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poli patrizia

Gino Pitaro, "Benzine"

29 Dicembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Gino Pitaro, "Benzine"

Benzine

Gino Pitaro

Ensemble, 2015

pp 146

12,00

Benzine, di Gino Pitaro, sembra diviso in due. Non in due parti, due sezioni o due capitoli, proprio due microclimi. Uno è personale, narrato con atteggiamento più da blogger che da letterato, l’altro si configura come romanzo d’azione.

Il protagonista, Luigi, è la rivisitazione in chiave attuale del vecchio travet, ossia l’ormai onnipresente dottorando precario, che lavora al call center e si divide fra impegno politico, vissuto con ritrosia, e tempo trascorso con gli amici. È un pendolare, si sposta in una periferia multietnica postpasoliniana, descritta con lucidità e senza sconti, un ambiente degradato che l’autore si limita a riprodurre. È una Roma da non giudicare, da non amare, da non giustificare ma neanche rifiutare, semplicemente da accettare così com’è perché non si può fare altrimenti.

Nonostante la banalità della sua esistenza, Luigi è coinvolto in una vicenda più grande di lui, basata sulla sparizione di Natalia, una bella ragazza dell’est. Le due parti stridono volutamente.

Senza scomodare Il padrone di Parise, la vita al call center è descritta con minuzia documentaristica e con ironia fredda.

Eh no, caro prof, avrei voluto dirgli, in futuro si dovrà parlare di una filologia sul call center, dei romanzi sul call center, sul precariato, sull’università, fare esegesi su quell’altro libro, su quell’altro ebook, sul file ePub. Il precariato secondo tizio, il precariato secondo caio, il call center al sud, il call center al nord.” (pag 107)

L’alienazione e la reificazione non lasciano scampo ai personaggi, i quali, però, si riscattano mostrando inaspettati risvolti pulp e avventurosi. Questo salto nel buio, questo substrato rischioso, ci fa intuire che, sotto le vite più trite e monotone, può celarsi qualcosa di marcio ma anche di buono, comunque d’imprevedibile. Cosa dire, infatti, degli omicidi che ogni giorno i media ci propinano, compiuti da gente che più qualunque di così non potrebbe essere, insegnanti, studenti, zii, cugini, padri, madri, figli?

È stata una porta che si è aperta in modo brutale e in qualche modo mi ha rivelato i pericoli che si possono annidare in situazioni ritenute normali. Cosa sappiamo in effetti della vita degli altri? Di una gran parte di persone che frequentiamo ma di cui in fondo non possediamo nulla.” (pag 137)

Che piaccia o annoi, è un fatto che, dopo i Cannibali degli anni novanta, ora abbiamo la nuova generazione dei romanzi sul precariato, la letteratura post industriale 2.0.

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Giorgio Caproni

26 Dicembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #poesia, #luoghi da conoscere

Giorgio Caproni

Livorno, quando lei passava,

d’aria e di barche odorava

Giorgio Caproni (1912 – 1990) è nato a Livorno e ivi ha ambientato le sue poesie più belle, quelle dedicate alla madre, Anna Picchi, Annina, denominate Versi Livornesi, nella raccolta Il seme del piangere del 1959.

Dal 22 si trasferisce a Genova, e poi a Roma. Fa il commesso, l’impiegato e il maestro elementare. Le sue prime prove sono rifiutate dagli editori, gli viene detto di “aver pazienza”, gli si fa capire che la poesia non è cosa per lui. Ma insiste, oltre alle poesie scrive critica letteraria, recensioni e traduce dal francese Il Tempo ritrovato di Proust, I fiori del male di Baudelaire, Bel-ami di Maupassant e, ancora, Celine e Apollinaire.

Anche quando la fortuna letteraria gli arriderà e vincerà numerosi premi importanti, si terrà sempre appartato e lontano dai salotti, chiuso nel suo dolore esistenziale frutto di numerosi traumi, come la morte per setticemia della prima fidanzata e le sciagure della guerra.

Scrive anche saggi e opere narrative ma la sua produzione più alta si concentra nella poesia. Le sue raccolte più famose sono Cronistoria (43), Le stanze della funicolare, (52), Il passaggio di Enea, (56), Il seme del piangere (59)

Ci sono tre tempi nella poesia di Caproni, il primo è macchiaiolo, carducciano, contiene una traccia dei primitivi toscani e di certi modi cavalcantiani e stilnovistici, privi, però, d’idealizzazione spirituale. Ne è un esempio la poesia che segue:

LA GENTE SE L’ADDITAVA

Non c’era in tutta Livorno

un’altra di lei più brava

in bianco, o in orlo a giorno.

La gente se l’additava

vedendola, e se si voltava

anche lei a salutare,

il petto le si gonfiava

timido, e le si riabbassava,

quieto nel suo tumultuare

come il sospiro del mare.

Era una personcina schietta

e un poco fiera (un poco

magra), ma dolce e viva

nei suoi slanci; e priva

com’era di vanagloria

ma non di puntiglio, andava

per la maggiore a Livorno

come vorrei che intorno

andassi tu, canzonetta:

che sembri scritta per gioco

e lo sei piangendo: e con fuoco.

C’è poi una fiammata lirica e neoclassica in Cronistoria e ne Il passaggio di Enea ed infine una progressiva scarnificazione e perdita di lirismo, come se, col passare degli anni, la parola fosse ormai un peso.

Il rumore della parola, ad un certo punto, ha cominciato a darmi terribilmente fastidio

La ricerca è tesa alla semplificazione, il verso s’impasta di aulico e prosastico insieme, oscilla fra cantato e parlato (e in questo richiama la linea ligure, in particolare Sbarbaro.) Si rifà comunque a un filone preermetico, alla musicalità descrittiva di Saba e alla metrica di Pascoli. Consapevolmente antinovecentesco, Caproni rifiuta i giochi puramente sintattici e concettuali. Vuole una poesia fatta di bicchieri, di stringhe, di cose della vita quotidiana, il suo è un impressionismo che evita l’idillio e il compiacimento elegiaco, anche la sintassi si riduce all’essenziale mentre sono gli oggetti a prendere corpo.

L’architettura e il controllo della metrica entrano in contrasto con l’urgenza vitalistica, espressa spesso dagli esclamativi iniziali, il periodo non si esaurisce nel verso ma deborda nell’enjambement, il versificare si fa spezzato, rispecchiando l’anima del poeta che tenta di afferrare una realtà sfuggente. Caproni ricorda in questo Virginia Woolf, il suo senso di crescente insoddisfazione, la sfiducia nella possibilità che la parola riesca a rappresentare davvero le cose.

Nessuno è mai riuscito a dire

Cos’è, nella sua essenza, una rosa.”

Detesta la logorrea, i versi lunghi. “L’ideale”, afferma, “sarebbe arrivare a scrivere una parola sola, o meglio, andare oltre la parola”. La parola ha per lui valenza negativa, perché limita, è simulazione della realtà. La parola è oggetto essa stessa e, ammesso che la realtà esista, non si può conoscere un oggetto con un altro oggetto.

Caproni usa la rima, l’allitterazione, l’assonanza, l’anafora (ripetizione di parole o espressioni), la prosopopea (quando si fanno parlare animali, oggetti, defunti) e la punteggiatura con valore ritmico. La sua resta un’operazione letteraria e l’assoluta identità fra vita e poesia rimane un’aspirazione, anche se egli tende più narrare che a poetare, rifuggendo dalla sublimazione lirica.

PER LEI

Per lei voglio rime chiare,

usuali: in -are.

Rime magari vietate,

ma aperte: ventilate.

Rime coi suoni fini

(di mare) dei suoi orecchini.

O che abbiano, coralline,

le tinte della sue collanine.

Rime che a distanza

(Annina era così schietta)

conservino l’eleganza

povera, ma altrettanto netta.

Rime che non siano labili,

anche se orecchiabili.

Rime non crepuscolari,

ma verdi, elementari.

I temi ricorrenti sono la guerra; il dolore; l’esistenza come viaggio - anche in senso chiuso e circolare, un viaggio che riporta indietro, al punto di partenza, al nulla, al non essere, e che è simbolico del passaggio fra un’epoca e l’altra e fra la vita e la morte - la ricerca dell’identità che sfocerà nell’immedesimazione con personaggi mitologici come Enea e che è intesa come modo per trovare gli altri attraverso se stessi; il rapporto con i genitori; la vita popolare di Genova e Livorno. La sua è un’epopea casalinga, una fuga dalla storia che caratterizza molti poeti dell’epoca come Penna, Luzi, Sereni, spaventati dal passare del tempo, dalla distruzione della civiltà contadina.

Nel 1949 torna nella sua città alla ricerca della tomba dei nonni e la riscopre, ma, ormai, anche Livorno è popolata di fantasmi.

ULTIMA PREGHIERA

Anima mia, fa’ in fretta.

Ti presto la bicicletta,

ma corri. E con la gente

(ti prego, sii prudente)

non ti fermare a parlare

smettendo di pedalare.

Arriverai a Livorno,

vedrai, prima di giorno.

Non ci sarà nessuno

ancora, ma uno

per uno guarda chi esce

da ogni portone, e aspetta

(mentre odora di pesce

e di notte il selciato)

la figurina netta,

nel buio, volta al mercato.

Io so che non potrà tardare

oltre quel primo albeggiare.

Pedala, vola. E bada

(un nulla potrebbe bastare)

di non lasciarti sviare

da un’altra, sulla stessa strada.

Livorno, come aggiorna,

col vento una torma

popola di ragazze

aperte come le sue piazze.

Ragazze grandi e vive

ma, attenta!, così sensitive

di reni (ragazze che hanno,

si dice, una dolcezza

tale nel petto, e tale

energia nella stretta)

che, se dovessi arrivare

col bianco vento che fanno,

so bene che andrebbe a finire

che ti lasceresti rapire.

Mia anima, non aspettare,

no, il loro apparire.

Faresti così fallire

con dolore il mio piano,

e io un’altra volta Annina,

di tutte la più mattutina,

vedrei anche a te sfuggita,

ahimè, come già alla vita.

Ricordati perché ti mando;

altro non ti raccomando.

Ricordati che ti dovrà apparire

prima di giorno, e spia

(giacché, non so più come,

ho scordato il portone)

da un capo all’altro la via,

da Cors’Amedeo al Cisternone.

Porterà uno scialletto

nero, e una gonna verde.

Terrà stretto sul petto

il borsellino, e d’erbe

già sapendo e di mare

rinfrescato il mattino,

non ti potrai sbagliare

vedendola attraversare.

Seguila prudentemente,

allora, e con la mente

all’erta. E, circospetta,

buttata la sigaretta,

accostati a lei soltanto,

anima, quando il mio pianto

sentirai che di piombo

è diventato in fondo

al mio cuore lontano.

Anche se io, così vecchio,

non potrò darti mano,

tu mòrmorale all’orecchio

(più lieve del mio sospiro,

messole un braccio in giro

alla vita) in un soffio

ciò ch’io e il mio rimorso,

pur parlassimo piano,

non le potremmo mai dire

senza vederla arrossire.

Dille chi ti ha mandato:

suo figlio, il suo fidanzato.

D’altro non ti richiedo.

Poi, va’ pure in congedo.

Annina, fine e popolare come i versi del figlio, non c’è più, non ci sono il suo odore di cipria, la catenina, il tumulto del cuore, la camicetta. Ella, ormai, non si può destare.

IL CARRO DI VETRO

Il sole della mattina,

in me, che acuta spina.

Al carro tutto di vetro

perché anch’io andavo dietro?

Portavano via Annina

(nel sole) quella mattina.

Erano quattro i cavalli

(neri) senza sonagli.

Annina con me a Palermo

di notte era morta, e d’inverno.

Fuori c’era il temporale.

Poi cominciò ad albeggiare.

Dalla caserma vicina

allora, anche quella mattina,

perché si mise a suonare

la sveglia militare?

Era la prima mattina

del suo non potersi destare.

Riferimenti

Romano Luperini, Il Novecento, Loescher editore

Walter Cremonti, “I versi livornesi di Giorgio Caproni” dal sito www.latramontanaperugia.it

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L'ultimo Natale di Loris (tratto da un romanzo ancora inedito)

23 Dicembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #unasettimanamagica, #luoghi da conoscere

L'ultimo Natale di Loris (tratto da un romanzo ancora inedito)

Un piccolo brano tratto da un mio romanzo ancora inedito per augurarvi BUON NATALE.

Il tavolo è stato allungato e ricoperto con una tovaglia rossa, comprata in un negozio cinese, che non va stirata e si lava con una spugna. I piatti, invece, sono quelli buoni. Michela ha persino provato a fare un centrotavola con delle candele prese al discount e delle pine* spruzzate di spray color argento. Tenere occupate mani e testa è uno sforzo che consuma un sacco di energia, sfinisce e lascia posto per poco altro, ma è indispensabile, fa parte del processo quotidiano di rimozione, in atto da tanto tempo ormai. In questo preciso momento si costringe a tenere gli occhi fissi sul piatto che ha in mano, a respirare per schiarirsi la testa e trovare un modo per arrivare in fondo alla serata. Dalla cucina arriva un odore nauseante di crostini bruciacchiati e arrosto sfrigolato. È come se ci fossero delle scritte luminose nell’aria, dei festoni ad annunciare l’avvento dell’orrore, non di Gesù.

Accade l’insopportabile eppure dovrà sopportare fino in fondo alla cena. Le sembra di morire, ma non come suo figlio, piuttosto di una morte privata, tutta chiusa dentro di lei. Si sforza di far finta di nulla, di trasformare in un sorriso il rictus che ha sulla faccia da quando hanno suonato alla porta. Respira ancora profondamente, poi va in cucina, si mette ad armeggiare con il forno, si brucia, impreca. Le luci della sala sono tutte accese, sembra che le cose sfavillino in modo feroce. «È l’ultimo Natale per Loris, devi esserci» ha detto al telefono a sua sorella. «Sì, ma porto qualcuno» ha risposto Rosi.

Loris è già sistemato a capotavola, vicino all’albero finalmente raddrizzato e pieno di regali, quasi tutti per lui. Ha tre cuscini a sostenergli la schiena, un filo di saliva che scende sul mento, fa fatica a girare la testa, eppure la volta in continuazione per seguire il suo andirivieni dalla cucina. Più passano i giorni, più peggiora e più ha bisogno di lei, più la cerca fino a farle sembrare odioso ogni minuto che trascorre lontano da lui. Serve ad aumentare il suo senso di colpa e lei ci si aggrappa perché anche quello è un sentimento umano, un sentimento da mamma.

Francesco è in piedi davanti alla porta finestra, ha i pugni contratti, la mascella serrata in quella posa che lei conosce fin troppo, sembra sul punto di aprire la finestra e gettare di sotto qualcuno, guarda fuori nel buio della notte che, qui sul viale di Antignano, non ha luminare, babbi natali scalatori o tubi fluorescenti sui terrazzi. Qui il mare la fa da padrone su tutto, anche sul Natale. Non come in Borgo, dove lo percepivi dagli alberi illuminati contro le finestre spalancate, dai rumori di ciottoli e stoviglie, dagli odori di crostini e sughi che filtravano sotto le porte saturando i pianerottoli, dalle luci che addobbavano i terrazzi e davano sentore di presenza umana, di gente vicina che sta facendo le stesse tue cose e sta pensando gli stessi tuoi pensieri.

Rosi è seduta su uno dei due divani, a fianco c’è la loro madre che le sta dicendo: «Via… così alla fine ti sei fidanzata anche tu». Sua madre sembra davvero contenta mentre accenna a Luca, disteso sull’altro divano. Quando hanno suonato, Michela è andata ad aprire ed è rimasta impietrita sulla porta, zitta, ha sentito che il sangue le defluiva dalla faccia. Le è sembrato che qualcuno le legasse un mattone al collo per trascinarla sul fondo di un pozzo nero. «Buon Natale» ha detto Luca, e aveva la bocca sollevata da un lato, non era un sorriso, era un ringhio. È entrato nell’ingresso conquistandolo, invadendolo come se non pesasse sessanta chili ma cento, come se non fosse alto un metro e settanta ma due metri. E ora è lì, che respira la stessa aria di Francesco, i suoi occhi la seguono, le perforano la nuca anche quando fugge in cucina per salvarsi. Michela vorrebbe spalancare la porta e correre giù nel buio, fra le siepi, sullo sterrato, fino al mare gelido, invernale, per buttarcisi dentro e scomparire nella notte. Non può farlo, sono tutti lì per l’ultimo maledetto Natale di Loris, sono lì per sorridere e fingere che ce ne saranno molti altri schifosi come questo."

*Pina: "frutto del pino avente la forma approssimativa di un cono costituito da squame o scaglie legnose, aderenti le une alle altre, che, quando il frutto ha raggiunto la completa maturazione, si aprono lasciando cadere i semi, cioè i pinoli. Vedi anche pigna" . Dizionario della lingua italiana De Agostini

Ricordarsi sempre che i cosiddetti "toscanismi", altro non sono che parole italiane pure. Chi parla toscano, raramente sbaglia.

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Ceppo come lo ricordo io

15 Dicembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #unasettimanamagica, #postaunpresepe

Ceppo come lo ricordo io

Mi viene da pensare a cos’era il Natale negli anni sessanta. Non quello di tutti, il mio.

Vivevo in una famiglia nucleare: padre, madre, io. Mio fratello non era ancora stato progettato. Una città di provincia della Toscana, un appartamento in un quartiere popolare, arredato in modo funzionale e moderno, ché noi eravamo una famiglia al passo coi tempi. Mia madre lavorava, guidava la Bianchina e faceva la spesa alla Smec, il primo supermercato che abbia messo piede in centro. Vivevamo il boom economico con speranza, fieri del progresso che avrebbe portato solo civiltà, orgogliosi del frigorifero, del tostapane, del frullatore, dell’acqua gassata con le presine dell’Idrolitina, del vino in bottiglia sulla tavola.

A quei tempi, l’albero non si faceva a novembre, non si faceva l’otto dicembre, non si faceva neanche il quindici, si faceva il ventidue o ventitré dicembre. E sapete perché? Perché allora il tempo era ancora il tempo. Un mese era un mese, lungo, infinito. Tutto si concentrava nella settimana di Natale, la settimana più magica dell’anno.

Non c’erano le sciroccate e le zanzare, andavamo a scuola col berretto di lana e le ginocchia intirizzite. L’albero era vero, perdeva gli aghi per terra, profumava di bosco la casa. E l’odore del pino si mescolava al cherosene della stufa che, dal corridoio, doveva riscaldare tutto l’appartamento. Le palle erano di vetro, ne compravamo una ogni anno, nuova e preziosa, le luci non erano led cinesi ma pupazzi di neve, casine, fantastici trenini che s’illuminavano da dentro. Non mancavano mai, appesi ai rami, figurine di cioccolata e un sacchetto di monete da mangiare.

Ho dei flash, di me e mamma che addobbiamo l’albero in salotto, è giovedì sera, la televisione è accesa su Rischiatutto. Mamma ha portato delle scatole piene di fili argentati e, per la prima volta, abbiamo decorato insieme tutta la casa, attaccandoli alle porte, agli specchi. Dal lampadario penzola una composizione di nastri e palle che ha fatto lei, con le sue mani, come le ha spiegato una collega di ufficio.

Al piano di sotto abitavano mia nonna (vedova) e la mia prozia (zitella). Loro andavano a messa e preparavano il presepe, in un angolo della sala. Un cimelio di famiglia, lo aveva costruito il bisnonno Fortunato nell’ottocento, ricavandolo da un caldano, mettendo da parte stagnola, sughero, pezzi di legno. Era bellissimo, aveva tutto: il pozzo, la fontana, la mangiatoia, la lanterna, persino la chiesa con le campane che suonavano la nascita del bambino che poi l’avrebbe fondata. Ricordo l’odore di muschio secco, la folla dei pastori stretti uno di fianco all’altro, dipinti a mano, qualcuno un po’ sbreccato, scolorito. Ricordo le stelle di latta, il filo argentato con le lucine. Capitava che la zia ricomprasse un filo nuovo, a volte, cambiasse lo scotch, ma la roba era quella, conservata in una scatola da scarpe terrosa; roba povera, a pensarci, ma io la trovavo meravigliosa.

E quando nonna m’insegnava a cantare Tu scendi dalle stelle, mi sembrava di essere lì anch’io, mentre Gesù nasceva nella grotta “al freddo e al gelo”, il bue e l’asinello lo riscaldavano col loro fiato e la cometa splendeva in cielo. Credevo a tutto, era tutto vero, il Bambino Divino, Babbo Natale che attraversava la notte per lasciare i regali sotto l’albero.

A scuola si festeggiavano solo gli ultimi giorni, proprio a ridosso delle vacanze, allestendo piccoli presepi e alberelli addobbati con qualcosa portato da casa. Ricordo un anno che la maestra regalò a tutti una palla dorata e luccicante da appendere all’albero, la aprivi e dentro c’era un piccolo pensiero per ognuno di noi, a me toccò un anellino rosa. E scrivevamo letterine di Natale, non tanto per chiedere regali, quanto per domandare perdono ai nostri genitori delle marachelle, per promettere di essere più buoni, per dire “babbo, mamma, vi voglio bene”, parole che il pudore dell’epoca non ci permetteva di esprimere in giorni meno speciali.

La via principale della città era rallegrata dalla “luminara” ma io, anche oggi che sono vecchia, trovo più affascinanti gli addobbi dei negozi di quartiere, quelli poveri - le lucine che si rincorrono sulla porta della tabaccheria, le palle colorate poggiate sui ripiani polverosi della mesticheria - li preferisco ai grandi apparati dei centri commerciali. Amo il Natale della gente normale: il foglio di carta roccia, il rotolo di cielo stellato, il pungitopo e la borraccina raccolti in campagna.

Da noi, in Toscana, la vigilia non si festeggiava, era un giorno qualsiasi, i negozi chiudevano tardi la sera, non come adesso che alle quattordici è già tutto morto e la gente va a prepararsi per il cenone, quasi fosse l’ultimo dell’anno. Era un giorno di attesa, di trepidazione, di festa vissuta dentro. Si mangiava normale, poco per non appesantirci in vista del venticinque, si apparecchiava in cucina come sempre. In tv non mancava mai qualcosa di bello, un cartone incantato, un film fiabesco; andavo a letto col cuore in gola, con un po’ di paura, chiedendomi cosa sarebbe successo se, per caso, avessi scorto Babbo Natale. “Perché”, mi spiegavano i miei genitori, “quelli che vedi in giro, non sono veri Babbo Natale, sono solo travestimenti per far festa, Lui, l’originale, è misterioso e lontano, non lo si può vedere e passa solo se siamo stati buoni.” Il regalo, insomma, te lo dovevi meritare, non lo trovavi scontato all’Ipercoop. L’uomo barbuto vestito di rosso non faceva “ohohoh” all’americana, non viveva al polo nord con una renna di nome Blizzard, ma era, piuttosto, un’entità un po’ inquietante.

La mattina di Natale, anzi di “Ceppo”, come dicevano i vecchi, si faceva colazione col caffellatte e, ancora in pigiama, si aprivano i regali. C’era tanta roba da farmi sgranare gli occhi. Bambole, “ciottolini”, libri, matite. C’era un cesto rosso con un biglietto scritto di pugno da Babbo Natale in persona: “Perché tu sia più ordinata”, c’era un mangiadischi che, bastava schiacciarlo col dito, e potevi sentire le fiabe sonore, c’era il quarantacinque giri di Un cuore matto - ero follemente innamorata di Little Tony - e anche la Pappa col pomodoro con Rita Pavone nei panni di Gianburrasca.

A pranzo venivano su anche nonna e zia, mangiavamo i tortellini in brodo, il cappone lesso con le radici di Genova, il panettone di Milano che costava un mucchio di soldi - non come ora che ne trovi tre al prezzo di due - il panforte, i ricciarelli, i cavallucci, il torrone. Ma anche frutta secca, datteri della Tunisia con la ballerina in bilico sulle punte, zibibbo, fichi secchi aperti a panino e farciti di noci e noccioline.

Di pomeriggio nonna e zia tornavano giù, a casa loro, a riposarsi, mentre noi guardavamo i programmi televisivi, film, cartoni animati, commedie di teatro e, intanto, io giocavo con tutto quel ben di Dio che Babbo Natale mi aveva portato; si vede che, nonostante i dubbi, i timori e i sensi colpa, alla fine ero stata davvero buona. E, naturalmente, divoravo i libri nuovi. A santo Stefano, quando era invitata l’altra nonna, quella paterna, li avevo già finiti.

Non c’è nulla di speciale in questi miei ricordi, nessun messaggio, niente che caratterizzi una generazione. Posso solo dire che i bambini si nutrono di pensiero magico e chi glielo sottrae compie un crimine, li priva della fantasia, del desiderio, delle cose che noi adulti rimpiangeremo tutta la vita e non avremo mai più, per quanti sforzi facciamo.

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La Livorno che c'è

8 Dicembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

La Livorno che c'è

Cappuccini e chiodi?

Cacciucco e tombolate?

Ribotta e vernacolo?

Sì, ma…

…e se…

…se ci fosse, metti caso, anche un’altra Livorno?

Se una città pudica, schiva, che non grida ma parla sottovoce, che finge un “normalità”, una “pochezza” a lei estranea, ora uscisse allo scoperto?

Un sottobosco d’autori disparato e apolitico, unito, però, dalla medesima sensibilità e dall’amore per Livorno, ecco da dove sgorga questo libro.

Che si cammini nella foresta in cerca di felci, come Marco, o si gioisca per una figlia appena nata, come Fabio, o si osservi ormai il mondo da un’altra dimensione, come Gio Batta, comune è il sentire, comune la carica emotiva.

Dal particolare – la parola, il gesto, la mano, la farfalla – si accede all’universale, e se i contenuti e gli stili sono differenti, l’urgenza di Ennio, di Gio Batta, di Marco, di Fabio, di Patrizia, di Massimo, è una sola, perché una sola è l’umanità, perché uguali sono le luci e le ombre della nostra esistenza.

Anche questa è Livorno.

La Livorno che c’è.

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Guelfo Civinini

7 Dicembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #personaggi da conoscere, #poesia

Guelfo Civinini (1873 – 1954) è nato a Livorno solo perché i genitori vi si rifugiavano per sfuggire alla malaria.

Ha vissuto principalmente a Roma, dove si è spento nel 54, ma la sua vita è stata particolare, piena attività che ne fanno un personaggio interessante, al di là della scrittura.

Corrispondente del Corriere della Sera, fu inviato di guerra in Libia e in Grecia, seguì l’impresa di Fiume di d’Annunzio e aderì al fascismo, diventando uno dei firmatari del “Manifesto degli intellettuali fascisti” ma, dopo le leggi razziali e il patto con la Germania, si distaccò dall’ideologia di Mussolini fino a diventare scrittore “non gradito” al governo.

Fra le due guerre viaggiò molto, soprattutto in Africa orientale, dove realizzò il documentario Aethiopia per conto dell’Istituto Luce. Organizzò persino una spedizione alla vana ricerca di un esploratore morto.

Comprò sull’Argentario la Torre di Santa Liberata, compiendovi degli scavi che portarono alla luce una villa romana.

Una figlia gli morì suicida nel 29.

La sua produzione parte dalle poesie crepuscolari di L’Urna e I sentieri e le nuvole - che lo fanno rientrare a pieno diritto nel Decadentismo, con una visione intimista, malinconica e sfiduciata - passa attraverso la produzione teatrale per sfociare nel verismo delle novelle, basate sui ricordi d’infanzia e sull’ambiente maremmano ma anche africano.

Rimane famoso soprattutto per aver scritto il libretto de La fanciulla del West musicata da Giacomo Puccini.

Guelfo Civinini (1873 - 1954) was born in Livorno only because his parents took refuge there to escape malaria.

He lived mainly in Rome, where he died in 54, but his life was particular, full of activities that make him an interesting character, beyond writing.

Correspondent of Corriere della Sera, he was sent to war in Libya and Greece, followed the business of Fiume of d'Annunzio and joined fascism, becoming one of the signatories of the "Manifesto of fascist intellectuals" but, after racial laws and pact with Germany, he detached himself from Mussolini's ideology until he became a writer "unwelcome" to the government.

Between the two wars he traveled extensively, especially in East Africa, where he made the documentary Aethiopia on behalf of the Istituto Luce. He even organized an expedition in vain to find a dead explorer.

He bought the Torre di Santa Liberata on the Argentario, carrying out excavations that brought to light a Roman villa.

A daughter died of suicide in 29.

His production starts from the twilight poems of L'Urna and The paths and the clouds - which make him fully fall into Decadentism, with an intimate, melancholic and disheartened vision - passes through theatrical production to flow into the realism of the novels, based on childhood memories and on the Maremma but also African environment.

He remains famous above all for having written the libretto of La fanciulla del West set to music by Giacomo Puccini.

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Il bagitto

6 Dicembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #cultura

I veri destinatari degli editti del 1591 e 93, promulgati da Ferdinando I° dei Medici, meglio noti come Leggi Livornine, furono gli ebrei sefarditi provenienti dalla penisola iberica, spagnoli, quindi, ma soprattutto portoghesi. Grazie alle leggi di Ferdinando, gli ebrei ottennero libertà di commercio, di pratica religiosa, di possesso e pubblicazione di libri. L’editoria livornese divenne poliglotta e riprodusse la babele di lingue di una città porto franco, piena di vita, di scambi culturali e commerci.

Sin dagli inizi del seicento s’insediò nella nostra città una comunità di marrani. Costoro erano stati obbligati a convertirsi al cattolicesimo ma erano rimasti giudei nell’anima e la loro lingua madre era il giudeo-portoghese.

Nel settecento si ebbe una dicotomia fra il parlare alto del ceto dirigente, che usava il portoghese, e quello basso, la lingua dei profughi e del popolo. Se il portoghese rimase la lingua della comunità fino al XIX° secolo, soprattutto negli scambi ufficiali, mentre il castigliano venne usato nella letteratura e nelle funzioni liturgiche, l’ebraico come lingua sacra e l’italiano come mezzo di comunicazione nei rapporti con la Toscana, il bagitto fu una lingua giudeo italiana, utilizzata dalla comunità labronica più popolare. Non è propriamente una lingua né un dialetto, piuttosto un gergo per capirsi fra simili senza essere compresi dagli altri.

La base linguistica è toscana, la cadenza cantilenante portoghese.

La S sonora diventa dolce, la G occupa il posto della C, la P diventa F, la V si scambia con la B, le doppie si tramutano in scempie, sparisce la caratteristica livornese del rafforzamento.

Furono scritte molte opere in bagitto, le più conosciute sono La Betulia Liberata di Luigi Duclou e La molte d’Ulufelne di Natale Falcini.

Con la dispersione della comunità ebraica durante la seconda guerra mondiale, del bagitto rimangono poche tracce, esso continua a vivere (o, almeno, continuava, fino ai decenni passati) fra i banchi del mercato, gestiti da secoli da ebrei livornesi, prima dell’avvento dei cinesi, degli indiani e dei senegalesi.

The real recipients of the edicts of 1591 and 93, promulgated by Ferdinando I ° dei Medici, better known as Leggi Livornine, were the Sephardic Jews from the Iberian peninsula, Spanish, therefore, but above all Portuguese. Thanks to the laws of Ferdinand, the Jews obtained freedom of trade, religious practice, possession and publication of books. The Livornese publishing became polyglot and reproduced the babel of languages ​​of a free port city, full of life, cultural exchanges and businesses.

From the beginning of the seventeenth century a community of Marrani settled in our city. They had been forced to convert to Catholicism but remained Jewish in soul and their mother tongue was Judeo-Portuguese.

In the eighteenth century there was a dichotomy between the high speech of the ruling class, which used Portuguese, and the low one, the language of the refugees and the people. If Portuguese remained the language of the community until the 19th century, especially in official exchanges, while Castilian was used in literature and liturgical functions, Hebrew as a sacred language and Italian as a means of communication in relations with Tuscany , the bagitto was an Italian Jewish language, used by the most popular Labronic community. It is not properly a language or a dialect, rather a jargon to understand each other without being understood by others.

The linguistic base is Tuscan, the chanting cadence Portoguese.

The sonorous S becomes sweet, the G occupies the place of the C, the P becomes F, the V is exchanged with the B, the doubles turn into singles, the Livornese characteristic of strengthening disappears.

Many works in bagitto were written, the best known of which are Luigi Duclou's La Betulia Liberata and La molte d’Ulufelne by Natale Falcini.

With the dispersion of the Jewish community during the Second World War, few traces of the bagitto remain, it continues to live (or, at least, continued, until past decades) among the market stalls, managed for centuries by Livornese Jews, before advent of the Chinese, Indians and Senegalese.

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Giuseppe Bandi

5 Dicembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #personaggi da conoscere

Giuseppe Bandi

Giuseppe Bandi (1834-1894) è nato a Gavorrano. Il padre è un funzionario del governo granducale e il suo incarico porta la famiglia Bandi a stabilirsi in diverse città della toscana. Bandi diviene segretario della Giovane Italia e per questo motivo è arrestato nel 1857 e poi ancora l'anno successivo per aver favorito dei latitanti mazziniani.

Come tanti suoi coetanei romantici, alterna la poesia all'iniziativa politica. Partecipa alla seconda e poi alla terza guerra d'indipendenza, s'imbarca da Quarto con i mille e viene ferito a Calatafimi, esperienza che riporterà nelle pagine del suo libro più famoso: I mille, da Genova a Capua.

Dopo il 1870, unita ormai l'Italia, lascia l'esercito e si dedica al giornalismo, dirigendo la Gazzetta livornese, quotidiano conservatore. Nel 1877 fonda anche giornale della sera, Il Telegrafo, attuale Il Tirreno, monopolizzando l'informazione cittadina.

Scrive romanzi nel genere storico -guerrazziano che pubblica a puntate nelle appendici dei suoi e degli altri giornali.

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Pietro Mascagni

4 Dicembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #musica, #personaggi da conoscere

Pietro Mascagni

Pietro Mascagni (1863 - 1945) era nato in piazza delle Erbe, suo padre aveva un'avviata panetteria sotto casa ed era molto conosciuto a Livorno. Alto, dinoccolato, sempre rasato, con l'aria da ragazzo, gli occhi chiari, il ciuffo ribelle, Pietro aveva un'anima labronica spontanea, immediata, incapace di tacere e poco diplomatica. Oscillava fra l'entusiasmo e l'abbattimento, l'euforia e la malinconia. Per tutta la vita si mostrò esuberante, lottando per non far trapelare la tristezza, il malumore.

Suo padre non fu contento quando decise di dedicarsi completamente alla musica e s'iscrisse al conservatorio di Milano, dove divise una stanza con Giacomo Puccini, contribuendo a creare, forse, l'atmosfera goliardica e l'ambiente che furono d'ispirazione per la Boheme. In conservatorio si trovò male, seguiva i corsi con irregolarità, ebbe a ridire col direttore Ponchielli, alla fine se ne andò e cominciò a lavorare come direttore d'orchestra in giro per l'Italia finché non gli fu offerto un posto fisso a Cerignola.

Nel 1888 s'iscrisse a un concorso, indetto dalla casa editrice Sonzogno, per un'opera in un singolo atto. Chiese la collaborazione dell'amico Giovanni Targioni Tozzetti e di Guido Menasci, che riadattarono un dramma tratto dalla novella Cavalleria Rusticana di Verga. L'opera fu terminata il giorno della scadenza del concorso e vinse su 73 partecipanti. Fu un successo immenso, ripetuto in ogni teatro in cui fu presentata e mai più uguagliato da nessuna opera successiva, né Iris, né L'amico Fritz, né Le Maschere etc. Peccato che Verga accusò Mascagni di plagio, vinse la causa e ottenne un forte risarcimento.

Cavalleria Rusticana è la prima opera musicale verista a pieno titolo, della "Giovane scuola italiana" - come I Pagliacci di Leoncavallo e la Boheme pucciniana - laddove le altre opere mascagnane sono, prima, vagamente decadenti, secondo il gusto dell'epoca, poi, espressioniste, soggettive, tese a riprodurre la realtà con gli occhi dell'anima. La sua musica è definita esasperata perché ricca di acuti e di declamato.

Mascagni morì nella camera del suo albergo a Roma, nel 51, il suo corpo fu traslato al cimitero della Misericordia, dove si può ammirare il mausoleo.

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Amedeo Modigliani

3 Dicembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #pittura, #personaggi da conoscere

Amedeo Modigliani

Amedeo Modigliani (1884 - 1920) nasce a Livorno, da ebrei sefarditi. Suo padre è un cambiavalute impoverito, in famiglia ci sono casi di depressione, un fratello viene incarcerato. Minato dalla tbc fin da piccolo, è testardo, indipendente, bravissimo nel disegno, diventa allievo di Guglielmo Micheli e conosce Giovanni Fattori e Silvestro Lega.

La maggior parte della sua vita vede come teatro Parigi, crogiolo di cultura, sede di tutte le sperimentazioni e le avanguardie. Qui Amedeo incarna l'icona dell'artista maledetto, vivendo prima a Montmatre e poi a Montparnasse, venendo a contatto con Toulouse - Lautrec e Cézanne.

Contemporaneo dei cubisti senza esserlo, influenzato dal fauvismo espressionista, piuttosto che dall'impressionismo, dall'uso del colore puro in funzione anche emotiva oltre che costruttiva, dall'abolizione del chiaroscuro e della prospettiva, dai contorni netti, Modì frequenta Picasso e Utrillo, sviluppando uno stile suo, personale, che attinge a suggestioni arcaiche e africane.

Parte come scultore, creando maschere stilizzate, egiziane, primitive, ma la polvere aggrava i suoi polmoni già malati e deve orientarsi sulla pittura, sebbene scriva anche poesie. Il suo interesse si concentra sulla figura umana. Nel suo lavoro è veloce, riesce a terminare un ritratto in un paio di sedute e poi non lo ritocca più, ma essere dipinto da lui, dicono, è come "farsi spogliare l'anima". I suoi nudi sono considerati scandalosi, le sue mostre vengono chiuse, i suoi quadri più belli venduti per pochi spiccioli.

Torna a Livorno nell'estate del 1909, malaticcio e logorato, ma riparte subito per Parigi. I pochi soldi finiscono tutti in alcol e droghe, si lega sentimentalmente a diverse donne - Beatrice Hastings, scrittrice inglese, Lunia Czechowska - ha un figlio naturale che non riconosce poi, improvviso, scoppia l'amore con Jeanne Hebuterne, la passione folle di tutta la sua breve vita.

Jeanne è bella, ha occhi azzurri, lunghi capelli castani, un carattere docile. e dipinge con grande sensibilità. Le loro anime sono affini, il loro amore è di quelli che vanno oltre la morte, gli partorisce una figlia che si chiama Jeanne anche lei.

Modigliani muore di meningite tubercolare delirando fra le braccia della straziata Jeanne, incinta al nono mese. Gli fanno un gran funerale, che sfila per le vie di Parigi. Il carro è coperto di fiori, seguito da un lungo corteo di pittori, di scultori, di modelli, tutti gli artisti di Montmatre e Montparnasse riuniti. Le spoglie vengono sepolte al Pere Lachaise. Jeanne non regge alla separazione, non può vivere senza Amedeo, neanche per la figlia Jeanne o per il nascituro. Si getta dalla finestra e perisce con la creatura che ha in grembo. La famiglia non vuole altri scandali, la fa seppellire in un altro cimitero, lontana dal suo amato. Sarà solo nel trenta che verrà data l'autorizzazione a traslarla e inumarla vicina ad Amedeo.

La figlia Jeanne cresce a Firenze, in casa di una zia paterna, e, da adulta, scrive una importante biografia, Modigliani senza leggenda che, insieme al libro di Corrado Augias, Modigliani, l'ultimo romantico, è una delle principali fonti d'informazione sulla vita del pittore scomparso. Da segnalare anche il film Modigliani, i colori dell'anima, del 2004, di Mick Davis.

La figlia Jeanne muore cadendo dalle scale mentre si discute sull'autenticità o meno delle teste ritrovate nei fossi, sulla sua fine aleggia il sospetto dell'omicidio. L'altro figlio, quello non riconosciuto dal pittore, cresce in Francia e diventa sacerdote. Il resto della famiglia è sepolto a Livorno, nel nuovo cimitero ebraico dove, a ricordo di Modì, c'è solo una lapide.

Dopo la morte di Modigliani, le sue opere sono vendute per cifre astronomiche.

Amedeo Modigliani
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