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Giovanni Buffoni

20 Gennaio 2015 , Scritto da Paolo Mantioni Con tag #paolo mantioni, #racconto

Giovanni Buffoni

Giovanni Buffoni pregustava già il piacere che avrebbe avuto dicendolo a Marlene. Finalmente dopo un anno e mezzo di bella vita, le avrebbe potuto offrire qualche settimana di vita bellissima. Finora la bella vita era stata inframmezzata da qualche noia: gli impegni di lavoro, gli incontri con il figlio, gli appuntamenti con l’avvocato, le udienze davanti al giudice affianco a quella strega della ormai (Dio mio, che liberazione) ex-moglie. Ora che tutte le villette del comprensorio Poggio Ameno erano state vendute e che le banche erano state pienamente soddisfatte e che le minacce s’erano trasformate in invito a intraprendere nuove avventure, che il figlio aveva programmato un soggiorno di due mesi negli Stati Uniti, ora sì, aveva potuto prenotare quella crociera sul Mediterraneo che avrebbe lasciato Marlene a bocca aperta. A sessant’anni in giro sul mare azzurro assieme a una bella ragazza di venticinque, bionda, formosa, gentile, sì, forse un po’ imbronciata qualche volta, ma comunque sempre disponibile alle carezze o al sesso, beh, cosa poteva chiedersi di più! L’entusiasmo gli aveva fatto prendere sottogamba che di venerdì pomeriggio 24 giugno volersi spostare da Viale Marconi verso Torvajanica percorrendo la Pontina è cosa da sfidare il più placido degli uomini, figurarsi lui che bolliva dal desiderio di far saltare di gioia la sua Marlene e non voleva certo dirglielo per telefono, voleva averla davanti a sé, farsi inondare dal suo (presunto) stupore estatico. Giovanni Buffoni non aveva né l’attitudine né la pazienza per chiedersi se veramente per Marlene quella notizia sarebbe stata poi così eccitante, fatto sta che il più delle volte, quando ritardiamo la comunicazione di una notizia che riteniamo entusiasmante ubbidiamo a un impulso egoistico (non molto diverso dall’impulso che guida la beneficienza pubblica): la persona attinta da tanta benevolenza ne deve godere non per sé e in sé, bensì per nostro tramite e dev’essere un mezzo per aumentare la considerazione che desideriamo che quella persona abbia di noi.

Già all’altezza del Raccordo, prima e seconda, prima e seconda, freno, frizione e acceleratore, quest’ultimo appena sfiorato, il muscolo della coscia e il tendine della caviglia già cominciavano a dolere. In più la suoneria del telefonino, con il display che annuncia, non Marlene, come aveva sperato, no, non Marlene, il display annuncia, e proprio non se l’aspettava e proprio non voleva crederci, Adele. Non rispondere sarebbe stato inutile, perché la sua ex-moglie avrebbe continuato a farlo squillare fino a notte inoltrata e gli avrebbe rimproverato che neanche per un grave incidente del figlio sarebbe stato rintracciabile.

  • Sì, pronto.
  • Ah, buongiorno. Dove sei?
  • Cosa importa a te dove sono io.
  • Giusto. Stai venendo a prendere Gianluca? O te ne sei dimenticato?

Se n’era proprio dimenticato. Prima che Gianluca partisse per gli Stati Uniti, spettava loro o dovevano sopportare un altro fine settimana insieme.

  • Non me ne sono dimenticato. Ci ho parlato e gli ho spiegato che ci vediamo domenica pomeriggio. Lui sa perché. Ciao e buon fine settimana

Contava di poterlo avvertire subito dopo essersi liberato dal morso canino di Adele, ma non fece in tempo a premere il tastino rosso e del resto sarebbe servito a poco conoscendo l’ostinazione della ex-moglie.

  • Ah, e quando glielo avresti detto, visto che Gianluca è qui affianco a me e non ne sa niente ed è così scrupoloso che prima di uscire per fatti suoi ha voluto che ti avvertissi…
  • E tu giustamente non ti sei fatta pregare. Da madre premurosa e tutta votata al benessere del figlio, soprattutto dopo che il bel Maurizio…
  • Sei proprio egoista e meschino.
  • Tu invece sei una rompipalle frustrata. E ti ricordo che hai cominciato tu con il bel Maurizio, il quarantenne palestrato che si è tolta la curiosità per la babbiona in calore e poi…
  • Io invece ho qualche comunicazione da darti. Lo sapevi che la dolce Marlene prima di trovare il grande amore, il padre putativo, o il nonno, il vecchio porco, tanto per dire, divideva una monocamera con tre marocchini…
  • Non me ne frega nien…
  • Ma ancora non sono riuscita a sapere se l’affitto lo pagava in natura o coi quattro soldi guadagnati pulendo i cessi!
  • E tutte queste belle cose tu come le sai?
  • Le so, le so mi sono inform…
  • Un investigatore privato! Hai preso un investigatore privato! Ma è fenomenale! Sei molto peggio di quanto si poteva mai immaginare! Oppure mi ami talmente tanto da interessarti ancora dei cazzi miei.
  • Per carità, bello mio! Voglio solo impedire che il culo e le tette di un’immigrata si mangino il patrimonio di mio figlio…
  • Che madre deliziosa…Sappi comunque che Marlene diventerà mia moglie e che tra pochi giorni andremo in crociera. Sì, proprio quella crociera che non abbiamo fatto per colpa tua e del bel Maurizio. Te lo ricordi? Il medico me l’ha sconsigliata, potrei soffrire il mal di mare, non me la sento di lasciare Gianluca da solo…Quante cazzate: erano i pettorali di quel cretino che non volevi lasciare. Povera imbecille!
  • Ah, un’altra cosa ho saputo. La dolce Marlene faceva i bocchini al tuo avvocato prima di trovare il grande amore: gli faceva le pulizie a studio e gli faceva i bocchini. Com’è non te l’ha detto il tuo grande amico, il grande avvocato De Santis?
  • Tu vedi troppo televisione, Mora, Fede e la Minetti ti hanno fatto dare di volta al cervello. E almeno in televisione ci mettono il bip, visto che Gianluca è lì vicino a te…
  • Vuoi fare l’innamorato e invece sei solo un vecchio porco!
  • Sì, ma c’è solo una cosa peggiore di un vecchio porco, una vecchia porca!!

Stavolta il tastino rosso l’aveva premuto e non avrebbe saputo dire se “stronzo” l’aveva sentito o solo immaginato. E non fece nemmeno in tempo a domandarselo perché aveva dovuto frenare a secco per non tamponare la macchina che lo precedeva, per altro con la paura di farsi beccare dalla macchina dietro: aveva preso un po’ di velocità prima della curva, prima, seconda, terza, 40, 60, 80 all’ora e subito dopo di nuovo come prima, tutti fermi, a smadonnare per telefono, de visu o nel pensiero.

“Se morirò in un incidente stradale, morirò a questa maledetta curva della Pontina!”

Avevano gridato tutto il tempo, fino a farsi dolere la gola e le vene del collo. Aveva bisogno di rifarsi un po’ la bocca, e giacché aveva ancora il telefonino in mano, decise che non avrebbe aspettato di essere chiamato.

  • Ciao, dolcezza mia, che fai?
  • Sono in spiaggia e mi rompo.
  • Sto arrivando. Sono sulla Pontina, una mezz'ora e sono lì.

Press’a poco le stesse parole che migliaia di mariti, fidanzati, amanti stavano dicendo a quell’ora, su quella strada e con quel tono alle migliaia di mogli, fidanzate e amanti da sole sulla spiaggia. Per fortuna le cose si stanno un po’ mescolando e cominciano a esserci centinaia di mogli, fidanzate e amanti che possono dire la stessa cosa.

  • Mi avevi detto che stavi qui ieri sera.
  • Dolcezza mia, sono rimasto a Roma a prepararti una sorpresa…Ma ti dico dopo, sennò va a finire che vado addosso a qualcuno.

Ritardare, invece, una brutta notizia è spesso un atto d’amore: prolungare l’inconsapevolezza dell’altra persona di una morte o di una malattia grave o di un licenziamento o di una bocciatura, significa tenerla più lontano possibile da una sofferenza. Ma anche quest’atto d’amore ha una coda controversa: la persona salvaguardata potrebbe rimproverarci di aver nascosto una verità. Se invece la brutta notizia è contenuta in una domanda che a sua volta contiene un sospetto, e la brutta notizia sarebbe “ho motivo di dubitare di te”, allora il ritardo o la cautela tornano ad avere un’origine egoistica: se il sospetto è fondato non avremmo più la possibilità di credere che la cosa non sia avvenuta e dovremmo sobbarcarci il faticoso compito di ricostruire una nuova architettura d’illusioni per continuare a vivere e considerarci come prima.

Glielo avrebbe chiesto? Avrebbe avuto il coraggio di domandarle “Prima di conoscermi, andavi a letto con Vito, l’avvocato De Santis?”

Se lo avesse fatto, la cosa sarebbe andata press’a poco così. Immerso nell’acqua della piscina, avrebbe goduto dei movimenti rallentati, grazie al liquido che l’avvolgeva, alla frescura, alla quiete che gli offriva, avrebbe sentito che le cose più spigolose, gli aculei più fastidiosi possono ammorbidirsi, possono sciogliersi in modo quasi naturale o magico, si farebbe fatto l’idea che in fondo era una domanda come un’altra. Poi seduto sul lettino, continuando a frizionarsi la testa con l’asciugamano, sfruttando la scia di benevolenza che la notizia della crociera avrebbe dovuto assicurargli, “Senti, Marlene, ho bisogno di sapere una cosa. Prima di conoscermi o quando ci conoscevamo appena, andavi a letto con Vito?” Marlene, immobile, sdraiata sul lettino, senza togliersi gli occhiali da sole, senza dare a vedere un minimo di turbamento, come se le avesse chiesto se non volesse un gelato, avrebbe risposto “ma che dici, che ti viene in mente?” “Davvero, solo per curiosità.” Marlene si sarebbe alzata di scatto, avrebbe gettato sdegnata gli occhiali sul lettino, “no, non ci sono stata a letto, va bene adesso?” avrebbe detto. E se ne sarebbe andata verso la piscina a passo rapido, portandosi via quel bel corpo bianco nonostante i tentativi di rovinarlo con l’abbronzatura e sodo.

Sì, ma in realtà Adele aveva parlato di altro, si sarebbe detto Giovanni. Ma al ritorno dalla piscina non avrebbe avuto modo di precisare la domanda.

Il disgusto e il disprezzo che Marlene provava per quest’uomo che sembrava spiarla quando si vestiva, che era tutto contento quando, durante le compere – lo shopping, diceva lui -, tra le due paia di occhiali firmati lei sceglieva non quello che le piaceva di più, ma quello che costava il doppio dell’altro, e che prima di metterle le mani addosso le chiedeva ogni volta “ti va, amore mio. Sei sicura che ti va?”. Ora a quel disgusto e a quel disprezzo dissimulati e tradotti in sorrisini timidi e imbarazzati, ora poteva aggiungere il corpo flaccido, abbandonato, soddisfatto di sé e della grandiosa notizia che le aveva portato, mezzo o tutto addormentato su questo lettino da spiaggia sotto il sole e, soprattutto, poteva aggiungere questo filo di bava che colava da un lato della bocca e che Giovanni, mezzo o tutto addormentato, non sembrava sentir colare e non asciugava. Quel disgusto e quel disprezzo erano stati sovrastati, dopo che gli aveva gettato sul viso un piccolo asciugamano, “pulisciti, non vedi che sei sporco?”, dopo che l’aveva scosso sempre più violentemente, dopo che aveva gridato, dopo che aveva tentato di svegliarlo a voce sempre più alta, dopo aver chiamato aiuto, dopo essere inorridita, quel disgusto e quel disprezzo erano stati inghiottiti dal ribrezzo retrospettivo per aver toccato un morto.

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Una notte sul lago

8 Gennaio 2016 , Scritto da Franco Rizzi Con tag #franco rizzi, #racconto, #storia

Una notte sul lago

Quella mattina il tenente Luca Faliero si era svegliato prestissimo, stava appena albeggiando. Dovevano essere passate la poco le cinque e l’aria, ai piedi del monte Suello, era frizzante. Mentre si alzava dalla scomoda branda dove aveva dormito, Luca rabbrividì di freddo, ma era estate e lui si consolò pensando che presto la giornata sarebbe diventata calda. Poi si passò più volte una mano sul viso e cercò anche di ravviarsi i capelli, si infilò gli stivali ed uscì dalla tenda.

Leone Decarolis, l’appuntato suo fedele attendente, doveva averlo sentito muovere e si stava affrettando pure lui ad uscire da un’altra piccola tenda, mentre si tirava le bretelle sulle spalle e si abbottonava i pantaloni. <<Preparo subito del caffè signor tenente>> disse e si avvicinò alla piccola stufa da campo che loro usavano per prepararsi i pasti. Cominciò ad armeggiare per accendere il fuoco, mentre Luca, dopo essersi sciacquato il viso usando una piccola bacinella portatile, aveva iniziato a radersi velocemente la barba. Intento a sbarbarsi, meditava in silenzio, sulla nuova gatta da pelare che gli era stata affidata dal suo perfido colonnello Ottorino Pavesio: sorvegliare e tenere d’occhio le brigate di garibaldini che combattevano sul confine del trentino. Era la solita storia, i vecchi comandanti piemontesi non si fidavano ancora di Garibaldi ed il Pavesio non aveva trovato nulla di meglio che mandare ancora lui a fare la spia.

Il giorno prima, era il due di agosto del 1866, i garibaldini si erano battuti con coraggio ed avevano conquistato per la seconda volta il monte Suello, ma questa volta Garibaldi era stato ferito. Luca però aveva saputo che era rimasto sul campo di battaglia ancora per molte ore.

I garibaldini erano gli unici che avevano saputo fare bene la loro parte. A Custoza il generale La Marmora aveva subito una brutta batosta, ma anche sul Po le cose non erano andate meglio.

Neppure il generale Cialdini aveva saputo attaccare, anche se, a fronteggiarlo vi era solo un debole contingente di austriaci. Da quanto aveva capito Luca, i due generali si detestavano, facevano a gara a non capirsi e forse gioivano uno delle disgrazie dell’altro. Sua Maestà il Re poi, giocava anche lui a fare la guerra e spesso cercava di scavalcare i suoi generali combinando altri guai.

Ma questi pensieri non erano permessi ad un carabiniere del Re, come era lui. Doveva solo obbedire agli ordini e fare da guardiano silenzioso ai garibaldini.

L’acqua nella caffettiera aveva cominciato a bollire e nell’aria si spandeva un gradevole profumo. Leone si era avvicinato e gli aveva porto una tazza di latta stagnata contenente il caffè. Purtroppo bere in quel contenitore significava ammazzarne tutto il buon sapore, pensava Luca mentre beveva. Era un po’ come l’andamento di quella strana guerra contro l’Austria: i garibaldini erano il caffè, ma i generali erano la tazza stagnata.

Poco più tardi, mentre l’appuntato sellava i loro due cavalli, era arrivato Michele Serra, detto da tutti Michelino, perché era giovanissimo, biondo, con un ciuffo di capelli sempre arruffati. Era un giovane garibaldino appena arruolato e Garibaldi, sicuramente stizzito di ritrovarsi quel carabiniere tra i piedi, aveva nominato Michelino ufficiale di collegamento e gli aveva conferito il grado di tenente, giusto per fare da contraltare a Luca.

Michele Serra era un ragazzo pieno di buona volontà e svolgeva il suo incarico con la massima precisione, ma essendo giovanissimo non riusciva a dare del tu a Luca.

<<Sono venuto per dirvi che il generale Garibaldi oggi di sposta a Desenzano. Deve andare in ospedale per farsi curare la ferita. . .>> aveva detto tutto d’un fiato.

<<Grazie dell’informazione>> aveva risposto Luca, poi aveva aggiunto con cortesia: <<Fermati a bere una tazza di caffè con noi.>> Michelino era arrossito ed aveva risposto: <<Grazie, siete molto gentili, ma non so se mi è permesso, devo rientrare subito al comando. . .>>

Poi però aveva preso la tazza dalle mani di Leone ed aveva trangugiato il caffè.

<<Grazie. . .e. . . comandi!>> aveva poi aggiunto e facendo un accenno di saluto militare, cosa che gli tornava sempre difficile, si era allontanato.

<<Cosa dobbiamo fare noi, signor tenente?>> aveva chiesto Leone Decarolis

<<Se ho ben capito l’offensiva italiana si è di nuovo fermata>> aveva risposto Luca <<quindi penso che ci convenga scendere anche noi verso Desenzano. . . dobbiamo stare alle costole del nostro generale, nel caso gli venga l’idea di allearsi con i tirolesi. . .>> Leone Decarolis non aveva il senso dell’umorismo e rimase un attimo interdetto, ma poi rispose deciso:<<Comandi signor tenente!>> Montarono in sella e, voltando le spalle al monte Suello, presero la strada verso la pianura. Desenzano era un piccolo paese sulla riva sud del lago di Garda, ma aveva un ospedale e adesso, con la guerra, era improvvisamente diventato importante. Ogni giorno le carrette con i feriti giungevano dal fronte e, quando i cavalli si fermavano sotto la tettoia all’ingresso dell’ospedale, subito diverse infermiere accorrevano per raccogliere i feriti. Con i loro larghi cappelli e le gonne svolazzanti sembravano un po’ dei cigni agitati, ma erano molto efficienti e le loro mani di continuo si imbrattavano del sangue dei feriti.

In quel periodo, a loro si erano aggiunte anche altre donne, alcune erano nobili bresciane che passavano l’estate sul lago, altre forse un po’ meno nobili, a Desenzano ci vivevano. Tutte si distinguevano dalle suore, perché i loro vestiti, se pur fatti ad imitazione di quelli delle suore stesse, erano realizzati con tessuti migliori, cuciti su misura, con gonne che cadevano meglio e corpini che qualche dettaglio del seno lo lasciavano trasparire. Ed in realtà non erano poi molte quelle di loro che si sporcavano le mani di sangue.

Quel giorno la contessa Elisa Rampini Gastaldi si era subito accaparrata le cure del generale Garibaldi. Tutti, perlomeno tutti nell’ambiente della contessa, conoscevano la disavventura matrimoniale in cui era incorso il generale circa sette anni prima e lei era forse convinta che, oltre a curare la sua ferita al braccio, fosse necessario lenire anche quella del cuore.

Così Garibaldi in ospedale c’era rimasto poco, solo la prima notte, poi già il giorno dopo si era trasferito nella grande villa sul lago del conte Rampini Gastaldi. Nel volgere di poche ore, la villa era quindi diventata anche il suo quartier generale: diversi attendenti andavano e venivano in continuazione. Da lontano il conte Rampini li osservava con astio represso.

In realtà lui non aveva affatto digerito che le sue terre fossero diventate, sette anni prima, parte del regno di Piemonte e Sardegna e neppure di essere, cinque anni prima, diventato cittadino italiano. Lui aveva nostalgia del dominio austriaco, dei nobili austriaci che d’estate venivano ad incontrarlo sul lago, del serio comportamento dei loro funzionari, del passato insomma! Ma adesso forse gli italiani sarebbero stati sconfitti e ricacciati fino al Ticino. Il generale Garibaldi, quello strano personaggio, un po’ tracagnotto, un po’ contadinesco, stava passeggiando in giardino con sua moglie, Elisa Gastaldi. Chissà cosa ci trovavano poi le donne in un tipo come il Garibaldi.

Il conte, fingendo di leggere un libro, seduto nel salotto, guardava con attenzione le due grosse bisacce che erano state apparentemente abbandonate sul grande divano del salone attiguo. Erano zeppe di documenti. Quello sciocco fantoccio di generale, forse non sapeva neppure comandare.

Fu colpito da un’idea improvvisa. Lui sapeva dove, in quel momento, si trovava il colonnello austriaco Von Temekoff, non molto lontano da lì, sul lago d’Idro, dove il fronte della battaglia non era ben definito. Magari quelle borse di documenti gli sarebbero tornate utili per battere i garibaldini ed, in fondo, fargliele avere sembrava semplice, bastava prenderle e poi darle al suo fattore, perché le portasse al suo amico colonnello.

Luca Faliero era arrivato anche lui a Desenzano e, dal giovane Michelino, aveva saputo che Garibaldi era stato ospitato dalla contessa Rampini Gastaldi. Questa sistemazione creava un piccolo problema, lui non poteva presentarsi alla villa del conte e dire semplicemente:”ci sono anch’io, il mio incarico è quello di spiare Garibaldi”. Aveva quindi chiesto all’appuntato Leone di cercare qualcuno della servitù che potesse aiutarli ad entrare nella villa senza dare nell’occhio.

Verso sera Leone era ricomparso con una giovane cameriera: si chiamava Ester e non doveva avere più di diciotto anni, ma era molto sveglia. Luca le aveva spiegato che loro erano incaricati di fare una sorveglianza discreta sulla sicurezza del generale Garibaldi. Lei li aveva introdotti nelle cucine della villa ed aveva anche dato loro qualcosa da mangiare.

Era una sorveglianza un po’ strana, ma funzionava. Ester andava su e giù dalla sala da pranzo e riferiva. Così Luca era riuscito a sapere cosa stesse facendo il generale. Aveva cenato con la contessa Elisa, mentre il conte, accusando un forte mal di testa, si era ritirato nelle sue stanze. Il tenente Michele Serra era restato nel grande salone a fare la guardia alle bisacce del generale.

Dopo la cena Elisa ed il generale si erano spostati sulla grande terrazza che si affacciava sul lago. Sembrava che lei gli facesse gli occhi dolci e che il generale volesse passare all’attacco, perché, dopo che Ester aveva servito il caffè, loro si erano appartati in un’altra saletta. La cosa strana era che, mentre rientrava in cucina, lei aveva scoperto il conte dietro la porta del salone, come se stesse sbirciando di nascosto Michelino che sonnecchiava vicino alle bisacce.

Immediatamente, l'istinto aveva inviato a Luca un segnale preoccupante. Ester aveva finito il suo servizio, ma non sembrava voler andare a dormire. Forse il pensiero di quanto stava facendo la sua padrona in quel momento, doveva averle messo qualche voglia in mente, perché si era rivolta, un po’ sfacciatamente, a Luca e gli aveva detto: <<Tu non vuoi altro da me?>> Mentre lo diceva aveva sporto in fuori il giovane petto ed il seno si era chiaramente disegnato sotto la leggera camicetta. Luca si era sentito alquanto lusingato da quella che sembrava una proposta, in fondo quella era la guerra, nessuno conosceva il proprio futuro, l’indomani avrebbero potuto essere tutti morti, il presente, l’attimo fuggente, era forse da cogliere al volo.

Ma poi la sensazione che aveva provato quando Ester aveva raccontato dello strano comportamento del conte aveva avuto la meglio. La notte avrebbe potuto essere lunga, ma per ben altri motivi.

<<Ti ringrazio>> aveva risposto, <<ma devo fare ancora qualcosa. Vai a dormire. . . magari ci vediamo domani mattina.>> Si era alzato e, con fare noncurante, aveva slacciato il gancio della fondina della pistola d’ordinanza. Leone Decarolis, che sembrava dormicchiare in un angolo della cucina, si era alzato anche lui dalla sedia ed aveva imitato il gesto del suo capo.

Appena Ester si era allontanata, loro erano usciti dalla cucina ed avevano iniziato a salire silenziosamente le scale che, dai locali della servitù, portavano al piano superiore. La casa era ormai immersa nel buio, tutte le candele e le lampade a petrolio erano state spente.

Luca e Leone avanzavano lentamente senza far rumore. Solo una pallida luna lasciava filtrare pochissima luce dalle alte finestre. Gli arredi assumevano un aspetto mostruoso, prima di rivelarsi per quello che erano. Loro continuavano ad avanzare, attraversarono diversi locali ed arrivarono nel salone.

Qui vi era un corpo steso a terra: era Michelino, qualcuno doveva averlo colpito con un grosso candelabro. Le due bisacce del generale erano scomparse. Luca si era precipitato verso di lui e nel farlo aveva rovesciato un tavolino, ma ormai non doveva preoccuparsi del rumore che faceva.

Michelino era ancora vivo, ma aveva una brutta ferita al capo. Luca e Leone lo sollevarono e l’adagiarono su un divano, mentre chiamavano aiuto a gran voce. Loro però non potevano fermarsi e, dopo un attimo, si erano precipitati sulla terrazza. Nel giardino un’ombra si stava allontanando velocemente e loro iniziarono a scendere a precipizio lo scalone esterno per inseguirla.

Dalla parte opposta del prato, dove vi erano le scuderie, un’altra ombra si stava avvicinando tenendo un cavallo per la cavezza. Leone, appena raggiunto il prato, aveva cambiato prontamente direzione e gli stava adesso correndo incontro. L’ombra si era fermata e sembrava indecisa sul da farsi, poi aveva lasciato la cavezza del cavallo ed aveva cominciato a correre verso le scuderie. Doveva essere giovane, perché correva velocissimo ed in breve aveva distanziato Leone. Anche l’altra ombra si doveva essere accorta di quanto stava accadendo, aveva lasciato cadere a terra quanto teneva nelle mani e si era precipitato verso l’angolo della villa. A terra erano rimaste le bisacce del generale. Quando Luca le aveva raggiunte, l’ombra aveva ormai girato l’angolo ed era scomparsa dalla vista. Nella villa il trambusto fatto dai due carabinieri aveva svegliato diverse persone ed ora sulla terrazza vi era il maggiordomo che reggeva un candelabro e scrutava il prato, dove il cavallo, rimasto abbandonato, si era messo tranquillamente a brucare l’erba.

Leone aveva desistito dall’inseguimento e stava ritornando sui suoi passi. Luca, che aveva raccolto le due bisacce, gridò a Leone: <<Ha girato l’angolo, corrigli dietro, vedi se lo ritrovi, io giro dall’altra parte!>> poi aveva cercato di risalire il più velocemente possibile lo scalone esterno.

Sulla terrazza vi era il maggiordomo che cercò di sbarrargli la strada, ma lui, senza perdere tempo a rispondere alle sue domande, lo urtò con una delle bisacce, respingendolo indietro ed entrò nel salone. La scena si andava riempiendo di nuove persone. C’erano due garibaldini in uniforme, dovevano essere le guardie del corpo del generale, ed erano vicini al corpo di Michelino, sempre disteso su un divano, con la testa avvolta in un panno intriso di sangue. Luca si avvicinò e gettò sulle braccia di uno dei due le bisacce sibilandogli: <<Vedi di non fartele di nuovo portar via!>>. Girò con rapidità lo sguardo intorno alla sala ed ebbe una rapida visione del generale, in camicia da notte, con i piedi nudi, vicino a lui c’era la contessa, scarmigliata, che si stringeva addosso una vestaglia. Altri domestici stavano entrando sorreggendo dei candelabri. Ma non c’era tempo da perdere, se avesse cominciato a parlare sarebbe stato bloccato. Luca girò sui tacchi e corse di nuovo fuori per scendere in giardino dalla parte opposta.

Il prato declinava dolcemente verso il lago e davanti a lui c’era una darsena coperta: l’ingresso era un buco nero. Sentì i passi di Leone che si avvicinava ed in un attimo si ritrovarono, uno a fianco dell’altro, vicini all’ingresso della darsena. Leone avrebbe voluto infilarsi dentro al buio, ma Luca lo trattenne. Il suo intervento fu provvidenziale, perché dall’interno risuonò uno sparo. La pallottola sembrò miagolare molto vicino. Non sapevano chi ci fosse nella darsena e farsi ammazzare inutilmente era stupido.

<<Cerchiamo di aggirare la darsena>> disse Luca in un sussurro e subito Leone si avviò verso sinistra, lui proseguì verso destra. All’interno della darsena vi erano stati dei rumori, forse un tonfo, qualcuno si stava muovendo scompostamente nell’acqua. Luca arrivò sul ciglio del muro di confine che delimitava la darsena, ma non si accorse che sotto c’era il vuoto: precipitò in acqua e perse la pistola che stringeva in pugno. Luca sapeva nuotare e riemerse sputando l’acqua del lago. Quel bagno notturno era sgradevole e l’acqua era fredda, ma ormai era fatta, tanto valeva guardare all’interno della darsena. Pur impacciato dalla giubba e dagli stivali che lo tiravano a fondo, Luca, con alcune robuste bracciate, si affacciò alla bocca della darsena, ma anche l’uscita delle barche sembrava solo un buco nero. Giudicò che entrare da quella parte, nuotando con fatica ed ormai disarmato, sarebbe stato ancora più stupido e si tirò indietro. Nuotò lentamente fino a trovare la sponda del giardino qualche metro oltre il muro che delimitava la darsena, poi con fatica cominciò ad issarsi. Scosso da brividi di freddo, mentre era ancora carponi, decise di farsi sentire, sia da chi stavano braccando, che da Leone. <<Leone>> gridò <<fammi capire dove sei!>> La voce dell’appuntato giunse subito: <<Comandi signor tenente. Sono sullo spigolo della darsena, ma non posso proseguire, sotto c’è l’acqua!>> Luca stava tremando dal freddo, ma doveva ignorare il suo corpo e reagire: si tirò in piedi e sbatté le mani, più volte una contro l’altra, per cercare di scaldarsi.

<<Leone resta dove sei>> gridò ancora Luca <<se qualcuno esce dalla darsena sparagli. Io mi piazzo davanti alla porta d’ingresso. Tengo la pistola puntata sulla porta, se qualcuno esce gli sparo!>> Sperava che chi era dentro gli credesse e si guardasse bene dal mostrarsi.

Poi ci ripensò. <<Leone spara qualche colpo intimidatorio per farlo uscire. . .>>

Dopo pochi istanti, Leone esplose tre colpi, con calma, uno ben distanziato dall’altro. Non successe nulla, l’interno della darsena era rimasto silenzioso. Sembrava una posizione di stallo.

Finalmente dalla villa arrivarono quelli che per Luca diventavano provvidenziali rinforzi. Vi erano alcuni garibaldini armati e diversi camerieri e garzoni che portavano delle lampade a petrolio. Luca era fradicio e sperò che nessuno se ne accorgesse. <<Il nostro uomo è lì dentro>> disse Luca <<ma adesso lo prendiamo.>> Ora che c’era un po’ di luce, vedeva chiaramente la forma irregolare della darsena coperta. Era piuttosto grande e le due spalle si protendevano sull’acqua. Per prima cosa mandò un garzone, munito di una lampada, sul tetto della darsena, adesso la luce illuminava debolmente l’acqua anche dalla parte dell’uscita delle barche e nessuno avrebbe potuto scappare senza essere visto. Leone era tornato indietro e si era appoggiato alla parete vicino all’entrata.

<<Basta, è finita, vieni fuori>> aveva detto ancora Luca e la sua voce era risuonata un po’ stanca, ma nessuno aveva risposto. Leone aveva preso una lampada a petrolio e l’aveva sospinta sulla soglia con la punta del piede. Chi era dentro adesso avrebbe sicuramente sparato. . . ma non era accaduto nulla. Leone aveva spinto ancora più avanti la lampada ed ora un po’ di luce illuminava l’interno della darsena. <<Adesso vengo a prenderti>> aveva urlato Leone ed era balzato all’interno: il suo coraggio a volte sconfinava nell’incoscienza. Ma la darsena era vuota.

Due garibaldini erano entrati dopo di lui ed avevano percorso la stretta passerella in legno che correva all’interno, lungo i muri della darsena, ma non c’era veramente nessuno. Però qualcuno aveva pur sparato verso di loro mentre, poco prima, sostavano di fronte all’entrata della darsena! Leone non riusciva a comprendere, poi aveva abbassato gli occhi nell’acqua e l’aveva visto.

Sul fondo vi era il corpo di un uomo, ormai immobile, probabilmente al buio doveva aver messo un piede in fallo ed era caduto in acqua, evidentemente non sapeva nuotare ed era annegato.

Dopo vi era stato di nuovo un gran trambusto. Tutti i garzoni sapevano nuotare come pesci e si erano tuffati: avevano ripescato il corpo che era quello del povero signor conte.

Mentre fervevano queste operazioni, Leone si era avvicinato a Luca e lo stava squadrando in modo strano. <<Ma siete tutto bagnato signor tenente? >> Mentre lo diceva però gli scappava da ridere.

<<Non sarete mica caduto in acqua anche voi?>> <<Io? Ti pare mai possibile che io faccia delle sciocchezze simili?>> Poi erano scoppiati in una risata liberatoria ed avevano risalito il prato verso la villa.

Di prima mattina il generale Garibaldi era pronto per partire e tornare al suo posto di comando.

Il giovane Michele Serra era stato ricoverato in ospedale, ma non era in pericolo di vita.

La contessa era chiusa in camera sua a piangere il marito morto, il cui corpo era stato composto e rivestito, in attesa che il vescovo arrivasse per dargli la benedizione.

E Luca Faliero era adesso alle prese con la stesura del verbale su quanto era accaduto quella notte. Era moralmente sicuro che il conte fosse il colpevole del tentativo di furto delle due bisacce di documenti del generale, ma, mentre stendeva il rapporto alcuni dubbi, di tipo legale, si affacciavano alla sua mente. Il realtà lui aveva visto solo un’ombra fuggire nel giardino. Nulla collegava oggettivamente il conte a quell’ombra. Ed il complice che aveva visto avvicinarsi con un cavallo? Forse era solo uno stalliere che poi era fuggito. Ed ormai il conte era morto. Se anche, da vivo, fosse stato ancora vicino ai suoi amici austriaci, che importanza aveva adesso? Era vero che la guerra era ancora in corso, ma avrebbe avuto senso infangare la memoria di un morto? In fondo le bisacce non erano state rubate. C’era sì la testa rotta del povero Michelino, ma tutto sommato anche lui se la sarebbe cavata. Luca fece una pallottola del foglio che stava faticosamente cercando di riempire.

Rimase a lungo senza fare nulla, guardando il corteo di Garibaldi che si allontanava dal giardino e tornava verso il fronte. Sbirciando da lontano, Leone aveva visto che lui aveva smesso di scrivere e si era avvicinato. <<Quali sono gli ordini per oggi signor tenente?>> aveva chiesto.

<<Tu cosa scriveresti, se dovessi farlo tu, un rapporto per gli avvenimenti di questa notte?>> aveva chiesto Luca, invece di rispondergli. Leone gli aveva rivolto uno sguardo meravigliato, ma Luca era rimasto zitto in attesa di una risposta.

<<Beh, scriverei che un ladro ha cercato di rubare le bisacce del generale, ma i carabinieri del Re le hanno prontamente ricuperate. . .>> << . . .E poi?>> lo incalzò Luca.

Neanche Leone sembrava sapere cosa dire e per un po’ rimase zitto, poi tutto d’un fiato recitò:<<Poi il signor tenente ed il conte avevano caldo ed hanno fatto un bagno nel lago, ma il conte non sapeva nuotare ed è annegato, il signor tenente invece no!>>

Luca rise di cuore, poi concluse: <<La prima parte va bene e credo che sia sufficiente.>>

Franco Rizzi.

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Calcio e Acciaio

28 Febbraio 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi

Calcio e Acciaio

Gordiano Lupi - CALCIO E ACCIAIO - Dimenticare Piombino
Acar Edizioni – Euro 15 – Pagine 200 – Distribuzione Nazionale A
LI

Calcio e acciaio - Dimenticare Piombino racconta con amore e nostalgia una storia ambientata in un suggestivo spaccato maremmano.

“Aldo Agroppi era amico di sua madre, viveva in via Pisa, un quartiere di famiglie operaie, case bombardate durante la Seconda Guerra Mondiale, tragiche ferite di dolore, macerie ancora da assorbire. Giovanni ricorda una foto di Agroppi che indossa la maglia della Nazionale, autografata con un pennarello nero. Era stato proprio Agroppi in persona a dargliela, all’angolo tra corso Italia e via Gaeta, in un giorno di primavera di tanti anni fa, dove la madre del calciatore gestiva una trattoria, un posto d’altri tempi, dove si mangiava con poca spesa. Giovanni era un bambino innamorato dei campioni, giocava su un campo di calcio delimitato dalla sua fantasia, imitava le serpentine di rombo di tuono Gigi Riva, i virtuosismi di Sandro Mazzola, le bordate di Roberto Boninsegna, le finte dell’abatino Gianni Rivera e la vita da mediano di Aldo Agroppi, cominciata a Piombino e conclusa a Torino”.

Dopo tanti anni Piombino era ancora una volta il centro del suo mondo. Lo Stadio Magona aveva preso il posto di San Siro, le duecento persone domenicali che seguivano la squadra locale erano il suo nuovo pubblico, anche se i dribbling si facevano sempre più rari e le azioni più lente. Giovanni si preparava con scrupolo alle gare, spingeva i giovani a dare il meglio, insegnava, come un allenatore in campo che dispensava anni di esperienza”.

“La nostra cultura era quella del flipper con i record segnati con la penna biro, del calcio balilla con i vecchi calciatori decapitati e anneriti, dei primi videogames artigianali che si facevano strada. Non solo. Era la cultura del cinema con il doppio spettacolo domenicale e la signora che vendeva manciate di semi per poche lire. Era la cultura del campino sterrato della parrocchia, dove sognavamo di emulare Mazzola e Rivera. Era la cultura dei nonni che raccontavano le fiabe tenendoci per mano nelle giornate di vento”.

“Canali di Marina dove gettare una lattina di birra o le finte teste di Modigliani, emulando i cugini livornesi dopo una scorribanda tra amici. Scogliere di Fosso alle Canne, la luna a picco su una casa diroccata che sembrava uscita dai versi di Montale, io che recitavo La casa dei doganieri, la casa della mia sera, con la tua mano stretta nella mia e aspettavo un bacio, un segno che tutto sarebbe andato bene, che non mi avresti lasciato. Nottate di libeccio con il mare che superava la balaustra in ferro battuto del Porticciolo e bagnava le mura del vecchio ospedale. Maestrale che pareva uscito da un quadro di Fattori, mentre in Cittadella mi fermavo a guardare il mare in attesa di un bacio dalle tue labbra inesperte e tremanti, quasi come le mie”.

“Soltanto a Piombino ho visto case per gli operai costruite sul mare, acciaio e salmastro cercare una strada comune, lottare per fumo e pane, ma anche amore per il mare, per scogliere incontaminate, per golfi e calette misteriose che danno riparo al sole. Sarà per questo che ho scelto di tornarci. Forse mi sento figlio di tante contraddizioni”.

Gordiano Lupi (Piombino, 1960). Collabora con La Stampa di Torino. Dirige le Edizioni Il Foglio Letterario. Traduce gli scrittori cubani Alejandro Torreguitart Ruiz e Yoani Sánchez. Ha pubblicato molti libri monografici sul cinema italiano. Tra i suoi lavori: Cuba Magica conversazioni con un santéro (Mursia, 2003), Un’isola a passo di son – viaggio nel mondo della musica cubana (Bastogi, 2004), Almeno il pane Fidel Cuba quotidiana (Stampa Alternativa, 2006), Mi Cuba (Mediane, 2008), FelliniA cinema greatmaster (Mediane, 2009), Una terribile eredità (Perdisa, 2009), Fidel Castro biografia non autorizzata (A.Car, 2011), Yoani Sánchez In attesa della primavera (Anordest, 2013). Tra i suoi ultimi progetti c’è una Storia del cinema horror italiano in cinque volumi. Cura la versione italiana del blog Generación Y della scrittrice cubana Yoani Sánchez e ha tradotto per Rizzoli il suo primo libro italiano: Cuba libre Vivere e scrivere all’Avana (2009). Ha tradotto – per Minimum Fax – La ninfa incostantedi Guillermo Cabrera Infante (Sur, 2012). Pagine web: www.infol.it/lupi. E-mail per contatti: lupi@infol.it

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segnalazione

28 Giugno 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #redazione

Patrizia POLI, L’uomo del sorriso

«per la struggente rivisitazione laica della vicenda di Gesù nella prospettiva di Maria di Migdal»

Segnalato al Premio Italo Calvino

"L’uomo del sorriso" romanzo Patrizia POLI


La storia che questo libro racconta è una delle più conosciute del mondo, è la storia di Gesù –
chiamato nel romanzo con il nome ebraico di Yeshua – negli anni della sua predicazione, fino alla
morte e resurrezione. Ma la storia è narrata dal punto di vista di un testimone privilegiato e
sorprendente, cioè Maria di Migdal – comunemente conosciuta come Maria Maddalena – la
peccatrice dei Vangeli, prostituta anche un po’ maga nel racconto, che nasconde e salvaguarda il
culto antico della Dea Madre e le conoscenze esoteriche e curative. Nelle prime pagine del libro
Maria di Migdal è la protagonista assoluta, una donna isolata e sola, che respinge orgogliosamente
qualsiasi commiserazione e manifestazione di amore e amicizia e vive con lucida disperazione la
sua condizione. Accanto a lei un povero minorato, Astaroth, un gigante buono con la mente di un
bambino, di cui lei, unica del villaggio, si prende cura. Nella vita senza speranze e illusioni di Maria
– vita che viene descritta con finezza psicologica – irrompe Yeshua che riprende la predicazione di
Giovanni Battista dopo la sua morte. La tragica vicenda di Giovanni Battista è raccontata sia dal
punto di vista di Maria di Migdal, sua amica dall’infanzia, da lui sempre amata e mai disprezzata,
sia dal punto di vista dello stesso Battista e del suo carnefice, Erode, di cui viene raccontata in
modo assai coinvolgente la nascente passione erotica per l’adolescente Salomè. È questa la tecnica
narrativa che informa tutto il libro: le vicende - che seguono rigorosamente la falsariga delle
narrazioni evangeliche - vengono esplorate da punti di vista diversi: quello di Maria di Migdal,
dello stesso Yeshua, di Maria di Nazareth, la madre di Yeshua, di Kefa, un solido pescatore che si è
messo al seguito del carismatico giovane – il Pietro della tradizione – di Giuda Ish Karioth, dello
stesso Ponzio Pilato, che ha accettato di condannare Yeshua, pur essendo convinto della sua
innocenza – e in questo personaggio certamente riecheggia il Ponzio Pilato di Bulgakov. Sono punti
di vista che si intrecciano e ricostruiscono l’ambiente della società agropastorale dell’epoca, dei
villaggi palestinesi, della così diversa città di Gerusalemme; ricostruiscono la psicologia, le
passioni, i sentimenti contradditori dei diversi personaggi, e specialmente il fascino che il giovane
predicatore esercita su tutti, la passione necessariamente controllata e repressa che egli suscita in
Maria di Migdal e in Giovanni, il discepolo prediletto, che non osa confessare nemmeno a se stesso
la natura del suo amore per il Maestro. Il risultato è una specie di montaggio incrociato attraverso il
quale le vicende della narrazione evangelica vengono ricostruite, cioè vengono narrate da punti di
vista diversi, e anche con interpretazioni diverse.
Nella ricostruzione di una storia così nota, la scrittrice interpreta in chiave storico-naturalista le
vicende miracolose della tradizione religiosa. Un esempio è la descrizione delle cure che egli offre
alle turbe di malati e infelici, avvalendosi della collaborazione e dell’antica sapienza di Maria di
Migdal, occulta continuatrice delle conoscenze segrete dei culti matriarcali. Per non parlare
ovviamente della ricostruzione totalmente naturalistica del mito della resurrezione, che costituisce
la conclusione narrativa della vicenda. E totalmente laica è l’analisi del personaggio di Yeshua,
affascinante e carismatico, di sensibilità morbosa e suprema intelligenza e comprensione degli altri
e delle loro più segrete motivazioni, animato da totale spirito religioso, ma dubbioso fino alla fine
sul proprio ruolo e sulla volontà di Dio. E’ un personaggio di grande fascino quello descritto dalla
scrittrice, in termini tutt’altro che agiografici: personaggio umanissimo ma anche assolutamente
straordinario, per la sua intelligenza, sensibilità, gioia di vivere e amore per la vita in tutte le sue
forme, e per l’ assoluta e sofferta dedizione a quello che ritiene il suo ineluttabile dovere e destino.
Nella costruzione narrativa, il romanzo assume un andamento via via più drammatico, culminando
nei capitoli che raccontano la passione di Yeshua, che ne costituisce l’acmé narrativo, prima dello
scioglimento naturalistico della vicenda. Sono pagine scritte con drammaticità, in un crescendo di
grande efficacia. Poi la narrazione si placa nelle ultime pagine, in cui si accenna a quella che sarà
l’opera dei discepoli, impegnati a creare il grande movimento e il credo della nascente religione.
In conclusione, quindi: una narrazione efficace e una scrittura piacevole che mette in evidenza la
componente “umana” di Yeshua, la sua dimensione di uomo in mezzo a uomini e donne del suo
tempo; un testo che si ritrova però a fronteggiare – e non è poco – una trama per così dire “già
scritta” nei testi dei Vangeli e una storia tremendamente nota – forse la più nota – della nostra
civiltà. La (parziale) originalità della prospettiva proposta dall’autrice temiamo non sia sufficiente a
catturare l’attenzione. All’autrice l’umile suggerimento di cimentarsi con una storia di sua
invenzione che possa farci apprezzare al meglio le doti che indubbiamente possiede.

Il Comitato di Lettura

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Giovanni Fattori

20 Novembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #pittura, #personaggi da conoscere, #poli patrizia

 

"Fattori’s painting” says Argan, "is not the academic, generic and evasive design; it is, as it was in the Tuscan figurative culture of the fifteenth century, a design that penetrates, defines, engraves. " (G.C. Argan, "History of Italian art, Sansoni, 1979)

Giovanni Fattori (1825 - 1908) was born in Livorno but then moved to Florence, coming into contact with the group of painters who met at the Michelangelo cafe, in via Larga (now via Cavour).

He starts as a romantic but his artistic maturity and his most prolific moment are concentrated after forty years when, together with Telemaco Signorini and Silvestro Lega, he becomes one of the main Macchiaioli artists. The phenomenon is a precursor of Impressionism and is linked to the Risorgimento ideological framework, of which Fattori is part, being a member of the Action Party. He will retain an indelible memory of the siege of Livorno.

According to the Macchiaioli theory, the painter must render the truth as his eye perceives it, with coloured patches of light and shadow, without cultural prejudices. Indeed, Fattori considers himself a "man without letters", capable of grasping the present, the moment in action. And, however, the identification of the artist with the subject is never achieved, there is always a testimony, a comment, an ethical evaluation.

One of his favourite themes is military life, captured in everyday life, the other great subject is the rural landscape of the Maremma, with cowboys, oxen and horses.

In his life, Fattori is often in financial difficulty, he returns to Livorno to assist his sick wife who then dies of tuberculosis. The painter then travels, visiting Europe, the United States and South America. He also stays in Fauglia and Castiglioncello, a guest of friends.

Towards the end of his artistic career he dedicated himself to etching, a technique consisting of etching a metal plate with acid.

He died in Florence in 1908.

 

 

 

 

Il disegno del Fattori”, dice l’Argan, “non è il disegno accademico, generico ed evasivo; è, com’era nella cultura figurativa toscana del Quattrocento, un disegno che penetra, definisce, incide.” (G.C. Argan, “Storia dell’arte italiana, Sansoni, 1979)

Giovanni Fattori (1825 – 1908) è nato a Livorno ma si è poi trasferito a Firenze, entrando in contatto con il gruppo dei pittori che si riuniva al caffè Michelangelo, in via Larga (ora via Cavour).

Parte come romantico ma la sua maturità artistica e il suo momento più prolifico si concentrano dopo i quarant’anni quando, insieme a Telemaco Signorini e a Silvestro Lega, diventa uno dei principali artisti macchiaioli. Il fenomeno è precursore dell’impressionismo e si lega al quadro ideologico risorgimentale, del quale Fattori fa parte come fattorino del Partito d’Azione e del cui assedio di Livorno conserverà memoria indelebile.

Secondo la teoria macchiaiola, il pittore deve rendere il vero come lo percepisce il suo occhio, con chiazze colorate di luce e di ombra, senza pregiudizi culturali. Fattori, infatti, si considera “uomo senza lettere”, capace di cogliere il presente, il momento in atto. E, tuttavia, l’identificazione dell’artista col soggetto non si raggiunge mai, si ha sempre una testimonianza, un commento, una valutazione etica.

Uno dei suoi temi preferiti è la vita militare, colta nella quotidianità, l’altro grande soggetto è il paesaggio rurale della Maremma, con butteri, erbaiole, acquaiole, buoi e cavalli.

Nella sua vita, Fattori è spesso in difficoltà economiche, torna a Livorno per assistere la moglie malata la quale, poi, muore di tubercolosi. Il pittore, allora, si dà a viaggiare, visitando l’Europa, gli Stati Uniti e il Sudamerica. Soggiorna anche a Fauglia e a Castiglioncello, ospite di amici.

Verso la fine della sua carriera artistica si dedica all’acquaforte, tecnica consistente nell’incisione di una lastra di metallo tramite acido.

Muore a Firenze nel 1908.

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Strampalario di Natale, parte seconda

12 Dicembre 2015 , Scritto da Patrizia Bruggi Con tag #patrizia bruggi, #racconto, #unasettimanamagica

Strampalario di Natale, parte seconda

Da Pasiele a Dio

25 dicembre, ore 1:30

Caro Signore, prima di tutto buon Natale!

Eccoci qua. Come ci avevi chiesto, ti scriviamo. Scrivo io per tutti e due.

Abacùc si è steso sul letto e sta guardando il soffitto. È un po’ stanco, perché siamo tornati tardi, ma è stata una serata bellissima. Siamo stati in una libreria del centro. C’era una presentazione di uno scrittore (Abacùc lo ha definito “pifferaio magico” e “trombone sfiatato”, e un po’ ha ragione) che si credeva un Re Magio e non sapeva che i tre Savi a quest’ora erano ancora in cammino. Mica erano ancora arrivati alla mangiatoia. Ci sarebbero arrivati il 6 gennaio. Io ho cercato di dirlo subito all’inizio. Pensa che in sala c’erano persino tre statue dei Re Magi!! Ma nessuno ha risposto quando ho parlato io. Comunque. Lo scrittore, che si chiama Dino Salamè (che nome!) parlava e parlava e non la smetteva. Parlava solo di se stesso e del suo libro (si intitola “Comete e tripudi”) e la gente lo applaudiva. Ma il bello è venuto dopo, quando c’è stato il rinfresco, alla fine di quella noiosissima presentazione. Abacùc mi passava i panini al latte imbottiti con il prosciutto crudo e per sé aveva riempito un piatto di tartine al salmone e ai gamberetti. Mi stavo pulendo la bocca dalle briciole, quando si è avvicinato un signore che si è presentato come “ragionier Mariano Righetti”. Vedessi che bellissimo orologio ha nel taschino del panciotto! Il ragionier Righetti ha fatto i complimenti ad Abacùc, dicendogli che aveva un figlio molto sveglio. Così piccino e già conosceva la storia della Notte Santa e capiva tante cose. Credeva che fossi il figlio di Abacùc, visto che sono piccolino. Noi abbiamo fatto finta di niente, naturalmente. Abacùc si è messo a parlare con il ragioniere, che sembra conoscere bene Dino Salamè. Lo conosce bene, ma non lo apprezza per niente. Così mi è sembrato, da quello che diceva di Salamè. Però, ha subito aggiunto a mezza voce: «Nonostante tutto mi dà da mangiare.» Così, io gli ho allungato un panino al prosciutto: «Una volta tanto si faccia dare da mangiare da qualcun altro.», ho detto e lui ha riso. Mi ha accarezzato la testa e ha chiesto ad Abacùc: «Ma questo bimbo così educato e sveglio, cosa sa fare di bello?»

«Sa distinguere i sogni belli da quelli brutti e fasulli.», ha risposto Abacùc orgoglioso, ma con un ghigno strano. E il ragionier Righetti, sgranando gli occhi, ha risposto: «Veramente?? Quasi quasi mi è venuta un’idea…»

Anche il ragionier Righetti è un tipo sveglio, sai? Sveglio e simpatico. Ma questo te lo racconto nella prossima lettera. Mi si chiudono gli occhi dal sonno.

Per intanto ti mandiamo i nostri saluti e tanti bacetti natalizi. Ciao.

Tuoi Pasiele e Abacùc

Il ragionier Mariano Righetti era davvero un tipo sveglio. E quel bambino, così curato nell’abbigliamento – al contrario del padre, un tipo un po’ bohémien con quel codino e quel giaccone frusto – gli era piaciuto sin da subito. Più che rappresentare la voce dell’innocenza, quel bimbo era davvero arguto, e che proprietà di linguaggio, nonostante i suoi pochi anni! Forse cinque al massimo, aveva valutato, squadrandolo, il ragioner Righetti. Quando poi il padre gli aveva rivelato che sapeva distinguere i sogni belli da quelli brutti e fasulli, beh, il ragioniere era andato a nozze, come si dice.

Li aveva subito invitati a raggiungere il tavolo dove erano appoggiate le pile del libro “Comete e tripudi” di Dino Salamè, aveva preso una copia, l’aveva porta al bambino e gli aveva chiesto: «Tu che distingui i sogni, dimmi un po’ – che tipo di sogni ci sono in questo libro?»

Già, perché il ragionier Righetti, impiegato da trentasette anni nell’amministrazione della casa editrice “Ca’ Story” e promosso a direttore amministrativo otto anni prima, ne aveva visti di scrittori. Di ogni tipo. Aveva contabilizzato di tutto e ne aveva lette di cotte e di crude. Ma, nonostante tutto, era ancora convinto che il vero scrittore non potesse fare a meno di far colare i suoi sogni nella bottiglietta dell’inchiostro con cui poi avrebbe scritto le sue storie. E dunque, i sogni che avrebbero impregnato le righe di un libro sarebbero stati la cartina al tornasole dell’anima – e delle qualità umane - dello scrittore stesso.

Il bimbo dal cappottino blu prese il libro, sfogliò le pagine al contrario, sentì palpitare i sogni di Dino Salamè sotto alle sue mani, ci pensò un attimo e affermò decisamente: «Fuffa e ragnatele.»

«Spiegati meglio…», disse Abacùc.

«Questi non sono sogni.», Pasiele ne era convintissimo, «Sono fuffa. E sono ragnatele. Quelle spesse, grigie e polverose. Che ti si appiccicano ai capelli, quando entri in cantina… Insomma, fuffa e ragnatele! Non ci sono altre parole per descrivere questi sogni!»

Il ragionier Righetti non credeva alle sue orecchie. Davvero quel bambino era in grado di riconoscere i sogni? Lui, che aveva letto “Comete e tripudi” poteva affermare che il bimbo aveva ragione. Quel libro conteneva solo della gran fuffa, come tutte le altre opere del Salamè, d’altronde. Ma questa più di tutte. Fuffa. Fuffa e poi ancora fuffa. L’abbinamento con le ragnatele, però, al ragioniere era parso geniale. Addirittura “soprannaturale”, se avesse dovuto usare un termine alla Dino Salamè.

Ciò nonostante, Mariano Righetti, uomo tutto d’un pezzo, non volle farsi prendere da facili entusiasmi e decise di fare un’altra prova, per verificare che quel bimbo e suo padre non fossero due mistificatori. Così, il ragioniere andò verso lo scaffale di letteratura classica, prese un libro e, di nuovo, lo porse a Pasiele.

«In questo che sogni ci sono?», chiese, cercando di celare la sottile apprensione che iniziava a provare, pensando alle doti di quel bambino.

Pasiele si rigirò il libro tra le mani, lo aprì a metà, lo richiuse, ne accarezzò la copertina e disse, con gli occhi che gli brillavano: «Ma questi sono sogni pirotecnici!»

«Come? Come?», Mariano Righetti prese una sedia e si accomodò, fissando Pasiele, «Che vuoi dire?»

«Come i fuochi d’artificio visti da una barchetta sul mare. Di mille colori, a cascata, a stella, che piovono nell’acqua e si moltiplicano specchiandosi… anche se ci sono certi botti da far tremare le finestre!»

«Che libro è?», si intromise Abacùc.

«L’Orlando Furioso… il bambino ha azzeccato di nuovo…», rispose Righetti incredulo.

«Gliel’avevo detto io!», e ad Abacùc iniziò a frullare in mente un’idea. Fu quasi lì lì per fare un cenno a Pasiele, perché voleva parlargli a tu per tu di quello a cui aveva pensato, quando il ragioniere, che era corso nella sezione dei libri per bambini, riapparve con un libro dalla copertina gialla e viola.

«Aspettate, solo un attimo ancora! Ecco qui, dimmi, dimmi che sono curioso…», Righetti porse il volume a Pasiele e trattenne il fiato.

«Ma qui, ma qui… ci sono le montagne russe, i lecca-lecca e la musica degli organetti!», Pasiele strinse a sé il libro. Non gli era mai capitato di trovare un sogno così bello in tutti quegli anni.

Righetti, per un attimo, si sentì quasi mancare. Non credeva potesse essere vero. Tre su tre. Il bambino aveva azzeccato tutti e tre i libri. O era un mostro o era un’anima davvero speciale. Chissà se il padre era consapevole fino in fondo delle capacità di suo figlio, visto che se ne stava lì, come impalato, a rimirare il bambino con un sorriso strano. Poi, però, il ragioniere capì che era tutto vero.

«Vorrà dire che questo libro te lo regalo io! Te lo leggerà il tuo papà. È un bel libro. È come dici tu. Montagne russe, lecca-lecca, organetti…», e il ragionier Mariano Righetti infilò nella tasca del cappottino di Pasiele una copia de “Le avventure di Tallerino”.

Pasiele sorrise e si toccò la tasca. Ringraziò con un filo di voce, poi chiese ad Abacùc e al ragioner Righetti se era rimasta ancora qualche tartina con i gamberetti. Aveva ancora un po’ fame.

Fin qua mi sembra che tutto fili liscio. La storia, intendo.

A proposito, i lettori più attenti e puntigliosi ora staranno pensando che il ragionier Righetti il libro lo ha infilato in tasca a Pasiele, dicendogli che glielo regalava, ma mica l’ha pagato. Bella forza, il ragioniere. No, no, vi assicuro, Mariano Righetti non ha mai fatto cose del genere. Solo che aggiungere nel capitolo una frase del tipo “il ragionier Righetti chiese a Pasiele di restituirgli il libro per un attimo, raggiunse la cassa, lo pagò e lo porse felice al bambino”, mi dite voi cosa aggiunge alla storia? O cosa toglie? Già, perché sempre nei corsi di scrittura e narrazione una delle domande amletiche che dicono lo scrittore si debba porre è: “Ma questo fatto aggiunge qualcosa alla mia storia? Oppure toglie qualcosa?” e se la risposta è “no” a entrambe le domande, allora si può tralasciare.

Comunque, fidatevi. Il libro, il ragionier Righetti l’ha pagato. In contanti. “Le avventure di Tallerino” - chissà poi se esiste davvero un libro con un titolo così.

Ma torniamo a noi. La dote di Pasiele ha spiazzato il ragioniere. E ad Abacùc è frullata in testa un’idea. Sta scritto sopra, ma Abacùc non è riuscito a spiegarla a Pasiele. Sono stati interrotti sul più bello dalla terza prova del ragioniere, dal regalo (con pagamento avvenuto, ma omesso nella storia), dalle tartine ai gamberetti. Ma non è finita qui.

Il ragionier Righetti, visto e considerato che la libreria si stava ormai svuotando, perché tutti dovevano correre alle tavole imbandite per il cenone di Natale, ha proposto a Pasiele e ad Abacùc di fare un giretto in centro e poi andare alla messa di Natale. I due non se lo sono fatto dire due volte. Certo che avevano voglia di vedere il centro e poi andare in chiesa. Anche se al ragioniere, Abacùc era sembrato un poco fra le nuvole, distratto.

Aveva ragione Righetti. Abacùc stava ripensando anche al fatto che nessuno, nemmeno a presentazione finita, si era avvicinato a Pasiele, per dirgli qualcosa in merito alla sua osservazione sui Re Magi. Che poi era la verità. E anche se Abacùc, dall’alto del suo disincanto, sapeva bene che le cose andavano a finire così nella vita reale, provava dispiacere per il suo amico.

«E poi, non si fa finta di niente quando qualcuno dice qualcosa», questo aveva detto Pasiele all’inizio della presentazione di quel bellimbusto. Più ci pensava, più ad Abacùc spiaceva. E l’idea che aveva iniziato a frullargli nella testa, era diventata più nitida, più chiara, soprattutto quando si erano seduti in chiesa.

«Altro che non rispondere all’angelo riordinatore di sogni Pasiele... Caro Dino Salamè… buon Natale!» e Abacùc aveva iniziato a fissare il ritratto di San Michele posto sopra all’altare della chiesa. Aveva fatto così per tutta la durata della Santa Messa. Come fosse in trance.

«Stai bene?», gli aveva chiesto un po’ preoccupato Pasiele all’uscita.

«Mai stato meglio!», aveva risposto Abacùc con un sorriso strano. E si era sistemato il collo del giaccone con un gesto da attore consumato. Faceva freddino ed era ora di rientrare a casa, ma il ragionier Righetti, da vero signore, chiese se loro due avessero avuto voglia, per Santo Stefano, di pranzare a casa sua.

«Che bello, un invito!», aveva esclamato Pasiele.

«Praticamente, ragioniere, avrà capito che questa frase equivale a un sì da parte di noi due!», aveva aggiunto Abacùc, stringendo felice la mano di Mariano Righetti.

Sulla strada verso casa, Pasiele aveva ricordato ad Abacùc che avrebbero dovuto scrivere al buon Dio.

«Anche per fargli gli auguri di Natale.», aveva aggiunto timidamente.

«Fallo tu, io sono troppo stanco.», aveva risposto Abacùc che, appena entrato a casa, si era subito buttato sul letto, iniziando a fissare il soffitto, per rilassarsi.

Proprio come aveva scritto Pasiele nella lettera del 25 dicembre, alle ore 1:30 del mattino.

Era davvero stanco Abacùc. Sfinito. Si era concentrato così tanto durante la passeggiata in centro e poi in chiesa, fissando il ritratto di San Michele sopra all’altare.

Ma era inevitabile. Certe cose ti affaticano. Però ce l’aveva fatta.

E poi, lo sappiamo tutti che i giornali il 25 dicembre sono in edicola. È a Santo Stefano che i giornalisti e le rotative fanno festa. Abacùc era riuscito a organizzare tutto per tempo.

Continua

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Ida Verrei - Recensione

23 Ottobre 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #recensioni

 

“Peccaminosa

Di Sandro Capodiferro

Edizioni Libreria Croce

p.p.194

 

 

Recensione di

 Ida Verrei

 

…Sono entrata nelle cellule di uomo per vedere come sarebbe andata a finire e lui mi ha riprodotto all’infinito…(pag.10)

…Sono quel peso instabile e controverso, sono lo specchio del gioco perverso, sono la neve che le anime solca, ho solo un nome io, sono la colpa. (pag.194)

E la colpa, il vizio,  è il motivo dominante di questa silloge, una colpa letta secondo una prospettiva psicologica, il peccato come riflesso di esistenze strane e remote, quasi sospese in una sorta di sogno o incubo.

Sette donne, sette vite poste a contraltare l’una dell’altra, eppure lontane nel tempo e nello spazio, dall’inizio dell‘800 al secolo attuale, dall’Impero Ottomano, al Cile, passando per Europa e Stati Uniti; sette universi, sette percorsi di peccato e redenzione, destini che si intrecciano legati dalla sottile simbologia di una spilla che intride con delicatezza il tessuto dell’intera narrazione e veicola una carica emotiva che esplode in tutta la sua forza.

Peccaminosa di S.Capodiferro è un libro che racconta storie, ma che  soprattutto analizza viaggi interiori, scava nell’animo delle diverse figure femminili, ognuna delle quali incarna un vizio, un peccato, una delle sette P incise sulla fronte di Dante, in un purgatorio fatto di espiazione, riflessione e pentimento.

Abiti del male, li aveva definiti Aristotele; spiriti e pensieri malvagi, li considerava il primo Cristianesimo, causa e origine di tutte le azioni peccaminose. Non è così  per l’Autore: ogni peccato, ogni vizio capitale, è espressione della condizione femminile in epoche diverse; affreschi sociali, percorsi, episodi che riflettono mondi ed età lontani, ma con valori universali riconosciuti, appunto, nel momento del riscatto.

Sette i peccati e sette le storie.

Fatma (1809), l’accidiosa: “Qualsiasi cosa accada non voltarti indietro figlia mia. Non farlo mai…”(pag.11) E lei ubbidisce, si lascia trascinare dagli eventi, prigioniera dell’harem e della sua stessa inerzia; rinuncia alla bellezza, alla gioia, all’amore. Una non-vita, sino a condannarsi, infine, ad un triste destino di solitudine e romitaggio: “Passerò i miei giorni nell’attesa che qualcosa accada, spaventata dal solo pensiero che quel qualcosa possa trovarmi tragicamente viva…”(pag.33)

Emily (1854), superba e altera, che scopre nel riconoscimento dell’altro e del diverso la propria fragilità negata e ritrova un’autentica umanità;

E ancora: Ivette (1879) che  finisce col comprendere che “l’invidia è l’anestetico dei deboli. Disciolto in rabbia si inetta dritto al cuore dei propri limiti per non continuare a sentirne il dolore”(pag,86)

E poi Mirosalva (1919), la cui ingordigia diviene parossismo anoressico, che la travolge in un “balletto della morte”, nel tentativo di fuggire a se stessa: “Ho cercato di riempire negli anni il vuoto incolmabile nel quale ho sempre navigato…” (pag. 115) ;

E Allison (1947), trascinata allo sbaraglio e alla distruzione dall’ira.

 Conchita (1980), l’insolita suora  messicana, posseduta dalla brama di possedere, in “ un delirio di riservatezza e di avarizia nel quale nascondeva tutta se stessa, come a proteggersi dal mondo che la voleva sopraffare.” (pag.166)

E infine, Carmela (2007), la lussuriosa, forse la più forte delle figure femminili, quella che incarna il più oscuro dei peccati, ma anche il più seducente; il vizio che avvolge e sconvolge poiché cela abissi, voragini di dolore e solitudine. “Cercare di riempire quei vuoti con i sospiri avidi di tutti gli uomini che mi hanno avuta, è stato come ogni volta scavare ancor di più il fossato tra ciò che non ho mai avuto e ciò che avrei desiderato avere”. (pag. 191)

Storie di donne, abbiamo detto, ma i veri protagonisti sono: amore, distacco, speranza, delusione, rinascita. È  la suggestione delle emozioni e dei sentimenti che risolve la disperazione, la rovina, in una voglia  di riscatto catartico.  Il peccato, umanissimo, è descritto con una sorta di levità, quasi con reticenza. Peccati da compatire, da comprendere, poiché sempre viene riconosciuto il diritto di risalire, di risollevarsi dopo la caduta. Il gioiello che viaggia nel tempo e nello spazio è il simbolo di questo diritto.

Ancora una prova di abilità narrativa da parte di Sandro Capodiferro, un’ulteriore verifica della sua profonda conoscenza dell’universo femminile; un libro singolare che, sino dall’incipit, suscita turbamenti, ma sollecita anche alla riflessione, all’analisi e all’autoanalisi.

 

I.V.

 

 

 

 

Ida Verrei -  Recensione
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Ricordo di Ugo Riccarelli di B.O.Severini

11 Agosto 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #recensioni, #biagio osvaldo severini

Ricordo di Ugo Riccarelli

Premio Strega 2004

Biagio Osvaldo Severini

Ugo Riccarelli nacque nel 1954 ed è morto oggi, 22 luglio 2013. Ha vinto il Premio Strega nel 2004. Il romanzo premiato si intitolava “Il dolore perfetto”(Mondadori, 2004).

Il dolore perfetto è il dolore circolare, avvolgente, profondo, totale che invade corpo e anima e coinvolge emotività, sentimenti, ragione, sensi. Questo dolore non lascia zone d’ombra o vie di fuga. Ti scuote in tutto l’essere. E’ questo il pensiero dell’autore.

Il linguaggio del romanzo è asciutto, essenziale, concreto, aderente alla psicologia dei personaggi, al loro lavoro, al luogo dove vivono, alle idee che hanno, alla vita che conducono.

Lo stile è a volte acuminato, a volte dolce, a volte gioioso, a volte pittorico, a volte spietato.

La narrazione inizia dalle vicende esistenziali del Maestro elementare che parte da un paesino vicino a Sapri ( Salerno) e arriva in un paese della Toscana, arroccato anch’esso sopra una collina.

Siamo nell’Italia del 1861, subito dopo l’Unità. Il Maestro vuole insegnare a leggere, scrivere e far di conto a quel 95% di persone che è ancora analfabeta.

Il Maestro è anarchico ed è seguace delle idee di Carlo Pisacane che proprio a Sapri (1857) vide fallire la sua missione e vide massacrare i suoi seguaci dalle truppe borboniche: “eran trecento, giovani e forti e sono morti”, dirà il poeta risorgimentale Luigi Mercantini nella nota lirica “La spigolatrice di Sapri”.

Successivamente si incontrano altri numerosi personaggi, collegati direttamente o indirettamente agli avvenimenti della storia italiana.

La repressione operata dal generale Bava Beccaris delle agitazioni milanesi del 1898 e l’uccisione a cannonate dei popolani che chiedevano “pane!”.

E ancora, l’epidemia della “spagnola” (1918 – 1919). Non si era quasi neppure finito di contare i morti del I conflitto mondiale, che la febbre spagnola fece morire migliaia di altre persone, portando con sé anche spavento e disperazione.

L’ascesa dei fascisti al potere, anche nei piccoli Comuni, dove “le camicie nere costrinsero al silenzio gli ultimi oppositori con gli argomenti del bastone, delle minacce e delle purghe”.

E oppositori erano i socialisti, i comunisti, gli anarchici, i cattolici democratici, tutti definiti dai fascisti “traditori, cospiratori, infidi, sfasciatori dell’Italia”.

La caduta del Duce il 25 luglio 1943 e l’armistizio dell’8 settembre dello stesso anno.

Ma soprattutto si sottolineano le atrocità dei fascisti della Repubblica Sociale di Salò (1943 – 1945) con la connessa viltà di quelli che “se ne stavano chiusi in casa a lasciar morire libertà e compassione che ormai nessuno più conosceva”.

Arriva la campagna di Russia della II guerra mondiale e la disfatta dell’esercito italiano durante la marcia della morte bianca nella steppa “impietosamente ghiacciata, sferzata da un vento polare e stretta nella morsa del gelo”.

I rari superstiti italiani sopravvissero grazie alla “umanità degli Ucraini che li accolsero in casa e li curarono”.

Può sembrare un arido libro di storia e di politica. E’, invece, un romanzo pieno di umanità che mette in evidenza le conseguenze derivanti alle persone dai grandi eventi, soprattutto conseguenze drammatiche, tragiche, dolorose, attraverso le quali passarono e passano le storie personali, le quali poi sono le uniche che contano, perché sono esse che fanno la storia con le loro sofferenze, con le loro gioie, con le loro nascite e morti, in un continuo avvicendarsi. E’ il dolore perfetto della vita, che si chiede in se stessa.

Una nota finale dello scrittore si sofferma su un episodio particolare: la visita a una macchina del moto perpetuo. Un aggeggio che individui strani, forse degli utopisti, costruiscono per dimostrare che si può arrivare al moto perpetuo, nel senso che una volta dato l’avvio ad una ruota, questa poi continua a muoversi autonomamente, senza bisogno di un motore, cioè senza consumare energie.

E’ capitato anche a me, durante la mia fanciullezza, di assistere ad un esperimento sul moto perpetuo derivante da una ruota costruita da un personaggio del paese, che quasi tutti consideravano “stranulato”, che viveva in un suo mondo fatto di utopie, ed era, forse, felice così.

Quella macchina del moto perpetuo fece percepire allo scrittore “per la prima volta il senso dell’utopia, la vidi fatta dai fili, dalle ruote e dagli snodi di quel marchingegno”. Io rimasi semplicemente sorpreso.

La macchina del moto perpetuo e’ la metafora del dolore perfetto e della felicità ricercata e trovata nell’utopia?

E’ una sintesi imperfetta di un grande romanzo e il ricordo immediato, ma sentito, di un autore dal respiro europeo, che merita di essere letto o riletto.

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Un film di Natale: Colpi di fortuna

29 Dicembre 2013 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #cinema

Un film di Natale: Colpi di fortuna

Colpi di fortuna (2013)

di Neri Parenti

Regia: Neri Parenti. Soggetto e Sceneggiatura: Alessandro Bencivenni, Domenico Saverni, Volfango De Biasi, Nerio Parenti. Fotografia: Tani Canevari. Montaggio: Claudio Di Mauro. Musica: Produttore: Maurizio Amati, Aurelio e Luigi De Laurentiis. Casa di Produzione: Filmauro. Durata: 100’. Commedia. Interpreti: Paolo Kessisoglu, Luca Bizzarri, Fatima Trotta, Marek Hamsik, Christian Maggio, Christian De Sica, Francesco Mandelli, Pasquale Petrolo (Lillo), Claudio Gregori (Greg), Barbara Folchitto, Raffaella Carrà.

Neri Parenti e De Laurentiis festeggiano trent’anni di cinepanettone facendo il bis di Colpi di fulmine (2012), stesso cast e identica idea di fondo, solo che al posto dell’amore improvviso questa volta c’è l’inatteso colpo di fortuna. Tre episodi invece che due. Confermati: Christian De Sica, Greg e Lillo. Nuovi ingressi: Luca e Paolo, Francesco Mandelli. Colpi di fortuna non ha la stessa freschezza di Colpi di fulmine, ma è un buon film, un prodotto commerciale per niente volgare che cita a piene mani la vecchia commedia all’italiana e molto cinema internazionale. Vero che spesso le gag sono risapute, che certe situazioni comiche sono già state sfruttate all’inverosimile, ma è anche vero che l’episodio finale ripaga il prezzo del biglietto per freschezza e originalità. Vediamo in breve i vari segmenti.

Luca e Paolo sfruttano il cliché del biglietto vincente perduto, ma anche il motivo cinematografico della ragazza contesa tra due amici. Brava e bella Fatima Trotta, che se la cava a dovere, citando persino Laura Antonelli in una sequenza storica di Malizia. Christian De Sica è un fortunato e superstizioso uomo d’affari che deve superare la sfiga arrecata da un menagramo di professione. Francesco Mandelli, reduce da i soliti idioti, non è male nella parte di un surreale traduttore dal mongolo che sputazza, parla con la lisca e soprattutto porta male a chiunque si avvicini. Echi di Totò, lugubre iettatore nel pirandelliano La patente, se non altro per il modo di vestire. Mandelli ricorda anche Tomas Milian nelle diverse interpretazioni da mongolo nel corso della sua carriera, valga per tutte Delitto al ristorante cinese. Lillo e Greg sono due fratelli che si ritrovano a causa di un’eredità, il secondo è piuttosto strano, per non dire completamente matto, e viene dato in adozione al primo. Lillo è un ex ballerino di Raffella Carrà che si è ridotto a fare l’istruttore per anziani in una casa di riposo e fatica a mantenere la famiglia. Alla fine il fratello bislacco guadagna una fortuna per aver investito il denaro in azioni e realizza i desideri di tutti, persino quello di Lillo di ballare ancora con Raffaella. In questo episodio si citano Edward mani di forbice (Greg intaglia il giardino improvvisandosi artista) e Blow Up (partita di tennis immaginaria). Greg e Lillo sono stratosferici. Tempi comici perfetti, battute surreali, gag strampalate, personaggi sopra le righe. Insomma, per fortuna il regista ha messo il loro episodio alla fine del film, così lo spettatore esce dal cinema con un buon ricordo dell’intera pellicola. Resta la curiosità di vederli all’opera - prima o poi - in un intero film da protagonisti.

Molti critici hanno trovato puerili e scurrili i primi due episodi, ma non mi pare che abbiano colto nel segno. Parlerei - caso mai - di idee vecchie riciclate e di scarsa originalità, ma non ho notato pesantezza verbale né momenti di volgarità gratuita. Sono molto fastidiose le pubblicità indirette, soprattutto nel primo episodio, vero e proprio spot prolungato di un’azienda marittima che organizza crociere. Non è il solo sponsor del film, ma la presenza delle altre aziende è molto più discreta. Valga per tutte la Provincia Autonoma di Trento, che - come in Colpi di fulmine - è la location di numerose sequenze. La pellicola si è giovata anche dei contributi statali per il cinema culturale e obiettivamente non sembrano così giustificati. Un buon cinepanettone. Importante è che lo spettatore (o il critico) non entri in sala convinto di assistere a un film di Bergman.

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Nemesi

7 Febbraio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto, #valentino appoloni

Racconto molto carico, con termini duri che si susseguono (sputare, stuprare, graffiare), la violenza è esacerbata, oltre che appunto dai termini e ovviamente dalla brevità del testo, anche dal luogo domestico che si immagina ristretto e di cui si focalizzano solo alcuni punti (come l’angolo della stanza); nello stesso tempo la dialettica tra la presunta serenità della casa in cui si sta e di cui si pensa di avere controllo quasi totale (come sarebbe in un contesto di normale quotidianità) e il repentino e angosciante svolgersi dei fatti, ridisegna il luogo del proprio vivere assegnandogli una pesante nuova dimensione. Il tutto senza che la protagonista possa più intervenire, potendo ormai solo subire e avere un ruolo passivo .. Un racconto che non lascia indifferenti. (Valentino Appoloni)

Il primo è stato l’aspirapolvere. Ha sputato invece di inalare.

Poi la lavapiatti ha cominciato a opacizzare tutte le stoviglie. Poi un piatto nuovo nuovo è caduto giù dal pensile di taglio sopra il tuo piede. E l’albero è crollato un numero sospetto di volte con tutte le palle che si sono frantumate e tu lì a ricomprarle come una cogliona a metà prezzo che ormai mancavano solo tre giorni a Natale.

Poi c’è stato il robot e hai avuto la conferma. Ha staccato a bella posta un pezzo di battiscopa, l’ha trascinato sul parquet appena fatto rilucidare e, con un chiodo, ha rigato tutto il pavimento. In modo coscienzioso, chiaramente intenzionale. Ora le rigature si vedono bene, sembrano ghirigori di una mano inviperita.

Il parquet… il parquet dove è successa la cosa. È successa lì perché era il posto più illuminato e occorreva luce per rasare il pelo, per inserire la cannula dell’ago in vena. È successa lì ma non doveva succedere lì, doveva essere sul letto, nell’incavo del tuo braccio, come avevi disposto, immaginato. Ma la realtà ci stupisce, ci previene, ci prevarica. L’incavo del tuo braccio si è trasformato in un pavimento di legno mai abbastanza caldo. Le lacrime concepite c’erano, sì, anche tante, ma c’erano anche discorsi fuori luogo, convenevoli, mezzi sorrisi, e quel tentare di convincerti che è giusto così. Ti hanno dovuto chiamare persino perché ti eri allontanata, perché non eri dove dovevi stare, lì con lui, a stringerlo, a carezzarlo, ti eri arresa al fatto che le cose non stavano andando come avresti desiderato. E non lo hai abbracciato che dopo, quando la testa già ciondolava, quando gli occhi erano sbarrati, quando dalla bocca usciva sangue. Ma poco, non quanto avresti voluto e dovuto, non con quella rassegnazione, quella dolcezza sfinita e infinita che avevi avuto con gli altri, piuttosto con un senso di azione irrimediabile, crudele, fredda. Col senso di rendertene conto solo a cosa conclusa, col senso di non essere in pace con la tua coscienza, di voler riportare le lancette indietro di un’ora e non farne più nulla.

Ti sei chiesta se lo hai fatto perché ormai era programmato, perché il veterinario aveva guidato per mezz’ora col tempaccio, perché non ce la facevi più a reggere l’agonia dell’incertezza, perché subentra un egoismo per il quale vuoi che tutto finisca, perché c’era da fare l’albero di Natale e venivano i parenti e tu, ancora, non avevi comprato nessun regalo.

È morto incazzato, ringhiando fino all’ultimo istante. Così, poi, di certo te l’ha fatta pagare, anche se ti ama ancora, anche se gli hai chiesto perdono mille volte. Perché di te si fidava come di nessuno, perché eri stata tu a salvarlo, ad allattarlo, perché non voleva morire anche se soffriva, perché voleva rimanere ancora abbracciato con te su quel letto e ti aveva messo la testa nella mano e si era pure sforzato di alzarsi, di mangiare, ti aveva fatto le fusa.

Ecco, da allora, le cose hanno cominciato a ribellarsi, a vendicarsi, si sono arrabbiate. La punta aguzza di uno sportello ti si è conficcata nella caviglia come l’ago nella vena, il mouse saltella e cerca di sfuggirti come lui per tutta la casa mentre lo rincorrevano con la siringa e, alla fine, il robot si è incaricato di stuprare il pavimento.

Sì, forse qualche rumore strano lo avevi sentito, forse c’era stato il suono dell’allarme quando un oggetto rimane incastrato fra le ruote e magari potevi anche alzarti e andare a vedere cosa succedeva. Ma non l’hai fatto, non ti sei voluta accorgere, ti sei tenuta a distanza anche lì. E così quel chiodo del battiscopa non era più fra le ruote (zampe?) del robot, ma era come fosse fra le tue dita, stretto fra i tuoi polpastrelli, a graffiare e rigare e incidere.

E vendicare.

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