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Cerca risultati per “giovanna strano”

Andrea Vivaldo, "Moby Prince, la notte dei fuochi"

15 Ottobre 2017 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni, #il mondo intorno a noi, #vignette e illustrazioni

 

 

 

 

Moby Prince la notte dei fuochi

Andrea Vivaldo

Becco Giallo, 2010

 

Primo saggio-inchiesta a fumetti in cui mi imbatto e che segnalo con molto piacere. Basato sul libro di Fedrighini che nel 2006 fece riaprire dopo 25 anni di silenzio e sentenze indegne il caso del Moby Prince, che non è uno tra i tanti incidenti marittimi della cronaca, bensì il più grande disastro della Marina Civile italiana ma soprattutto entra di diritto insieme ad Ustica nel novero dei "misteri italiani". La notte del 10 aprile 1991 il Moby Prince salpa dal porto di Livorno, rotta per Olbia. Ancora in rada urta la petroliera Agip Abruzzo che le riversa addosso cascate di petrolio (o nafta? Una delle tante cose mai chiarite) incendiandola. Da subito i soccorsi si muovono solo per la petroliera il cui equipaggio verrà tratto in salvo mentre i 140 tra passeggeri ed equipaggio del traghetto moriranno carbonizzati o asfissiati da ore di esalazione di monossido di carbonio. L'inchiesta chiusa frettolosamente in 11 giorni dirà che la nebbia e la negligenza del Comandante Chessa, che guardava la Juve in TV invece che pilotare il traghetto, hanno causato la tragedia. In realtà, a parte che filmati d'epoca mostrano una notte tersa, vi saranno in successione una serie di depistaggi e strani incidenti: scompare la scatola nera del Moby Prince, brucia a tre giorni dall'incidente il registro di bordo dell'Agip Abruzzo, non si conoscerà mai con esattezza il ruolo e il numero delle navi in rada quella notte né il ruolo della base americana di Camp Darby lì vicino. L'unico superstite, il mozzo, non darà mai una chiara versione dei fatti, è l'unica VHS integra di un passeggero ritrovata verrà manomessa. E su una di quelle navi indagava Ilaria Alpi che 3 anni dopo avrebbe trovato la morte in un attentato col collega Hrovatin in Somalia. Cosa è davvero successo quella notte e che connessioni ha con altri "misteri d'Italia"? Non lo sapremo mai temo, ma opere come questa servono soprattutto, oltre che a divulgare, a "tappare i buchi" di una giustizia e uno Stato assenti per troppo tempo.

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Virginia Bramati, "Tutta colpa della mia impazienza" (e di un fiore appena sbocciato)

17 Ottobre 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

 

Tutta colpa della mia impazienza (e di un fiore appena sbocciato)

 Virginia Bramati

Edizioni Giunti, 2017

 

Agnese Treves ha diciannove anni e si sta preparando per gli esami di maturità.

La sua vita, nell’ultimo anno, ha subito una brusca virata. La mamma, insegnante di scuola superiore, è morta lasciando nel cuore della ragazza e del dottor Treves – suo padre, ricercatore medico capace e conosciuto – un grande vuoto. Dal centro di Milano, i due si sono trasferiti in una zona di provincia, in una zolla di terra sita quasi in piena campagna. Treves senior ha preso, infatti, una decisione importante: da rampante scienziato di città a medico condotto lontano dallo scintillante ambiente milanese. Forse, per una sorta di espiazione, sapere di essersi relegato in un angolo della Terra lo rende meno schiavo del dolore. In tutto ciò, però, non ha tenuto in considerazione la figlia.

Agnese, negli ultimi mesi, ha fatto l’abitudine alla solitudine, agli amici persi, al lungo tragitto da fare per la scuola (ha deciso di continuare nello stesso istituto che frequentava prima di trasferirsi, quindi ha imparato a conoscere le gioie dell’essere pendolari); adesso, però, gran parte dei sacrifici sta per terminare.

Adelchi la aiuta a superare questo periodo un po’ strano, certamente difficile. Anche lui ha perso un genitore, li unisce quindi un legame particolare: i due ragazzi sanno cosa vuol dire soffrire, sanno quanto la vita può essere ingiusta. Lo sanno e si tengono compagnia.

Agnese è un po’ confusa, comunque il suo caratterino le permette di affrontare tutto ciò che accade di petto.

Ma suo padre non ha finito con le sorprese. Pochi giorni prima degli orali, si trasferisce per eseguire alcuni studi. Al suo posto arriva un uomo sui trentacinque anni, Marco Aleardi. È bello come il sole ad agosto ma è inavvicinabile; segreti oscuri minano il suo sorriso.

Agnese è coraggiosa, tenace. Ha il fuoco, in quel suo corpo minuto, esile. Difende ciò in cui crede con le unghie e con i denti. Marco rimane subito stregato da quella ragazzina. Anche Agnese lo guarda con fin troppo interesse. Entrambi sono testardi, non cedono presto.

Questa è una grande storia d’amore. Una grande storia d’amore che cresce piano, matura con calma.

Una storia d’amore che ha anche un po’ di nero, un risvolto oscuro. Una storia d’amore che non terminerà.

Virginia Bramati è un’ottima narratrice, è attenta ai dettagli e molto scrupolosa. Ci permette di entrare nel suo mondo, nella sua mente. Ce lo permette e noi ne siamo ben felici.

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Daniele Vacchino e Davide rosso, "Ritualis. Le cerimonie del mostro di Firenze"

4 Novembre 2017 , Scritto da Davide Lupo Con tag #gordiano lupi, #recensioni

 

 

 

 

 

Ritualis

Le cerimonie del Mostro di Firenze

Il Foglio Letterario Edizioni, 2017 – www.edizioniilfoglio.com

Pag. 170 - Euro 15 – ISBN 978887606525

 

 

Ritualis - Le cerimonie del Mostro di Firenze è uno strano romanzo: costruito su due romanzi all’apparenza indipendenti, legati fra loro da una cornice che sa tanto film a episodi della Amicus degli anni Settanta. Il cinema in effetti c’entra parecchio con questo libro, vista l’aria che si respira, direi direttamente collegata con quelle oscure pellicole gialle italiane degli anni Settanta, in particolare quei gialli minori, tipo La polizia brancola nel buio o I vizi morbosi di una governante. A queste derive si uniscono le mode di oggi, in particolare quei post-thriller rurali sul genere di True Detective. Eppure, anche questi riferimenti non bastano a spiegare un romanzo che contiene dentro di sé l’essenza del mostro, più di tutti i libri che sono stati scritti sull’argomento (eccetto i volumi labirintici di Filastò, non a caso citato nell’esergo dai due autori): vedo già le mani alzate dei tanti criminologi dilettanti appassionati del caso, li vedo storcere il naso per come la vicenda originale è stata trasfigurata (ad esempio il tutto è ambientato tra la Lunigiana e la pianura Padana, nel vercellese, una sorta di non-luogo della tarda modernità). È necessario capire una cosa: Ritualis è un romanzo che lavora sulla cronaca fiorentina e la trasfigura, facendola assurgere a un mito oscuro, orfico, della contemporaneità, al pari della vicenda di Jack lo squartatore, mostro mitologico utilizzato all’interno di format narrativi che lo accoppiano con tutto e tutti. Allo stesso modo, Vacchino e Rosso lavorano di fino su questi brandelli d’incubo e scrivono una sorta di requiem su di noi, ciascuno di noi, sulla tristezza e l’alienazione dell’oggi. In definitiva, al di là delle citazioni cinematografiche, e delle tante letterarie (interessante il tentativo di costruire delle equivalenza narrative col thriller che fu, ricorrendo a lunghi prelievi dai testi dei padri fondatori del surrealismo), questo Ritualis mi è parso una sorta di Tenebre argentiana, aggiornata trent’anni dopo, calata all’interno delle macro-strutture totalizzanti, dove l’ideologia della competitività e della prestazione va ormai ben oltre la sfera economica e invade la biologia del corpo, trasformandoci in avatar del consumo eterno, costretti a rincorrere un duro lavoro che può garantirci soltanto una sopravvivenza fittizia, una povertà reale, un’assenza d’identità e una depressione magari curabile in qualche campo di addestramento alla felicità di Amazon. Questo è Ritualis e molto altro ancora!

 

Davide Lupo

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Neil Gaiman, "Coraline"

28 Gennaio 2018 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #vignette e illustrazioni

 

 

 

 

 

Coraline

Neil Gaiman

 

Adattato e ilustrato da P. Craig Russell

NPE  - Euro 12 – pag. 186

www.edizioninpe.it

 

 

Avevamo già visto il film Coraline e la porta magica (2009) di Henry Selick, candidato all’Oscar come miglior pellicola di animazione, basato sul romanzo di Neil Gaiman, quindi conoscevamo la storia che in parte si discostava dal testo narrativo, arricchendolo di personaggi e situazioni. La versione a fumetti non aggiunge novità sensibili, toglie il bambino amico e conserva il gatto nero, ma la vicenda è identica, con una ragazzina intraprendente e sognatrice come Coraline, costretta a vivere in una villa solitaria, soprattutto a fare i conti con i demoni della sua mente - reali o immaginari non è dato sapere - e con genitori alternativi che vivono in una dimensione parallela, oltre una porta magica. Una storia fantastica, a tinte horror, una fiaba nera dove la strega della situazione sfoggia bottoni al posto degli occhi e chi viene catturato si trova a subire identica terribile operazione oculistica. Un fumetto (un film, un romanzo) strano, bizzarro, spaventoso, ma forse il linguaggio del graphic novel stempera la parte horror che nel cartone animato in 3 D era più evidente. I disegni di Craig Russell sono molto classici, come sono classiche sceneggiatura e suddivisione in vignette; suggestivo il colore di Lovern Kindzierski, con un sottofondo rosso porpora dal taglio horror. Storia ben tradotta per NPE da Annunziata Ugas e Smoky Man. Edizione in carta lucida, formato libretto tascabile, molto curata, prezzo economico, considerato che il pocket è tutto a colori, inoltre va pagato un traduttore e i diritti di acquisizione non devono essere stati uno scherzo. NPE è un piccolo grande editore che sta facendo cose buone nel campo del fumetto, tra ben ponderate ristampe di classici italiani e azzeccate novità internazionali. Forse un recupero fumettistico manca all’appello nel quadro editoriale: la produzione Bianconi degli anni Sessanta, primo tra tutti il Braccio di Ferro di Sangalli, un tempo tradotto in tutta Europa. Noi la buttiamo lì come idea. Hai visto mai?

 

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Tre romanzi di Margherita Musella

14 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Tre romanzi di Margherita Musella

"Ci beviamo un caffé", "Ci vuole poco, anzi niente" e "Non dimenticare di essere felice" sono tre romanzi di Margherita Musella per le dizioni Kimerik.

"Ognuno viene al mondo per accumulare esperienza e imparare ad affrontare i problemi, sconfiggendo la paura.”

Credo che questa sia la filosofia di vita di Margherita Musella.

I suoi tre libri sono un crescendo di situazioni e migliorano anche come stile. Se il primo, “Ci beviamo un caffè”, ha delle incertezze, come se l’autrice si presentasse in punta di piedi e si chiedesse: “Ma, davvero, io posso scrivere?” il secondo denota una presa di coscienza anche personale. Questo è il mio stile, dice Margherita, questa è la mia voce, queste sono le cose che io ho da dire.

Già nel secondo libro lo stile sale di tono. Il terzo, poi, ha un linguaggio pulito e sobrio, che ti fa vivere con semplicità emozioni e situazioni Il personaggio di Carlo, un ragazzino vittima di bullismo, è il più letterario dei suoi. Ed è strano come, proprio un personaggio maschile, per il quale l’autrice sente di non essere portata, sia invece, a detta di tutti, il più riuscito. Nessuno, più di Margherita, sa descrivere la sensazione di precipitare in un gorgo senza uscita, quando, giorno dopo giorno, scendi sempre più, avvolto nelle spire di qualcosa da cui non ti puoi liberare. Fino a toccare il fondo, fino alla disperazione.

Ma disperazione è una parola che Margherita non accetta.

E lì nasce lo scatto, la risalita, la rinascita.

Il pensiero di Margherita è supportato anche da letture e studi. Lei sa che non tutti accettano il suo credo positivo e pieno di speranza, ed è pronta a subirne le conseguenze, il martirio intellettuale e sociale, e ad amare chi la disprezza.

Margherita ha un viso mutevole, che rispecchia il fluire delle sue emozioni, è una persona che è facile ferire ma che sa accettare la sofferenza meglio di chiunque altro.

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Ida Verrei: Un principe tra i rifiuti

11 Maggio 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #racconto

Ida Verrei: Un principe tra i rifiuti

È altero, superbo, elegante. Evoca grandi distese marine; onde increspate punteggiate di un bianco  indolente, adagiato, cullato; cieli limpidi solcati da ali spiegate come vele; lidi immacolati della Costa Azzurra o imponenti scogli della Riviera Ligure; bianche scie di pescherecci o di aliscafi per isole-sirene.

 

 È libertà, sogno, leggerezza.

 

Richiama il verso del poeta:

Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro,
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
… (V.C.)

 

E ora è qui, quasi un miraggio, una strana creatura nella luce accecante di un pomeriggio d’inizio estate.

La bianca livrea sfuma nel grigio, e poi nel nero della coda; le zampe sottili di un giallo intenso, come il lungo becco che termina con un piccolo triangolo rosso. È immobile, fermo sul bordo del contenitore per rifiuti posto al lato della piazza.

C’è silenzio tutto intorno; le panchine sotto le acacie, occupate da qualche anziano che sonnecchia; i tavolini del bar, semivuoti. La saracinesca del Supermercato è abbassata.

Un breve strido, tre o quattro colombi si staccano dai rami, sbattono le ali, atterrano ai piedi del bidone, si fermano col capino alzato. Lui si volta lento, abbassa la testa, guarda dentro la pattumiera, vi immerge il lungo becco.

Oddio… ora insozzerà la sua bianca livrea… no… rialza il capo: nel becco un pezzo di pane; guarda giù, lo lascia cadere sui basoli sporchi. Poi ne raccoglie un altro, e un altro ancora; i suoi movimenti diventano convulsi. I piccioni si avventano famelici sui resti, piluccano in fretta. Per terra, accanto al bidone, c’è di tutto: pezzi di pane, di frutta, pasta e chissà che altro.

Lui ora è di nuovo immobile, guarda giù. Un altro strido, e dai tetti, dagli alberi, arrivano altri colombi. Dieci, venti, trenta. Non riesco a contarli,  una marea scura in movimento.

Lui apre le ali e spicca un breve volo. Si poggia su un cartellone pubblicitario, al lato opposto della piazza. Guarda verso la macchia grigia che ondeggia.

Poi, con grazia, lieve, si libra verso l’alto, le ali spiegate, tutt’uno col corpo agile e sottile. Va, si perde tra il biancore e l’azzurro, verso il mare.

 


 

 

 

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La mamma dai capelli marroni

5 Dicembre 2018 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #le suggestioni di franca

 

 

 

 

Oggi, mentre stavo facendo la spesa, assorta nel difficile compito di scegliere che tipo di pasta comprare, mi sono sentita sfiorare delicatamente la gonna. Una bambina bionda con due grandi occhi scuri, pieni di lacrime, mi guardava silenziosa. Per un attimo ho pensato ai soliti mezzucci che usano gli stranieri per elemosinare qualche spicciolo, ma, in un attimo, ho colto il reale terrore nello sguardo disperato di quella piccina. Mi sono chinata verso di lei e, con calma, dolcemente, le ho chiesto “che cosa succede piccola?”. “Ho perso la mamma!” mi ha risposto e a quelle parole le lacrime trattenute sono scoppiate in singhiozzi. Ho preso la sua manina e ho cercato di tranquillizzarla "la mamma ti starà sicuramente cercando, ora l’aiutiamo a trovarti, vuoi dirmi di che colore ha i capelli la tua mamma?” .“La mia mamma ha i capelli marroni…” mi ha detto in un sospiro. Allora per cercare di rassicurarla, tenendo stretta  la sua manina nella mia,  mi sono avviata lungo i corridoi, tra gli scaffali, sorridendo a tutte le signore che incontravo e chiedevo “avete visto una mamma coi capelli marroni?”. Mentre ci stavamo avvicinando alla cassa per chiedere di fare un annuncio, una signora è arrivata correndo: era la mamma, e la bambina mi ha lasciato in fretta per correre tra le sue braccia. E’ durato meno di un attimo il piacere di stringerla a me, di farle una carezza e di sentirmi ancora una volta come la lupa che protegge i suoi piccoli, poi mi sono guardata  allo specchio, i miei capelli hanno venature d’argento: è passato  ormai il tempo in cui anch’io ero una mamma dai capelli marroni. La nostalgia è una condizione strana, ti fa cercare tra vecchie fotografie le ore perdute e lì, in fondo al cuore, al confine con l'anima, scrive a caratteri cubitali la tua solitudine, quasi fosse una conquista, mentre gli occhi si vestono di rugiada.

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Carla Magnani, "L'ombra del vero"

17 Aprile 2019 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

 

 

 

 

Carla Magnani
L’ombra del vero

Le Mezzelane Editrice, 2019

Euro 13

L’ombra del vero racconta la storia di Anastasia, una donna di 42 anni, in piena maturità fisica e intellettuale, che vuol decidere il suo destino con il suicidio, perché non crede di essere in grado di affrontare il dolore che in futuro le si presenterà davanti. Per questo fissa la data esatta in cui finalmente la farà finita, anche se è una donna realizzata, ha un marito e due figlie, un padre che vive alla sua ombra, una sorella quasi alle sue dipendenze e un fratello che si è fatto prete. La protagonista decide il giorno perfetto per mettere in scena un finto incidente automobilistico, costruito così bene da non far capire a nessuno che invece si tratta di un suicidio. L’auto esce di strada in curva, ma il destino ci mette una toppa, o meglio, si mette di mezzo e non permette di compiere il gesto estremo. La macchina esce di strada ma la donna non muore, si ritrova paralizzata in terapia intensiva, non vede ma sente tutto, è in coma ma è perfettamente cosciente. Il romanzo si sviluppa nella stanza della clinica, dove si avvicenda varia umanità: infermieri, familiari, una caposala … c’è chi parla con la degente sperando di farla rianimare, altri dicono cose di diverso tenore, si lasciano andare a considerazioni anche fuori luogo. La donna sente molte cose che sarebbe meglio non sapere, tutto questo aumenta la sua sofferenza, fino a quando non decide di organizzare una sorta di dizionario, ogni parola sentita finisce per evocare un momento della sua vita. L’ombra del vero narra il male di vivere di montaliana memoria, è una lettura a tratti sofferente, da thriller sentimentale, terapeutico, affronta un tema complesso come la paura della morte e il timore della perdita degli affetti. Scritto in prima persona, risulta rapido e avvincente, consente l’immedesimazione totale tra lettore e protagonista, anche se non può contare sul dialogo ma solo sulle considerazioni che la degente ascolta. Il romanzo basa molta della sua forza narrativa sulle efficaci descrizioni della natura che costituiscono una parte importante dell’intera opera, impostata sul tentativo di recuperare ciò che eravamo, in una specie di strano gioco che tenta di risalire ai giorni perduti della nostra infanzia.

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Ciribiribì Kodak

18 Ottobre 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo, #televisione

 

I giovani d’oggi non possono capire l’emozione che provavamo noi quando, al ritorno dalle ferie, magari quindici giorni dopo se avevi avuto da fare, finalmente ritiravi la busta che conteneva le fotografie delle vacanze. E balzavi magicamente indietro, ai luoghi e agli istanti che ti eri lasciato alle spalle.

Tiravi fuori ventiquattro stampe se eri in ristrettezze, o trentasei quando volevi abbondare e la meta del viaggio meritava. Certo non sprecavi gli scatti per farti selfie idioti o per immortalare la brioche del bar o il piatto di spaghetti del ristorante. Ogni fotogramma era una scoperta e fissava per sempre un momento irripetibile.

Negli anni settanta, ricordo, venne di moda la Polaroid, che stampava immediatamente ciò che avevi fotografato su pellicole auto sviluppanti. Ci sentivamo moderni a possederla.

Mio padre era uno che amava stare al passo con i tempi e con le novità. A un certo punto in casa comparve un piccolo visore, il View- Master. Ci mettevi dentro degli strani dischetti doppi e le foto apparivano tridimensionali.

E la pellicola su cui stampare era sempre Kodak.

Fino agli anni novanta è girato uno spot con un simpatico alieno dotato di telecinesi che faceva foto ricordo e le voleva impresse rigorosamente su carta Kodak, parlando una lingua tutta sua.

Ciribirbì Kodak, diceva.

Era interpretato da Davide Marotta, attore napoletano affetto da nanismo, famoso per aver lavorato con Fellini e Dario Argento.

Erano anni in cui la fantascienza ancora tirava e gli spot erano girati con lo stesso piglio di film leggendari come Atto di forza (di Paul Verhoeven), senza tanti effetti speciali ma ugualmente evocativi. Bastava una valigetta, lo schermo di un computer, qualche modellino di astronave e sognavi a più non posso.

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Aldo Dalla Vecchia, "Amerigo Asnicar"

20 Febbraio 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #televisione, #recensioni, #racconto

Aldo Dalla Vecchia, "Amerigo Asnicar"

Amerigo Asnicar, giornalista

Aldo Dalla Vecchia

Murena editrice

pp 75

10,00

Questo è il quarto libro di Aldo Dalla Vecchia ed è, a mio avviso, il più originale, perché mescola il giallo – a dire il vero un giallo elementare - all’ambiente che l’autore conosce per averlo frequentato da sempre e di cui trattano anche le sue opere precedenti, vale a dire il mondo della televisione Mediaset.

Dalla Vecchia costruisce un personaggio di giornalista investigatore, tagliandolo su se stesso, sulla sua professione, sui suoi interessi, addirittura sulle sue frequentazioni. I tre racconti che propone, infatti, hanno per protagonisti, non solo caratteri inventati, ma anche persone in cane ed ossa, amici dell’autore che sono, poi, famosi e conosciuti nel mondo dello spettacolo e del jet set milanese, da Cristiano Malgioglio a Mara Maionchi, a Paolo Mosca etc.

Aldo disegna se stesso in un habitat che è, allo stesso tempo, reale e parodistico. I personaggi sono attori, modelle, autori televisivi, persone ritratte senza sconti, senza paura di far nomi e cognomi, ma con sarcasmo bonario e gentile. C’è molta satira dell’ambiente, ma è fatta da dentro e con indulgenza. Le storie fanno riferimento all’attualità, necessitano di una lettura non differita, come il terzo racconto che si svolge durante l’Expo di Milano.

La scenografia e i personaggi, a partire dal protagonista - con quel cognome che sa tanto di anagramma ma è solo tipicamente veneto - ricordano le figure dei fumetti anni settanta, tanto amati dall’autore, a partire dal Corrierino dei piccoli, da cui Amerigo Asnicar sembra saltato fuori, pur essendo, come abbiamo detto, Aldo stesso, con le sue abitudini, l’amore per il burraco, il cane e il gatto, l’appartamento in una Milano “amatissima”, persino con un pizzico d’introspezione struggente.

a casa sua ero stato tante volte, e ci arrivai a piedi in pochi minuti anche quella sera d’autunno limpida e tiepida, con una sensazione strana indefinibile che non era semplice dispiacere, non era ancora dolore , ma aveva già i contorni nebulosi, il sapore acre , l’odore pungente della tragedia.” (pag 9)

Da questo mix di giallo meneghino e luccichio patinato da jet set, escono delle storie godibili, simpaticissime, divertenti e al passo coi tempi, da leggere man mano che usciranno – perché si preannuncia già una serie.

Lo stile è quello solito di Dalla Vecchia, elegante, colto. Lui stesso è un misto di educazione, cultura, umiltà e leggerezza perbene. È osservatore partecipe ma sottilmente critico di un ambiente fatto di gossip, di apparenza e, forse, di un briciolo di solitudine, un ambiente che lui adora, che comprende a fondo e al quale non rinuncerebbe per niente al mondo.

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