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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

racconto

La casina delle rose

2 Dicembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

La casina delle rose

Siamo giunti alla fine della serie “i mitici anni 60” presentata da Giovanni D'Ippolito che, con il suo ultimo racconto, vede i giovani liceali di paese approdare nelle grandi città per frequentare i corsi universitari. Sullo sfondo l’Italia del boom economico, le tradizioni vecchie di secoli erano state spazzate nel giro di pochi anni per far posto al progresso e a profondi cambiamenti socio-economici. I vini e i liquori diventavano emblema di una tradizione antica che identifica una terra con i propri prodotti, simboli di una civiltà contadina che andava scomparendo. Si passava dal tempo della società agricola, scandito dalle stagioni, ai ritmi frenetici della città e della vita in fabbrica, e al suono rassicurante delle campane della chiesa di paese si sostituiva la musica ad alto volume del juke-box gettonato in ogni bar.

LA CASINA DELLE ROSE

Fra il 1968 e il 1970, il Liceo Scientifico di Bojano aveva “licenziato” i primi corsi di studenti e, per la maggior parte, i ragazzi si erano iscritti all’Università un po’ per vocazione, un po’ per andar via di casa ed acquisire quella libertà da tanto tempo agognata. Le sedi più gettonate erano le più comode e più vicine, quindi ci eravamo distribuiti fra Napoli, Roma e Firenze. Naturalmente per le vacanze, sia estive che invernali, tornavamo a Bojano dalle nostre famiglie ed era proprio durante il periodo natalizio che tutta la città si trasformava in una bisca. Si giocava nelle case private, nei circoli, nei fondaci, nelle cantine, insomma in qualsiasi posto dove si potessero approntare quattro sedie e un tavolo su cui stendere le carte. I giochi più alla moda erano poker, stoppa, zecchinetta, chemin de fer. Tenuto conto della nostra condizione di studenti, durante quelle maratone di gioco, giravano parecchi soldi, ma appunto “giravano” nel senso che un giorno vincevi e quello dopo perdevi, così che alla fine il bilancio delle vincite e delle perdite spesso risultava in pareggio.

Dopo le feste, ovvero intorno all’8 o 10 di gennaio, ognuno rientrava nella propria sede di studio per riprendere le lezioni, ma venti e più giorni di gioco accanito lasciavano sempre degli strascichi, così spesso si decideva di continuare quell’attività anche all’università. Un anno in particolare ricordo che la “febbre “ del gioco era salita a tal punto che si raggiunse l’accordo che, appena ripartiti, ci saremmo rivisti a Roma, sede centrale rispetto alle altre due, dove si sarebbe svolta una tournée di poker non stop di 48 ore presso l’appartamento che alcune ragazze bojanesi avevano in fitto vicino a piazza Bologna. L’organizzazione era perfetta gli studenti che abitavano a Roma avrebbero ospitato coloro che venivano da fuori e, dato il numero dei partecipanti, furono allestiti ben quattro tavoli da gioco nella sala dell’appartamento delle ragazze.

Dopo la sistemazione di napoletani e fiorentini presso le nostre stanze, io ospitavo Flaviano, un carissimo amico col quale ci sentiamo ancora oggi molto legati, ci recammo tutti verso la “bisca” dove, come detto, cominciò un’attività che ci tenne impegnati e svegli per più di 48 ore. Intorno all’una di notte del terzo giorno cominciò la smobilitazione, il mio amico e io, salutati tutti, ci avviammo verso casa che distava poche centinaia di metri dal “covo”. Entrati, con la massima cautela per non svegliare la padrona, ci infilammo nella stanza e, distrutti, ci gettammo sui letti completamente vestiti. Dopo pochi minuti, un gemito strozzato mi scosse dal mio torpore. “Che c’è Flò? “ chiesi usando il nomignolo che gli riservo da sempre. “Gia’ ”, così mi chiama lui ancora oggi, “il dente, mi fa male forte il dente”.

Sempre fornito di medicinali, gli diedi subito due “nisidine”, ma purtroppo, passata una mezz'oretta, non solo non avevano sortito alcun effetto, al contrario il dolore era in aumento. Avevamo sentito dire che l’unica cosa che poteva dare qualche sollievo in questi casi era mettere dell’alcool sul dente, affinché fungesse da anestetico. Sapevo anche, però, che in casa non poteva esservene, poiché la padrona era astemia e io non avevo scorte personali. Pur di non dover uscire, provai a guardare addirittura nel mio armadio in cerca di un po’ di alcol denaturato che potesse servire allo scopo, ma niente. In bagno trovai solo del dopobarba Mennen che, secondo noi, non conteneva alcool a sufficienza.

Ci decidemmo così a uscire e accompagnai il mio amico a un chiosco bar che sapevo aperto tutta la notte e che si trovava vicino casa, proprio di fronte alla monumentale scalinata dell’ufficio postale di Piazza Bologna. “La casina delle rose” era una struttura costituita da tre blocchi di vetrate, uno centrale, adibito a bar , con il bancone proprio di fronte all’ingresso e a destra e a sinistra due ambienti che ospitavano tavolini e sedie.

Erano passate le due quando entrammo con i baveri dei cappotti alzati fin sopra le orecchie, le facce stravolte, la barba lunga di due giorni, le occhiaie e uno di noi con una smorfia (di dolore) dipinta sul viso. Il locale era deserto, il barista un po’ assonnato ci scrutò guardingo, sembravamo più due gangsters usciti da un film che due studenti.

“Una bottiglia di J&B “ chiese il mio amico e, quando il ragazzo fece il gesto di incartarla, allungò la mano, gli bloccò il braccio e a denti stretti disse e due bicchieri”. Ci sedemmo al primo tavolo a destra e cominciò l’operazione “dentista”. Flaviano buttò giù altre due “nisidine” e teneva sul dente dolorante un po’ di whisky, che per tutto il tempo formava una pallina sulla guancia, poi, invece di sputarlo, lo ingoiava e così, dopo poco tempo, vuoi che l’alcool avesse fatto effetto, vuoi che non sentisse più il dolore perché si era bevuto mezza bottiglia, trovò giovamento e il suo aspetto era nettamente migliorato, anzi, aveva la faccia stranamente raggiante, così anch’io cominciai a sentirmi più tranquillo e, per solidarietà, mi concessi qualche bicchierino.

Avevamo forse inconsapevolmente inventato un forte analgesico unendo quel farmaco all’whisky? Il sonno ci era passato e cominciammo a chiacchierare animatamente di sport, l’effetto combinato aveva avuto su Flò un risultato strepitoso e iniziammo a ridere e a fare commenti ironici nei confronti della “fauna” notturna che entrava e usciva dal bar. Il metronotte con la bicicletta che durante il suo giro si fermava a prendere un caffè bollente; le prostitute con vertiginose minigonne che, fra una prestazione e l’altra, cercavano di scaldarsi con un latte portoghese; Carabinieri e Poliziotti che provavano ad accorciare il loro servizio notturno fra una sosta e una sigaretta, il padrone di un cane, in ciabatte e con il cappotto sul pigiama, che spiegava di esser dovuto scendere di corsa perché l’animale aveva male agli intestini.

Il tempo passò veloce e, erano da poco suonate le cinque, quando improvvisamente il bar si animò. Il ragazzo faceva fatica a servire tanti avventori sbucati all’improvviso: “due cappuccini”, “due cornetti”, “un caffè”, “una brioche”. Tutto quel trambusto cominciò ad infastidirci così decidemmo di uscire e ci andammo a posizionare comodamente seduti di fronte, sulla scalinata dell’Ufficio Postale, per goderci ancora un po’ di tranquillità, ma fuori era ancora peggio: autobus che andavano e venivano, una piccola folla che si accalcava al capolinea, altre persone che attraversavano la piazza di corsa, dov’era finita la pace della notte? Io e il mio amico ci guardammo in faccia increduli e ci chiedemmo all’unisono: “Dove cazzo vanno tutti a quest’ora?”.

Naturalmente era gente che andava a lavorare, prendeva i mezzi per raggiungere fabbriche e botteghe, ma per noi, giovani perditempo con poca attitudine allo studio, era una cosa allora del tutto incomprensibile. Ci avviammo verso casa e, una volta finalmente a letto, dormii profondamente, al risveglio trovai sul tavolo la bottiglia di J&B che, alzandosi dal tavolino del bar, il mio amico si era infilato nella tasca del cappotto, dentro, le ultime due dita di whisky e, sotto, un biglietto “Finiscila alla mia salute. Vado a casa a Bojano a curare il dente. Ciao e grazie di tutto.”

Dopo qualche giorno, la bottiglia era vuota e la riposi insieme ad altre di grappa, di Stock 84, Vecchia Romagna, che conservavo vuote sull’armadio della mia camera in una sorta di strana collezione.

Questo episodio mi tornò in mente, qualche anno dopo, quando in un mercatino trovai una piccolissima spilla con attaccato una minuscola bottiglia verde in plastica con la scritta J&B. La comprai e finì attaccata alla mia feluca universitaria, color bluette, unitamente a tanti altri ninnoli, simbolo di qualche episodio o periodo della mia lunga vita di studente .

La casina delle rose
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Bojano città dei motori, parte seconda

30 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

Bojano città dei motori, parte seconda

Con questo spirito di gara continua, che aleggiava nell’aria del paese, due amici che non voglio nominare, si incontrarono nel piazzale della stazione mentre girovagavano senza meta con le auto, come sempre prese a prestito dai genitori. Le due macchine erano: 1) Fiat 850 Special color beige non ben definito, che di special aveva la scritta sul cofano posteriore, i cerchi che erano sempre in acciaio come nel modello base, ma, a decorazione, erano tutti bucherellati, il volante in finta radica con due razze di ferro brunito, bucate anche quelle come i cerchi, tanto è vero che spesso, durante la guida, vi ci si incastravano le dita. 2) Fiat 128 blu scuro, elegantissima, con volante, pomello del cambio e sedili in finta pelle grigio perla.

Partirono i primi sfottò: ”Dove vai girando con quella specie di macchina color cacchetta”, “Ma stai zitto con la tua puoi andare solo a un funerale” e così, come ci si aspettava, fu lanciata una sfida.

Il passeggero della 128 scese dall’auto su cui era ospitato e si improvvisò starter. Si mise con un fazzoletto bianco in mano a bordo strada, pronto a dare il via a quella che sarebbe diventata l’unica gara cittadina eseguita non a cronometro, come al solito, ma in diretta competizione fra due auto. Si era concordato di percorrere la via “di zorro” la strada che andava, cioè, dalla clinica Di Biase al mulino Bernardo, chiamata così perché il percorso disegnava una zeta.

I motori salirono di giri, lo starter diede il via e le macchine partirono sgommando. Le due auto erano pressoché appaiate e non vi fu nemmeno il tempo di ingranare la terza marcia, che già la prima curva era lì, davanti ai piloti. La gara si sarebbe decisa sul sangue freddo di chi avesse frenato più tardi e fu così che entrambi frenarono troppo tardi. La 850 all’interno della curva a sinistra toccò con la ruota posteriore il marciapiede e si sollevò fin quasi a ribaltarsi fermandosi a motore spento subito dopo la curva, la 128, invece, effettuata una brusca frenata all’ultimo istante, prese a scivolare a causa del brecciolino presente sull’asfalto e, ormai fuori controllo, con le ruote bloccate, si abbatté contro l’unico palo della luce presente su tutta la “via di zorro”. Nessuno si fece male ma si accese una interminabile discussione sulle colpe; uno diceva ”mi dovevi cedere strada” e l'altro di rimando “ma quando mai sei tu che dovevi fermarti prima”, insomma l’unico vero vincitore fu il carrozziere che, per rimettere a posto le auto, incassò un cospicuo gruzzolo dai genitori dei contendenti, che non seppero mai la verità sulla causa dei danni subiti dalle loro automobili.

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Bojano città dei motori, parte prima

28 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

Bojano città dei motori, parte prima

Negli anni sessanta l'economia italiana giungeva al suo massimo livello di espansione, dando luogo al fenomeno conosciuto come il "miracolo economico" e ad altri fenomeni che hanno mutato per sempre il costume dell'intera società, cambiamenti radicali scaturiti principalmente nelle scuole e nelle università. Così anche il più piccolo paese di provincia venne risvegliato dal torpore della sua tranquilla quotidianità dall'arrivo di molte auto sempre più potenti. Il racconto di Giovanni D'ippolito si divide in due parti, una prima generale e una seconda … più privata.

BOJANO CITTA' DEI MOTORI.

Alla fine degli anni ‘60, inizio ‘70, un cospicuo numero di giovani bojanesi viveva il boom della motorizzazione, tutti i ragazzi del paese, da poco patentati, si radunavano con le proprie auto in piazza intorno al bar Manna. Le macchine erano, naturalmente, tranne per qualche rara eccezione, di proprietà dei genitori che continuavano a spostarsi a piedi, mentre i giovani prendevano l’auto anche se la piazza distava da casa, a volte, solo qualche decina di metri. Così, parcheggiate sotto i platani, facevano bella mostra di sé: Fiat 600, 750, 850 e 128, ma anche qualche Mini o addirittura MiniCooper, Afa Romeo Giulietta,o Giulietta SPRINT.

La benzina costava all'incirca 140 lire al litro e con mille lire (500 normale e 500 di super) si riuscivano a fare parecchi chilometri. Una domenica mattina, nel bel mezzo delle discussioni che si creavano su quale fosse l’auto migliore e su chi il miglior pilota, uno dei giovani disse: “Adesso basta, scommetto 5000 lire che faccio Bojano-Spinete in sei minuti!”. Immediatamente alcuni presenti, improvvisandosi bookmakers, iniziarono a raccogliere le scommesse. La sfida fu accettata, invece, da colui che la riteneva un’impresa assolutamente impossibile.

La maggiore difficoltà da superare fu quella della verifica del tempo, poiché ciò comportava che una persona, al di sopra delle parti, munita di cronometr, fosse a bordo dell’auto concorrente. Individuato il temerario cronometrista… si parte!

Quel giorno la gara fu persa e la scommessa pagata da parte del pilota battuto. Però, da quella mattina uno strano meccanismo era scattato nelle menti dei giovani bojanesi sempre alla ricerca di nuove emozioni e questo raduno domenicale divenne un appuntamento fisso, dapprima mensile poi con cadenza sempre più ravvicinata, fino a diventare settimanale. E più persone fallivano il tentativo, più erano quelli che volevano cimentarsi.

A conti fatti si sarebbe dovuta tenere una media di velocità (per fare più o meno 6 km) che non era proibitiva, sulla carta, ma che nella realtà diventava impossibile, tenendo conto che si partiva dal centro di Bojano per arrivare al centro di Spinete, percorrendo un centro abitato prima, poi una strada provinciale che, dopo Monteverde, diventava sconnessa, con numerosi saliscendi, e piena di curve.

Questa storia andò avanti per mesi fino a quando si presentò “al nastro di partenza” una Giulietta sprint tirata a lucido e “truccata”, come si diceva allora riferendosi a un motore un po’ manipolato per renderlo più spinto. Un mormorio di ammirazione si levò dalla piccola folla che, come oramai d’abitudine, si era radunata per assistere alla partenza. Il cronometrista ufficiale si accomodò a bordo e fu lo stesso che successivamente raccontò tutto ciò che era accaduto.

“Fino a metà percorso“ disse, “eravamo quasi in media, solo che si procedeva a una velocità folle, tanto che a 1 km dall’arrivo, assalito da un po’ di paura, mentii dicendo: rallenta tanto mancano ancora due minuti, ma il conducente, per tutta risposta, accelerò ancora di più, imboccò la salita che conduceva alla piazza di Spinete a velocità elevata e, dopo una curva a destra, perse il controllo della vettura e piombò a tutta velocità sulla colonnina del distributore Agip distruggendola...”

La nuova e bellissima auto era molto danneggiata, ma l’unica preoccupazione del pilota, sceso a constatare i danni, fu quella di chiedere il tempo impiegato, la risposta? 6’ e 20’’!!!! Tutto inutile…

(Continua)

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La Bianchina

26 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

La Bianchina

Ancora un racconto di Giovanni D'Ippolito e dei suoi “mitici anni 60”, liceali di un piccolo paese di provincia, le prime auto usate per raggiungere la scuola dai paesi vicini erano un vero lusso e motivo di interesse per i ragazzi sempre in cerca di novità che, in questo episodio, diventano il pubblico involontario di un mondo che non c'è più.

LA BIANCHINA

Era una splendida giornata di fine maggio, a Bojano c’era il sole e soffiava una bell’aria, una di quelle giornate che ti avvisano che l’estate è vicina e tutte le finestre delle aule, che ospitavano il Liceo Scientifico posto all’ultimo piano delle scuole di Corso Amatuzio, erano spalancate. Le lezioni non erano ancora iniziate e qualcuno prendeva il sole, qualcuno chiacchierava e altri, la maggioranza, erano intenti a copiare i compiti dai quaderni dei più bravi.

Daniel Procosky quella mattina arrivando a scuola, parcheggiò la sua 850 coupé nuova fiammante, proprio sotto le finestre e, in un attimo, tutti si erano affacciati ad ammirare quel gioiello, di uno stupendo color bianco latte luccicante che aveva ancora la targa di cartone. Improvvisamente all’altezza del “tabacchino” (Armando dammi 3 nazionali semplici e due super con filtro!…55 lire) apparve l nostro compagno di classe Peppe Carano alla guida della sua Bianchina color celeste pallido completamente scappottata e, vedendoci tutti affacciati, cominciò a salutare pensando di essere lui l’attrattiva del giorno. Noi ci rendemmo conto che si approssimava velocemente all’area parcheggio, e distratto com’era, avrebbe potuto causare un incidente, allora cercammo di avvertirlo in ogni modo urlando e sbracciandoci, ma lui, al contrario, continuava a guardare verso l’alto e lasciò addirittura il volante per rispondere a quella che pensava essere una vera e propria ovazione e, troppo tardi per prendere qualsiasi altro tipo di provvedimento, in un attimo……PATATANGHETE... tamponò violentemente l’auto nuova di Daniel Procosky.

Un silenzio irreale era improvvisamente sceso sulla scena, tutti eravamo restati senza parole, impietriti. Il muso della Bianchina era completamente accartocciato e interamente infilato nel motore di quella che fino a pochi attimi prima era una favolosa 850 coupé nuova di fabbrica. Peppe cercò di aprire la portiera, ma era incastrata e, per scendere, scavalcò goffamente lo sportello, ruzzolando quasi al suolo (non era mai stato un atleta).

Non si curò dei danni causati: era il suo giorno, aveva il suo pubblico, guardò ancora una volta verso le finestre erano tutti là, a bocca spalancata e aspettavano un suo gesto, allora unì le mani e alzando le braccia le agitò come fanno i campioni che salutano dopo una vittoria. A quel punto sì che si scatenò l’ovazione accompagnata da uno scrosciante applauso che echeggiò a lungo per le strade del paese.

Giovanni D'Ippolito

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La versione di latino

23 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

La versione di latino

I mitici anni 60” e ancora un'avventura raccontata da Giovanni D'Ippolito. La noia della vita di provincia, l'irrequietezza dell'età e un'irresistibile voglia di divertirsi, di giocare anche quando il bersaglio dello scherzo è il professore di latino, il risultato è deleterio per il profitto scolastico ma tutto da ridere.

LA VERSIONE DI LATINO

Frequentavamo non ricordo bene quale classe dello Scientifico, ma in quell’anno avevamo conosciuto Antonio Ranaudo, il nuovo professore di italiano e latino. Un giovane insegnante, molto simpatico e alla mano, di cui tutte le ragazze del liceo si erano subito innamorate e che usava con noi metodi interessanti e moderni rispetto al resto del corpo docente.

Una sera di inizio primavera, una delle prime in cui il clima permettesse un’uscita dopo cena, mi trovavo in compagnia di Gianni Mainelli e Gianfilippo De Camillis e ci stavamo annoiando a passeggiare per la piazza semi deserta. L’aria di primavera ci ispirava un senso di inquietudine e aumentava i nostri giovanili entusiasmi. Le ragazze non uscivano la sera e, se anche fossero uscite, non avrebbero certo soddisfatto i n nessun modo i nostri “pruriti” adolescenziali. Non ci restava allora che chiacchierare pensando alle donne, anche se in fondo l’argomento preferito finiva sempre per essere la squadra di calcio della scuola che ci vedeva partecipi certamente più delle lezioni. In quel momento di noia mortale vedemmo passare in lontananza il professore Ranaudo che, in compagnia della fidanzata, si avviava per i vicoli deserti in cerca di un po’ di intimità. Bastò uno sguardo d’intesa e non servirono parole per capire che avevamo trovato il modo per concludere quell’insulsa serata divertendoci.

Conoscevamo a memoria il dedalo delle vecchie stradine del centro storico e così, tagliando per una traversa, fingemmo di incontrare per caso il nostro insegnante. “Buonasera professore” e lui, togliendo il braccio dalle spalle della fidanzata: “Buonasera ragazzi”. Appena girato l’angolo, via di corsa per un altro vicolo e all’improvviso, sempre per caso, di nuovo l’incontro: “Buonasera professore” e di nuovo “Buonasera ragazzi”. Fra risate complici e corse trafelate, il gioco continuò per altri tre, quattro incontri fortuiti, fino a che il professore infastidito e, visibilmente indispettito, non rispose più al nostro saluto.

Orgogliosi della nostra bambinesca bravata, ci ritirammo ridendo nelle nostre case. La mattina dopo, alle prime ore di lezione, avevamo italiano. Tutti seduti ai banchi in perfetto silenzio aspettavamo il professore Ranaudo che, quando entrò, poggiò il registro sulla cattedra, lo aprì con calma flemmatica e poi guardandoci uno ad uno disse, chiamamdoci in rigoroso ordine alfabetico: ”De Camillis, D’Ippolito e Mainelli …FUORI! E nelle mie ore non entrerete mai più!”

Dopo due giorni di corridoio, però, il professore volle darci una possibilità di redenzione e ci fece rientrare in classe per eseguire la versione di latino. Alla vista del compito, il cui grado di difficoltà era inaffrontabile, Gianni Mainelli, che aveva immediatamente compreso la vendetta del professore, prese a ridere nervosamente e in modo isterico, tenendo la mano davanti la bocca (ihihihih). Il risultato generale fu che per i migliori della classe piovvero dei 4 e ci odiarono per tutto il resto dell’anno scolastico e io rimediai un 1meno meno.

Giovanni D'Ippolito

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Una partita storica

19 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

Una partita storica

Il secondo racconto di Giovanni D'Ippolito della serie “anni 60 revival”, in una radio cronaca mozzafiato alla Nicolò Carosio, rivive gli entusiasmanti momenti di una storica partita di calcio fra due Licei regionali.

UNA PARTITA STORICA

Era dall’inizio dell’anno scolastico che si parlava della sfida calcistica fra il Liceo Scientifico di Bojano e il Liceo Scientifico di Campobasso.

Eravamo giunti finalmente al fatidico giorno: una fredda e umida domenica di metà novembre. Fin dalle prime ore del mattino in cielo si erano aperte tutte le cateratte e scendeva una pioggia battente. I componenti della squadra si erano svegliati presto e scrutavano il cielo “porca miseria non si gioca...” pensavano. Si dedicarono quindi, ognuno a casa propria, alle normali attività domenicali: bagno nella vasca d’acqua caldissima, magari con Play Boy al seguito, poiché quasi tutti erano all’epoca “fidanzati” con una coniglietta di copertina. Poi, rivestiti a festa, indossando giubbotto, maglioncino a collo alto, pantaloni a zampa d’elefante e stivaletti beat col tacco, si recarono al solito appuntamento al bar per la partita di tressette. In palio boccali di birra da mezzo litro (pensare che allora non si sapeva nemmeno dell’esistenza dell’OktoberFest) e sacchetti di patatine. A seguire pranzo luculliano, tipico della domenica, con rigatoni al sugo e abbondanti salsicce al forno con patate.

Alle 13,30 improvvisa schiarita in cielo, tutti di corsa verso lo stadio, con due buste di plastica in mano: una con le scarpette e l’altra con maglietta, calzoncini e calzettoni. Si gioca!!! Il campo è quasi impraticabile, si affonda nel fango fino alle caviglie e il pallone non rimbalza.

La squadra di Bojano appare da subito molliccia e spompata, così il Campobasso pressa e, al 27’ del primo tempo, guadagna il vantaggio, se pur contestato, con un tiro dalla distanza che il bravo portiere Brunetti, in un plastico volo, riesce a intercettare e a inchiodare sulla linea di porta. L’arbitro, fra le proteste, assegna comunque il gol e si va negli spogliatoi sull’1 a 0.

Nel secondo tempo cambia tutto, la squadra di Bojano, con le sgroppate di Colalillo a destra e Di Ciero a sinistra, si riversa nella metà campo avversaria. Mainelli e Velardo impensieriscono il portiere avversario in più occasioni, con pericolosi tiri in porta, ma senza risultato. Al 43’ del secondo tempo, D’Ippolito, nel cerchio di centro campo, tenta di mettere in movimento Mainelli provando a colpire per ben due volte la palla di tacco, ma non riuscendo nemmeno a sfiorarla, dà vita, più similmente, a una goffa danza tribale. Fortunatamente subentra De Rosa che, impossessatosi della sfera di cuoio, scende nella posizione di mezz’ala destra e crossa al limite dell’area, dove Velardo, ben appostato, colpisce al volo di sinistro in maniera perfetta spedendo una cannonata che viaggia verso l’incrocio dei pali. La palla che, completamente inzuppata raggiunge ormai il peso stimabile di almeno due chili, invece raggiunge in pieno volto un difensore avversario. Il malcapitato salva così il risultato ma stramazza al suolo perdendo copiosamente sangue dal naso. L’arbitro, per attivare i soccorsi, fischia la fine e così ci si avvia verso gli spogliatoi, guardando con mestizia quello che era il meraviglioso manto erboso del Comunale, ridotto come un campo di patate dopo il raccolto.

Ci vorranno mesi per ripristinare il fondo e, nella primavera successiva, si ricomincia a giocare con apprezzabili prestazioni della squadra del Liceo Scientifico di Bojano che, se pur fortissima e quasi insuperabile nelle partite singole, non riuscì mai a vincere un torneo a punti.

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La contraerea del liceo

17 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

La contraerea del liceo

Quello che vi proponiamo è il primo di una serie di racconti brevi scritti da Giovanni D'Ippolito nel 2013 in occasione dei cinquant'anni del Liceo Scientifico di Bojano, per ricordare con amici ed ex compagni di classe avvenimenti spassosi della loro gioventù.

Un revival che porterà anche molti di noi a ricordarsi giovani in un contesto sociale che oramai rivediamo solo nei film in bianco e nero del grande cinema italiano di quegli anni. Un tuffo nel passato nei mitici anni 60.

La contraerea del liceo

Le finestre del nostro Liceo erano, per la loro posizione, un osservatorio privilegiato su Corso Amatuzio. Nulla poteva sfuggire allo sguardo degli studenti che vi si affacciavano per tutto il tratto che va dalla piazza fino alla Stazione, ma quella mattina nessuno avrebbe immaginato che gli occhi sarebbero stati rivolti verso il cielo. Erano appena iniziate le lezioni quando un rombo assordante fece tremare i vetri e sobbalzare gli alunni di tutte le classi che, corsi alle finestre, scrutavano verso l’alto senza riuscire a scorgere l’aereo che aveva provocato tale trambusto. Si ritornò, sollecitati dai professori, al proprio posto, ma la distrazione era stata tanta e ognuno in cuor suo sperava che il fatto si ripetesse.

Tutti erano all’erta e, trascorsi pochi minuti, si cominciò a udire in lontananza un flebile sibilo, di nuovo gli alunni eccitati corsero verso le finestre, questa volta sarebbero arrivati in tempo per vedere, infatti si affacciarono proprio mentre il muso del jet appariva a pochi metri dai loro occhi . Un muso simile a quello uno squalo che si avvicinava minaccioso e velocissimo e che, con un boato fragoroso, sfiorò il tetto della scuola.

Io avevo capito subito chi fosse ai comandi di quel velivolo e conoscevo la manovra che avrebbe fatto: l’aereo si allontanava in direzione di San Massimo seguendo la ferrovia che il pilota usava come riferimento. Poco prima del campo sportivo di Cantalupo effettuava una lenta virata a destra e, seguendo sempre il percorso della strada ferrata, giungeva al bivio di Guardiaregia dove, all’altezza del cementificio, eseguiva ancora una lenta virata a destra e via a volo radente di nuovo verso Bojano puntando l’edificio scolastico.

Ormai tutti erano certi che ci sarebbe stato un terzo passaggio e più di qualcuno, giocando alla guerra, si era attrezzato per la difesa: avevano piazzato le sedie dei banchi sui davanzali delle finestre con le gambe puntate verso l’alto e quando il jet apparve ancora una volta, dettero vita a un fuoco di sbarramento contraereo tatatatatatatatatatatatatatatatatatataatatatatataatatata, imitando una mitragliatrice e giù a ridere a crepapelle. I professori cercavano di ripristinare l’ordine e di calmare i più esagitati con scarsi risultati, anche perché vi fu subito un quarto passaggio e le mitragliatrici alle finestre erano decuplicate.

I vetri tremarono ancora, il boato fu più forte e molti si precipitarono nel corridoio dalle cui finestre videro l’aereo allontanarsi oscillando le ali in segno di saluto. Io più degli altri, a quel movimento, sentii tremare il cuore, e fui orgoglioso perché il provetto pilota era mio fratello e aveva saputo evitare la nostra contraerea. Era un gioco ma per fortuna, pensai, non era stato colpito.

Giovanni D'Ippolito

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Il dente da latte

14 Ottobre 2015 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #racconto

Il dente da latte

Un racconto inedito dedicato alla neo premiata con il nobel della letteratura 2015 Svetlana Aleksievic

Il dente da latte

Quell’anno l’inverno era stato particolarmente rigido, ma breve; già ad aprile le grandi pianure ucraine si erano spogliate dell’abito bianco della neve come spose pronte all’incontro d’amore della prima notte di nozze.

Dappertutto scie di aria tiepida s’incuneavano tra nuvole svogliate che andavano diradandosi all’orizzonte per effetto dell’evaporazione.

La giornata era ideale per portare i bambini al parco; gli operai avevano smesso colbacchi e cappotti, ai piedi ancora stivali di gomma per aver ragione del fango che ancora era alto sulle strade di terra battuta. Ma almeno chi aveva la fortuna di raggiungere in auto il luogo di lavoro, perché distante da dove viveva, non doveva temere i rischi del congelamento del motore per temperature sotto lo zero.

Tra poco la città sarebbe apparsa in tutto il suo splendore primaverile, faticosamente conquistato, dacché piante e fiori dovevano superare il trauma del gelo invernale.

Ma la vita prevale sempre in natura, tutti lo sapevano, né s’immaginavano che la nera signora stava con beffardo sogghigno affilando tra alte lingue di fuoco le armi per falciare i fiori tutti della cittadina operosa.

Gli echi della grande Kiev, moderna e gaudente, non scalfivano la vita del paesino che aveva alle spalle, nemmeno troppo lontano, una specie di vulcano, né bello, né brutto, con quattro crateri in grado di assicurare energia per quasi tutto il territorio.

Tolik aveva appunto assunto il ruolo di cicerone col suo migliore amico Sasha, prima di apprestarsi alla grande cena, con l’intenzione di descrivere un po’ della centrale mentre sua moglie Liuda sistemava i fiori di cui era stata omaggiata sul grande tavolo tra i cioccolatini e i dolci che lei stessa aveva preparato. Dei piccoli pampushki al burro e delle fette di torta salata aspettavano solo l’inizio della degustazione. Il resto veniva da sé.

Mentre ancora pigramente lo spezzatino sbolliva nella pentola, Liuda sistemava le ultime cose sulla tavola. Aveva pensato a tutto.

Ad un tratto un tremolio, un acre odore di fumo, un boato. Non ci fu più luce e non ve ne fu per parecchi mesi e per moltissimi non tornò a brillare.

Così, in un momento, senza preavviso, tanto che l’odore di carne bruciata in cucina e quello dei corpi carbonizzati fu un tutt’uno.

Morirono tutti.

Attraverso il denso fumo e la polvere caliginosa, a stento, come in una vecchia foto in nero di seppia sbiadita dalla luce e dal tempo, s’intravedevano resti disintegrati di forme umane avvizzite dall’enorme calore che la fiamma continuava a sprigionare dalla ciminiera dopo l’esplosione.

La maggior parte di essi era irriconoscibile, altri resti, trovati a cinquanta chilometri di distanza, avevano sui corpi prosciugati come grinzose mummie egiziane i segni delle bruciature che scintille radioattive avevano provocato a guisa di puntini luminosi e fluorescenti che vengono giù dalla deflagrazione dei giochi pirotecnici.

Un alito fetido di morte aveva annullato tutto, in un attimo, senza preavviso, ma non il ricordo, al mondo, di un villaggio popolato ora di fantasmi.

Non resse lo sguardo il Dottor Moisey Tolchinsky, quando si recò all’ospedale del piccolo centro per eseguire le prime autopsie, trascorsi i giorni di quarantena.

Molti soccorritori si erano recati sul luogo dell’incidente alcuni mesi dopo per bonificare l’area e mettere al sicuro l’impianto. Non avevano tute isolanti adeguate e ciò molto probabilmente diede luogo a una morìa di persone, a causa dell’intossicazione radioattiva, come mosche insonnolite dal DDT che pigramente vanno a morire dove capiti.

Era nota la causa scatenante, anche se il colpo mortale si dislocò per essi nei vari organi e tessuti, soprattutto nel sangue.

Bill, figlio di madre americana, era ancora goloso di latte, nonostante i suoi cinque anni. Si riempì di iodio-131 fino a morirne.

“Bill, Bill, rispondimi bambino! Sì, sei tu, sei tu…! Ti fa ancora male quel maledetto dente da latte? Avevi ragione a non toglierlo”.

-Prima o poi cadrà da solo- dicevi!

-Ho paura dei ferri, ho paura dell’ago! Non voglio, non voglio!-.

“Dormi bambino, domani mangerai di sicuro un syrniki più soffice. Mi raccomando, che ci sia tanta panna, come piace a te”.

Nella piccola culla in ferro battuto un lenzuolino bianco senza orli fu teso a coprire i miseri resti. Forse più l’amore per quello che era stato il bambino che l’effettiva riconoscibilità del suo cadavere ridotto a un a larva avevano spinto Moisey a riconoscerne le fattezze.

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LA PAURA di FEDERICO DE ROBERTO (1861 – 1927)

16 Agosto 2015 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto

LA PAURA di FEDERICO DE ROBERTO (1861 – 1927)

"Nell'orrore della guerra l'orrore della natura; la desolazione della Valgrebbana, le ferree scaglie del Montemolon, le cuti delle due Grise ... uno scenario da Sabba romantico, la porta dell'inferno".

L'inizio della novella, ambientata nel Primo Conflitto Mondiale, rivela in modo magistrale la sensazione di violento disagio dei soldati nelle inospitali zone di guerra. Il dramma della vicenda è accresciuto dalla sostanziale unità di tempo, luogo, azione.

I fatti si svolgono in una postazione italiana mal difesa, ma ritenuta cruciale dai Comandi. Bisogna che una vedetta stazioni regolarmente in un punto poco protetto da dove si possono osservare gli eventuali movimenti degli austriaci. Tutto è tranquillo finché un implacabile tiratore inizia a sparare, uccidendo la sentinella. Secondo gli ordini ricevuti, il tenente Alfani deve far uscire un altro uomo. Il cecchino colpisce ancora efficacemente. Un altro deve allora prendere il posto del caduto. Passano davanti all’ufficiale soldati provenienti da mezza Italia; ciascuno è inquadrato nella sua specificità regionale attraverso la parlata. De Roberto, nato a Napoli e vissuto principalmente in Sicilia, si fece aiutare per il lato linguistico da amici di altre regioni.

Alfani vede cadere altri dei suoi; ma l'ordine è chiaro e viene ribadito dai superiori. La postazione deve essere presidiata a tutti i costi, nonostante sembri tragicamente inutile. La sofferenza e lo strazio raggiungono il loro apice quando un soldato, prima di andare allo scoperto, chiede di parlare col cappellano che però non c’è. Qui c'è un punto molto intenso; il tenente si sente tenuto a fare non solo da superiore, ma anche da confessore e confidente nel momento in cui la morte del subordinato è vicina. Nelle piccole unità, in effetti, il rapporto tra truppa e graduati era molto forte.

Alfani capisce la paura dei suoi uomini; non si tratta di combattere e rischiare come hanno sempre fatto, guadagnandosi encomi e medaglie. La minaccia non è imprecisata; non viene da una pallottola che può colpire o no. Qui si tratta di subire una fine certa, una morte che sta acquattata e pronta subdolamente a ghermire. Questo il soldato non può accettarlo e il coraggio non basta: lo sforzo anche fisico di affrontare il pericolo fatale richiede una capacità sovrumana. De Roberto è davvero profondo nel cogliere gli aspetti psicologici della guerra e delle relazioni gerarchiche. In un contesto militare l'obbedienza è dovuta. Senza di essa il sistema “salta”. Ma si deve obbedire anche a un ordine stupido o insensato? Spesso i superiori non hanno lo sguardo sulla realtà più prossima all’azione e non tollerano obiezioni dal basso da chi vede i limiti di certe direttive. All'ordine deve seguire l'obbedienza senza discutere, se non altro per tutelare l'aspetto formale dell'obbedienza e non creare un pericoloso precedente di rifiuto. E così nella novella la catena delle morti inevitabili prosegue perché pure il cecchino fa il suo dovere. All'autore de I Vicerè, che non prese parte al conflitto, va il merito di aver colto, da scrittore, alcuni nodi importanti della tragedia della Grande Guerra che fu in varie occasioni una tragedia legata al dovere di obbedire.

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Il mio primo e unico furto (fuori casa)

5 Luglio 2015 , Scritto da Paolo Mantioni Con tag #paolo mantioni, #racconto

Il mio primo e unico furto (fuori casa)

All’epoca eravamo un gruppo di monelli tra i dodici e i quattordici anni. Passavamo il tempo tra giochi infantili – nascondino (da noi chiamata nascondarella), partite di pallone, e altre simil cose – e occupazioni più smaliziate – partite di poker nel garage momentaneamente libero d’uno di noi; chiacchierate indolenti seduti sul muretto della chiesa o tra i tavoli del piccolo bar dei paraggi, a dispetto della non sempre contenuta irritazione del proprietario, che vedeva i suoi tavoli occupati per molte ore a fronte di poche e povere consumazioni; sigarette fumate tra le dunette di un campetto circostante ai limiti del nostro territorio e da noi chiamato “I monticelli”, e altre simil cose. Eravamo un gruppo di monelli ognuno dei quali aveva un che da fuggire in casa propria. Chi altri quattro o cinque tra fratelli e sorelle ingombranti, chiassosi e tendenzialmente prevaricatori, impegnati a costruire e mantenere una gerarchia della quale facevano le spese i minori, magari a petto d’un padre ubriaco se allegro o ingrugnito se sobrio; chi fuggiva invece dubbie reputazioni di madri o sorelle, troppo spigliate o simpatiche, pagando il fio di una colpa non sua e risarcendo qualcuno di noi dell’ospitalità con saltuarie e non del tutto impegnative prestazioni omosessuali; chi fuggiva l’onta di genitori separati: oggi si stenterebbe a crederlo, ma allora un padre non morto o non emigrato o non carcerato che non vivesse in casa era un mistero che rendeva i figli bisognosi di comprensione e sempre a rischio d’esclusione; chi, più semplicemente, fuggiva le botte dirette su di sé o indirette sulla madre d’un padre perennemente sbronzo – fotocopia sputata del Ferribotte dei Soliti ignoti - che sostentava la famiglia e la sua macchina sportiva guardando lavorare moglie e figlio nel lucroso negozio di casalinghi e servizi vari. Io per la verità non ricordo cosa fuggissi o se avessi qualcosa da fuggire: madre e parenti mi volevano bene, mi stimavano, mi ritenevano in rampa di lancio per un profittevole futuro, ero riflessivo, educato, preoccupato; soffrivo un po’, forse, dell’indifferenza arrogante d’un fratello troppo maggiore d’età e già impegnato in attività cui non potevo partecipare: insomma nulla di veramente serio. Eravamo un gruppo di monelli che s’aggirava o sostava su un territorio circoscritto che comprendeva le case d’ognuno di noi, la scuola, la chiesa, il bar, i “Monticelli”: questo era il cerchio spaziale. Il cerchio ideale che costituivamo era altrettanto reale, sebbene duttile e permeabile sia in entrata che in uscita. Eravamo un gruppo di monelli e in mezzo a noi capitava talvolta un ragazzo un po’ più grande, di pochi mesi da alcuni, di un anno o poco più da altri. Un ragazzo di esperienza e di prestigio. Per l’una faceva fede il suo lavoro fisso – barista al bar del mercatino rionale, ben distante dal nostro territorio – per l’altro un fratello in carcere, che se non era proprio il famoso bandito era comunque oggetto di suggestione e soggezione. Eravamo un gruppo di monelli e un ragazzo d’esperienza e prestigio saltuariamente ospite del nostro circolo ognuno con un nome. Mi correrebbe l’obbligo di indicarlo, di chiamare con il loro nome o con un nome fittizio questi personaggi (me compreso). Ma l’una o l’altra cosa mi risultano difficili. Se li indicassi con il loro vero nome, temo, nel caso improbabile vengano a conoscenza di queste righe, che possano urtarsi, possano rivendicare d’aver visto le cose in maniera diversa, o che non gradiscano vedersi imprigionati in una verità parziale, com’è, e come non può essere altrimenti, una verità. Se usassi nomi fittizi e mi consegnassi, come sarebbe giusto, a tutte le prerogative del fare letteratura, mi sembrerebbe quasi di tradirli, di svellere da loro una parte della loro verità. Un residuo, forse, del pensiero magico che contesta l’assoluta convenzionalità di parola e cosa, nome e persona. Del resto, però, chiamarsi Giovanni o Kevin o Goffredo, oppure Concetta, Sharon o Lucrezia, converrete con me, non è la stessa cosa, soprattutto quando si è ancora in tenera età, quando la personalità è ancora una nebulosa di opportunità. Ma in questa constatazione c’è poco di magico: qui entrano in corte la Storia, la Sociologia con gli spregevoli cortigiani dell’autocompiacimento e dell’intellettualismo. Eravamo un gruppo di monelli e un ragazzo ospite e ci chiamavamo, alla rinfusa, Gianni, Paolo, Daniele, Stefano (due occorrenze), Giorgio, Massimo, Giancarlo; nessun Goffredo, nessun Sigismondo, nessun Manfredi e nemmeno un più spendibile Riccardo; per la verità non c’erano nemmeno Carmeli o Concetti o Santini. Il ragazzo ospite aveva una per noi stupefacente disponibilità economica che gli permetteva d’aprire giornalmente il suo pacchetto di Marlboro morbide (soft), che, quasi snobisticamente, ripagavano della minor praticità della confezione rispetto alla Marlboro dure (box) con una leggera maggior lunghezza e un gusto più pieno. Poteva consumare al bar e fare il gesto che alcuni di noi sognavano la notte: infilare la mano in tasca, trarne una manciata di monete e trascegliere tra queste quelle da consegnare al cassiere. Intendiamoci, noi gruppo di monelli, avevamo disponibilità economiche personali superiori a quelle dei Goffredo - che magari avrebbe potuto possedere e giocare con una pista a quattro corsie, due ponti e un giro della morte, ma non avrebbe potuto decidere d’andarsi a prendere un gelato - o dei Concetto, ma dovevamo pur sempre contare mentalmente le 500 lire per il cinema o le 250 da mettere insieme per le MS da 10. E se riuscivamo a mettere insieme ognun per sé le 2500 lire per la piscina – avendo il mare a poche centinaia di metri, ovviamente agognavamo d’andare nella piscina inaugurata di fresco, come una grande novità – non potevamo certo dire, come faceva il ragazzo talvolta ospite, “dai, un biglietto ve lo pago io”. La letteratura non ha solo il sacro e santo, fumoso e controverso compito di dire la verità, ma, assieme ad altri ancora, anche quello di mostrare agli Stefano, ai Goffredo e ai Concetto che il mondo è un prisma cangiante e che se ci si riduce ad una striminzita figurina – foss’anche nudo su un panfilo a largo o in costume da bagno a bordo piscina o in mutande bianche su una spiaggia libera – se ne perde gran parte del gusto. Il ragazzo ospite aveva anche il privilegio di lasciare, purché non glielo richiedessimo esplicitamente, gli ultimi due tiri o addirittura l’intera mezza sigaretta a qualcuno di noi che lui opzionava a caso o secondo sue imperscrutabili elucubrazioni. Caso e elucubrazioni insollecitabili, pena l’evaporare della possibilità. Il ragazzo ospite aveva disponibilità economiche per noi fantasmagoriche perché lavorava, perché a fine mattinata poteva portarsi via le mance e perché rubava. Era specializzato nel furto delle autoradio dalle macchine in sosta. Come poi trasformasse l’aggeggio in monete e banconote, ovvero l’esistenza di ricettatori o committenti, era per noi gruppo di monelli un mistero che rendeva il ragazzo ospite ancora più affascinante e soggiogante. Come invece svolgesse concretamente l’operazione, anziché limitarsi a raccontarcelo, decise, colta una circostanza favorevole, di mostrarcelo. In un’aula a cielo aperto il ragazzo ospite tenne un seminario di ladroneria. In uno spiazzo poco lontano dalla spiaggia, un assistente del professore – l’inconsapevole e malcapitato proprietario – aveva depositato una Cinquecento gialla con la cappotta apribile di cotone plastificato. Il ragazzo ospite ci fece dapprima notare che non aveva gli ammortizzatori abbassati, quindi non poteva appartenere a qualcuno che, informandosi in giro, avrebbe potuto scoprire l’autore (o gli autori?) del misfatto. Poi estrasse dalle tasche i ferri del mestiere, un coltellino e un rampino (che altro non era che un’antenna da autoradio, appunto), che spiegò sotto i nostri occhi. (Ah, che meravigliosa storia è compresa tra il rampino del secentesco Cavalier Marino e quello del ragazzo ospite). Sbirciò dal finestrino, si girò di nuovo verso i suoi pigolanti allievi e disse, con l’aria di chi la sa lunga, “c’è l’impianto, ma lo stereo non c’è”. Pensammo (o forse sperammo) che fosse suonata la campanella e che la lezione sarebbe stata rimandata ad altra data o a mai più; invece, dopo aver studiato le nostre estatiche espressioni, dopo aver di nuovo maliziosamente sorriso, “sti coglioni tante volte lo mettono sotto il sedile” aggiunse. D’un sol colpo di coltellino disegnò uno squarcio a forma di 7 sulla cappotta, infilò il rampino, sollevò il pomello di chiusura dello sportello, controllò sotto entrambi i sedili, scassinò, per sicurezza, e già che c’era, il vanetto portaoggetti, il tutto in non più di cinque o sei secondi, ma lo stereo non c’era per davvero. Evidentemente il coglione, sordo alle derisioni dei cabarettisti, se l’era portato dietro e ora passeggiava per mano alla fidanzata tenendo nell’altra il suo stereo in sicurezza. E noi gruppo di monelli fummo sollevati dall’idea che in fondo, mancando il bottino, non avevamo partecipato ad un furto, eravamo ancora vergini, per così dire. Il ragazzo ospite non se la prese più di tanto: uno squarcio in più o in meno non avrebbe influito più di tanto sulla sua esecranda carriera.

Cionondimeno quella lezione ebbe i suoi frutti. In una bella sera d’estate, ridotto momentaneamente il gruppo di monelli a una coppia, passeggiavamo per una delle nostre strade senza marciapiede e superavamo macchine in sosta alla nostra destra. Notai, notò, notammo una Seicento nera (se mal non ricordo) con il finestrino completamente aperto: non ci sarebbe stato bisogno né di coltellino né di rampino. Proseguimmo per un po’ senza parlarne, solo guardandoci, poi feci, fece, facemmo un’inversione a U e ripassammo di fianco alle lamiere tentatrici. Non c’era nessuno stereo, ma c’era in bella evidenza sul cruscotto un pacchetto di sigarette Astor morbide, involucro marrone, cammeo all’inglese proprio al centro, che aveva tutta l’aria di essere pressoché intonso. Al terzo passeggio presi, prese, prendemmo la decisione: il mio buon amico, poco più grande, più risoluto e, diciamolo francamente, più bello di me, protese il braccio nell’abitacolo e senza nemmeno aprire lo sportello, arpionò l’agognato pacchetto di sigarette. Cominciammo a correre a perdifiato, svoltammo subito a destra su una stradina laterale meno illuminata e più stretta e non ci fermammo fino a quando gli immaginati giustizieri con bastoni e forconi avrebbero esaurito l’ultima stilla d’energia. Io e il mio buon amico ci eravamo sverginati, per così dire. Come si evince dal titolo di questo pezzo letterario e, per chi fosse interessato, dal mio casellario giudiziale, io interruppi lì la mia carriera: troppa paura, troppa preoccupazione di far soffrire la mamma, di deludere i parenti. Il mio buon amico invece perseverò con conseguenze, che il fallace e lungimirante, a volta a volta lungimirante e fallace, senso comune, considererebbe disastrose. Il mio buon amico agì secondo il fallace e lungimirante detto “chi non risica non rosica”, io secondo l’altrettanto fallace e lungimirante “male non fare paura non avere”.

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