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racconto

LA POSTA di Federico De Roberto

1 Giugno 2016 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto

LA POSTA di Federico De Roberto

I protagonisti della novella sono il tenente Malvini e il soldato siciliano Cirino Valastro; operano nella stessa unità e sono parte di un battaglione che si sta addestrando prima di entrare in linea e combattere.

Tra i due si crea un rapporto abbastanza forte, nonostante le differenze culturali; in molti reparti la vita in comune e la condivisione dei pericoli accorciava infatti le distanze gerarchiche.

Valastro non sa leggere e scrivere; si rivolge al tenente perché gli legga le lettere che arrivano da casa e poi gli chiederà anche di scrivere le risposte. All'ufficiale si apre un mondo molto vivace; nelle missive si parla di affari di famiglia, terre da coltivare, boschi, una mula da curare, frutti e cibi locali. La parte spassosa è quella in cui Malvini cerca di decifrare le tante espressioni in siciliano. D’altronde, come già notato nella novella La paura, De Roberto è sempre attento a evidenziare la specifica provenienza regionale degli uomini attraverso la parlata.

Il soldato diventa particolarmente caro al superiore dato che si fa apprezzare per impegno e disciplina. Gli altri lavorano con gli attrezzi leggeri, lui vuole quelli più pesanti che sa come maneggiare. L’abitudine alla fatica lo avvantaggia. È tra i migliori tiratori. Merita anche una ricompensa per una coraggiosa azione notturna. Il suo spirito è solo offuscato dalla nostalgia di casa. Malvini lo stima, anche se ciò che sente per lui non è un sentimento univoco; all’ammirazione per la costanza si affianca la consapevolezza dell’ingenuità e “della grande umiltà del poveretto”.

Ma perché Valastro è instancabile e supera i compagni per disciplina e sacrificio? “Ignorando la storia, i confini le ragioni della patria, si rassegnava più degli altri alla necessità che lo aveva divelto dall’isola remota”.

È analfabeta, ignorante e quindi prende la vita al fronte come un fatto di necessità. A ciò che è necessario non si fa resistenza, ma ci adegua con durezza, in attesa che le cose cambino.
Quando però le lettere iniziano a portare cattive notizie, Malvini teme di affliggerlo. Istintivamente non se la sente di dargli sofferenza; comincia allora a raccontargli bugie mentre gli legge le lettere. Le menzogne si accumulano. Che fare, d’altronde? Un grande attacco è prossimo ed è meglio che il ragazzo sia in forma e concentrato. Perciò nulla gli dice della morte della sua mula, di varie questioni spiacevoli, della perdita della speranza di sposare una giovane delle sue parti. Un soldato deve restare sereno nel momento in cui si sta preparando un assalto che potrebbe essere l’ultimo. Così il giovane, ignaro delle cose grandi, resta ignaro anche di quanto succede a casa sua.

Su Malvini e le sue bugie e omissioni sorgono inevitabilmente alcune domande. Ha agito così, come sembrerebbe all’inizio, solo per una sollecitudine affettuosa verso il ragazzo? Non aveva diritto Valastro di sapere ogni cosa, oppure bene ha fatto il superiore a esercitare una benevola censura? Il soldato che deve uscire dalla trincea e affrontare il nemico deve essere sereno, si spiega nel testo.

Ma poiché, nel caso del soldato siciliano, il massimo impegno al fronte coincide con la massima ignoranza e delle cose che riguardano la storia e la politica (non avendo potuto studiare) e di ciò che succede a casa sua, emerge un’altra considerazione. Il tenente, su un piano di minore o maggiore consapevolezza, forse fa parte anche lui, a livello basso, di un sistema più ampio di sorveglianza sullo spirito degli uomini che setaccia preventivamente ciò che si può conoscere, in vista del miglior rendimento al fronte: “Il soldato … doveva avere l’animo sgombro per affrontare serenamente la morte”.

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L’ULTIMO VOTO di Federico De Roberto

27 Aprile 2016 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto, #storia

L’ULTIMO VOTO di Federico De Roberto

Questa è una novella all'altezza del miglior De Roberto, letta nell'edizione Garzanti; è il De Roberto che pur non avendo servito nella Grande Guerra si dimostra ottimo scrittore di cose militari.
I protagonisti sono due ufficiali e l'ambiente è quello della guerra in montagna. La neve ha costretto italiani e austriaci ad arretrare alla ricerca di posti più riparati. Gli ultimi attacchi invernali del regio esercito non hanno prodotto risultati; anzi, una compagnia, guidata dal capitano Colombo e in possesso solo di armi leggere, è sparita senza lasciare tracce dopo un assalto quasi suicida.

L’inverno passa e quando il tempo migliora, il capitano Tancredi manda pattuglie verso le linee nemiche; i parenti dei soldati scomparsi e soprattutto la moglie di Colombo fanno pressione per avere notizie sui loro cari. Tutti morti? Oppure ci saranno dei prigionieri? Servono risposte.

Qui il mistero si fa gradualmente più fitto; il reparto sparito tra le fredde rocce, l'individuazione di un soldato impigliato nei vecchi reticolati, l'insuccesso di ogni pattuglia mandata a recuperarlo accrescono l'interesse per la vicenda. Chi è quel soldato? Bloccato da mesi, irrigidito dal gelo, sembra racchiudere la soluzione al mistero. Ma gli uomini che devono riprendere quel corpo falliscono e si nascondono dietro a laconiche giustificazioni; è pericoloso intervenire perché c'è una mina vicina, sostengono con poca convinzione. Tancredi, pur avendo ottenuto una sospirata licenza, decide di andare a vedere di persona conducendo pochi uomini; è suo dovere farlo.

Qui c'è la parte più emozionante; sembrano pagine tratte da un diario di guerra. L'ufficiale si muove nella nebbia, sfida i cecchini, raggiunge il corpo martoriato dai colpi e dal freddo; il recupero riesce con grande fatica. Non c’è nessuna mina. Si trattava proprio del capitano Colombo che guidò lo sfortunato assalto alla trincea austriaca; i commilitoni che lo conobbero raccontano del suo valore e dell'amore per la giovane moglie, più volte ribadito in modo appassionante.

Proprio Tancredi si assume l'onere di andare a Roma a riferire la tragica notizia alla donna. Non vorrebbe farlo; è molto a disagio e allora si fa accompagnare dall'amico Laurana, un imboscato piuttosto sfacciato. Davanti alla vedova, una contessa, il disagio diventa sconcerto; la donna non mostra dolore. In realtà voleva conoscere in modo sicuro la sorte del marito per avviare le pratiche per avere la pensione.

Laurana si offre di aiutarla a reperire la documentazione.

Più tardi, al ritorno al fronte, Tancredi apprenderà che l'amico e la contessa stanno per sposarsi.
È una novella amara; il divario tra fronte e Paese è enorme. Uomini di trincea da una parte e imboscati e civili dall'altra appaiono separati da una distanza fisica e morale incolmabile; sono due mondi che usano linguaggi diversi e che anzi non si parlano. Su tutto domina la figura del capitano Colombo, con il suo corpo martoriato, quasi "cristico", offeso dai colpi nemici e dalla corona di spine dei reticolati: “ … il braccio destro disteso e la pistola ancora spianata; il capo eretto e la mascella fracassata … le palpebre chiuse, l’uniforme lacera … pareva un’opera di scultura, un simulacro intagliato nella pietra e nel legno”. Sembra già di vedere uno dei monumenti ai caduti che nel dopoguerra saranno costruiti in ogni paese.

Ma il suo sacrificio non è capito da chi lo aspetta a casa; è un'icona di sofferenza che però lontano dal fronte non suscita interesse o emozione. Tancredi invece è turbato da quella fine e ne apprezza la statura morale. L'unico vero e intenso “dialogo” dello stesso capitano Tancredi è infatti quello virtuale con la salma del commilitone caduto che egli stesso ha fisicamente staccato dal luogo di morte; è la sola persona che ha voglia di conoscere meglio, attraverso le testimonianze di chi gli era accanto in guerra. Tutto concorre nella novella, in definitiva, a fare dei combattenti una categoria morale diversa da chi non ha mai visto il fronte e l’inumanità delle sofferenze che affratellano i soldati.

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IL VITALIZIO di Luigi Pirandello

25 Aprile 2016 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto

IL VITALIZIO di Luigi Pirandello

In questa novella il vecchio Maràbito cede il suo terreno al mercante Maltese; in cambio avrà un vitalizio che l'acquirente spera naturalmente di breve durata. L'anziano dice, per rassicurare l'avido interlocutore, che dopo la vendita andrà nella sua casa in paese aspettando la morte. E aggiunge di voler lasciare il podere non per pigrizia ma perché stanco e fiducioso che altri più forti di lui lo lavoreranno meglio.

In poche frasi c'è quasi tutto il protagonista della vicenda, con la sua moralità e la sua schiettezza. Il mercante Maltese spera di ripetere l'affare di qualche anno prima quando un altro vecchio morì appena sei mesi dopo aver firmato un contratto simile. Spera quindi che il contraente anche stavolta muoia presto.

Maràbito non chiede più nulla alla vita; ha già dato tutto e gli basta quanto avuto.

Il tempo passa e l’uomo fatica a vivere senza le sue attività. La noia lo assale.

Soffre in silenzio quando viene a sapere che il nuovo proprietario amministra male il terreno. Ma non protesta; il suo ruolo è solo quello di attendere la morte nel suo alloggio, circondato dalle donne del vicinato che gli sono solidali perché detestano il cinico Maltese.

Gli anni scorrono, il vecchio ancora vive e il mercante gli paga il vitalizio con crescente rabbia, scoprendo di aver fatto male i suoi calcoli. Accade poi però che proprio Maltese muoia improvvisamente. Sono passati oltre cinque anni in cui il vecchio è diventato ottantenne e sta abbastanza bene. Quando una malattia sembra stroncarlo, le cure stregonesche di una delle donne lo salvano. È molto a disagio; accusato in modo strampalato dalla vedova del mercante che gli rinfaccia di essere ancora vivo, crede suo malgrado di essere uno strumento di vendetta dell'altro anziano morto poco dopo la firma del contratto.

Ora è lo scaltro notaio Zagàra a prendersi il podere e i relativi oneri; il vecchio non può durare a lungo, pensa. Invece fa in tempo a morire lui, mentre si festeggia il compleanno di Maràbito, ora addirittura centenario.

Tutti quindi scommettono frettolosamente sulla prossima fine del protagonista, associato a una morte che non arriva. Lui stesso soffre quando sopravvive ai più giovani. Gli sembra di essere un peso. Avete il vizio di campare a lungo, gli diceva il notaio facendolo irritare. In mezzo alle furbizie di tanti che non lo rispettano, lui brilla per equilibrio, coerenza, dignità. Ha sempre lavorato, è stato un emigrato, ha dato tutto; nella sua moralità non trova spazio ciò che non è meritato. A un certo punto, infatti, vorrebbe non ricevere più vitalizi, avendo avuto dopo tanti anni nel complesso ben più del valore della proprietà. Sembra il vincitore, dato che alla fine si riprende il podere dopo la morte del notaio. Eppure lo troviamo triste mentre da centenario guarda le nuvole stando nel suo terreno.

Non ci sono vincitori nella novella. Vince l'assurdo; chi voleva vivere muore, chi è stanco di campare continua a dover sopportare l'afa della vita. L'eternità senza la giovinezza è un fardello durissimo, come insegna la figura mitologica di Titone. Perciò più che il cinismo che domina la vicenda ambientata in un paesino siciliano, colpisce il lato enigmatico dell'esistenza. Si può essere beffati dalla morte che arriva inattesa, ma anche dalla vita che si aggrappa a chi non la vorrebbe più e diventa una condanna.

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Claudio Fiorentini, "Piricotinali col ruspetto"

23 Aprile 2016 , Scritto da Patrizia Stefanelli Con tag #claudio fiorentini, #recensioni, #racconto

Claudio Fiorentini, "Piricotinali col ruspetto"

Permettetemi, dice Patrizia Stefanelli, di consigliare un libro: Piricotinali col ruspetto di Claudio Fiorentini. Molto divertente.

LETTERA ALL'AUTORE

Caro Claudio, quante risate mi hai fatto fare e quanto, tra quelle risate, mi hai fatto pensare. Ehm… uhm… so che sei discreto, ma hai insistito ben bene con la signorina “Frufrù” e diamine! Un raccontino dei fatti lo potevi fare, una sfumatura, dico, almeno una delle possibili. Beh, scherzi a parte di certo la fantasia non ti manca. I tuoi mondi rispecchiano l’alienazione che a piccole dosi stiamo inglobando; senza accorgercene, siamo noi l’alienazione.
Cibi normali? Non sia mai! In cucina come in arte, ognuno vuol dire la sua ma "un culetto di Branchiatore" val bene la divisione in parti uguali, e chi si contenta gode due volte. Se poi, in un giorno quasi fortunato, a qualcuno venisse voglia di intervistare Il Divino, beh, forse farebbe meglio a vivere la vita, magari in un bel borgo troglodita (rispetto al futuro), dove la vita profuma “normalmente”. Un borgo al contrario, un "ogrob" per l’esattezza, in cui è difficile rinunciare alle false certezze ma non impossibile. Poche persone, fortunate e coraggiose, riescono a sentire i veri profumi.

Pausa - quartetto d’archi

Procedi per generi musicali e indicazioni agogiche, e questa indicata è la mia pausa. Ho ripreso dopo due giorni il tuo libro con incoscienza, giacché dovrei dormire. Non dormo da ventiquattro ore ma di fronte al pugile che accusa il grande amatore di "non aver usato il guanto", non resisto (sto ridendo, scusami, anzi, siine contento, solo non vorrei perdermi mentre ti leggo e intanto ti scrivo).
Ha sofferto senz’altro di una sindrome da abbandono di "Coscienza" e ne ha goduto terribilmente, così come solo un incosciente può fare. Mai giudicare però, perché a quanto pare, la coscienza da un momento all’altro, se le prende il capriccio, abbandona chiunque. E da un "crescendo ostinato" volgo al "canto popolare". Mi aspetto panismo e prodotti genuini. Eccoli! Personificati in -" Tea, Limone, Zafferano, Ginestra (bella citazione) e Mazza d’oro della famiglia delle primulacee". Un bel vivaio!
Ancora personificazioni con il "navigatore" monocorde schizofrenico. In crisi di autostima? Esilarante. Il prodotto tecnologico che dovrebbe essere privo di emozioni si stufa? Chi non ha vissuto la voce del navigatore come compagno di strada, spesso invadente e insistente. Le inversioni a U, che esso dichiara consentite, o le zone ZTL da attraversare, avrebbero portato a un percorso diverso e chissà… Se poi la tecnologia dovesse inventare un "Mutatempo", meglio leggere le istruzioni prima di qualsivoglia viaggio. Che bella che è la tua proverbiale pazienza, caro il mio Fiorentini, si percepisce ovunque.
Torna la "Coscienza", ehilà! Che dire della sospensione della coscienza dopo la morte, in attesa dell’espansione, per divenire un punto dell’infinito? Come hai fatto a scrivere di questo, mi chiedo. Filosofia e religione, grazia e leggera ironia in un mix che incanta. In fondo siamo solo esseri umani e anche limitati. Certo, se fossimo dei supereroi, le cose andrebbero diversamente, non sarebbe per niente male, ma che fatica! Meglio allora usare la fantasia, possiamo inventarci di esserlo, ma l’ossessività del protagonista di "Danubio blu", credimi, mi ha lasciato uno stress tremendo. Se poi penso che la vita sia solo un "Dlin" suonato col cuore, come bene sapeva fare l’amico John Smith, capisco che è tutta una musica, la vita, in attesa di quel momento unico e singolare. Sì, è bello vivere, stupenda la Terra, con gli animali, i suoni, l’aria, le piante, i cicli… senza l’uomo, almeno da un punto di vista alieno. L’essere umano è infettato, come tutto ciò che tocca, dal virus "m.o.n.d.e.z.z.a". Peccato.
Infine, la tua "conclusione rock": “Sei ROCK!” ti direbbe Celentano, per questo ti scrivo una lettera pubblica che non servirà ad alcuno per la comprensione del tuo fortissimo libro. Ognuno potrà capirla solo dopo averlo letto!

Con affetto e stima,

Patrizia Stefanelli

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DUE MORTI di Federico De Roberto

16 Aprile 2016 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto, #storia

DUE MORTI di Federico De Roberto

Si tratta di un racconto scritto nel 1920 dall’autore del noto romanzo I viceré. Siamo senz’altro al di sotto come forza narrativa rispetto alla novella La Paura, già affrontata in questo blog. Comunque gli spunti stimolanti non mancano; il contesto è ancora quello della Grande Guerra. Un cappellano militare narra al suo interlocutore due casi drammatici della sua esperienza nel conflitto.

Due soldati, fra i tanti che dovette assistere, gli sono rimasti particolarmente impressi. Uno era un soldato del reparto Sanità; apprezzato dai colleghi e dai superiori, coraggioso e altruista, la sua malattia rattrista tutti. Il decorso non lascia molte speranze. A lui si contrappone un sergente degli Arditi; portato in ospedale dopo essere stato rilasciato dal nemico nell’ambito di uno scambio di prigionieri, si presenta subito nel modo peggiore. Urla, grida, strepita, protesta. La serenità con cui il giovane infermiere affronta la sua sorte cozza con l’agitazione incontenibile dell’altro; perché tanta foga? Il sergente grida la sua colpa; fu catturato mentre si era rifugiato in un tunnel anziché dare manforte a un reparto in prima linea che da otto ore resisteva al nemico. Confessa a gran voce e chiede di essere processato e fucilato. Con i suoi modi non fa altro che accrescere la sua solitudine; solo il cappellano tenta un dialogo con lui. Quando i due muoiono, sostanzialmente insieme, le differenze di trattamento sono ancora più evidenti. I colleghi dell’infermiere lo portano al cimitero; nella commozione generale, la bara viene ornata di fiori. Nessun amico o familiare accompagna invece l’altro feretro.

Il sergente commise una grave colpa; quel misfatto sembra giustificare la freddezza del trattamento. Perfino l’infermiere, già malato, lo aveva giudicato severamente, chiedendosi cosa ci aveva guadagnato col suo egoismo, ora che era prossimo alla fine.

Può un solo fatto negativo segnare una vita e soprattutto vincolare il giudizio degli altri? Nella novella sembra proprio di sì. Probabilmente il sergente compì degli atti di valore nella sua via di soldato; di questo però non rimane traccia. Essendo un Ardito, prendeva parte ad azioni spericolate; le missioni di questo reparto d’assalto richiedevano spesso un prezzo altissimo come perdite.

Quel soldato probabilmente avrà fatto il suo dovere fino al giorno in cui preferì cercare di salvarsi anziché andare ad assistere i commilitoni in difficoltà. Eppure quel solo episodio offusca una carriera e una vita; non si pensa a fucilarlo dato che la morte appare già molto vicina. Disprezzo e ostilità nell’ospedale accompagnano le sue ultime ore e sono già un castigo che l’uomo accetta e sente di meritare.

Nessuno lo considera una vittima di una tragedia come la guerra in cui le debolezze umane erano catalogate sbrigativamente come vigliaccheria. La bara dell’infermiere come detto viene onorata; a quella del sergente, spetta solo il tricolore, appoggiato sopra ad essa solo per ragioni di prassi: “ .. quando la nuda bara fu introdotta nel carro, gli artiglieri vi distesero, come prescritto, il simbolo della Patria, il tricolore. Senza distinzione di colpe e di meriti, senza sceverare i buoni dai cattivi, la Patria accoglie tutte le sue creature nel suo grembo materno”.

Quella bandiera messa sul feretro come si faceva con ogni caduto, come atto dovuto, ristabilisce un po’ di equilibrio. Per una volta, un atto di forma, porta un po’ di giustizia. Una sola macchia non può e non deve compromettere una vita.

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Adriana Pedicini, "I luoghi della memoria"

1 Aprile 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #adriana pedicini, #recensioni, #racconto

Adriana Pedicini, "I luoghi della memoria"

I luoghi della memoria

Adriana Pedicini

Edizioni Il Foglio, 2016

pp 148

12,00

“Continuava comunque Teresina a fumare le sue cicche e a bere il suo vino. E con gli occhi puntati alle stelle parlava, parlava, ricordava o compiva voli di fantasia alla ricerca di un mondo dove anche lei potesse entrare, dove vivere significasse ridere e piangere, gioire e soffrire per tutti allo stesso modo. Dove la carezza della mano amica fosse donata a tutti e non ci fossero come riparo ai colpi della sorte scafandri per alcuni, per altri la sola pelle sottile.” (pag. 16)

Questi ventisette racconti – alcuni ripubblicati, altri nuovi - sono davvero belli. Lo sono per il contenuto vario, accattivante, con personaggi scaturiti da finezza psicologica, estrema sensibilità e capacità empatica. E lo sono per lo stile signorile, dal profumo antico. In particolare i primi hanno una forma ottocentesca, fanno venir in mente Grazia Deledda, per il modo in cui tracciano alcune figure potenti e per il regionalismo pregno di cultura arcaica e di significati ancestrali che li pervade fino a riprodurre, novella dopo novella, “un intero villaggio ideale”.

Mariantonia era la padrona n questa casa, la “padrina” sembrava, un po’ logorati gli abiti neri che le avviluppavano il corpo e in petto la fierezza di una donna che per tanti anni aveva affondato le unghie nella terra per cavarne cavoli o patate, che aveva irrobustito i fianchi e le spalle sotto il peso di fascine di legna raccolta nel bosco per alimentare nel focolare la fiamma della casa.” (pag 18)

La lingua risente dell’essere, Adriana Pedicini, principalmente poetessa, l’aggettivazione è lenta, ampia e distesa. Come Leopardi, ella tende all’indefinito, alla vaghezza di stelle, boschi e prati ma, al contempo, come Pascoli condensa l’espressione nel tipico, nei gesti, nomi e modi di dire della tradizione rurale e regionale.

Gli ultimi racconti sono più attuali negli argomenti e, in parte, anche per come sono scritti.

I temi principali di tutta la raccolta riguardano il recupero della memoria e la paura della morte. I due concetti, ovviamente, si fondono, là dove il ricordo è l’unica arma contro l’obnubilamento della fine. Ricordare “è cercare nelle cose morte il perduto che si riconquista”, riappropriandosene. Ne è un esempio la figura della madre scomparsa che, dopo esser stata lancinante dolore, strappo, mancanza incolmabile, viene riconquistata attraverso la propria maternità, ricreandola nel raccontarla ai figli e, allo stesso tempo, anche impersonandola, incarnando il suo ruolo.

La paura della morte scorre sul filo di terrori vissuti dall’autrice, ed è la stessa voragine che proviamo tutti al pensiero di affrontare dolorosi calvari. Ma c’è sempre una speranza, forse autoindotta per evitare la pazzia, che si concreta nell’esercizio consolatorio della fede e nella bellezza della vita, rintracciabile nelle piccole cose, nella natura, nel ritorno della primavera, nella nascita di un bambino.

Finalmente non era più solo preda della sua malattia e della paura della morte. Si sentiva parte di un tutto ormai ben visibile. Sua tenda era il cielo stellato, suo riparo l’anfiteatro dei monti che da lontano scorgeva, sua vita la vita degli innumerevoli esseri che davano forma e colore alla terra. Come se non avesse più nome e le cose anche non avessero il nome consueto. Come se la sua sorte non fosse diversa da quella di tutte le specie viventi.” (pag 110)

C’è anche, alla fine, una specie di resa all’inevitabilità, alle “cose così come stanno”.

Il fischio del treno che annunciava l’arrivo alla stazione del suo paese la riportò alla realtà fatta di sogni e di speranze, di ideali e di lotte ma certo di realtà, di inevitabile realtà, e nell’aver capito che dopotutto bisogna accettarla prima ancora di migliorarla fu la sua vera vittoria.” (pag. 90)

Somiglia, questa, ad una sorta di accettazione, impotente ma confortante e non scevra di scopo, del destino comune.

In tutto io vedo me stesso, in me vedo tutto il creato, e in silenzio anche la morte opera in me come in tutte le cose che hanno un inizio e una fine”. (pag 110)

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La casa

31 Marzo 2016 , Scritto da Elena Cappai Con tag #elena cappai, #racconto

La casa


La scala è piccola, pochi passi dietro il portone.
Una nicchia, rifugio di terra dai colori caldi, pezzi di vita sparsi, frasi alle pareti.
Oggetti e parole lasciati per caso (o per fortuna) a raccontare del passaggio dei giorni, degli attimi vissuti, delle idee urlate e di quelle appena sussurrate.
Dei ricordi dolorosi e immemori, trasfigurati nella parola lasciata al vento, fatti dono, vividissimi nei silenzi delle sere di pioggia.
Una storia scritta negli angoli, che spunta dai mobili, che racconta il suo essere sé e altro.
L’incontro è una danza, passi di specchio, luoghi del non detto, lo scrutarsi lieve in controluce.
Con quali parole si accostano le persone?
Come si trovano o si riconoscono?
Un solo linguaggio che disegna l’aria intorno. Scevro di parole, ricco di sapori immaginati.
Così è il trovarsi a scambiare parti e giocarne altre, dietro pudori nascosti, ciascuno il suo passo di sincronie in controtempo.
E la bellezza, sottile e lieve, delle parole raccontate.
Di progetti e ricordi e sogni che si incrociano, si mescolano, diventano loro stessi ed altro. Significati fatti a mezzo e in mezzo lasciati a decantare.
Intorno, la vita che rotola sul pavimento.

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Le bugie hanno le gambe corte

24 Marzo 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #racconto

Le bugie hanno le gambe corte

Le avventure di Pinocchio

Carlo Collodi

Licinio Cappelli editore

Bologna, 1964

Il fiorentino Carlo Lorenzini (1826 – 1890), più noto al pubblico di grandi e piccini col nome di Collodi, mutuato dal paese materno, fu patriota delle guerre d’Indipendenza ma anche libraio, recensore, editore. Tradusse le fiabe francesi, fra le quali quelle celeberrime di Perrault.

Diviso fra evasione e impegno, fra satira caricaturale della società e fuga nel fiabesco e nella fantasia, redasse numerosi testi ma il più famoso, quello per il quale è rimasto nell’immaginario collettivo, è Le Avventure di Pinocchio, scritto nel 1881 e pubblicato nel 1883. Con questo romanzo, uscito a puntate sul Giornale per i bambini, è stato capace di creare un personaggio immortale, quasi un archetipo junghiano: il burattino di legno che diventa bambino alla fine della storia come ricompensa per la buona condotta, modello del discolo dal cuore tenero, del bugiardo fantasioso. La diffusione del testo è stata enorme, da quando i diritti dell’opera sono scaduti, non si contano nemmeno più le traduzioni in tutte le lingue del mondo. Molte espressioni del libro sono diventate di uso comune, come “ridere a crepapelle” (dalla scena del serpente che muore per le risate) o “le bugie hanno le gambe corte e il naso lungo”, o “acchiappacitrulli”.

In bilico fra romanticismo e verismo, fra romanzo dai toni gotici (vedi l’impiccagione e gli spaventosi conigli becchini) e le miserie popolari dickensiane, è essenzialmente una narrazione picaresca con intento morale. La storia si svolge in un luogo imprecisato, a nord di Firenze, in un paese povero, animato da personaggi quasi verghiani, che conoscono una fame cronica.

Intanto incominciò a farsi notte, e Pinocchio, ricordandosi che non aveva mangiato nulla, sentì un’uggiolina allo stomaco, che somigliava moltissimo all’appetito.

Ma l’appetito nei ragazzi cammina presto; e difatti dopo pochi minuti l’appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere, si convertì in una fame da lupi, una fame da tagliarsi col coltello.

Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una pentola che bolliva e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro, ma la pentola era dipinta sul muro. Figuratevi come restò. Il suo naso, che era già lungo, gli diventò più lungo almeno di quattro dita.

La pentola dipinta è simbolo di un mondo di gente che s’ingegna con la fantasia per sopperire alle mancanze e a una vita di stenti, che trova buone anche bucce e torsoli perché li condisce col sale dell’appetito, che insegna ai propri figli a mettere da parte vizi, capricci ed esigenze ma, soprattutto, è un simbolo d’immaginazione creativa, di libertà dal bisogno contingente.

A differenza del quasi contemporaneo Cuore di Edmondo de Amicis, del 1886, i toni romantici sono stemperati e gli ammonimenti morali fusi nelle figure, nei personaggi, nelle scene, nelle avventure. Il libro si basa tutto sui due poli dell’ordine e del disordine, fra il movimento anarcoide del burattino e uno statico rientro nei ranghi, fra la via maestra della morale e i viottoli secondari della fantasia.

Se fossi stato un ragazzino perbene, come ce n’è tanti; se avessi avuto voglia di studiare e di lavorare, se fossi rimasto in casa col mio povero babbo, a quest’ora non mi troverei qui, in mezzo ai campi, a fare il cane di guardia alla casa di un contadino.”

L’insegnamento morale, l’educazione, i gendarmi, il giudice, la fata turchina, il “povero babbo”, tutto tende a istillare nel burattino sensi di colpa, a riportarlo sulla retta via, a reintegrarlo nel sistema, a fargli abbandonare l’infanzia per la maturità, per un grigio divenire uomo. Nella prima versione Pinocchio moriva, come conseguenza della sua dissennatezza e il romanzo si concludeva con la sequenza dell’impiccagione. Tuttavia, quelle stesse figure che assolvono il compito di guida e d’indirizzo morale, sono anche fortemente caricaturali e lasciano trapelare l’insofferenza dell’autore per un certo tipo di educazione rigida e soffocante del talento del bambino. E, infatti, l’accoglienza del testo non fu immediata, ne fu sconsigliata la lettura ai ragazzi di buona famiglia, in particolare suscitò scandalo il coinvolgimento dei carabinieri.

Ma quanta nostalgia prova il lettore, e anche l’autore stesso, per il burattino vivacissimo, bugiardo - dove per bugia intendiamo anche il libero dispiegamento di una fantasia creatrice e redentrice della misera realtà – il burattino dagli occhi maliziosi, dalle gambe ballerine, che svicola e si caccia neri guai?

"- E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?

- Eccolo là, - rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto.

Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l'ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza:

- Com'ero buffo, quand'ero un burattino!... e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene –"

Che Pinocchio sia contento non traspare certo dalla malinconia generale di cui è avvolta la scena, che sa di commiato, di funerale, a contrasto con l’allegria delle impertinenti marachelle e delle ribellioni. La bugia più grossa Pinocchio la dice a se stesso, negando la propria natura per conformarsi a un ideale che non sente suo ma al quale si piega per convenienza e per dovere, per spirito di sacrificio e abnegazione. Sacrificio, abnegazione, senso del dovere che hanno costituito per troppo tempo l’unico fondamento dell’educazione e che oggi, al contrario, sono spariti nel nulla.

La discesa nel ventre della balena può apparire ai lettori odierni un simbolo ovvio ma non lo era per quei tempi. Ci sarebbero voluti ancora tredici anni, infatti, perché Freud parlasse di psicanalisi e inconscio.

Il linguaggio dell’opera è vivo, popolare, ricco di fiorentinismi e di proverbi poi entrati nella lingua comune.

Pinocchio di Collodi è stato uno dei libri più imitati. Si sviluppò anche una letteratura parallela – quasi una fanfiction – con protagonista il burattino, che prese il nome di “Pinocchiate”. Nel 36 Tolstoj ne scrisse una versione alternativa che si discosta molto dall’originale. Nel 1940 Disney ne fece una celebre trasposizione a cartoni animati. Da ricordare anche l’adattamento de “Le fiabe sonore “dei fratelli Grimm, con la voce di Paolo Poli, lo sceneggiato di Comencini del 1972 e, più recentemente, il film di Benigni.

E questa, invece, è la mia versione personale.

Bugie e fantasie

Cominciava con un prurito sulla guglia del naso. Era come una puntura di spillo che si allargava in onde crescenti di formicolio. La carne si arrossava, la pelle si tendeva e poi si arricciava in crespe e nodi legnosi.
Trentadue anni e mezzo erano passati da quando Pinocchio non era più un burattino di legno, però, ogni volta che mentiva, il suo naso – l’antenna impertinente che la natura protendeva fuori della sua testa – ancora si trasformava. Era sempre un evento spiacevole ed imbarazzante. L’ultima volta il fattaccio era accaduto sul locale Firenze-Prato e Pinocchio aveva fatto il viaggio chiuso nella toelette nell’attesa che gli passasse. Quel giorno, ricordava, aveva sparato una balla all’uomo seduto di fianco, esagerando l’abilità del proprio cane da caccia.
Ma perché succedeva qui, in questa fredda sera di Dicembre, mentre si pavoneggiava nel cappotto nuovo, specchiandosi in una vetrina gravida d’addobbi natalizi? Non aveva raccontato bugie a nessuno, era solo con propri pensieri. Cosa aveva pensato esattamente? Si sforzò di ricordare. Dunque, aveva osservato un nuovo modello di computer, infiocchettato come un pacco regalo, poi il palmare a fianco, e infine il piccolo robot parlante. Ah, ora rammentava. Lo aveva paragonato a un burattino. Ecco i burattini del terzo millennio, aveva pensato. Per fortuna io ormai sono un uomo in carne ed ossa. Sono a posto, sono arrivato.

Tornò a guardarsi nella vetrina. Vide un bell’uomo elegante sui quaranta. Era cambiato parecchio da quando le sue scorribande con Lucignolo mettevano a soqquadro il paese e facevano disperare il povero babbo. L’antica struttura di frassino, a ben guardare, si era conservata nelle giunture, un po’ rigide per la sua età, e nelle onde rade e scolpite dei capelli. Ma a tradirlo davvero era sempre e solo il naso. Indisciplinato e puntuto, pronto a trasformarsi in legno nei momenti meno opportuni. Come ora, con questo nevischio ghiacciato che gli tagliava la faccia.

Si guardò intorno. Nessuno si era accorto di niente, grazie al cielo. Era tardi, i negozi stavano chiudendo. Gli ultimi passanti rincasavano frettolosi col bavero alzato contro la tramontana. Calcò il cappello sugli occhi, poi si ficcò in un cinema di seconda visione. Al buio avrebbe atteso che tutto finisse.
Coprendosi il naso con la mano, chiese un biglietto. La cassiera alzò due occhi fissi e distratti insieme. Aveva un’aria triste, la bocca piena di briciole. Faceva tutt’uno col banco di formica dietro il quale nascondeva la sua cena. Pinocchio distolse lo sguardo, sempre più a disagio, e si rincalzò ancora di più nel cappotto. Il freddo gli gelava le ossa.
Entrò nella sala buia e si cacciò nell’ultima fila. Davano un film di guerra degli anni cinquanta. Vicino a lui c’erano un paio di pensionati intirizziti e una coppia di mezza età, che si baciava con bramosia clandestina.
Allungò le gambe, cercò di rilassarsi. Il naso non accennava a tornare normale, anzi, nel gelo della sala, era l’unica parte del suo corpo ancora calda.
Era la maledizione della fata, rifletté, la vecchia baldracca turchina che gli aveva fatto da madre. Se davvero gli avesse voluto bene come diceva, non l’avrebbe tormentato col ricatto della bontà. Ogni buon’azione, un pezzo di legno in meno. Aiutava una vecchietta ad attraversare nel traffico? Via un dito. Faceva l’elemosina sul sagrato della chiesa? Ecco che al posto di un orecchio di legno, si ritrovava della cartilagine molliccia. Per conquistarsi tutto un corpo aveva faticato l’intera infanzia, su su fino al terribile, meraviglioso, giorno in cui perfino il suo pene di frassino aveva distillato una bianca perla del tutto umana. Ma bastava un niente. Nell’attimo in cui alterava il reale anche solo di un piccolissimo scarto, doveva correre pentito a nascondere l’ingombrante frutto della sua colpa.
Eppure, davanti alla vetrina dei computer, l’ingegner Pinocchio non aveva detto nessuna delle sue solite bugie. Non aveva gonfiato la potenza dell’auto, le acrobazie del pene, le tette della segretaria. Non aveva soffiato il progetto ad un collega. Non aveva lusingato nessuno, non aveva fatto complimenti ad arte per ingraziarsi i superiori. Non riusciva proprio a capire dove potesse aver sbagliato.
Però cominciava a sentirsi stranamente bene. La sala di proiezione era come un utero accogliente. Lui era immerso nel lago di bagliori che piovevano dallo schermo e il calore gli si stava propagando dal naso al resto del corpo. Strinse il pezzo di legno fra le dita. Era come avere fra le mani una tazza di caffè caldo, una stufa accesa. Chiuse gli occhi.
Rivide una bottega di falegname, lontana nel tempo, profumata di trucioli e con un tappeto di morbida segatura. Un uomo anziano intagliava un ciocco. Canticchiava, allegro.
Ti farò gli occhi e tu vedrai. Ti farò la bocca e tu parlerai. Ti farò il cuore e tu amerai.”
Era stato un desiderio, un dono d’amore, una formula magica.
Quattro lunghe ciglia di legno avevano sbattuto stupite, una gamba era balzata giù e si era avvicinata ciottolando, impaziente di riunirsi al resto del corpo.
“Ti chiamerò Pinocchio.”
Il burattino di legno aveva sorriso, i tondi occhi illuminati di malizia. Era un burattino allegro, terribile, vivacissimo. Geppetto, suo padre, lo amava proprio per le sue marachelle.
I primi anni della sua vita erano stati spensierati, poi era venuta la consapevolezza della diversità, il bisogno di apparire un altro. L’innumerevole sfilza di bugie.
Raccontava ai burattini di Mangiafoco che lui era figlio di un sultano. Vendeva l’abecedario per andare a vedere il teatro. Magico teatro, pieno di maschere, trasformista e bugiardo, fantastico, innocente. Raccontava a Lucignolo che loro due non erano asini, bensì nobili cavalli da corsa, mentre, preoccupati, si tastavano le orecchie pelose nel tetro luna-park del Paese dei Balocchi.
In quella vita aveva portato vestiti di carta fiorita e cappelli di mollica di pane, s’era bruciato i piedi e se n’era fatti intagliare un paio nuovi di zecca da Geppetto, aveva imparato a mangiare bucce e pan di feccia, aveva conversato col grillo parlante. Ed aveva sempre Lucignolo con sé.
Lucignolo. Naso all’insù, occhi di pece, una ne fa e cento ne pensa. Lucignolo attore, bugiardo, unico amico.
Quando Lucignolo era uscito dalla galera, tutti in paese gli avevano voltato le spalle. Pinocchio per primo, perché ormai dai suoi pantaloni spuntavano rosee ginocchia di ciccia e tutti gli consigliavano di star lontano dalle cattive compagnie. Pensa a studiare, gli dicevano, pensa a tuo padre, pensa a farti una posizione ora che sei un bambino vero, che non hai più la testa di segatura. Così si era trasferito a Firenze e Lucignolo era morto d’overdose nel cesso di un bar.
Ecco dov’era il punto.
La più grossa delle bugie l’aveva detta a se stesso. La bugia era il suo desiderio di apparire per forza come gli altri. Perché uguale è bello, uguale è normale, uguale è vero. Ma lui non era come gli altri. No, lui non era un essere umano, era un burattino di legno. E non era un ingegnere, era un attore. Doveva stare sul palco, insieme agli altri burattini come lui.
Amava il teatro, amava Lucignolo e persino il Gatto e la Volpe. Amava anche la fata, ma solo quando gli si mostrava sotto forma di lucida lumaca o di capretta azzurra.
Dallo schermo piombò su di lui una luce blu, che circondò di un alone le sue mani. La presa divenne una morsa, le dita si contrassero e formicolarono. Pinocchio le guardò a lungo, stupito. Poi sorrise.
Erano tornate di legno.
Uscì dal cinema con l’andatura guizzosa e scricchiolante della sua gioventù. Cantava. “Ti farò il cuore e tu amerai
Passò davanti alla cassiera. Si guardarono: un grosso burattino di legno dall’aria contenta, infagottato in un cappotto di Versace, e una donna di mezza età, con un ammiccante baluginio turchino fra i capelli.

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Marino Magliani, "Carlos Paz e altre mitologie private"

4 Marzo 2016 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #racconto

Marino Magliani, "Carlos Paz e altre mitologie private"

Marino Magliani

Carlos Paz e altre mitologie private

Amos Edizioni - Euro 15 - Pag. 220

www.amosedizioni.it - info@amosedizioni.it

Marino Magliani è uno degli ultimi narratori classici italiani, romanziere sopraffino che intinge la sua penna delicata e soffusa di malinconia nel sangue che sgorga dalle ferite della vita. Magliani è la sua Liguria di Ponente, gli olivi e i colli riarsi tanto cari a Biamonti, ma anche l'Argentina, il Sudamerica, la Spagna bruciante passione, l'Olanda invernale e cupa. Magliani crea pagine di letteratura dalla sua vita - da sempre il miglior modo di far letteratura - ma non si limita a uno sterile autobiografismo, ché l'esperienza personale è sempre in primo piano ma diventa universale, si trasfigura nel ricordo.

Carlos Paz e altre mitologie private è una preziosa raccolta di racconti, forse tra le cose più riuscite della narrativa di Magliani che - memore della lezione sudamericana e degli autori che traduce - si esprime meglio nella misura breve. Una raccolta divisa in tre sezioni: Rena, Arenaria, Sport liguri e olandesi, composta da quindici racconti di ambientazione a metà strada tra la Liguria e l'Olanda con alcune divagazioni ispaniche.

Il mare è sempre presente come motivo ispiratore ed elemento vitale, sin dalle prime parole della raccolta (da casa sua il mare non si vedeva...), che sia il caldo e accogliente mar Ligure come il freddo e ostile mare olandese. Gli olivi, la terra, il tempo perduto, il tema del ritorno e dell'assenza, la poetica dell'uomo lontano dalle proprie radici che desidera assaporare il profumo di antichi giorni infantili. Le notti di Sorba - quasi un romanzo breve - è la storia più intensa della raccolta, quella in cui la poetica proustiana si fa più evidente, ma tutta l'opera è ad alti livelli, scritta con stile personale con sentori di Biamonti, Pavese e Tozzi.

Ottima confezione editoriale, come tradizione di Amos, piccolo editore di qualità, artigiano appassionato della vera letteratura.

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Aldo Dalla Vecchia, "Amerigo Asnicar"

20 Febbraio 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #televisione, #recensioni, #racconto

Aldo Dalla Vecchia, "Amerigo Asnicar"

Amerigo Asnicar, giornalista

Aldo Dalla Vecchia

Murena editrice

pp 75

10,00

Questo è il quarto libro di Aldo Dalla Vecchia ed è, a mio avviso, il più originale, perché mescola il giallo – a dire il vero un giallo elementare - all’ambiente che l’autore conosce per averlo frequentato da sempre e di cui trattano anche le sue opere precedenti, vale a dire il mondo della televisione Mediaset.

Dalla Vecchia costruisce un personaggio di giornalista investigatore, tagliandolo su se stesso, sulla sua professione, sui suoi interessi, addirittura sulle sue frequentazioni. I tre racconti che propone, infatti, hanno per protagonisti, non solo caratteri inventati, ma anche persone in cane ed ossa, amici dell’autore che sono, poi, famosi e conosciuti nel mondo dello spettacolo e del jet set milanese, da Cristiano Malgioglio a Mara Maionchi, a Paolo Mosca etc.

Aldo disegna se stesso in un habitat che è, allo stesso tempo, reale e parodistico. I personaggi sono attori, modelle, autori televisivi, persone ritratte senza sconti, senza paura di far nomi e cognomi, ma con sarcasmo bonario e gentile. C’è molta satira dell’ambiente, ma è fatta da dentro e con indulgenza. Le storie fanno riferimento all’attualità, necessitano di una lettura non differita, come il terzo racconto che si svolge durante l’Expo di Milano.

La scenografia e i personaggi, a partire dal protagonista - con quel cognome che sa tanto di anagramma ma è solo tipicamente veneto - ricordano le figure dei fumetti anni settanta, tanto amati dall’autore, a partire dal Corrierino dei piccoli, da cui Amerigo Asnicar sembra saltato fuori, pur essendo, come abbiamo detto, Aldo stesso, con le sue abitudini, l’amore per il burraco, il cane e il gatto, l’appartamento in una Milano “amatissima”, persino con un pizzico d’introspezione struggente.

a casa sua ero stato tante volte, e ci arrivai a piedi in pochi minuti anche quella sera d’autunno limpida e tiepida, con una sensazione strana indefinibile che non era semplice dispiacere, non era ancora dolore , ma aveva già i contorni nebulosi, il sapore acre , l’odore pungente della tragedia.” (pag 9)

Da questo mix di giallo meneghino e luccichio patinato da jet set, escono delle storie godibili, simpaticissime, divertenti e al passo coi tempi, da leggere man mano che usciranno – perché si preannuncia già una serie.

Lo stile è quello solito di Dalla Vecchia, elegante, colto. Lui stesso è un misto di educazione, cultura, umiltà e leggerezza perbene. È osservatore partecipe ma sottilmente critico di un ambiente fatto di gossip, di apparenza e, forse, di un briciolo di solitudine, un ambiente che lui adora, che comprende a fondo e al quale non rinuncerebbe per niente al mondo.

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