nulla avviene per caso.

Le svelo un segreto di chi è credente: sentirsi amati permette alla nostra anima di fluire dal nostro respiro e arrivare agli altri.

Sua madre ha la possibilità di sentire il suo respiro prima di morire, ed è il regalo più bello che lei potesse farle. Pensi se fosse morta da sola, qui, senza nessuno.

– Vogliono che mi prenda il suo fegato per salvarmi la vita e io non so se posso farlo.

– Ascolti il respiro di sua madre, solo così percepirà la sua anima e il suo amore; sono sicura che tutte le sue domande avranno una sola risposta.

Ora la lascio alla sua preghiera.

– Grazie… non credo di aver sentito il suo nome…

– Renée, ma il mese prossimo sarò Suor Teresa...

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I PIRANDELLO E LA GRANDE GUERRA

16 Giugno 2015 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #storia, #racconto

I PIRANDELLO E LA GRANDE GUERRA

Iniziamo parlando della Grande Guerra in casa Pirandello. Nel 1915 Stefano Pirandello si arruola volontario, parte per il fronte e viene fatto prigioniero nel 1917 durante l'offensiva di Caporetto, come scrive a un amico il famoso padre:

"Sappi che la mattina del 2 novembre, alle 7 1/2, dopo una notte di fuoco, egli è stato fatto prigioniero, nella battaglia d'Oslavia, ferito al petto, per fortuna leggermente. Un'altra ferita aveva ricevuto il giorno avanti; gli avevano dato alcuni giorni di licenza per farsi medicare; rifiutò la licenza sapendo che la notte si sarebbe rinnovato l'attacco, e fu fatto prigioniero. Sono ormai circa due mesi! Fra tutte le sciagure che potevano toccargli (è vivo per miracolo!), questa è certo la minore … Coraggio, Stefanuccio mio: non abbandonarti troppo alla meditazione e lavora, lavora quanto più puoi: non c'è rimedio migliore a questo male della vita. Nessuno meglio di me lo sa per prova.".

Il giovane passerà mesi durissimi a Mauthausen e poi a Plan, in Boemia: il grande scrittore cercherà di aiutarlo inviandogli cibo e anche sigarette. Si scriveranno spesso, di solito lettere brevi per evitare la censura che altrimenti le avrebbe bloccate. Anche lo stesso figlio conforterà il padre, alle prese con la pazzia della moglie e con le difficoltà nel proseguire l'attività letteraria. Ci si potrebbe chiedere se in fondo non fossero ambedue prigionieri. Il rapporto tra loro sarà sempre difficile, faticando Stefano a trovare una sua strada artistica nell’ambito del teatro, lontano dall'ombra del grande Luigi. Ricorrerà anche a uno pseudonimo. Chi vuole approfondire questi temi, può leggere il libro Il Figlio prigioniero che riporta parte dell'intenso carteggio tra i due.

Tutto ciò fa da sfondo al lungo racconto Berecche e la guerra. Siamo agli inizi della Prima Guerra Mondiale. Un padre, Federico Berecche, innamorato della Germania come principio etico sinonimo di disciplina, metodo, rigore, autocontrollo, ha il figlio Faustino che vorrebbe l’intervento dell’Italia contro l’Austria e la Germania. Nessuno a parte lui ama il mondo tedesco; si scatenano liti molto aspre. Berecche è solo nelle sue posizioni, in casa come tra i parenti e i conoscenti. La famiglia si sta sfasciando mentre l'Italia resta neutrale; ci sono isterie, individualismi, personalismi. Il padre, buffo e teatrale, è l'unico che nonostante tutto ha una certa flessibilità; in un precario equilibrio rivede le proprie amate convinzioni filotedesche, cercando una difficile ricomposizione con Faustino che è partito per combattere in Francia. Berecche ripete spesso all'amico medico "Io ragiono ...", ma il dottore, sonnolento e laconico, non risponde al suo straparlare, come se la scienza fosse muta davanti alla sua quasi follia. Vuole andare a combattere anche lui nonostante i cinquantatré anni e la pancia. Qui tutto diventa assurdo e spassoso come nel miglior Pirandello; pensa di comprare di nascosto un cavallo, studia in una notte i principi dell'equitazione e si reca in un maneggio per apprendere, spera in poche ore, come cavalcare. Si vede già vicino a Faustino, in battaglia sul fronte francese, contro i tedeschi. Ma una brutta caduta lo rende temporaneamente privo della vista; medicato, abbandona i progetti avventurosi e passa bendato il suo tempo con la figlioletta cieca, condividendo con lei il non poter vedere le brutture della realtà cui la ragione e la volontà non pongono rimedio.

Diversi interrogativi sorgono da questa novella. Può essere meglio non vedere quello che non si può cambiare? La generazione vecchia deve restare a casa facendo spazio ai giovani, lasciandoli liberi anche di sbagliare? Berecche è a suo modo un piccolo eroe che crede nella famiglia, oppure va compatito per aver rivisto le convinzioni di una vita, senza ricavarci nulla se non solitudine e infortuni?

Il racconto è anche una piccola risposta della passionalità mediterranea al rigore e al razionalismo teutonico, tanto osannati all'inizio dal protagonista (lo stesso Pirandello visse alcuni anni in Germania). La vicenda individuale del padre riporta anche il dramma di tanti caduti e delle loro famiglie, frammenti di una storia più grande così spietata con le piccole vicende personali che rischiano di cadere nell’oblio:

"Così tra mille anni, pensa Berecche, questa atrocissima guerra che ora riempie d’orrore il mondo intero, sarà in poche righe ristretta nella grande storia degli uomini; e nessun cenno di tutte le piccole storie di queste migliaia e migliaia di esseri oscuri, che ora scompaiono travolti in essa, ciascuno dei quali avrà pure accolto il mondo, tutto il mondo in sé e sarà stato almeno per un attimo della sua vita eterno, con questa terra e con questo cielo sfavillante di stelle nell’anima e la propria casetta lontana lontana, e i proprii cari, il padre, la madre, la sposa, le sorelle, in lagrime e, forse, ignari ancora e intenti ai loro giuochi, i piccoli figli, lontani lontani".

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"Quand'ero scemo": la parola ai lettori

8 Maggio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto, #recensioni

"Quand'ero scemo": la parola ai lettori

Ecco una serie di recensioni al mio libro di racconti, "Quand'ero scemo" su ilmiolibro.it

Si tratta di una raccolta di trentadue racconti, popolati da una folla multiforme di personaggi. Uomini disperati, ragazze disilluse, vecchie aggrappate ai ricordi o con la mente persa fra le ombre, fate elfiche, robot, disabili, malati terminali, mogli senza scrupoli. In questa varietà di temi e condizioni umane non si indulge al patetico, non si lanciano messaggi o insegnamenti, piuttosto si riflette sul concetto di 'normalità', ribaltandolo attraverso un'ottica particolare, angolare, magica.

Lorenza:

“Questo libro ci presenta una serie innumerevole di racconti, estremamente vari, talvolta vicini alla realtà da permetterci d’immedesimarsi con la stessa, altre più fantastici, che tuttavia trascendono la realtà attraverso i sentimenti dei personaggi. Infatti, caratteristica preponderante di ogni racconto è quella di esprimere pienamente ogni sentimento attinto dalla gamma più variegata si possa provare. La lettura, piacevolissima e scorrevole, a volte fa sorridere, altre commuove, o, ancora ci permette di guardarci con ironia , per giungere fino all’assurdo delle umane possibilità di pensiero e di azione. Spesso stride con la realtà, quasi a testimoniare la diversità dei punti di vista, la differenza del modo di pensare e di essere, tanto da far pensare a Pinocchio che …”uguale è bello, uguale è normale, uguale è vero”, quasi a convincersene, ben sapendo che non è proprio così…. Tant’è vero che il ragazzo down, recentemente operato per assumere sembianze definite “normali”, farà di tutto per tornare com’era prima, perché si rende conto che la realtà non è così bella come sembra! Si mescolano storie di rimpianti, tradimenti, conquiste, sfide, gioie e dolori, tutte finalizzate ad una profonda riflessione, quella che farà pensare a suor Maria che…”avrebbe chiesto a Gesù l’umiltà e la forza di guardarsi dentro…” Ma forse è meglio dirsi, come Sabrina, che è ora di …”smettere di porsi queste domande…”, altrimenti si finisce come il boia che ammette “…non vorrei chiedermi se, domani all’alba, quando tu sarai morto, io sarò ancora vivo…” Mi pare quasi superfluo aggiungere che mi è piaciuto molto per la sua estrema originalità e per il tripudio di emozioni che di cui pullula!”

Tata:

“Quando ero scemo, ovvero prima che l’eccelsa luce dell’intelletto illuminasse la consapevolezza di sé. Con piccoli passi seguo il filo delle parole di questi racconti. Piccoli passi timidi, incerti, di chi non vuole disturbare, perché Patrizia Poli mi parla di sentimenti, di paure, di rimpianti, di rimorsi, di disagi, di equivoci, di rabbie, di vendette, mi indica lo scarto fra la realtà dura, ovvia, banale, accettata e il mondo privato, intimo, fragile di donne, uomini, bambini abbandonati, feriti, traditi, persino il robottino lasciato a sé stesso nello spazio che si vede negare anche l’identità di cane, della povera Laika. L’ironia ricama uno stile agile, lieve, delicato. La narrazione mi sorprende, mi attira, mi chiama, mi confonde, mi commuove, in un bisogno di identificazione e di appartenenza con la farfalla e il suo unico grande giorno, col ciecomuto, con Marta, coi gemellini siamesi che aspettano di essere divisi. Con quest’umanità infelice e smarrita che sembra volersi raccontare e svelare.”

Maria Teresa:

“Penetrare a fondo nelle mille sfaccettature della vita non è facile, spesso distratti dalle enormi difficoltà della nostra, osserviamo con molta superficialità e crudele disincanto quanto ci circonda, con un’accettazione passiva andiamo oltre e preferiamo non frugare, non indagare all’interno di tanto dolore sommerso che coinvolge nostri simili, stoicamente considerati lontani o semplicemente diversi. Patrizia Poli, l’autrice di questa raccolta di racconti “Quando ero scemo”, con un’incredibile abilità narrativa legata a uno stile scabro, essenziale, ma profondamente incisivo, attraverso una grande varietà di personaggi, ci costringe a vedere e sentire ciò che non vogliamo, in un modo originale, tutto suo, utilizzando dimensioni oniriche o metaforiche, con sprazzi di paradossale che talvolta riescono a farci sorridere persino nelle situazioni più drammatiche. La sua è un’ironia sottile, apparentemente distaccata, ma in grado di esploderci dentro, per quel suo modo di ribaltare i contenuti dei racconti, sicuramente tutti singolari, dove i più svariati personaggi, prendono consistenza talvolta in modo sibillino, consistenza che acquista una certa attendibilità attraverso secche frasi conclusive che comunque, seppur illuminino, lasciano una scia ricercata di dubbi. Abilissima nel pilotarci all’interno di storie dove il passato e il presente diventano attimi che s’intersecano, come attraverso gli occhi di un’occasionale passante che rivede il cammino avvenuto nel 1369 da parte di un pellegrino diretto a Santiago de Compostela, o dove incredibili situazioni paradossali prendono corpo, come in quella di un uomo che, perfettamente sano, viene ridotto alla stregua di un disabile dalla moglie che lentamente lo avvelena, per fargli così ottenere importanti avanzamenti nella carriera aziendale, lei lascia comunque a noi le conclusioni e senza interferire, ci colpisce. Incontriamo nei suoi racconti anime schiacciate nelle loro vite incompiute, come quella di una suora che è sommersa dai dubbi per un intenso desiderio di libertà, o quella di una donna lacerata dal rimorso per aver abortito, o di un poeta che prima di morire affida al mare e al vento i versi che nessuno ha mai ascoltato. Comunque e sempre narra della vita, della felicità cui tutti aneliamo e che spesso è sfuggente ed effimera, perché stiamo in una solitudine cosmica dove ciascuno è unico a contatto con tanti simili. Così capita che un ragazzino Down considerato “diverso”, dopo aver acquistato la normalità con un intervento chirurgico, si senta addolorato e diverso in un mondo in cui non si riconosce e che non gli appartiene, e desidera ritornare scemo, per riacquistare la felicità nell’incoscienza di eterno bambino, dove esiste Babbo Natale e tutto sa di pulito e buono. Apparentemente Patrizia Poli non parla di sé e del suo sentire, ma il suo pensiero, la sua protesta verso questo mondo così scarso d’amore si avverte e vibra in ogni parola, con una scia di velato romanticismo che addolcisce le negatività del vivere, mostrando un animo capace di umana comprensione e di perdono.”

Lauretta:

Ecco un piccolo libro, che potrebbe passare inosservato perché semplice e discreto. E invece vale molto più di altri mille libri presenti sugli scaffali in libreria. “Quando ero scemo” è un’opera straordinaria. L’autrice scrive con una disinvoltura, con una partecipazione e con una capacità non scontate. Lo stile narrativo è splendido e rapisce il lettore e, alla fine di ogni racconto, dopo aver spaziato tra luoghi distanti e diversi, tra dolori, tristezze, tra disabilità e diversità, tra sogno e realtà, lo riporta con i piedi per terra. I racconti si leggono d’un fiato, piacevolmente, proprio perché concisi, ma perfetti nella forma. La malinconia pervade ogni pagina, c’è una sorta di cappa, come una giornata uggiosa, che impregna e permea le storie della raccolta; ma ciononostante tra le righe c’è di più, c’è anche qualcosa di potente, ci sono anche vita e amore, desiderio e bellezza. C’è l’umanità, coi suoi vizi, i suoi vezzi, le sue virtù e le sue incongruenze. L’autrice fa letteratura in poche righe, descrivendo minuziosi dettagli e grandi scenografie, con la sua capacità di raccontare tanto in due pagine o addirittura in una sola. Consiglio vivamente di leggerlo.

Ecco una serie di recensioni al mio libro di racconti , "Quand'ero scemo" su ilmiolibro.it

Si tratta di una raccolta di trentadue racconti, popolati da una folla multiforme di personaggi. Uomini disperati, ragazze disilluse, vecchie aggrappate ai ricordi o con la mente persa fra le ombre, fate elfiche, robot, disabili, malati terminali, mogli senza scrupoli. In questa varietà di temi e condizioni umane non si indulge al patetico, non si lanciano messaggi o insegnamenti, piuttosto si riflette sul concetto di 'normalità', ribaltandolo attraverso un'ottica particolare, angolare, magica.

Lorenza:

“Questo libro ci presenta una serie innumerevole di racconti, estremamente vari, talvolta vicini alla realtà da permetterci d’immedesimarsi con la stessa, altre più fantastici, che tuttavia trascendono la realtà attraverso i sentimenti dei personaggi. Infatti, caratteristica preponderante di ogni racconto è quella di esprimere pienamente ogni sentimento attinto dalla gamma più variegata si possa provare. La lettura, piacevolissima e scorrevole, a volte fa sorridere, altre commuove, o, ancora ci permette di guardarci con ironia , per giungere fino all’assurdo delle umane possibilità di pensiero e di azione. Spesso stride con la realtà, quasi a testimoniare la diversità dei punti di vista, la differenza del modo di pensare e di essere, tanto da far pensare a Pinocchio che …”uguale è bello, uguale è normale, uguale è vero”, quasi a convincersene, ben sapendo che non è proprio così…. Tant’è vero che il ragazzo down, recentemete operato per assumere sembianze definite “normali”, farà di tutto per tornare com’era prima, perchè si rende conto che la realtà non è così bella come sembra! Si mescolano storie di rimpianti, tradimenti, conquiste, sfide, gioie e dolori, tutte finalizzate ad una profonda riflessione, quella che farà pensare a suor Maria che…”avrebbe chiesto a Gesù l’umiltà e la forza di guardarsi dentro…” Ma forse è meglio dirsi, come Sabrina, che è ora di …”smettere di porsi queste domande…”, altrimenti si finisce come il boia che ammette “…non vorrei chiedermi se, domani all’alba, quando tu sarai morto, io sarò ancora vivo…” Mi pare quasi superfluo aggiungere che mi è piaciuto molto per la sua estrema originalità e per il tripudio di emozioni che di cui pullula!”

Tata:

“Quando ero scemo, ovvero prima che l’eccelsa luce dell’intelletto illuminasse la consapevolezza di sé. Con piccoli passi seguo il filo delle parole di questi racconti. Piccoli passi timidi, incerti, di chi non vuole disturbare, perché Patrizia Poli mi parla di sentimenti, di paure, di rimpianti, di rimorsi, di disagi, di equivoci, di rabbie, di vendette, mi indica lo scarto fra la realtà dura, ovvia, banale, accettata e il mondo privato, intimo, fragile di donne, uomini, bambini abbandonati, feriti, traditi, persino il robottino lasciato a sé stesso nello spazio che si vede negare anche l’identità di cane, della povera Laika. L’ironia ricama uno stile agile, lieve, delicato. La narrazione mi sorprende, mi attira, mi chiama, mi confonde, mi commuove, in un bisogno di identificazione e di appartenenza con la farfalla e il suo unico grande giorno, col ciecomuto, con Marta, coi gemellini siamesi che aspettano di essere divisi. Con quest’umanità infelice e smarrita che sembra volersi raccontare e svelare.”

Maria Teresa:

“Penetrare a fondo nelle mille sfaccettature della vita non è facile, spesso distratti dalle enormi difficoltà della nostra, osserviamo con molta superficialità e crudele disincanto quanto ci circonda, con un’accettazione passiva andiamo oltre e preferiamo non frugare, non indagare all’interno di tanto dolore sommerso che coinvolge nostri simili, stoicamente considerati lontani o semplicemente diversi. Patrizia Poli, l’autrice di questa raccolta di racconti “Quando ero scemo”, con un’incredibile abilità narrativa legata a uno stile scabro, essenziale, ma profondamente incisivo, attraverso una grande varietà di personaggi, ci costringe a vedere e sentire ciò che non vogliamo, in un modo originale, tutto suo, utilizzando dimensioni oniriche o metaforiche, con sprazzi di paradossale che talvolta riescono a farci sorridere persino nelle situazioni più drammatiche. La sua è un’ironia sottile, apparentemente distaccata, ma in grado di esploderci dentro, per quel suo modo di ribaltare i contenuti dei racconti, sicuramente tutti singolari, dove i più svariati personaggi, prendono consistenza talvolta in modo sibillino, consistenza che acquista una certa attendibilità attraverso secche frasi conclusive che comunque, seppur illuminino, lasciano una scia ricercata di dubbi. Abilissima nel pilotarci all’interno di storie dove il passato e il presente diventano attimi che s’intersecano, come attraverso gli occhi di un’occasionale passante che rivede il cammino avvenuto nel 1369 da parte di un pellegrino diretto a Santiago de Compostela, o dove incredibili situazioni paradossali prendono corpo, come in quella di un uomo che, perfettamente sano, viene ridotto alla stregua di un disabile dalla moglie che lentamente lo avvelena, per fargli così ottenere importanti avanzamenti nella carriera aziendale, lei lascia comunque a noi le conclusioni e senza interferire, ci colpisce. Incontriamo nei suoi racconti anime schiacciate nelle loro vite incompiute, come quella di una suora che è sommersa dai dubbi per un intenso desiderio di libertà, o quella di una donna lacerata dal rimorso per aver abortito, o di un poeta che prima di morire affida al mare e al vento i versi che nessuno ha mai ascoltato. Comunque e sempre narra della vita, della felicità cui tutti aneliamo e che spesso è sfuggente ed effimera, perché stiamo in una solitudine cosmica dove ciascuno è unico a contatto con tanti simili. Così capita che un ragazzino Down considerato “diverso”, dopo aver acquistato la normalità con un intervento chirurgico, si senta addolorato e diverso in un mondo in cui non si riconosce e che non gli appartiene, e desidera ritornare scemo, per riacquistare la felicità nell’incoscienza di eterno bambino, dove esiste Babbo Natale e tutto sa di pulito e buono. Apparentemente Patrizia Poli non parla di sé e del suo sentire, ma il suo pensiero, la sua protesta verso questo mondo così scarso d’amore si avverte e vibra in ogni parola, con una scia di velato romanticismo che addolcisce le negatività del vivere, mostrando un animo capace di umana comprensione e di perdono.”

Lauretta:

Ecco un piccolo libro, che potrebbe passare inosservato perché semplice e discreto. E invece vale molto più di altri mille libri presenti sugli scaffali in libreria. “Quando ero scemo” è un’opera straordinaria. L’autrice scrive con una disinvoltura, con una partecipazione e con una capacità non scontate. Lo stile narrativo è splendido e rapisce il lettore e, alla fine di ogni racconto, dopo aver spaziato tra luoghi distanti e diversi, tra dolori, tristezze, tra disabilità e diversità, tra sogno e realtà, lo riporta con i piedi per terra. I racconti si leggono d’un fiato, piacevolmente, proprio perché concisi, ma perfetti nella forma. La malinconia pervade ogni pagina, c’è una sorta di cappa, come una giornata uggiosa, che impregna e permea le storie della raccolta; ma ciononostante tra le righe c’è di più, c’è anche qualcosa di potente, ci sono anche vita e amore, desiderio e bellezza. C’è l’umanità, coi suoi vizi, i suoi vezzi, le sue virtù e le sue incongruenze. L’autrice fa letteratura in poche righe, descrivendo minuziosi dettagli e grandi scenografie, con la sua capacità di raccontare tanto in due pagine o addirittura in una sola. Consiglio vivamente di leggerlo.

si leggono d’un fiato, piacevolmente, proprio perché concisi, ma perfetti nella forma. La malinconia pervade ogni pagina, c’è una sorta di cappa, come una giornata uggiosa, che impregna e permea le storie della raccolta; ma ciononostante tra le righe c’è di più, c’è anche qualcosa di potente, ci sono anche vita e amore, desiderio e bellezza. C’è l’umanità, coi suoi vizi, i suoi vezzi, le sue virtù e le sue incongruenze. L’autrice fa letteratura in poche righe, descrivendo minuziosi dettagli e grandi scenografie, con la sua capacità di raccontare tanto in due pagine o addirittura in una sola. Consiglio vivamente di leggerlo.

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Laboratorio di Narrativa: Sergio Cena (2)

3 Marzo 2015 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #poli patrizia, #racconto

Laboratorio di Narrativa: Sergio Cena (2)

Classico esempio di fiaba surreale che vuole essere molto più di quello che in effetti è, contenendo, ed aprendo senza svilupparli, spunti di ogni genere a beneficio degli interessi e della filosofia dell’autore.

“La vera storia della piccola fiammiferaia”, di Sergio Cena, è una rivisitazione della favola di Andersen, ma qui la protagonista finisce in paradiso, dove incontra figure oniriche che potrebbero ricordarci quelle incrociate da Alice nel paese delle meraviglie, se ne conservassero la potenza immaginifica e se non fossero appesantite dal credo anarcoide dell’autore. La coprofagia degli agenti antisommossa ha una vaga reminiscenza omerica (se si pensa ai compagni di Ulisse trasformati in maiali da Circe) ma risulta terribilmente sgradevole e fine a se stessa.

Patrizia Poli

Inviate i vostri racconti (massimo 5 cartelle) a ppoli61@tiscali.it

LA VERA STORIA DELLA PICCOLA FIAMMIFERAIA

La piccola fiammiferaia se ne stava rannicchiata all’angolo di due vie, offrendo zolfanelli ai passanti che, improvvisamente, tre passi prima di passare di fronte a lei, diventavano sbadati o distratti o trovavano modo di salutare qualche perfetto sconosciuto che transitava sul marciapiedi opposto.

“Signore vuole comprarmi una scatola di zolfanelli?” Chiese la piccola fiammiferaia a un tizio in ghingheri che stava scendendo da una Maserati ultimo modello.

“Come osi interpellarmi lurida mendicante!?” Disse l’uomo accendendosi un sigaro grosso e lungo con il suo accendino di platino tempestato di diamanti.

La piccola fiammiferaia, rabbrividendo per il freddo, guardò l’uomo allontanarsi e accese uno zolfanello per scaldarsi le dita ghiacciate e stava per accenderne un altro, quando un’ombra le si parò innanzi. La piccola fiammiferaia alzò lo sguardo e vide la figura imponennte di uno sbirro che, con il suo ridicolo berretto in testa, la interpellò con aria truce: “Lo hai il permesso per vendere infiammabili? Eh, lo hai il permesso!?”

Non fosse stata la vigilia di Natale e non avesse avuto così freddo, la piccola fiammifaraia avrebbe cercato di sgusciare tra le gambe dello sbirro, invece, infreddolita e intorpidita com’era, disse semplicemente: “ No, non ce l’ho il permesso per vendere infiammabili.”

“Allora mi sa che ti appioppo una bella multa, che te ne ricorderai per un pezzo”, disse lo sbirro fregandosi le mani soddisfatto.

“Ma non ho venduto neppure uno zolfanello!” protestò la piccola fiammiferaia.

“Allora te ne appioppo anche una per occupazione del suolo pubblico, replicò lo sbirro facendo uscire di tasca il blocco delle contravvenzioni.

Lo sbirro succhiò pensosamente il cannello della penna biro, ché la minima riflessione impegnava seriamente le sue facoltà intellettive, poi con un sorriso a trentasei denti, non uno di meno, aggiunse: “E poi ti porto all’orfanotrofio.”

La piccola fiammiferaia, nel sentire nominare l’orfanatrofio, sapendo esattamente di cosa si trattava, freddo o non freddo, trovò la forza di scattare in piedi e fuggire a gambe levate tra una folla carica di pacchetti natalizi. Lo sbirro, invece, con il suo blocco di contravvenzioni in mano, scivolò su una sghinga di cane e planò nella vetrina di una pasticceria di lusso, rompendosi l’osso del collo.

La piccola fiammiferaia tanto corse che si trovò in men che non si dica alla periferia della città. Trafelata e ansante si accorse di un banco che distribuiva la zuppa. L’odore della zuppa, pur non essendo gran cosa, le fece gorgogliare lo stomaco, ma non avendo mangiato da tre giorni, trovò l’odore assolutamente delizioso, cosicché decise di mettersi in coda per aver un po’ di zuppa anche lei.

Quando arrivò il suo turno, la donna che serviva la zuppa la guardò d’un occhio con aria sospettosa. “Sei una rifugiata siriana?” le chiese brusca.

“No, signora, non sono una rifugiata siriana”, rispose la piccola fiammiferaia.

“Sei per caso una rifugiata circassa?”

“No, signora, non sono una rifugiata circassa”, ripeté ancora la piccola fiammiferaia.

La donna che serviva la zuppa ora la guardava apertamente con sospetto. “Allora, dimmi, di quale Paese sei rifugiata?” volle sapere.

“Di nessun paese”, ripose la piccola fiammiferaia. “Sono di qui.”

“Allora niente zuppa, tu non ne hai il diritto. Via di qui pezzente, fila!” intimò la donna che serviva la zuppa.

La piccola fiammiferaia fece la mossa di andarsene, ma un negro che era dietro di lei la trattenne per un braccio dicendo: “Aspetta piccola, dividerò con te la mia zuppa.”

“Ah, ah!” fece la donna che serviva la zuppa, che aveva udito le parole del negro. “Prova a darle anche solo una cucchiaiata di zuppa e potrai andare altrove a riempirti la pancia.”

Il negro stava per protestare, ma la piccola fiammiferaia gli disse di lasciar stare e, prima che alla donna venisse in mente di telefonare all’orfanatrofio, si rimise a correre per le buie vie della periferia.

Senza più un briciolo di fiato, la piccola fiammiferaia si lasciò scivolare a terra e, appoggiata al muro di mattoni anneriti di una fabbrica abbandonata, cercò di riprendere le forze che non vennero. Affaticata e infreddolita, accese uno ad uno gli zolfanelli che le restavano, senza riuscire a scaldarsi. Allora lasciò che il freddo la penetrasse e, mentre diventava insensibile alla morsa del gelo, si mise a pensare a certe finestre che aveva visto quando il tempo era ancora clemente, dalle quali usciva odore di buono tra un coro di voci allegre.

Raggomitolata su se stessa con la visione del calore di quelle finestre si assopì dolcemente per non svegliarsi più.

Il corpicino senza vita fu trovato l’indomani dagli uomini della nettezza urbana, venne un’ambulanza che lo trasportò all’obitorio, dove fu sezionato per il più gran bene dell’umanità.

La piccola fiammiferaia aprì gli occhi e con grande stupore si accorse di essere in un prato cosparso di papaveri rossi, ma di un rosso così rosso come solo i papaveri sanno essere rossi, di fiori gialli, di fiori azzurri e anche, ma per vederlo occorreva fare attenzione, di fiori screziati. Godendosi il tepore del sole, la piccola fiammiferaia guardò le nuvole bianche che veleggiavano nell’azzurro del cielo e si chiese com’era che d’un tratto fosse primavera e, visto che c’era, si domandò anche dove fosse finita la fumosa periferia della città. Si guardò attorno, ma della città nessuna traccia.

“Com’è che sono finita in questo bel posto?” Si chiese, e mentre se lo chiedeva scorse una donna che all’ombra di un parasole le si avvicinava.

Vedendola così bella ed elegante, la piccola fiammiferaia rimpianse di non avere più zolfanelli da vendere, perché certamente, ne era sicura, la bella signora ne avrebbe comprati e con i soldi che le avrebbe dato avrebbe potuto comprarsi una bella pagnotta calda di forno.

La bella signora, che intanto era giunta a pochi passi dalla piccola fiammiferaia, le sorrise. La piccola fiammiferaia, incoraggiata dal sorriso della bella signora, trovò il coraggio di chiederle: “Signora, per favore mi può dire dove siamo?”

“Siamo in Paradiso, piccola mia”, rispose la bella signora.

“E dov’è il Paradiso?” Chiese la piccola fiammiferaia che non aveva mai inteso parlare di un posto nomato così.

“È qui”, rispose la bella signora.

“È molto bello qui”, disse la piccola fiammiferaia, “ e mi piacerebbe starci un po’, prima che venga qualcuno a cacciarmi.”

“Ma nessuno può cacciati dal Paradiso. Qui sei a casa tua”, la rassicurò la bella signora.

“Non vedo case”, disse la piccola fiammiferaia guardandosi attorno stupita. “Comunque io di case mica ne ho.”

“Oh”, disse la bella signora, “quando la vorrai l’avrai la tua casa e fatta a misura per te.”

“Per adesso mi accontenterei di mangiare”, sospirò la piccola fiammiferaia. “È da tanto tempo che non mangio più, che nemmeno me lo ricordo.”

“Prendi questo”, disse la bella signora, tendendole un cestino della merenda che, la piccola fiammiferaia ne era certa, la bella signora non avesse con lei al suo arrivo.

“Ci troverai dentro quel che ti piace e, prima che tu abbia ancora fame, avrai la tua casa con la dispensa piena delle cose che ti verrà in testa di mangiare.”

La piccola fiammiferaia accettò con grazia il cestino della merenda che la bella signora le offriva, un po’ perché aveva fame, ma proprio una fame da lupi, un po’ perché era curiosa di vedere l’effetto che le avrebbe fatto ricevere un regalo, perché davvero nessuno le aveva mai offerto qualcosa, a parte gli scapaccioni che si prendeva quando tornava senza aver venduto tutti gli zolfanelli.

Come ebbe in mano il cestino della merenda, la bella signora le disse: “Scusami, ma ho un affare urgente da sbrigare. Ci vediamo caruccia.” E se ne andò.

La piccola fiammiferaia, visto un bel pietrone che troneggiava in mezzo al prato, lo raggiunse, vi si accomodò sopra ed aprì il cestino della merenda. “Una coscia di pollo arrosto!” esclamò, che del pollo arrosto conosceva solo l’odore. Assaggiò e scoprì che la carne calda del pollo arrosto era davvero squisita. Terminata la coscia di pollo, stava per deporre giudiziosamente l’osso nel cestino, quando vide una bella fetta di groviera, con talmente tanti buchi che faceva veramente piacere guardarla. Prendendola delicatamente tra le dita, assaggio e trovò che anche quella era buona, ma proprio buona che più buona non si può. Terminata la fetta di groviera, la piccola fiammiferaia si disse che sarebbe stato troppo bello riaprire il cestino e trovarvi dentro una banana, perché lei di banane non ne aveva mai mangiate, ma a vederle le davano veramente tanta voglia. Sollevando un pochino il coperchio del cestino della merenda, sbirciò all’interno e vide qualcosa di giallo. “Accidempoli”, fece, “vuoi vedere che c’è dentro veramente una banana! Assaggiando la banana si disse che non aveva mai assaggiato niente di così buono, ma poi pensando che non conosceva altro che il pane secco, si disse che era troppo facile e si mise a ridere, dicendosi che da quel momento sì che sarebbe stato un po’ più difficile dire una cosa così.

Ristorata, ebbe voglia di camminare, cosicché, cammina che cammina, incrociò una stradina di terra battuta.

“Deve essere la strada che porta alla casa della bella signora”, si disse osservandola e, contenta della sua scoperta, prese a seguire la stradina. Dopo un po’ che camminava all’ombra di grandi alberi fronzuti lungo la stradina di terra battuta, vide in lontananza un omaccione appoggiato alla balaustra di un ponticello.

“Deve essere il guardiano della casa della bella signora”, pensò. “Se mi chiederà chi sono e cosa vengo a fare a casa della bella signora, gli dirò che sono venuta a restituire il cestino della merenda, così mi lascerà passare.”

Con quell’idea in testa, si avvicinò all’omaccione che, intanto, accortosi della sua presenza, la stava osservando avvicinarsi.

“Come ti chiami bella bambina?” chiese l’omaccione con un vocione grosso almeno quanto la sua persona, appena la piccola fiammiferaia fu a portata di voce.

“Sono la piccola fiammiferaia, rispose la piccola fiammiferaia.

“Mica è un nome Piccola Fiammiferaia!” fece sapere l’omaccione.

La piccola fiammiferaia sentendosi piccola piccola di fronte all’omaccione, con un filo di voce rispose: “Signore, temo di non aver altro nome che questo.”

“Suvvia, disse l’omaccione, non vorrai mica che la gente passi il tempo a chiamarti Piccola Fiammiferaia, no!?”

La piccola fiammiferaia, che non sapeva cosa rispondere, si strinse nelle spalle.

“Fiammetta!” Esplose il vocione dell’omaccione. “Ti va se ti chiamerò Fiammetta?”

“Oh, Fiammetta è proprio un bel nome, rispose la piccola fiammiferaia. Lei è davvero gentile ad avermi trovato un nome così bello.”

“Oh, non è niente”, rispose l’omaccione. “È che sono un poco poeta.”

“E cosa è che fa un poeta?” Volle sapere la piccola fiammiferaia, che ora si chiamava Fiammetta.

“Scrive parole, ma non proprio parole qualunque, ma delle parole che messe insieme prendono un senso che nessuno sospetterebbe che potrebbero assumerlo delle parole qualunque messe insieme.”

“Ah”, fece Fiammetta, “deve essere un mestiere difficile fare il poeta.”

“Dipende”, disse l’omaccione. “Certi giorni è difficile difficile e certi giorni è facile facile, solo che non sai mai quando è uno dei giorni difficili o uno di quelli facili, ma è solo il giorno dopo che sai che il giorno avanti, quello che pensavi fosse un giorno di quelli facili facili era invece uno di quelli difficili difficili, ma così difficili che non ti dico, oppure il contrario, che quello che pensavi fosse un giorno difficile era invece un giorno facile facile, come quelli che se ne vedono pochi.”

Impressionata, Fiammetta guardò l’omaccione piena di ammirazione e disse: “Accidenti, deve essere più difficile fare il poeta che vendere zolfanelli all’angolo della strada.”

“Devi avere ragione, piccola, perché davvero a me nessuno, ma proprio nessuno, ha mai comprato una sola poesia.”

“Poveretto”, disse Fiammetta, “e com’ è che ti riusciva di tirare a campare?”

“Mica mi è riuscito”, disse l’omaccione col vocione che si era fatto triste.

“Sono crepato di fame. O meglio stavo tranquillamente crepando di fame quando è arrivato un gruppo di agenti antisommossa che a colpi di sfollagente mi ha aiutato a rendere l’anima.”

“Avevi rubato un’anima!?” chiese Fiammetta stupita, anche se non aveva la minima idea di cosa potesse essere un’anima.

“Oh, è solo un modo di dire”, spiegò l’omaccione. “Comunque senza saperlo, gli sbirri quel giorno mi fecero un favore, ma proprio un gran favore.”

“Non capisco dove stia il favore nel bastonare un povero poeta che crepa di fame...” disse Fiammetta, confusa.

”È che poi mi sono ritrovato qui, e qui sto bene”, spiegò l’omaccione.

“Non ci sono sbirri qui in Paradiso?” Chiese Fiammetta con un filo di voce.

L’omaccione rise con un vocione così grosso, che tutto lì intorno sembrò ridere con la sua stessa voce.

“Certo che ce ne sono di sbirri, mia cara, ma stanno al loro posto.” Così dicendo l’omaccione indicò in basso del ponte.

Curiosa Fiammetta diede un’occhiata e vide una mandria di agenti antisommossa che grufolava nel torrente a secco.

“Cos’è che mangiano? Non vedo niente che si possa mangiare nel greto, a meno che non si mangino i ciottoli.”

“Ognuno mangia la cacca dell’altro”, disse l’omaccione.

“E perché si mangiano l’un l’altro la cacca?” Fece Fiammetta disgustata.

“Così imparano ad aver fatto gli agenti antisommossa.”

“Ma è disgustoso!” disse Fiammetta storcendo la bocca.

“Anche loro lo trovano disgustoso, solo che non possono fare a meno di papparsi l’un l’altro la cacca.

Ad un tratto a Fiammetta parve di riconoscere lo sbirro del giorno prima. “Lo conosco quello!” Esclamò.

“Quello? È appena arrivato, e te lo dico io che dovrà mangiarne di cacca!”

“Ma tu come fai a sapere tante cose ? chiese Fiammetta.

“È che sono il guardiano della mandria e il mio compito è quello di non lasciarli dormire sino a che non hanno mangiato la loro razione di cacca quotidiana.”

“Oh”, fece Fiammetta, “davvero non è un bel lavoro per un poeta.”

“Ma è già meglio che stare al loro posto.”

“Di questo non dubito proprio”, disse Fiammetta con un brivido.

Poi aggiunse: “Ora devo andare, la bella signora che ho incontrato mi ha detto che avrò una casa fatta su misura per me e non vorrei proprio che fosse vicino a quei tipi cattivi.”

“Tu devi aver incontrato la Madonna, disse l’omaccione. Non ti sei accorta che era la Madonna?

“Chi è la Madonna?” Chiese Fiammetta.

“È la dea più antica dell’universo”, spiegò l’omaccione

“E cosa è una dea?” volle ancora sapere Fiammetta.

“Ecco... una dea è... come dire ? Un essere, ma non proprio un essere, ma più di un essere, che comunque è un essere, perché per essere è, che insieme ad altri esseri come lei ha fatto in modo che questo universo esistesse.”

“Accidenpoli ! E una donna... voglio dire una dea così si è fermata a parlare con me, esclamò Fiammetta, considerando per la prima volta, il suo vestitino grigio che era tutto un rattoppo.”

“Oh”, fece l’omaccione, “se è per questo l’altro giorno giocavo a briscola con Manitù e ho anche vinto un totem e tre amuleti.“

Fiammetta non sapeva chi fosse questo Manitù, ma pensando dovesse essere come la Madonna o qualcosa così, fu molto, ma molto impressionata.

“Bene”, non ti trattengo, disse l’omaccione. “Vedo là due bighelloni che se la dormicchiano e devo andare a dargli la sveglia.... Ah dimenticavo, mi chiamo Cosetto.”

“Felice di aver fatto la tua conoscenza, Cosetto”, disse Fiammetta, e si allontanò contenta, ma proprio contenta che non avrebbe saputo dire quanto fosse contenta.

Percorso qualche chilometro, la stradina si inoltrava in un bosco grande almeno come una foresta. La piccola fiammiferaia che ora si chiamava Fiammetta, non aveva mai inteso parlare di lupi e di altri pericoli che, non si sa perché, ma si nascondono sempre, ma dico sempre sempre nei boschi, non fu neanche un pochino spaventata di entrare nel bosco, e invece di rabbrividire nell’ascoltare le voci misteriose del bosco, ne fu incantata.

Camminando tranquilla tra la foresta di alberi del bosco, ascoltava il cuculo cuculare, il merlo merleggiare e gli altri uccelli uccellare e, quando udì il rumore di una cascatella, ancor più incuriosita, si mise a seguire un ruscello che ruscellava lì per caso, per vedere com’era che l’acqua facesse tanto baccano. Quando Fiammetta vide l’acqua gettarsi dall’alto di un monticello, saltellando di roccia in roccia, restò ancora una volta incantata, ma così incantata che non si accorse subito dello zufolare che pareva provenire da una vecchissima quercia frondosa, ma così frondosa, che se fosse stata solo un po’ più frondosa avrebbe rischiato di non essere più una quercia. Però alla fine Fiammetta intese lo zufolare e chiedendosi come mai una quercia così vecchia sentisse il bisogno di zufolare le si avvicinò e toh, mica era la quercia che zufolava, bensì un ragazzino che soffiava dentro un flauto di Pan.

A vero dire Fiammetta non sapeva bene se fosse giusto definirlo un ragazzino quello che suonava il flauto di Pan, perché quello era un ragazzino solo per metà, mentre per l’altra metà si sarebbe proprio detto una capra.

“Cos’è che sei ?” gli chiese Fiammetta, che non aveva mai visto niente di simile.

Il metà ragazzino, metà capra, smise di zufolare e senza mostrarsi sorpreso dalla presenza di Fiammetta rispose: “Ma sono un fauno, che altro se no !?”

“E cosa fanno i fauni, a parte zufolare, s’intende”, volle sapere Fiammetta.

Il fauno si grattò pensieroso uno dei due cornetti che gli spuntavano dalla fronte, poi rispose: “Normalmente i fauni fanno i fauni, come le ninfe fanno le ninfe. Però io adesso ti stavo aspettando e mentre aspettavo zufolavo”.

“Tu sapevi che sarei passata di qui!?” fece Fiammetta stupita.

“Sì”, rispose il fauno. Me lo ha detto Venere. Sai, la signora che ti ha dato il cestino della merenda.”

“Pensavo che quella signora si chiamasse Madonna, disse Fiammetta. Almeno così mi ha detto Cosetto.”

“Oh, Cosetto ha ragione”, acconsentì il fauno, “ma è che Venere ha molti nomi. Anche noi fauni a volte la chiamiamo Venere, a volte Afrodite, altri la chiamano la Dea madre, altri ancora la chiamano Maria, a volte Madonna...”

“Deve essere perché è una dea che ha tanti nomi”, rifletté Fiammetta interrompendo l’elencazione del fauno.

“Ecco è così, hai proprio capito”, fece il fauno battendosi il pugno sul palmo della mano.

“Invece tu come ti chiami?” chiese Fiammetta.

“Il mio nome è Panuccio. Dimmi ti piace il mio nome?”

“Moltissimo”, fece Fiammetta. “Panuccio è davvero un bel nome, tanto bello che deve essere Cosetto ad avertelo dato.”

“Verissimo”, fece il fauno, “è stato proprio Cosetto a chiamarmi Panuccio. Prima del suo arrivo in Paradiso mi chiamavo solo Fauno, proprio come tutti gli altri fauni, cosicché quando uno si metteva a chiamare un fauno era davvero un pasticcio, perché nessuno sapeva quale fauno chiamasse, ma adesso so che quando uno chiama Panuccio è proprio me che chiama e mi risparmio un sacco di corse inutili.”

“E com’è che si chiamano gli altri fauni?” volle sapere Fiammetta.

“Cosetto ha dato un nome a ciascuno di loro, ma la lista sarebbe troppo lunga per elencartela adesso. Però Cosetto è un vero onomatopeuta e Venere, voglio dire la Madonna, è davvero contenta e uno di questi giorni lo farà salire alla seconda sfera celeste.”

“Sì, ripose Fiammetta, Cosetto è davvero un gran onocoso... voglio dire, poeta.”

Mentre discorrevano, Panuccio e Fiammetta avevano raggiunto la stradina e insieme si misero a percorrerla. Panuccio spiegava a Fiammetta com’era la vita lì in Paradiso e di come fosse sufficiente desiderare una cosa per ottenerla, ma che per ottenerla bisognava avere un’idea precisa di cosa desiderare, cosicché non era possibile ottenere una cosa di cui si era soltanto sentito parlare, ma che bisognava averne avuto l’esperienza, cioè averla conosciuta, ed era per questo che tutti incontravano tutti, perché così si scambiavano esperienze e più esperienze si facevano più la vita diventava gradevole, perché lì la vita era lunga quanto l’eternità, neanche un secondo di meno, ma che se uno al posto di annoiarsi diventava proprio bravo nel fare qualcosa, ma proprio una cosa qualunque, allora Venere, cioè la Madonna, appena aveva un momento di tempo libero, veniva a darti il biglietto per andare nella seconda sfera celeste e lì si cominciava una nuova vita, che però nessuno sapeva come fosse, ma visto che nessuno tornava indietro, tutti pensavano che lassù si dovesse proprio stare bene, senza tutte quelle mandrie di lazzaroni schifosi che pascolavano e impestavano l’aria e poi c’era da dire che...

Per Fiammetta la seconda sfera celeste per il momento poteva stare dove si trovava e ammantarsi di tutto il mistero di cui voleva ammantarsi. Per ora si accontentava del vestitino rosso, ma proprio rosso rosso come solo sanno essere rossi i pa paveri, che aveva sostituito lo straccetto grigio unto e busunto, tutto un rattoppo, che indossava pocanzi, e delle scarpette di vernice nera, con il bottone sul lato che brillavano che era un piacere vederle... e poi là, in cima alla collina, non era forse la sua quella casetta d’odoroso legno di pino col tetto appuntito appuntito, tutta ricoperta d’edera verde, ma così verde come solo l’edera sa essere verde?

Sergio Cena

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Laboratorio di Narrativa: Sergio Cena

25 Febbraio 2015 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #poli patrizia, #racconto

Laboratorio di Narrativa: Sergio Cena

Ha il tono di una vecchia ballata, “Leggenda di periferia”, di Sergio Cena. Un uomo, una donna, la vita di strada, l’aggressione da parte di tre naziskin. Lui tratta male la compagna, la insolentisce, ma quando è il momento di difenderla non si tira indietro. Due persone ai limiti della società, libere e prive di legami, se non la solidarietà che unisce l’una all’altra e che si rinnova ogni giorno, come se si riscegliessero ogni volta, di là da ogni convenzione. Personaggi che si muovono in una periferia degradata come nel vecchio West, oppure sul palcoscenico di un teatro beckettiano.

L’iniziale descrizione d’ambiente è davvero molto efficace e anche lirica. Un po’ meno lo sono i dialoghi, dove la volgarità un po’ insistita appare di maniera.

La continua ripetizione di "l'uomo disse" ,"la donna disse", con l'aggiunta di "con voce lamentosa, con voce piagnucolosa etc etc", rende poco agile e moderna la narrazione. (Patrizia Poli)

Inviate i vostri racconti a ppoli61@tiscali.it specificando in oggetto: "Laboratorio di Narrativa"

LEGGENDA DI PERIFERIA

Era un vecchio angolo di periferia di città, un grigio suburbio cadente e inselvatichito. Anche i muri di scuri mattoni, al limitare dei deserti complessi industriali, parevano grigi alla luce dei fiochi, rari lampioni che costeggiavano la strada che s’allungava sino ai campi di grano. Fosche, nere e inquietanti erano invece le costruzioni che si potevano intravedere al di là dei muri, con le vetrate spezzate, simili a voraci bocche sdentate; le ciminiere inerti che ancora conservavano il ricordo di fumi avvelenati; i tralicci di ferro contorti e i gasometri sfiatati. Sui marciapiedi di cemento crepato, lungo i muri, e sul bordo della strada, unico segno di vita, vegetavano stantie e secche erbacce, giallastre alla luce del sole, ma ora simili a cenere. Una cicoria, testarda e disperata aveva bucato il catrame della strada e, trionfante, era fiorita con un unico misero fiore di un celeste slavato. Da un lato la strada si perdeva nel buio della campagna, dall’altro sfociava nella luce stantia, opaca, polverosa di una piazza, ultima propaggine abitata della città dove una rossa insegna luminosa lampeggiava come un richiamo sbiadito dal tempo.

Fu da quel lato che ad un tratto cominciarono ad udirsi delle voci. Voci lontane che echeggiavano incomprensibili e aliene lungo i muri della strada deserta. Erano la voce di un uomo cui rispondeva una voce femminile, a passo lento, dolente, avevano preso a risalire la strada. Man mano che i due si inoltravano nella cupa zona industriale le loro parole si facevano più intelligibili sino a esprimere frasi sensate.

“Miché, piagnucolò ad un tratto la donna. Non ho più gambe, fermiamoci.”

“Mica possiamo fermarci in mezzo alla strada, rispose l’uomo con voce spazientita. Non hai visto i lampi che ci sono? Dagli mezz’ora e verrà giù che dio la manda.”

“Non mi sento più i piedi”, si lamentò ancora la donna.

“Cristo di un dio schifoso”, bestemmiò l’uomo. “Guarda te se mi devo trascinare dietro sta vecchia baldracca.”

“Ma qui ci sono soltanto muri, che riparo vuoi che ci diano!?” Si lamentò la donna.

“Sto cercando una guardiola, disse l’uomo esasperato. Ci sarà pure un cazzo di guardiola con tutte queste vecchie fabbriche, no!?”

“Non dovevi lasciare che ci cacciassero da dove si era, disse la donna. Va a sapere dove andremo a finire adesso.”

“In culo al diavolo andremo, ma dammi il tempo di arrivarci.

“Si stava così bene in quel capanno”, riprese a lamentarsi la donna. “Ci hanno messo fuori come due cani rabbiosi. Non avresti dovuto permetterlo.”

“Non avrei non avrei... cosa avrei dovuto fare secondo te, eh!? Erano quattro contro me solo. Ma un posticino finiremo per trovarlo, te lo dico io, cristo di un dio!”

“Non sappiamo nemmeno dove stiamo andando, lamentò la donna. È da stamattina che camminiamo e non siamo arrivati in nessun posto.”

“Qui siamo arrivati, disse l’uomo indicando una guardiola dalla larga vetrata sfasciata.”

La donna osservò dubbiosa il gabbiotto e sospirò: “Se si mette a piovere a tempesta non servirà a molto come riparo.”

“Sempre meglio che stare sotto la pioggia battente”, rispose l’uomo deponendo il sacco che si trascinava appresso all’interno della guardiola.

Scavalcò la vetrina e con un piede accumulò in un canto le schegge di vetro frantumato, poi aiutò la donna a passare all’interno.

La donna ascoltò il raschiare dei vetri sparsi che l’uomo continuava ad accumulare e si guardò intorno. Era nero ma si poteva scorgere la sagoma di un sedile. Ne tastò la resistenza e vi si lasciò cadere con un sospiro.

“Mica sarà facile dormire qui dentro con tutti questi vetri rotti”, disse osservando il luccichio sinistro delle schegge appuntite. “Abbiamo solo una coperta.”

“Prendila te, disse l’uomo. Io mi aggiusterò comunque.”

“Ho fame, si lamentò la donna. È da ieri che non mangio nulla.”

“Anch’io non ho mangiato niente, ma mi lamento io, vecchia baldracca?”

“Ho fame lo stesso”, insistette la donna.

“Cristo di una madonna puttana!” Bestemmiò l’uomo scavalcando il vuoto della vetrata. “Proprio a me doveva capitare sta lurida vecchiaccia che non la finisce mai di lamentarsi.”

Si cacciò le mani in tasca e si allontanò verso la piazza blasfemando tra i denti.

La donna disfece il fagotto che l’uomo aveva con sé, ne uscì una vecchia coperta militare, strusciò col piede lungo la parete di fondo del gabbiotto per assicurarsi che non vi fossero schegge di vetro, poi depose a terra la coperta e vi si allungò sopra poggiando il capo su quello che era rimasto del fagotto. Era così stanca che si sarebbe addormentata subito, ma le faceva paura restare sola in quel luogo sconosciuto, cosicché chiuse gli occhi, ma restò con le orecchie tese, in attesa che a Miché sbollisse l’ira e tornasse da lei.

I passi dell’uomo si fecero udire dopo una mezz’ora. Camminava con calma e fischiettava.

“Eccomi vecchia baldracca”, disse con voce allegra scavalcando il vuoto della vetrina. “Eccomi con due belle pizze Margherita tutte per noi.”

La donna si mise di scatto a sedere. Alle sue narici era giunto l’odore grato del cibo che le diceva che Miché non si stava prendendo gioco di lei.

“Attenta che è bollente”, disse l’uomo porgendole una scatola.

L’uomo estrasse dalla scatola la seconda pizza e la piegò in due, ne addentò un pezzo e strillò: “Cazzo se scotta, attenta vecchia che se mordi, calda com’è, ti cascano tutti i denti.”

“Ho troppo fame per lasciare che si raffreddi”, disse la donna a bocca piena.

Per un po’ masticarono in silenzio, poi la donna chiese: “Miché, come le hai pagate le pizze?”

“Trovato macchina aperta con borsello dentro”, spiegò l’uomo. “ Ho potuto comprare anche una birra e un’aranciata e mi è rimasta ancora un po’ di moneta.”

“L’aranciata!” Sospirò la donna. Mi è sempre piaciuta l’aranciata, sin da quando ero piccola.

“Le baldracche come te non nascono piccole, disse l’uomo. Nascono vecchie e baldracche.”

“Fa niente, disse la donna. Mi è sempre piaciuta lo stesso.”

Terminata la pizza, l’uomo tese la lattina alla donna e restarono a bere lui birra, lei aranciata.

“Mi ha fatto venir voglia di fare pipì”, disse la donna con voce lamentosa.

“Non aprire le cataratte del Niagara qui dentro!” Scattò l’uomo.

“Dammi una mano a uscire, va’”, disse la donna avvicinandosi alla vetrata.

La donna era appena uscita che l’uomo sentì provenire dall’esterno uno strano rumore come di pietrisco scosso dentro un sacco. Anche un gemito gli sembrò di udire, ma di questo non era sicuro.

“Cosa diavolo stai facendo baldraccona!?” Chiese sporgendosi oltre il bordo vuoto della vetrata.

Vedendo che la donna non rispondeva, scavalcò la vetrata, ma, fatto qualche passo, si arrestò. Subito subito pensò fossero poliziotti, poi guardie notturne, poi vide gli stemmi nazisti che brillavano cupamente sulle nere giacche attillate e capì. Si pulì le mani sul retro dei pantaloni e li osservò. Erano tre e lo stavano fissando con biechi sorrisi osceni. Gli sembravano proprio teste di morto. In mano tenevano catene da motocicletta che luccicavano sinistramente alla luce di un lampione. L’uomo capì che erano quelle ad aver fatto il rumore di pietrisco, allora il suo sguardo si posò al suolo e vide la donna giacere a terra.

Un urlo profondo gli scaturì dalle viscere e si dilatò nell’aria notturna squarciandola come un sipario di tela. Senza segno di preavviso si voltò di scatto e si precipitò addosso al teppista che stava alle sue spalle. Quello, preso di sorpresa, non ebbe il tempo di reagire. Trascinato sin contro la vetrata della guardiola, perse l’equilibrio e cadde all’interno la testa per prima.

Cadendo, il teppista si era lasciato sfuggire la catena che stringeva in pugno. L’uomo la raccattò d’un balzo e si voltò per affrontare gli altri due teppisti, ma la strada era tornata a essere deserta. Piegato leggermente sulle gambe, il volto trasformato da una diabolica maschera truce, l’uomo calmò l’ansito che lo asfissiava e si guardò attorno facendo roteare lentamente la catena, ma dei due non c’era più traccia.

“Miché”, chiamò flebile la donna. “Miché m’hanno schiantata.”

L’uomo si inginocchiò accanto alla donna e le sollevò il capo. “Cosa ti hanno fatto quei bastardi?”.

“Non lo so”, piagnucolò la donna. “Stavo per mettermi a fare pipì quando mi è precipitato addosso, sulla testa, sulla faccia e sulle spalle un fracco di botte. Dio santo, Miché, sono tutta un bruciore.”

“Vieni, vecchia mia”, disse l’uomo aiutandola a rimettersi in piedi. La osservò alla luce del lampione, ma si accorse solo di un segno rosso, da cui si affacciavano regolari gocciole di sangue, che le attraversava una guancia.

“Non è niente, vecchia baldracca”, disse l’uomo, tamponandole il volto con uno sporco pezzo di stoffa che gli serviva da fazzoletto. “Domani sarà tutto passato.”

Impaurita, la donna prese lo straccio e se lo tenne sulla guancia guardandosi intorno. “Quanti erano Miché? Dio santo che fracco me ne han fatto.”

“Erano tre, ma questa volta non mi sono lasciato fare, vecchia mia.”

La donna si guardò attorno con occhi dilatati. “Andiamocene di qui prima che quelli tornino”, disse con voce lamentosa.

Mentre parlava, la donna era indietreggiata sino alla guardiola, si voltò e cacciò un urlo. Si precipitò accanto all’uomo, lo afferrò per le braccia e balbettò: “Ce n’è uno là dentro che mi sta guardando!”

L’uomo improvvisamente si ricordò del teppista che aveva spinto all’interno della guardiola. Tornò a far ruotare la catena e si avvicinò cauto alla vetrata.

Il teppista era steso a terra. Il suo corpo era disarticolato, ma, col capo appoggiato su un grosso ciottolo, lo guardava con occhi fissi, maligni. L’uomo lo osservò attentamente per capire se fosse veramente stecchito, ma il teppista era davvero afflosciato. Pensò al loro misero bagaglio rimasto all’interno della guardiola e rabbrividì. Non gli andava proprio per niente di tornare là dentro, ma la donna lo guardava e non avrebbe accettato di partire senza il poco che avevano.

“Recupero la nostra roba e ce ne andiamo”, Scavalcò il buco della vetrata di lato, in modo da tenersi il più possibile lontano dal cadavere. I suoi piedi scricchiolarono sul mucchio di schegge vetro che aveva accumulato. Al rumore l’uomo rabbrividì tanto gli parve rumore di ossa infrante. Senza perdere d’occhio il cadavere, raccolse la coperta, si impose di prendere il tempo di piegarla per sistemarla nel fagotto, lo chiuse con un nodo e lo lanciò fuori dalla vetrata proprio mentre la donna gli diceva di affrettarsi.

Scavalcata la vetrata, l’uomo prese sottobraccio la donna e si avviarono verso il nero bucato a tratti da lampi lontani.

“Ne hai steso uno, Miché”, disse la donna.

“Cristo, non permetto a nessuno di toccare la mia vecchia baldracca”, disse l’uomo.

“Ma erano tre...!” Fece la donna con una punta di fierezza nella voce.

“Tranquilla, vecchia mia”, disse l’uomo. “Ne voglio cento di quei miserabili. Se uno solo cerca di toccarti, io faccio un macello, faccio.”

Le due figure oltrepassarono l’ultimo lampione e furono ingoiate dalla notte.

Rimase solo la voce della donna che lamentosa chiedeva: “Dove andiamo a sbattere Miché? Guarda che lampi! Hai idea di dove si possa andare a sbattere Miché?”

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Russa o Rumena?

28 Gennaio 2015 , Scritto da Paolo Mantioni Con tag #paolo mantioni, #racconto

Russa o Rumena?

Saltuariamente, senza quella cadenza regolare che mi consenta approssimativamente di prevederne il ritorno, come per la gran parte dei clienti abituali, una bella signora di mezza età viene a mangiare un trancio di pizza, sempre la stessa varietà e la stessa quantità, e a bere una mezza minerale naturale nella mia pizzeria. I tratti somatici e le poche parole che le sento pronunciare la qualificano d’acchito come straniera. Compattamente bionda, di certo, vista l’età presunta, con l’ausilio di tinture o coloranti o, magari, semplicemente di acqua ossigenata, minuta, aggraziata, colpisce per l’eleganza naturale dei movimenti, per la riservatezza dello sguardo, per l’economia di parole, per il sorriso gentile, non manierato, per il viso armonico, abbronzato, sobriamente truccato. Tutto il suo aspetto non dice nulla di più di ciò che si vede, anzi sembra voler dire qualcosa di meno, come volesse sottrarre una parte di sé allo sguardo altrui. E veste fuori moda: camicette coi gugni, o con le mezze maniche a sbuffo, infilate, ben sopra il bacino, in gonne svasate sotto il ginocchio o in pantaloni semiscampanati su scarpe a mezzo tacco, colori uniformi, vivaci talvolta, ma mai festaioli. Un’immagina nitida di cura di sé e di pulizia, senza la pastosità dell’ostentazione o della civetteria.

Gentile, e bellissima, Signora,

Mi rivolgo a Lei per lettera non per timidezza o perché non sia in grado di creare l’occasione di incontrarla falsamente per caso, ma perché, come Lei e i Suoi modi, i Suoi abiti, le Sue scarne parole, il Suo sorriso trattenuto, i Suoi gesti sottovoce, i Suoi sguardi retrivi, la lettera è fuori moda.

Straniera, di sicuro. Mi piace immaginarle il destino di una nobile russa decaduta, travolta e scacciata dalla Rivoluzione, ospitata in casa di qualche ricco borghese ad insegnare francese, canto e pianoforte ad una fanciulla in attesa di maritarsi, nascondendole l’orrore, lo sgomento, il lutto. Ma non siamo all’inizio del secolo delle rivoluzioni. E allora potrebbe essere una rumena: pulizie ad ore, coi mariti fuori casa e le mogli ad insegnare ciò che non sanno fare.

Una lettera anche perché, eventualmente, l’incontro non sia casuale. La nostra età – no, non si offenda, qualunque sia la Sua non giovane età, Lei ne è più giovane e più bella – la nostra età dovrebbe consentirci di essere franchi. Lei mi piace, mi piacerebbe parlarLe e sentirLa parlare, guardarLa negl’occhi, senza essere maleducato o importuno. Sì, certo, se poi, dopo, chissà, potessi anche carezzarLe la guancia, lisciarLe i capelli, sistemandoglieli dietro l’orecchio, tenere il palmo della mano sulla Sua nuca, poggiare le labbra alle Sue, intrufolare la lingua nella Sua bocca, sentirmene ricambiato… Ma non è solo questo, o non è, innanzitutto, questo.

La vedo entrare e avvicinarsi alla casa e continuo a guardarla mentre paga e aspetta, poi continuo a guardarle la schiena, seduta sullo sgabello di fronte al bancone, davanti alla piccola mensola dove poggia con gesti misurati e attenti l’involucro della pizza e la bottiglietta di plastica. La guardo non come un pizzaiolo guarda una cliente, ma come un uomo guarda una donna. Indossa un vestitino trasparente, di cotone chiaro, a fiorellini, simili a quelli con cui le militanti dei collettivi studenteschi ricoprivano il loro corpo acerbo, arrabbiato e fremente. Quella trasparenza, che in altri tempi e altri luoghi, la bella signora avrebbe attenuato o del tutto nascosto, è una piccola concessione alla disinvoltura delle mode attuali. Ne approfitta, forse, per liberarsi del fastidio estivo di una sottoveste. Avevo acquisito una certa esperienza. Ero esercitato e conoscevo bene l’incrocio di traiettorie che mi avrebbe permesso di accentuare quella trasparenza fino a vedere il più possibile. Mi sono appostato nel punto del bancone che l’ora e la stagione mi suggerivano: un raggio di sole tra un attimo l’avrebbe trafitta sulla soglia. Tra poco avrei visto, di più, quasi tutto. Un imbecille, dall’altro lato del bancone, pretendendo di scaldare un po’ di più il suo trancio già morso, nota che indugio e pensa di gratificarmi con un’espressione complice per la quale la risposta più giusta sarebbe un manrovescio.

Mi decido a scriverle la lettera.

Davvero, innanzitutto vorrei dare un contenuto empirico alla Sua forma, alla Sua bellezza che è una promessa. E tanto più struggente perché è una bellezza anche retrospettiva. Quanto dev’essere stata bella da giovane! No, non si sorprenda o non mi schernisca perché un pizzaiolo possa usare l’espressione “contenuto empirico”. Chi, meglio di Lei, Russa o Rumena, può tollerare l’imprevedibilità della vita? Avrebbe mai pensato, da bambina, che il futuro sarebbe stato fatica in un paese straniero?

La faccio tradurre in russo e in rumeno, in corsivo e ne ricopio a mano entrambe le versioni, imbrogliandomi un po’ coi caratteri cirillici, sforzandomi di mantenerli intellegibili. Piego i tre fogli e li infilo in una busta sulla quale scrivo

Per ЉАЯ Pentru.

Ne aspetto il ritorno.

Vede, la Sua grazia naturale, il Suo viso così ossuto che la pelle sembra stentare a ricoprire, la Sua bocca tanto restia a dischiudersi, i Suoi occhi che, ricorderà, quel giorno ho sorpreso torcersi verso di me, sono una promessa di delizie che basterebbe a se stessa, se non volessimo sempre di più, se non sentissimo il bisogno di riempire quella forma di un contenuto che quasi sempre la involgarisce, ma non dobbiamo farne a meno, dobbiamo rischiare. Le sembro troppo impegnativo? La vita Le sembra già abbastanza tribolata per aggiungervi le farneticazioni di uno che in fondo vuole quello che vogliono tutti? Allora, sarà stato comunque bello averLa non conosciuta.

Eccola. La raggiungo mentre mangia. Le sorrido, le porgo la lettera. “Signora, mi farebbe la cortesia di scrivere il suo nome, qui” punto il dito sotto la triplice versione del “per”, porgendole la penna. Pensa, credo, ad una specie di concorso, ad un gioco a premi per clienti. Scrive. Riprendo la busta. Leggo: “Mara”. “No, Signora, non il nome che usa in Italia, ma il nome con cui la chiamava Sua madre”. Mi guarda infuriata, pensa, credo, “ma come si permette questo di intromettersi nella mia intimità”. Tengo duro, continuo a guardarla negli occhi, senza implorare, senza ironizzare, senza deflettere. Non so perché, ma riscrive il suo vero nome sulla lettera a lei indirizzata.

“Mara Rossi”

“Italiana?”

“Sì, italiana. Perché le sembra strano?”

“No, no, per carità!” Non so se si potesse percepire anche dall’esterno, ma dentro vibravo, e, mentre stavo pronunciando la domanda, sentivo che stavo giocando un tutto per tutto, “non si sarà mica offesa che l’abbia scambiata per una straniera?”

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Inside out

27 Gennaio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Con oggi sono tre anni, ormai, che sto dentro. Il mondo fuori comincia un poco a sbiadire. Mi hanno chiuso qui quando l’ho deciso io, mi sono fatto prendere. Non che si stia proprio male, ma lo spazio è molto limitato. Pochi metri quadri, tanta gente di tutti i colori, un bagno sempre intasato e un lavandino che cola e ci tiene svegli la notte. Il vitto è un po’ scadente, il caffè una ciofega, però si mangia tre volte il giorno, abbiamo pasti caldi, televisione, infermeria, connessione a internet, un piccolo cinema per la domenica. Questa prigione non è peggiore di tante altre ed era quella più a portata di mano.

Sto in carcere perché me lo merito, mi sono guadagnato questa cella. Anche gli altri compagni. Ne parliamo spesso quando ci incontriamo nel corridoio, in biblioteca e nella sala comune, dove la televisione è sempre accesa su telegiornali che riportano orrendi fatti di cronaca. Madri che strozzano i figli, mariti che accoltellano le mogli, medici che ammazzano i pazienti, e poi corruzione, tangenti, malaffare, omicidi, stupri, rapine a mano armata, risse. Non seguiamo nemmeno, non vogliamo più sapere niente, siamo qui per dimenticare quella vita.

Anche lo psicologo che incontriamo una volta la settimana ci aiuta molto a comprendere la portata della nostra situazione e a viverla al meglio. Parla di accettazione, di serenità ritrovata, di far buon viso a cattivo gioco. Me lo merito di stare qui, ripeto, per come mi sono sempre comportato fin dal primo giorno della mia vita, con i colleghi di lavoro, con i miei genitori, gli amici, mia moglie e i miei figli. Sono sicuro che qui è dove devo stare.

La vita fuori, quando ci ripenso, mi spaventa, anche se mantiene un certo fascino romantico: libera, sempre sul filo del rasoio, piena di azzardi e pericoli. Qui è tutto un po’ troppo uguale, troppo piatto dall’alba al tramonto. Ma la consapevolezza di meritare questo posto e questo genere di esistenza aiuta a superare i momenti di nostalgia. Come dice sempre il mio compagno di cella, che fuori faceva l’avvocato: “Ognuno raccoglie ciò che ha seminato”.

Ed io, questo ho seminato e questo raccolgo.

Nell’anno 2069 il tasso di criminalità era ormai a livelli così alti da rendere impossibile una vita normale. La corruzione, il malaffare, gli omicidi di mafia, gli stupri, le violenze dentro e fuori la famiglia, erano cresciuti a un livello intollerabile, rendendo le città invivibili e provocando l’esplosione delle carceri. Ciò costrinse i governi ad una rivoluzione copernicana. I pochi cittadini onesti ormai rimasti sulla terra ottennero la possibilità di entrare in carcere al posto dei detenuti, i quali furono rimessi in libertà. Chi lo desiderava, poteva far domanda per essere imprigionato, in modo da vivere protetto da quattro mura sorvegliatissime e non correre più rischi. Le file per entrare si allungavano di giorno in giorno, e, alla fine, solo i migliori, quelli che con interminabili certificazioni potevano comprovare una vita specchiata, meritarono l’ambito posto dentro.

I've been inside for three years now. The world outside begins to fade a little. They closed me here when I decided, I got caught. Not that it feels bad, but space is very limited. A few square meters, many people of all colors, a bathroom always clogged and a sink that runs and keeps us awake at night. The food is a bit poor, the coffee is a “ciofega”, but we eat three times a day, we have hot meals, television, infirmary, internet connection, a small cinema for Sunday. This prison is no worse than many others and was the most handy.

I'm in prison because I deserve it, I earned this cell. Even the other companions. We often talk about it when we meet in the corridor, in the library and in the common room, where the television is always on on news programs that report horrible news. Mothers who choke their children, husbands who stab their wives, doctors who kill patients, and then corruption, bribes, malfeasance, murders, rapes, armed robberies, fights. We don't even follow, we don't want to know anything anymore, we're here to forget that life.

Even the psychologist we meet once a week helps us a lot to understand the extent of our situation and to live it to the fullest. It speaks of acceptance, of newfound serenity, of making the best of our new life. I deserve to be here, I repeat, because of how I have always behaved since the first day of my life, with work colleagues, with my parents, with friends, my wife and children. I'm sure this is where I have to be.

Life outside, when I think about it, scares me, even if it maintains a certain romantic charm: free, always on a tightrope, full of risks and dangers. Everything is a little too equal here, too flat from sunrise to sunset. But the awareness of deserving this place and this kind of existence helps to overcome the moments of nostalgia. As my cellmate, who was a lawyer outside, always says: "Everyone reaps what he sowed".

And this I sowed and this I reap.

 

By 2069 the crime rate was at such high levels that a normal life was impossible. Corruption, malfeasance, mafia murders, rape, violence inside and outside the family, had grown to an intolerable level, making cities uninhabitable and causing prisons to explode. This forced governments into a Copernican revolution. The few honest citizens now left on earth were given the opportunity to enter prison instead of prisoners, who were released. Those who wanted it could apply to be imprisoned, so as to live protected by four closely guarded walls and not take any more risks. The queues to enter lengthened day by day, and, in the end, only the best, those that with endless certificates could prove a life beyond reproach, deserved the coveted place inside.

 

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Poveri loro

26 Gennaio 2015 , Scritto da Paolo Mantioni Con tag #paolo mantioni, #racconto

Poveri loro

Pasquale Sorrento era annoverato nella categoria degli scassacazzo-pagatori. Gli scritturisti, i venditori e i proprietari delle ditte del mercato generale del pesce di Roma classificavano i compratori, i pescivendoli al dettaglio, in base alle potenzialità d’acquisto, al grado di malleabilità nelle trattative e, soprattutto, alla celerità dei pagamenti (subito, in contanti, a fine settimana, a fine mese, alla fine di reiterate e sbraitanti richieste, mai). Pasquale Sorrento comprava tanto, pagava subito e, da conoscitore del mercato, spremeva da queste sue qualità il massimo di rigidità nelle trattative e del rispetto che gli era dovuto. Girovagava con fare distratto tra i plateatici, fiero del suo addome prominente (“omo de panza, omo de sostanza”), dei suoi scarponi larghi e slacciati, che strascinava come zoccoli, quasi indifferente al febbrile movimento che gli si svolgeva intorno, come se lui quel giorno non dovesse comprare (il grosso e il meglio glielo avevano già messo da parte le tre o quattro ditte di fiducia), si fermava, guardava questa o quella cassa, aspettava che il venditore gli dicesse “Pasca’, che te posso leva’?” (togliere, scansare, levare = mettere da parte, riservare a). “Pe’ prima cosa, nun me chiamo Pasca’. Quanto sfocano ‘sti merluzzi?” “15.” “Sì, te saluto.” E si allontanava senz’altro. “Pasquale, dai, vie’ qua.” Si riavvicinava. “’Sta cassa de merluzzi e ‘ste du’ casse de frittura, l’un per l’altro a 10 mila lire”. Metteva una mano sulla spalle del figlio che lo seguiva come un’ombra e passava oltre. Il figlio di Pasquale Sorrento era un giuggiolone grande e grosso come e più del padre con qualche ritardo nello sviluppo mentale.

A fine mercato lo raggiungeva la moglie Nerina. Una donna che in condizioni normali, a passeggio per il Corso, o in un ristorante di Testaccio, o più semplicemente di giorno, non avrebbe attratto sguardi di unanime concupiscenza, ma di notte, in un ambiente frequentato per la stragrande maggioranza da maschi fanfaroni, faceva la sua figura. E nella formazione composta in testa da Pasquale Sorrento e il figlio, seguiti da carrello trainato dal fido Romeo (facchino della ditta dove il Capo faceva gli acquisti più consistenti) e dall’operaio Rossano e chiusa dalla moglie Nerina, si passava nelle diverse ditte dove s’erano fatti acquisti, si pesava, si caricava sul carrello e la donna pagava il conto, subito, in contanti (portando un po’ d’ossigeno alle ditte sempre finanziariamente periclitanti).

Tutt’al contrario, Pieretto era cronicamente in debito. Il martedì e il venerdì notte in particolare (nei giorni, cioè, di massima affluenza al mercato) svicolava furtivo tra le ditte, era inavvicinabile, tesissimo, impegnatissimo, concentratissimo, perché doveva conciliare due esigenze pressoché inconciliabili: comprare la molta merce di cui aveva bisogno per un banco frequentatissimo dal popolino del Tufello e respingere i molti attacchi dei creditori pregressi che reclamavano la corresponsione di quanto loro dovuto. Abile quant’altri mai nella vendita, esperto e tempestivo nel fiutare l’aria del mercato, inarrivabile nel rimandare al giorno dopo i pagamenti, avrebbe potuto costruire un impero economico, se la natura non lo avesse appesantito del fardello del Vizio. Giocava. Ai cavalli. Ai cani. A carte. A battimuro. Era industre quanto un’ape mellifera nel produrre reddito e coglione quanto un levriero da corsa nel gioco. E Darwin avrebbe affermato che le due qualità erano reciprocamente correlate: produceva ricchezza per sprecarla e la sprecava perché la produceva. E tra lo spreco e la produzione lasciava sempre quel margine che lo costringeva a tirare il collo allo spasimo, fino a che, ogni tanto, doveva mettere un punto e ricominciare tutto daccapo.

Come tutti gli uomini virtuosi, Pasquale Sorrento aveva una debolezza ridicola: a dispetto del nome e di un ambiente infestato da napoletani, pugliesi, siciliani e tunisini, di nascita o d’origine, ostentava con orgoglio la sua romanità. Nella parlata, innanzitutto, sforzandosi di dire “drento” per “dentro” o “annammio” per “andammo”, ma anche negli atteggiamenti, nella grevità delle espressioni e delle posture, nella ricercata indolenza, nelle occhiate sprezzanti di chi sa già tutto, e quando gli capitava di accettare una proposta altrui guardava come per dire “me faccio frega’ solo perché nun me va de sbuggiardatte”. Il suo modello era l’Aldo Fabrizi della televisione e faceva mostra d’essere così pigro che, diceva, non si sedeva per non far la fatica di rialzarsi. I bambini ben’educati per i loro coetanei più poveri e più monelli usavano un’espressione che Pasquale Sorrento avrebbe volentieri sottoscritto per sé: “romanaccio”, con quanto di volgare, ma anche di positivamente definito essa comporta. Un romanaccio dice le parolacce, fa il gradasso, strilla e ride sgangheratamente, ma proprio per questo non può essere un farabutto, un usuraio o un criminale. Mutate le coordinate geografiche, una quindicina d’anni dopo lo si sarebbe definito un leghista antelitteram. Condivideva della Lega la meschinità bottegaia e la lacrimuccia scintillante per i bei tempi passati, sotto le quali si nascondeva un fondo più melmoso e nero che tanti vorrebbero considerare inestirpabile: un mondo di padroni, sottopadroni, servi e sottoservi.

Anche a non voler tener conto degli oggettivi ostacoli ai rapporti franchi e cordiali, lavoro notturno, sotto luci abbaglianti che indolenzivano le palpebre e ricordavano continuamente che si doveva aver sonno, in mezzo ad una folla turbinosa di persone, cose e merci, tra le qualion mancavano i bari, gli assassini e i tipi strani, e nemmeno il pericolo di vedersi tranciata una gamba da un carrello impazzito, o, più pacificamente, di vedersi rifilare una fregatura, anche a non tener conto di tutto questo, Pasquale Sorrento e Pieretto non potevano essersi simpatici. Uno era consumato da un fuoco esterno: la considerazione e il rispetto che gli altri dovevano avere di lui; l’altro da una tara interna che lo rosicchiava fino al midollo, che lo rendeva agile e scattante, ma sempre sul punto di sentirsi mettere una mano sulla spalla “Prego, venga con noi, la commedia è finita”.

“Piere’, tu ‘o sai, i sordi nun so’ li mii, so’ de Barbablu”. Ciò dicendo Settimio intendeva evocare magicamente attorno a sé quattro facciacce da galera che addossassero a Barbablu il lubidrio dei tassi d’usura e delle conseguenze spiacevoli per gli eventuali mancati pagamenti delle rate. Per Pieretto, invece, al colmo della gioia per l’aiuto prestatogli da Settimio, quella frase era un apriti sesamo che lo introduceva al possesso dei quei soldi con cui avrebbe pagato i conti più urgenti e che gli avrebbero consentito di riprendere una vita di mercato, di lavoro e di gioco più tranquilla. Riceveva 16 milioni e rilasciava un assegno scritto a matita di 20, che gli sarebbe stato restituito dopo aver pagato tutti i sabato 20 rate da un milione. Dopo aver esaurito i “crediti affettivi”, sorella, madre, qualche amico, era la terza volta che Pieretto provava un sollievo del genere. Nel buco creato con la prima aveva buttato dentro i terreni agricoli che la moglie aveva ereditato dai genitori, la seconda volta l’aveva coperto con le frasche dell’ipoteca della casa, ora, consumati i “crediti legali”, aveva trovato in Settimio il suo salvatore. Naturalmente, tutti sapevano, e Pieretto per primo, che i soldi non erano di Barbablu e non si poteva essere nemmeno sicuri che Settimio fosse autorizzato a servirsi del terribile nome – se non fosse per un pranzo del quale si favoleggiava e per il quale Settimio aveva passato tutta la notte di mercato ad accaparrarsi la mercanzia migliore seguito da una facciaccia brutta che presentava fieramente come “’n’amico de Barbablu”. Stavolta Pieretto, grazie alle premure e all’amicizia di Settimio, aveva aperto un buco enorme che poteva essere colmato solo dalla promessa indefettibile di non giocare più e di usare i suoi buoni guadagni per coprirlo. Solo dopo aver escogitato la soluzione, Pieretto fu scosso da un breve fremito di inquietudine, come di scampato pericolo: non era necessario promettersi di non giocare più, bastava non perdere più, convincendosi fermamente che cambiando le modalità del gioco, facendosi più furbo, mettendo a frutto una ineguagliabile esperienza di perdente, avrebbe invertito il corso, fino ad allora funesto, della fortuna. Povero lui.

S’era quasi alla fine del mercato, tra poco sarebbe comparsa Nerina e si sarebbe iniziato il giro del ritiro e del pagamento della merce, Pasquale Sorrento chiacchierava svogliatamente con uno dei venditori, il figlio a pochi metri da lui lo guardava estasiato. Un infame, profittando del passaggio di un carrello stracarico, senza farsi riconoscere, sibila all’orecchio del figlio di Pasquale Sorrento “Chiama tu’ padre, dije che Nerina l’aspetta ar cacatore”. E quello prese a gridare “Papà, Mamma ar cacatore…” Pasquale Sorrento pensa subito ad un malore, accelera il passo remando con le braccia affianco all’addome gonfio, alzando a fatica la pesante tara degli scarponi slacciati, raggiunge il figlio, “aspettame qui”, e prosegue uscendo dalla navata e avviandosi verso i bagni, quasi correndo e attirando, così, l’attenzione di quelli che lo vedevano. Nel frattempo gli occhi dell’infame, acquattati da qualche parte, si godono lo spettacolo. Sulla soglia dei bagni, come sempre, Scascione, il mitico guardiano dei cessi, è seduto su uno sgabello dietro ad un tavolino con su la ciotola delle monetine e i rotoli di carta igienica, vedendo arrivare Pasquale Sorrento gli si fa incontro come a volerlo fermare, preoccupandolo ancora di più. Lo scansa con un gesto autoritario, “’ndo sta?”, apre la porta della toilette delle signore e non la trova, così spalanca quella dirimpetto riservata ai signori (le porte non erano mai chiuse a chiave perché Scascione ne regolava impeccabilmente il traffico). La trova con le mutande e la calzamaglia calate fino alle ginocchia e la sottana tirata su, seduta su Romeo, a sua volta seduto sul water, che la teneva per le anche. Nerina si alza di scatto e solo allora Romeo s’accorge della presenza inopportuna di Pasquale Sorrento. Approfittando dell’umano stupore del marito, Nerina in un tutt’uno si ricompone alla bell’e meglio e lo scavalca, avvicinandosi quasi correndo al parcheggio delle macchine, inseguita dal figlio rincuorato nel vedere la madre in buona salute e in grado quasi di correre. Dopo un attimo di sbalordimento, Romeo, mentre si riabbottonava i pantaloni, dovette quasi piegare la testa per non far vedere che gli scappava da ridere. In piedi superava di una buona testa il rivale in amore e sarebbe andato via senza ulteriori danni se Pasquale Sorrento non lo avesse preso a spintonate. “A pezzo de merda” gli diceva. Romeo era uscito dai bagni senza reagire, camminava lentamente e guardava oltre la piccola folla che s’era radunata, Pasquale Sorrento lo raggiunse e lo spintonò di nuovo, disperato e quasi piangente, “a stronzo, a pezzo de merda”. “Bono, Pascà, sta bbono. Finimola qui, che è meglio pe’ tutti”.

S’era radunata un po’ di folla e, in mezzo ad essa, Pieretto, che sapeva sempre, per istinto, qual era il posto del mercato dove si doveva trovare (e ancor meglio sapeva quello dove non si doveva trovare). S’era radunata un po’ di folla, “Ch’è successo?” “Chi, Romeo co’ Nerina!” “Ansenti, aho!”, perciò Pasquale Sorrento non poteva finirla lì: si avventò di nuovo. Ma prima di essere raggiunto, Romeo si voltò di scatto e gli assestò un ceffone a tutta forza che lo buttò a terra, supino. Pasquale Sorrento, alla sua età, non aveva ancora imparato che non basta avere ragione per essere forti.

Saranno stati gli scarponi troppo larghi e slacciati che non facevano presa sull’asfalto, o l’addome così imponente, o le spalle troppo strette, o l’agitazione, ma Pasquale non riusciva a rialzarsi. Agitava le braccia e la gambe, ma proprio non riusciva a tirarsi su. Nessuno tra i divertiti spettatori si decideva ad aiutarlo, solo Scascione, il mitico guardiano dei cessi, in un moto di pietà si chinò offrendogli un braccio come appiglio.

Per qualche settimana Pasquale non frequentò più il mercato e affidava i suoi acquisti ad una persona di fiducia (si fa per dire). Nello stesso periodo Pieretto si godeva gli ultimi barbagli d’un sole occiduo: i soldi ricevuti stavano per finire e la certezza di non perdere più era stata sostituita dalla fiduciosa attesa di una grossa vincita risolutiva; e si fermava spesso, nei giorni di minor affluenza, a chiacchierare appoggiato sulla stanga di un carrello, facendo ciondolare una gamba, “…pareva un bacarozzo rivortato, pareva” raccontava e, povero lui, si sbellicava dalle risate.

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