Overblog
Segui questo blog Administration + Create my blog
signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

biagio osvaldo severini

LA MAGICA AVVENTURA DELLA LETTURA DI Biagio Osvaldo Severini

19 Luglio 2014 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #biagio osvaldo severini, #recensioni

LA MAGICA AVVENTURA DELLA LETTURA DI Biagio Osvaldo Severini

La magica avventura della lettura

B.O. Severini

Pubblicazione Pensiero Critico

Titolo suggestivo e ambivalente quello del libro di B. O. Severini che, soffermandosi sul piacere della lettura nella virtuale intervista a Giuseppe Pontiggia con cui ha inizio il libro, coglie e ci trasmette il senso più vero dello scrivere e del leggere, che consiste nel modo più alto di far letteratura. Cioè, cogliere il nesso con le cose essenziali che ci riguardano. “Lo scrittore autentico non sia mai distaccato dallo sfondo collettivo e nello stesso tempo cerchi in una terra incognita il punto d’incontro con se stesso e con gli altri”. Con gli altri il punto d’incontro avviene proprio attraverso la lettura. “Leggere nel presente come ascolto dell’interiorità, come dialogo con l’autore e con se stessi”. “Leggere è un viaggio di scoperta, oltre che un piacere, una felicità che è legata a quell’incontro tra conoscenza e linguaggio, che io chiamo stile”.

Dunque già questo aiuta a tracciare un profilo dell’uomo, del professionista, dello scrittore Severini, e del tenore del suo libro.

Immagino di entrare in una sua piccola biblioteca per trovarvi il lettore serio e appassionato ma anche per scoprirvi l’uomo, anzi l’uomo che legge perché io, come tutti voi, possiamo guadagnare le conquiste a cui approdano le sue letture.

Questa piccola biblioteca è formata da ben 12 “affondi” in altrettante opere letterarie che costituiscono la seconda sezione del volume, intitolata Letteratura e società, opere che, come si diceva poco fa, hanno come sfondo la collettività come occasione di analisi di situazioni apparentemente autobiografiche, e hanno come riflesso lo spessore del ricercatore, di colui che compie il viaggio di scoperta attraverso la lettura.

Partiamo con l’analizzare alcune recensioni di Severini.

“Il dolore perfetto” è il titolo del romanzo di Ugo Riccarelli vincitore del Premio Strega 2004.

Perfetto, aggettivo dal lat. perfĕctu(m), part. pass. di perficĕre ‘compiere’, comp. di pĕr, indicante compimento, e facĕre ‘fare’, significa: completo, compiuto in tutte le sue parti: un lavoro p.; totale, assoluto: un silenzio p., che non presenta imperfezioni, che è esente da mancanze, un compito perfetto.

Dolore perfetto è allora un dolore totalizzante che investe tutto l’essere che è presente quando su scenari di guerra e di morte scompare perfino la pietà, la compassione. Così scrive lo scrittore Riccarelli a proposito delle atrocità dei fascisti della repubblica sociale di Salò (1943-45) “se ne stavano chiusi in casa a lasciar morire libertà e compassione che ormai nessuno più conosceva”. Risuonano nell’animo le tremende parole di Ecuba nelle Troiane di Euripide, quando grida ai Greci che stavano per compiere l’eccidio di Troia e l’infanticidio del piccolo nipote Astianatte: “Ma voi, Achei, il cui vanto sono più le armi che il cervello, perché vi siete macchiati di un delitto tanto mostruoso? Per paura di un bambino? Cosa potrebbe scrivere un poeta sulla tua tomba? Qui giace un bambino, ucciso un giorno dagli Achei, per paura. Che vergognoso epitafio per l'Ellade!”

Lo scenario dei focolai attuali di guerra dichiarano proprio questo: perfino le guerre si sono disumanizzate, visto che la furia devastatrice non tiene conto più né della popolazione civile né dei bambini, né delle donne. Tutti sono inorriditi per le atrocità commesse nella ex Yugoslavia, in Iraq, in Afganistan, in Siria, in Palestina. Un destino senza scampo, un mondo senza scampo. Eppure in Riccarelli, sostiene Severini, è presente l’utopia nella metafora del moto perpetuo che egli si trova ad osservare in una macchina ingegnosa tesa a dimostrare che una volta dato l’avvio a una ruota questa poi continua a muoversi autonomamente, senza bisogno di motore. Come a dimostrare che, nonostante tutto, la speranza è che la vita prevalga sempre e comunque. Non dello stesso parere il nostro Severini che -racconta- dinanzi a un marchingegno rudimentale osservato nella sua infanzia, una ruota che vagamente riproduceva il fenomeno del moto perpetuo, rimase semplicemente “sorpreso”. Come a voler sottolineare che la sorpresa non contiene necessariamente la speranza. Secondo me no, la sorpresa può non contenere la consapevolezza di una realtà (difatti si rimane sorpresi), ma non è detto che tale realtà non possa esistere.

“L’ultima estate”. Sinteticamente Severini annota di questo libro: è la narrazione di una vita mentre sta per svanire. Egli ha letto per noi e ci trasmette come in una serie di diapositive la scoperta del male, la SLA, sclerosi laterale amiotrofica, la coscienza della progressione della malattia, l’onda dei ricordi che assale l’autrice, Cesarina Vighy, il tutto sopportato dalla donna con grande equilibrio, garbo, perfino ironia che non riescono tuttavia ad eliminare i sensi di colpa per il non fatto, per gli errori compiuti e infine per non aver saputo resistere alla tentazione di scrivere un “romanzetto” della propria vita. Il nostro autore nota che l’ironia non abbandona mai la protagonista e insieme autrice del romanzo mentre percorre i labirinti delle sue cure “fantasma”. Neppure alla fine, quando tenta di dare risposte plausibili a domande impossibili. Anzi l’autrice conclude proprio con il consiglio di farsi venire o coltivare il senso dell'ironia anche in situazioni estreme, l’unico antidoto alla disperazione. Ma il nostro lettore illustre si chiede se sia possibile ciò e se sia valido per tutti questo rimedio e con una partecipazione emotiva commovente si chiede: che ne sarà in questo momento della narratrice? (morta nel maggio 2010 a Roma)

“I frutti dimenticati” di Cristiano Cavina

Una metafora che utilizza i frutti dimenticati o trascurati nell’orto, frutti spontanei, di forme diverse e colori diversi, dolci o asprigni che si accompagnavano alla fanciullezza dei nostri paesi e delle nostre campagne. Come loro si sente il bambino Cristiano, abbandonato dal padre, mentre cerca di ricostruire la sua identità osservando la somiglianza delle fattezze nei visi di quattro bisnonni di cui ha trovato le fotografie per caso, frugando nel cassetto delle cianfrusaglie. Poi la sua infanzia, la sua giovinezza fino al giorno in cui una misteriosa voce si fa viva, la voce del padre morente in ospedale. Il primo contatto è di rifiuto, di ribellione di accusa: dove sei stato finora? Ma insieme all’odio monta anche la compassione per quell’uomo che sta per abbandonare la vita che si condensa nell’esplosione della parola Papà. Poi l’autore del romanzo traccia quasi un elenco di tutte le pratiche e i sussidi farmacologici a sostegno di un malato terminale di tumore. A questo punto l’autore del nostro libro si chiede se sia utile infliggere a un malato così grave tante afflizioni e umiliazioni in un ambiente estraneo o se invece i frutti dimenticati non siano tutti quei valori che venivano coltivati nelle famiglie di un tempo, innanzitutto il sostegno famigliare, non ancora schiavizzate dalla frenesia moderna e dalle sue tristi conseguenze. Tuttavia il protagonista del romanzo sostiene che rimpiangere il passato non serva e quindi decide di colmare la mancanza della figura paterna con la totale dedizione al figlioletto grazie al quale scopre il dono della paternità. La suggestiva e realistica tesi del bambino padre dell’uomo?, ci chiede Severini. E incalza con altre domande.

Ma è possibile nella società moderna che questo avvenga sempre o basta un’adeguata surrogazione, in contrasto con la tesi di Cavina che ritiene sia indispensabile il padre biologico, con funzioni anche psicologiche, nella formazione del figlio? Con una punta di polemica, Severini fa notare che il nostro narratore è venuto su proprio bene nonostante l’assenza del padre biologico.

Seconda osservazione di Severini: la difesa del paese natio da parte dell’autore sta ad indicare il rifiuto della globalizzazione che depersonalizza e la difesa della diversità come fonte di arricchimento culturale? In ogni caso il romanzo gode di un giudizio più che positivo anche per la prosa controllata e avvincente, a tratti poetica.

Per ragioni di tempo sono costretta a tralasciare gli altri titoli della sezione e a lanciarmi con volo neppure troppo pindarico su un articolo della parte terza Cultura ed educazione dal titolo Difesa del somaro a scuola.

Perchè abbia scelto proprio questo vi chiederete. Ebbene innanzitutto sorpresa dalla gustosa discettazione di Biagio Severini sui motivi che spingono a donare libri in occasioni “festose”, poi per l’importanza rivoluzionaria direi del contenuto.

Una pagella scolastica disastrata appare sulla copertina di Diario di scuola dello scrittore francese Daniel Pennac ricevuto in dono dal nostro amico Severini. La prima curiosità è subito soddisfatta. Si tratta proprio della pagella scolastica dell’autore del saggio in questione. Nato nel 1944 in una famiglia di militari, Pennac passa la sua infanzia in Africa, nel sud-est asiatico, in Europa e nella Francia meridionale. Pessimo allievo, solo verso la fine del liceo ottiene buoni voti, quando un suo insegnante comprende la sua passione per la scrittura e, al posto dei temi tradizionali, gli chiede di scrivere un romanzo a puntate, con cadenza settimanale.

Ottiene la laurea in lettere, all'Università di Nizza, nel 1968 diventando contemporaneamente insegnante e scrittore.

Man mano che Severini procede nella lettura sentimenti dirompenti gli agitano l’animo. Finalmente la liberazione da tante sovrastrutture, finalmente lo sguardo può vagare sui patemi d’animo degli alunni asini, e dei loro insegnanti e genitori. Ma perché questa difesa a oltranza dei somari: vuoi vedere - si chiede - che si tratta di un’autodifesa? E così inizia una conversazione immaginaria tra il giornalista improvvisato e lo scrittore francese che confessa di essere stato come scolaro un somaro perfetto, quello che chiameremmo matricolato, senza via d’uscita, senza rimedio e soprattutto senza motivazioni altre che non fossero quelle proprie della sua somaraggine. Nulla da eccepire invece sul fatto che fosse portatore sano di allegria di socialità di amore per il gioco. Nell’età adolescenziale però la sensazione di estraneità assoluta all’universo scolastico si tramutano in bisogno di vendetta, di ribellione, di disubbidienza che lo conducono a compiere delle simpatiche malefatte nei confronti degli adulti del collegio. Di esse non si pentirà mai, anzi presagisce lo sbocco finale della sua capacità di impiegare per fini altri il complesso delle sue facoltà intellettive: la delinquenza. Affermazione che “piace” a Severini, per la portata eversiva della frase, su cui dovrebbero riflettere molto insegnanti e adulti. Anche perché il protagonista e autore del saggio sostiene che era ben disposto a qualunque compromesso quando ravvisava nell’adulto uno sguardo benevolo o comunque un po’ d’affetto. Ma soprattutto è importante sottolineare che l’affermazione negli studi e poi quella professionale avvenute successivamente stanno ad indicare che il futuro non è una conseguenza automatica del presente, esso è imprevedibile e spesso piacevolmente sorprendente. Ora l’errore di molti insegnanti è bocciare un alunno somaro non in questa o quella disciplina, ma bocciarlo per la vita futura addossandogli il senso di una frustrazione e di un fallimento perenni. Ma, rievocando una frase che soleva dire un nostro illustre concittadino professore di liceo e mio professore: un insegnante che boccia, boccia innanzitutto se stesso, dichiarando involontariamente il suo fallimento nel recuperare allo studio un allievo. Dunque la responsabilità di un insegnante è massima. Ha il potere di creare una personalità positiva o di distruggerla. Per fortuna al protagonista del nostro libro capitò l’avventura di incontrare degli insegnanti, pochi, al di fuori dello standard consueto, capaci di amare e farsi amare e di innescare quel processo di autostima e di sollecitazione degli interessi anche in deroga al consueto trantran scolastico che rappresentò il primo passo verso la crescita personale. Con il bisturi del chirurgo Severini indaga, chiede, sceglie le domande: che avevano di speciale i professori che determinarono la svolta e l’abbandono della somaraggine. La risposta è semplice, lo “stato” è complesso: la passione per la materia di cui erano “impastati”. Insegnando comunicavano il loro stesso desiderio di sapere, insegnando creavano l’avvenimento. E poi la comunicazione, il sapersi mettere in sintonia con qualunque discepolo, in modo che ognuno sviluppasse le proprie potenzialità, grandi o piccole che fossero. Invece spesso accade che gli insegnanti godano nell’umiliare gli alunni con giudizi o voti scarsi, l’unico modo per sentirsi importanti e seri. Questa la provocazione di Severini, e Pennac definisce questo stato una sorta di accomodamento generale per non operare sulle situazioni particolari, - conformismo - lo chiama Severini. Ma veniamo agli alunni. Sono differenti da quelli di ieri, chiede Severini. Per età ovviamente no, per il colore della pelle sì, ma la differenza maggiore sta nel fatto che sono in tutto e per tutto conformati dal marketing in ogni aspetto della loro vita. Mentre invece bisognerebbe svuotare di tutte queste sovrastrutture la testa dei ragazzi e insegnare loro l’amore per lo studio, per il sapere acquisito tramite la riflessione la ricerca, stimolare le capacità e le competenze e favorire la conoscenza, secondo gli insegnamenti di Gramsci e di Don Milani. Compito difficile nei tempi odierni dove la società dei consumi vuole studenti semianalfabeti, perché essi sono più plasmabili dalla pubblicità.

Non è finita, perché il nostro Severini lancia l’ultima provocazione: come invogliare i meno volenterosi ad amare la scuola? Anche qui la risposta è semplice: con l’amore, cosa che scarseggia nella scuola, come sostiene Pennac.

Si tratta della capacità di empatia, di saper entrare nella condizione di chi ignora tutto quello che il docente sa. E di saper donare fiducia, altrimenti un adolescente relegato al ruolo di ultimo e convinto di ciò diventerà facilmente una preda di situazioni borderline o schiavo del potere consumistico.

In conclusione sottolineiamo il trasporto del Prof. Severini verso i temi della pedagogia e della psicologia, che sono il riflesso della responsabilità dell’educatore e dello studioso della difficile e delicata opera della formazione dei giovani, a cui si associa l’influenza delle famiglie e della società intera, nel bene e nel male, che è anche la sintesi di questa intervista immaginaria.

Adriana Pedicini

LA MAGICA AVVENTURA DELLA LETTURA DI Biagio Osvaldo Severini
Mostra altro

MULTIFORMITA’ DELLA VITA SESSUALE Barbagli, Dalla Zuanna, Garelli

26 Febbraio 2014 , Scritto da Biagio Osvaldo Severini Con tag #biagio osvaldo severini, #cultura, #interviste

MULTIFORMITA’ DELLA VITA SESSUALE

Barbagli, Dalla Zuanna, Garelli

A cura di Biagio Osvaldo Severini

Caratteristiche e orientamenti dell’attività sessuale. La doppia morale. Le credenze. La sessualità della donna prima e dopo il Settecento. L’orgasmo femminile nei secoli. Le posizioni della chiesa cattolica. I comunisti e la sessualità. Inizio storico dei cambiamenti e loro diffusione. Il tradimento.

La verginità. Gli orientamenti più diffusi.

Molti studiosi di diverse discipline, quali storici, sociologi, demografi, antropologi, politologi ed economisti hanno cercato di spiegare i molteplici cambiamenti di idee, valori, aspettative e comportamenti verificatisi in Italia nel corso del Novecento e nei primi anni del Duemila.

Le ricerche e gli argomenti affrontati sono stati tanto numerosi, che non si riesce più a contarli.

Un argomento, però, è stato quasi completamente ignorato: quello della sessualità.

Ignorato in Italia, ma non negli altri paesi occidentali.

Questa lacuna viene, ora, colmata dallo studio “La sessualità degli Italiani”, curato dai professori Marzio Barbagli (Università di Bologna), Gianpiero Della Zuanna (Università di Pavia) e Franco Garelli ( Università di Torino), che hanno svolto indagini, con metodi e tecniche diverse, su campioni significativi della popolazione italiana compresa tra i 18 e i 70 anni.

Essi si sono imposti due obiettivi.

Primo, fornire una dettagliata descrizione dei sentimenti, dei comportamenti e delle identità sessuali degli Italiani.

Secondo, ricostruire e spiegare i mutamenti che, nel corso del Novecento, si sono verificati nella cultura sessuale del nostro Paese.

Ho pensato di riportare in sintesi i risultati di queste ricerche, rivolgendo delle domande al professore Barbagli, quale coordinatore della pubblicazione.

Professore Barbagli, voi tre sostenete che le dimensioni più significative della cultura sessuale dominante sono tre.

Vuole spiegare le loro caratteristiche?

La prima è data dal significato attribuito all’attività sessuale. La seconda è costituita dai copioni di comportamento previsti per gli uomini e per le donne, cioè quelle regole che indicano con chi e in quali occasioni possono avere rapporti sessuali. Della terza fanno parte le credenze sulla natura, le cause e conseguenze delle varie forme di attività erotica.

Per quanto riguarda il significato attribuito al sesso, voi distinguete quattro principali orientamenti: ascetico, procreativo, affettivo, edonistico. Qual è il comportamento dell’orientamento ascetico?

Ascetico è l’orientamento di chi rinuncia volontariamente alla sessualità, scegliendo la strada dell’astinenza, della castità, della verginità e del celibato. Originariamente si basava su una concezione della vita che disprezzava il corpo come la morte dell’anima… Oggi è spesso giustificato come sacrificio in nome di una fede più grande di noi. Questo orientamento ha assunto particolare importanza nei paesi di tradizione cattolica, come il nostro, diventando la linea di demarcazione fra il clero e i laici.

E dell’orientamento procreativo?

Per l’orientamento procreativo il fine esclusivo dell’attività sessuale è mettere al mondo figli all’interno del matrimonio. Essa può avere dunque luogo solo fra persone di sesso diverso, dopo le nozze, e può realizzarsi solo nella penetrazione vaginale e solo nei momenti in cui il concepimento è possibile. Le relazioni sessuali prematrimoniali, extraconiugali, l’omosessualità, la masturbazione, le pratiche erotiche orali e anali, così come i metodi anticoncezionali, sono condannati moralmente, perché rivolti al piacere e non alla procreazione.

E dell’orientamento affettivo?

Per l’orientamento affettivo l’attività sessuale è espressione reciproca di amore fra due partner e serve al tempo stesso a consolidare il legame esistente fra loro. I rapporti sessuali dovrebbero aver luogo solo quando vi sono una forte intesa psicologica e un completo coinvolgimento emotivo ed affettivo fra un uomo e una donna… Ogni pratica sessuale è ammessa quando è desiderata da entrambi… Sono consentiti i rapporti sessuali prematrimoniali, ma non quelli extramatrimoniali, perché rappresentano un tradimento del coniuge. Se il coinvolgimento e l’intesa vengono meno, anche il rapporto di coppia può finire, con la separazione o il divorzio.

E, infine, dell’orientamento edonistico?

Nell’orientamento edonistico lo scopo principale dell’attività sessuale è raggiungere il piacere fisico. Esso è rivolto verso il corpo, ammirato ed esaltato più di ogni altra cosa. L’orgasmo, profondo, prolungato, ripetuto, è la forma di piacere fisico a cui si attribuisce maggiore importanza e, dunque, qualunque pratica che permetta di raggiungerlo è considerata positivamente, anche se fra i partner non vi è alcun coinvolgimento emotivo ed affettivo. E’ lecito, quindi, avere rapporti sessuali anche con persone appena conosciute, delle quali non si sa nulla o verso le quali si prova solo attrazione fisica, avere contemporaneamente più partner o praticare lo scambio di coppia.

Passiamo ai copioni, alle regole di comportamento degli uomini e delle donne e alla “doppia morale” che ha avuto grande importanza nel corso dei secoli. Che cosa significa e comporta questa doppia morale?

Bene. La “doppia morale” prevede regole diverse per gli uomini e le donne relativamente alla castità prematrimoniale e alla fedeltà coniugale. Mentre giudica severamente una donna che non giunge vergine al matrimonio, si aspetta che un uomo vi arrivi dopo aver fatto qualche esperienza sessuale con una prostituta, una serva o una donna più anziana. Analogamente, mentre non consente in alcun modo che la moglie tradisca il marito, considera molto benevolmente le scappatelle di quest’ultimo. E’ per questo motivo che in molti paesi europei è stato a lungo considerato un valido motivo di divorzio l’adulterio della moglie ma non quello del marito. E’ per questo motivo che, in questi paesi, la prostituzione, ben lungi dall’essere punita, è stata regolarizzata e gestita dalle autorità civili almeno dal Trecento in poi.

Su quali concetti si basa la doppia morale nell’attività sessuale?

Essa si fonda su due idee. La prima sostiene che dalla castità della donna dipende tutta la proprietà del mondo. La seconda sostiene che le donne siano proprietà sessuale degli uomini e che il suo valore diminuisca se ha rapporti con qualcuno che non ne è il legittimo proprietario.

Con quale orientamento è connessa la doppia morale?

Essa è intimamente connessa con l’orientamento procreativo. E’ invece molto più raramente seguita dagli uomini e dalle donne che ne hanno uno affettivo o edonistico.

Come si caratterizzano questi due ultimi comportamenti?

I seguaci dell’orientamento affettivo o edonistico si rifanno più spesso ad una concezione egualitaria che, pur avendo assunto finora forme diverse, considera leciti per entrambi i partner i rapporti prematrimoniali, illeciti quelli extraconiugali e attribuisce grande importanza al raggiungimento del piacere sessuale reciproco.

C’è da aggiungere che sono molte le “credenze” collegate a questi argomenti. Vogliamo per prima cosa descrivere le credenze che riguardano il corpo degli uomini e quello delle donne e le conseguenze dei diversi atti erotici?

Diciamo, a esempio, che l’orientamento procreativo non si è limitato a condannare moralmente la masturbazione perché rivolta esclusivamente al piacere, ma per lungo tempo si è basato sulla credenza che questa pratica fosse molto dannosa per la salute, che provocasse la tubercolosi, l’epilessia, la cecità, la pazzia, oltre a innumerevoli altri disturbi fisici e mentali.

E riguardo alle credenze relative alle differenze tra la sessualità maschile e quella femminile nell’Europa cristiana?

Per molto tempo si è ritenuto che le donne avessero desideri erotici più forti e inappagabili degli uomini o, come si diceva, una maggiore concupiscenza e una maggiore lussuria e fossero più carnali, più voraci, più aggressive e più insaziabili.

Ma poi c’è stato un cambiamento!

Sì, a poco a poco essa ha perso rilievo e, negli ultimi anni del Settecento, fu sostituita da una diametralmente opposta… Si iniziò a pensare che le donne fossero tenere, affettuose, disinteressate, materne, generose, altruiste, ma prive di bisogni sessuali, insensibili alla passione erotica, fredde, quando non frigide: ideali per mettere al mondo figli e per allevarli, per dare piacere al marito e per restargli fedele. In varie forme, questa credenza è rimasta in vita nei paesi occidentali per buona parte del Novecento.

Da che cosa fu provocato questo rovesciamento di prospettiva?

In parte fu provocato da un profondo mutamento della concezione del corpo e dell’orgasmo maschile e femminile, che risale alla fine del Settecento.

Nel libro affermate che prima della scoperta scientifica del meccanismo di fecondazione, in Europa si contrapposero due idee nate entrambe nella Grecia antica e riprese da diverse correnti culturali cristiane!

Sì, è così.

Come si caratterizza la prima idea?

La prima, risalente a Ippocrate e a Galeno, sosteneva che affinché avvenisse il concepimento era necessario che sia l’uomo che la donna raggiungessero l’orgasmo. Si riteneva che, durante il coito, entrambi provassero un piacere violento… ed emettessero una qualche sostanza che provocava la fecondazione. Questa tesi venne ripresentata con forza straordinaria dal gesuita spagnolo Tomàs Sànchez, in un testo del 1605, citato dai moralisti cattolici fino a tutto il Novecento.

E la seconda idea sul concepimento?

Risale ad Aristotele che sosteneva che l’anatomia e la fisiologia maschile e femminile fossero profondamente diverse, che le donne non eiaculassero, che la sostanza attiva nel processo di generazione fosse unicamente lo sperma. Questa tesi trovò nuova fortuna verso la fine del Settecento, quando si cessò di considerare l’orgasmo femminile rilevante per il concepimento e per l’amplesso coniugale. Così, dopo essere stato considerato per secoli una condizione necessaria e indispensabile della riproduzione, l’orgasmo femminile divenne un aspetto marginale della fisiologia, un fatto fortuito, secondario, superfluo.

Quali orientamenti ha sostenuto la chiesa cattolica?

Per secoli, la chiesa cattolica ha sostenuto l’orientamento ascetico e quello procreativo, il primo per il clero, il secondo per i fedeli laici.

Ci sono stati mutamenti nelle posizioni della chiesa cattolica?

Certo. Nel 1951… Pio XII dichiarava ammissibile il piacere sessuale, pur raccomandando la disciplina dei sensi. Implicitamente poi si consentiva ai fedeli il ricorso ai metodi naturali di controllo delle nascite. Dieci anni dopo, il Concilio Vaticano II, pur ribadendo che l’idea che l’amore coniugale è ordinato alla procreazione e all’educazione della prole, ammetteva che la fecondità non è il solo fine del matrimonio, e che tutti gli atti con i quali i coniugi si uniscono in intimità sono onorabili e degni e fanno parte dell’espressione dell’amore autentico… La chiesa ha inoltre cercato di aggiornare l’analisi del fenomeno dell’omosessualità e delle sue cause… Ma nel complesso essa è rimasta ferma sulle sue posizioni di principio e ha continuato a condannare la masturbazione, l’omosessualità, l’aborto, il divorzio e tutte le pratiche sessuali rivolte esclusivamente al piacere.

E il popolo comunista cosa pensava della sessualità e dell’omosessualità?

Almeno negli anni Cinquanta e Sessanta, anche la cultura sessuale del popolo comunista e delle organizzazioni e dei partiti che lo rappresentavano non si allontanava molto da quella dominante. Accettava la doppia morale e giustificava l’infedeltà maschile in nome di esigenze fisiologiche insopprimibili. Era diffidente, quando non apertamente ostile, nei confronti del mondo omosessuale, degli uomini attratti da altri uomini, che venivano chiamati “finocchi”, “checche”, “froci” o “recchioni”.

Parliamo anche dello Stato italiano. Quale orientamento ha privilegiato nel corso della sua ancor breve vita?

Anche alcune norme statali si ispiravano all’orientamento procreativo e alla doppia morale. Ai coniugi infelici esse non hanno reso possibile, fino al 1970, il divorzio, ma solo la separazione legale. Il codice penale e le leggi di Pubblica Sicurezza proibivano la propaganda a favore di pratiche contro la procreazione e a favore dell’aborto. Lo stesso codice penale considerava con la massima indulgenza l’uxoricidio per onore… Nell’ultimo trentennio del Novecento queste norme e leggi sono state abrogate, cambiate o sostituite con altre. Per la prima volta è stato riconosciuto il diritto di divorziare e di abortire. Quanto agli omosessuali, lo stato italiano sarà probabilmente uno degli ultimi a riconoscere dei diritti alle coppie gay e lesbiche.

Ricordo, infatti, che la legge sul divorzio è del 1970, sui consultori familiari del 1975 e sull’aborto del 1978. Ma quando sono iniziati questi cambiamenti?

Molti studiosi pensano al Sessantotto… Gli studenti che, negli Stati Uniti e in Europa, occuparono le università si ribellavano infatti non solo contro l’autoritarismo, la scuola di classe, la guerra in Vietnam e il colonialismo, ma anche contro la famiglia borghese e la morale sessuale tradizionale, come testimoniano i numerosi slogan che essi lanciarono: “Fate l’amore non fate la guerra”, “ il personale è politico” , il “corpo è mio e lo gestisco io”.

Si capisce chiaramente da queste osservazioni che non è proprio così. Perché?

Nella letteratura scientifica non tutti gli studiosi condividono questa tesi. Vi è chi ritiene che questi cambiamenti siano avvenuti già durante la seconda guerra mondiale… Altri sono convinti che grandi trasformazioni in questo campo iniziarono ancora prima, negli anni Venti, almeno negli Stati Uniti, in Germania e in Russia, dove gruppi di intellettuali influenzati dalle teorie di Marx e di Freud introdussero il concetto di “rivoluzione sessuale”. Altri studiosi ancora pensano che, in molti paesi dell’Europa occidentale vi sia stata una rivoluzione sessuale negli ultimi decenni del Settecento, quando crebbe notevolmente la frequenza dei rapporti prematrimoniali dei giovani proletari che si spostavano dalle campagne.

A questo punto, mi viene da chiedere: in quali ceti sociali iniziano i grandi mutamenti della sessualità degli Italiani?

Questi grandi mutamenti sessuali degli ultimi due secoli sono iniziati nei ceti sociali più alti, nei quali hanno preso l’avvio altre grandi trasformazioni sociali. Poi, queste innovazioni si sono lentamente diffuse negli altri strati della popolazione.

L’inizio è avvenuto prima al nord o al sud?

Questi cambiamenti sono iniziati nella borghesia intellettuale delle regioni settentrionali. Sono le coppie di questo ceto che per prime hanno cominciato, in diversi momenti del Novecento, ad abbandonare la “doppia morale” e la credenza che la masturbazione fosse nociva alla salute, a seguire un orientamento affettivo o edonistico, a dare grande importanza al piacere e alla sperimentazione, ad avere rapporti sessuali prematrimoniali, a fare uso della “fellatio”, del “cunnilingus” e dei rapporti anali, a provare sentimenti omoerotici e ad interpretarli… con la dicotomia omosessuale/eterosessuale.

Una spiegazione riguardante la dicotomia omosessuale/eterosessuale, però, è d’obbligo!

Certo. Questa formula serve a far capire che nell’ultimo trentennio del Novecento si è affermato il sistema di classificazione, secondo il quale coloro che si sentono attratti da persone dello stesso sesso non sono né invertiti, né attivi, né passivi, ma possono avere una nuova identità che comporta la formazione di rapporti non asimmetrici con i partner. E’ grazie all’affermazione di quest’ultimo sistema e delle nuove identità che è aumentato il numero degli italiani che si definiscono omosessuali o bisessuali.

E queste trasformazioni si sono verificate prima in Italia o in Europa?

Le trasformazioni della cultura sessuale ricordate sono avvenute prima nell’Europa centrosettentrionale (Svezia, Danimarca, Gran Bretagna, Francia e Germania) e poi in Italia.

Voi affermate che alcune pratiche sessuali si sono verificate, però, prima in Italia. Quali sono?

La prima è l’uso dei rapporti anali nelle coppie eterosessuali… La seconda è l’utilizzo di metodi contraccettivi a prima vista meno “avanzati” (il coito interrotto e il preservativo).

Come mai?

Ciò dipende dalle disuguaglianze di genere che sono in Italia più forti che negli Stati Uniti o negli altri paesi dell’Europa centrosettentrionale. Le donne italiane fanno minor uso della masturbazione di quelle di altri paesi e accettano i rapporti anali più di loro, perché hanno una minor forza di negoziazione nei rapporti intimi.

Ci sono altre disuguaglianze di genere riguardo alla sessualità?

Certamente. Nel nostro paese – più al sud che al centro nord – gli uomini, ad esempio, raggiungono l’orgasmo molto più spesso delle donne, mentre una parte significativa di queste finge talvolta di provarlo.

Ma negli ultimi anni soprattutto i comportamenti delle donne sono cambiati!

In effetti è così. Le donne si sono avvicinate notevolmente agli uomini per l’età del primo rapporto, il numero di partner avuti nel corso della vita, l’uso delle pratiche non riproduttive rivolte esclusivamente al piacere: la masturbazione, i rapporti orali, e così via. Le differenze di genere sono completamente scomparse riguardo ai rapporti prematrimoniali e alla frequenza con cui gli italiani si sentono attratti da una persona delle stesso sesso.

Qualche dato?

Fra i credenti convinti e attivi delle ultime generazioni, ad esempio, l’80% giudica positivamente i rapporti prematrimoniali e oltre il 70% ha avuto rapporti orali. Essi hanno tuttavia di solito un orientamento affettivo, mentre i loro coetanei senza religione si rifanno più spesso di loro a quello edonistico.

Nelle ultime generazioni italiane, inoltre, è diminuita l’età mediana del primo coito delle donne. Si è ridotta la percentuale di chi non ha mai avuto rapporti sessuali.

Inoltre, la diffusione dei comportamenti sessuali è disuguale: i rapporti sessuali prematrimoniali sono ormai universali; i rapporti orali riguardano la stragrande maggioranza delle coppie; i rapporti anali solo la metà.

Per quanto riguarda la fedeltà di coppia?

L’85% degli italiani condanna il tradimento… anche se poi una parte non piccola non è coerente… In un terzo delle relazioni di coppia lunghe (con o senza il matrimonio) almeno un partner tradisce l’altro.

Con quale orientamento è collegato questa trasgressione?

Soprattutto con l’orientamento edonistico, che consente anche di avere rapporti sessuali con sconosciuti o di tradire il partner, quando questo serva all’appagamento personale.

Parliamo di un argomento tabù per secoli nell’Europa occidentale, ma ancora tale in alcune regioni e villaggi italiani, e in molti paesi extraeuropei: la verginità delle donne. Da alcune osservazioni empiriche e dalla lettura di riviste molto popolari dedicate all’adolescenza, ci si forma la convinzione che essa non sia più un valore. Voi che cosa avete accertato scientificamente?

Prima di tutto che è cresciuta la quota della popolazione maschile e femminile che perde la verginità prima di aver compiuto 16 anni.

L’ideale della verginità femminile, poi, è condivisa oggi, in Europa, da una piccola minoranza di uomini, ma ha perso gran parte della sua importanza fra le donne. Anzi, per molte giovani italiane, la castità, ben lungi dal rappresentare un valore e un tesoro da proteggere, costituisce un ostacolo alla piena realizzazione di sé nei rapporti con i possibili partner… Così, quasi tutte le donne delle ultime generazioni hanno avuto rapporti sessuali prematrimoniali o con il futuro marito o, più frequentemente, con un precedente partner, voltando le spalle alla doppia morale.

Da tutto ciò che è stato detto si possono trarre alcune conclusioni, alle quali ci conducono gli stessi autori.

Il professore Barbagli le sintetizza per tutti.

Oggi, nel nostro paese, convivono concezioni della sessualità profondamente diverse.

Alcuni italiani con un orientamento prevalentemente procreativo continuano a condannare moralmente ogni attività erotica rivolta esclusivamente al piacere. Una parte di loro si rifà ancora alla doppia morale, per cui ritiene che la donna debba arrivare vergine al matrimonio, mentre l’uomo possa fare qualche esperienza sessuale prima; inoltre, giudica molto severamente il tradimento della moglie, ma non quello del marito.

Altri hanno mantenuto un orientamento ascetico, scegliendo la strada della verginità, rinunciando al piacere sessuale e agli affetti coniugali: il personale religioso, i sacerdoti che scelgono il celibato, o i frati, i monaci e le suore che fanno voto di castità; e anche laici che intendono consacrare la loro vita a Dio, pur restando nel mondo.

Nella popolazione più ampia si sono largamente affermati l’orientamento affettivo – che è quello più diffuso - e quello edonistico.

Molti uomini e anche qualche donna seguono l’orientamento edonistico prima della formazione di una coppia stabile, per poi lasciarsi guidare da quello affettivo.

Personalmente ritengo questa pubblicazione piacevole e al tempo stesso utile. Sì, questa volta posso usare proprio la categoria “utile”!

Mi spiego.

L’approccio alla vita sessuale da parte dei preadolescenti, adolescenti e giovani avviene quasi sempre in maniera istintuale, selvaggia, rudimentale, approssimativa.

L’istruzione relativa i ragazzi e le ragazze la ricevono in modo particolare tramite i film e le riviste porno, o i film e le riviste pseudoromantiche o dai più esperti tra loro.

Difficilmente le istituzioni educative, formali e informali, e i genitori si dedicano a questo complesso compito. E, quando lo fanno, nei loro discorsi ci sono spesso pregiudizi, reticenze, deformazioni derivanti dalla cultura sessuale a loro volta ricevuta direttamente o indirettamente da fonti non adeguate.

E ciò vale anche per le ultime generazioni di genitori e figli, che dovrebbero essere – in teoria - più aggiornate e laiche in tali argomenti!

Queste deformazioni, questi silenzi, questi rinvii ( “la riproduzione delle piante”, “oggi non è il momento”) portano, nei casi estremi, i ragazzi a pensare al corpo della donna senza organo genitale (“come le bambole tradizionali”) e che si spaventano quando vedono una ragazza nuda; o a ragazze che temono di rimanere incinte solo baciando un maschio, o ritengono vergognoso il rapporto sessuale, e così via.

Deformazioni che possono diventare anche causa di fallimento di alcuni matrimoni!

La lettura di quest’opera originale e scientifica – lo ribadisco – può aiutare tutti, docenti e discenti diretti o indiretti, a formarsi una sensibilità fine e deliziosa nei confronti di un argomento ancora, per molti aspetti, avvolto dalle ombre dell’ignoranza o dell’ipocrisia.

( Marzio Barbagli, Gianpiero Dalla Zuanna, Franco Garelli, La sessualità degli italiani, Il Mulino, 2010)

Nota esplicativa

- Cunnilingus o cunnilingtus: termine latino che indica la carezza boccale della regione vulvo--

clitoridea (Henri Piéron, Dizionario di psicologia, La Nuova Italia, 1973).

- Fellatio: voce pseudolatina che indica la carezza boccale del pene ( Dizionario di Italiano, La Biblioteca di Repubblica, 2004).

Mostra altro

Stalin e il genocidio dei lituani

22 Febbraio 2014 , Scritto da Biagio Osvaldo Severini Con tag #biagio osvaldo severini, #storia, #recensioni

Stalin e il genocidio dei lituani

Siamo abituati a sentir parlare dell’Olocausto degli Ebrei, degli oppositori politici, degli indesiderati, operato dalla dittatura di Hitler.

Letteratura e storia hanno documentato che circa sei milioni di persone furono uccise dai nazisti tedeschi nei campi di concentramento e di sterminio, dopo torture, privazioni e sofferenze di ogni tipo.

Le pubblicazioni sull’argomento sono copiose, e a giusta ragione.

Ma tutto questo ha messo in ombra, anzi ha nascosto, ciò che in quello stesso periodo storico succedeva ad Oriente, nell’Unione Sovietica di Stalin: “il mondo non ha la minima idea di quello che ci stanno facendo i sovietici”, scrive Ruta Sepetys.

La Sepetys nel suo romanzo verità ci svela la tragica realtà di un genocidio a danno dei popoli baltici, ossia della Lituania, della Lettonia e dell’Estonia.

Il romanzo è intitolato “Avevano spento anche la luna” ( Mondadori, 2012). La storia narrata è reale e si basa su testimonianze e confessioni di alcuni sopravvissuti, ed è per di più sostenuta da ricerche storiche faticose compiute dalla Sepetys, desiderosa di riscattare la dignità del suo popolo.

L’autrice, infatti, è una lituana, figlia di rifugiati in Michigan.

Ella afferma che Stalin, durante il suo regno del terrore, abbia fatto uccidere più di 20 milioni di persone.

Le tre Nazioni baltiche persero, quindi, più di un terzo della loro popolazione in conseguenza delle deportazioni operate dai sovietici.

Il piano di Stalin, preparato nel 1940, era, appunto, quello di annettere all’Unione Sovietica i tre Stati baltici, eliminando gli oppositori.

I nomi dei personaggi del romanzo sono inventati, tranne quello del dottor Samodurov che nell’Artico salvò molte vite.

La protagonista principale è Lina, sopravvissuta al viaggio della deportazione – ma in realtà della morte - in Siberia, compiuto quando lei aveva 16 anni (c’erano anche il fratello, la madre e il padre, questi due ultimi morti).

Il 14 giugno 1941 iniziò la deportazione dei Lituani in Siberia. I soldati dell’NKVD, la polizia segreta sovietica, entravano prepotentemente nelle case, impugnando fucili a baionetta, e concedevano solo venti minuti agli abitanti per prepararsi, altrimenti li avrebbero uccisi all’istante.

Poi, “davai!”, avanti in fretta e furia li caricavano sui camion, che li trasportavano alla stazione ferroviaria. Qui venivano spinti bruscamente dentro vagoni usati per il trasporto di mucche e maiali.

Queste persone erano, infatti, definite “porci borghesi antisovietici”, per cui dovevano essere imprigionate o deportate in stato di schiavitù in Siberia, e sterminate in un modo qualsiasi.

Nelle liste delle persone antisovietiche finirono medici, avvocati, insegnanti, membri dell’esercito, professori universitari, scrittori, imprenditori, musicisti, artisti e bibliotecari.

Il viaggio verso la Siberia fu lungo (dovettero attraversare tutta la Russia da ovest ad est per 440 giorni, fino a Trofimovsk, al Polo Nord), penoso, tormentato dalla fame, dalla sete, dal freddo e dai pidocchi.

I deportati erano ammassati nei vagoni gli uni accanto agli altri, in maniera tale che dovevano stare in piedi quasi sempre e dormire a turno, stesi sul pavimento di legno. Per gabinetto dovevano usare un buco nel pavimento del vagone e, ovviamente, i bisogni corporali bisogna farli davanti a tutti.

Molti morivano durante il viaggio in treno, per mancanza di cibo, di acqua e di cure. I loro corpi venivano abbandonati ai lati dei binari, e diventavano cibo per gli animali.

Finalmente, arrivarono in un Kolchoz, una grande azienda agricola collettivizzata, dove si coltivavano patate e barbabietole.

Furono distribuiti in baracche di tre metri per quattro, del tutto insufficienti per il numero dei presenti. Le baracche erano prive di qualsiasi arredamento.

Dovevano lavorare dodici ore al giorno per scavare, con attrezzi rudimentali e con le mani, patate e barbabietole che non potevano mangiare. I soldati “si divertivano a picchiarci e a prenderci a calci nei campi”.

Il loro cibo era costituito da 300 grammi di pane secco al giorno, quando lavoravano; quando c’erano le tempeste di neve e non lavoravano, non ricevevano nemmeno quello.

Mangiavano qualche patata o barbabietola, solo quando riuscivano a rubarla, con grave rischio per la loro vita, perché, se scoperti, venivano puniti selvaggiamente.

Racconta Lina: “Una mattina sorpresero un vecchio a mangiare una barbabietola. Una guardia gli strappò gli incisivi con le pinze”.

Erano costretti a frugare tra i rifiuti e la spazzatura delle guardie: “Insetti e vermi non scoraggiavano nessuno. Un paio di colpetti con le dita e ce li ficcavamo in bocca… eravamo diventati animali dei bassifondi, che si nutrivano di schifezze e marciume… cercavamo intorno come galline in un cortile… bucce di patate marce, abbassai la testa e le mangiai”.

Si pensi che fu una festa grande, quando Lina e un’amica trovarono nella neve un enorme gufo morto e lo arrostirono su una stufa improvvisata: “Il sapore della carne cotta era divino, … facemmo finta di essere a un banchetto reale!”.

Bevevano acqua piovana o derivante dallo scongelamento della neve.

Per riscaldarsi o, meglio, per attenuare appena la morsa del gelo artico erano costretti a rubare pezzi di legno o a nascondere sotto i vestiti le sterpaglie raccolte nei campi.

Era vietato fare disegni (ma Lina ne faceva spesso e li nascondeva) o scrivere lettere.

Un lituano prigioniero, scoperto dagli agenti dell’NKVD, fu inchiodato alla parete dell’ufficio del Kolchoz con un palo che gli aveva trafitto il petto: “Le braccia e le gambe penzolavano inerti come quelle di una marionetta. Aveva la camicia inzuppata di sangue, che gocciolava formando una pozza sotto di lui. Le poiane banchettavano sulla carne delle sue ferite da proiettili. Una gli beccava l’orbita oculare vuota”.

La morte era causata anche dalla dissenteria e dallo scorbuto per malnutrizione. A queste patologie si aggiungeva il tifo petecchiale che si manifestava con febbre alta, eruzioni cutanee e delirio e che si diffondeva rapidamente tra i prigionieri, perché non si potevano lavare, né cambiare la misera e sporca biancheria.

I cadaveri, come al solito, venivano abbandonati sulla neve.

Lina scrive di un suo compagno di sventura: “… vidi il corpo nudo, a occhi sbarrati, ammucchiato in una catasta di cadaveri. La mano semicongelata non c’era più. Le volpi artiche gli avevano squarciato l’addome, esponendo i suoi visceri e macchiando di sangue la neve”.

Eppure, ogni tanto Lina trova il modo di allontanarsi da questa funerea atmosfera, trovando la forza di parlare di pittura e in particolare del suo artista preferito, Munch, e dei suoi dipinti: l ‘”Angoscia”, la “Disperazione”, le “Ceneri”, “L’urlo”.

Lina esprime la sua personale valutazione: “Le sue opere erano deformate, distorte, come se fossero state dipinte in uno stato nevrotico. Ne ero affascinata, anche se qualcuno l’aveva definita arte degenerata”.

E continua riportando il commento, con cui concorda, di un critico d’arte: “Munch è principalmente un poeta lirico del colore. Lui sente i colori, ma non li vede. Invece vede il dolore, il pianto e l’inaridimento”.

In sintesi, i dipinti di Munch esprimevano alla perfezione e con genialità i sentimenti delle persone, sopraffatte dalla inumanità e ferinità di Hitler e Stalin e dei loro seguaci aguzzini!

Altro motivo di consolazione lo trova nella lettura di Dickens: “Il circolo Pickwick” e “Dombey e figlio”. Lettura fatta sempre di nascosto.

Brilla e illumina per un attimo il cielo nero e tempestoso il raggio di sole dell’amore per Andrius: “Gli appoggiai le muffole sulle guance, attirai verso di me il suo viso e lo baciai… Sentii un vuoto allo stomaco. Mi ritrassi…”.

Lina voleva vivere: “Volevo rivedere la Lituania… Volevo annusare il mughetto nella brezza sotto la mia finestra. Volevo dipingere nei prati. Volevo ritrovare Andrius… Volevo sopravvivere… Era l’unica cosa di cui non avevo mai dubitato”. Lina e Andrius si sposeranno.

L’autrice conclude la ricostruzione di questa drammatica vicenda con queste semplici e nobili parole: “… l’amore è l’esercito più potente. Che sia amore per un amico, amore per la patria, amore per Dio o anche amore per il nemico, in ogni caso l’amore ci rivela la natura davvero miracolosa dello spirito umano”.

I tre paesi baltici hanno conquistato l’indipendenza nel 1991.

Scrittura lineare e chiara. Lettura piacevole e scorrevole.

Mostra altro

I POVERI E LE CLASSI SOCIALI IN USA di Biagio Osvaldo Severini

14 Dicembre 2013 , Scritto da Biagio Osvaldo Severini Con tag #biagio osvaldo severini, #saggi, #interviste

Franco Ferrarotti

Gli USA dopo 500 anni. New York e la povertà. Dai 600 mila ai 3 milioni di poveri per la statistica sono invisibili. Le cause. L’etica protestante e le massime evangeliche. Il cattolicesimo francescano. Le classi sociali. I ghetti al centro delle città. La questione sociale psicologizzata dai governanti reazionari. La responsabilità delle amministrazioni pubbliche nazionali e internazionali. Bill De Blasio sindaco democratico di New York.

A più di cinquecento anni dalla conquista dell’America da parte di Colombo, diventa interessante apprendere notizie su alcuni aspetti della vita negli USA direttamente da chi l’ha visitata diverse volte come ricercatore di sociologia. Questo ci permette di sottoporre ad esame critico l’immagine che di quel paese si è formata nella nostra immaginazione, attraverso i film, i documentari, i rotocalchi, i giornali, la musica, la letteratura, la filosofia, la psicologia, l’astronautica.

A tale scopo intervisto il professore Franco Ferrarotti che dal 1971, con cadenza quasi annuale, si è recato negli USA per motivi di studio.

Professore Ferrarotti, si sente dire che quella è la terra della ricchezza, dell’abbondanza, del dollaro che apre tutte le strade e risolve tutti i problemi. In questo paradiso terrestre esistono i poveri?

Guardi che io condussi una ricerca proprio sui poveri di New York, e precisamente di Manhattan nel gennaio del 1971. Ebbi modo, quindi, di vivere a lungo in quei luoghi e di osservare sul campo la situazione. Allora si incontravano gli “homeless”( i senza tetto), i barboni classici, gli intellettuali, e poi le “beg-ladies”, ossia signore cariche di sacchetti di plastica, che dormivano accucciate nelle cabine telefoniche o nella sala d’aspetto della Gran Central Station. I poveri c’erano, ma erano, come dire, poco visibili. Bisognava cercarli, attenderli al passaggio, sorprenderli nei loro rifugi. All’epoca a New York, la città più ricca del mondo, la città con la più forte accumulazione di capitale, si riscontravano almeno 2 milioni di persone miserabili, letteralmente alla deriva.

Oggi (1992) la situazione è cambiata?

Oggi la situazione è peggiorata. I barboni e i senza tetto si trovano dappertutto: sui mezzi pubblici, nei sotterranei della metropolitana. E non solo uomini, ma anche donne ancora relativamente giovani, con famiglia, bambini addirittura in tenera età.

Ma quanti sono questi poveri, attualmente?

Il fenomeno sfugge a calcoli statistici accurati, nonostante la nota mania degli americani per le statistiche. Il fenomeno non è esaminato con la solita accuratezza quantitativa. Forse è psicologicamente “cancellato”. Sta di fatto che le dimensioni appaiono, anche solo in base alle impressioni, notevoli. Gli “homeless”, i senza tetto, in termini globali per tutti gli USA, potrebbero andare dai 6oo mila ai 3 milioni ed oltre.

Ma come mai non si riesce a “controllarli”?

Gli “homeless” sono privi di automobili e di telefono, non hanno fissa dimora, per cui è difficile inquadrarli, nonostante la pur notevole meticolosità degli statistici.

Allora, essi esistono o no?

Secondo i criteri della classificazione della società “normale” i poveri non esistono. Sono uomini e donne invisibili. Ci sono certamente, poiché si vedono in giro tutti i giorni, ma ufficialmente non contano. Essi finiscono per essere annullati anche dalla consapevolezza comune. Sono ridotti a oggetti, a inerti componenti del paesaggio quotidiano.

Gli abitanti “normali” di New York come si spiegano il fenomeno degli “homeless”, se lo pongono come problema?

La cosa strana è proprio questa. Nessuno sa quanti siano i barboni e i senzatetto a New York, ma tutti hanno la loro spiegazione pronta. E’ una spiegazione tipicamente darwiniana che dovrebbe far gioire i sociologi. Secondo i cittadini “perbene”, gli “homeless” e i barboni è gente alla deriva, perché non vuole lavorare; sono individui dediti al bere e alla droga, schiavi irrecuperabili della bottiglia e della siringa. Può anche essere e, almeno in parte, è vero.

Ma non è estremamente difficile stabilire un così preciso rapporto di causa-effetto, dal momento che questi soggetti non vengono studiati scientificamente ?

Bisognerebbe prendere in considerazione, in ogni caso, anche le generali condizioni sociali ed istituzionali, in cui il fenomeno emerge, prende corpo, occupa uno spazio considerevole nel paesaggio sociale.

Come mai i newyorkesi sono, invece, così sicuri che la causa è da ricercare nella non volontà di lavorare? Si può pensare all’etica protestante molto diffusa tra la popolazione degli USA?

Certamente. E’ la vecchia, profondamente radicata nel sottofondo psicologico di massa, etica protestante, con la sua idea centrale che la “certitudo salutis” è già fin da ora data a chi sia prospero, guadagni bene, abbia un “good standing in the community”. Chi è povero non può sperare nella grazia. Il povero pecca per il solo fatto di essere povero. Il povero è un “percosso da Dio”. La povertà è percepita come giusto castigo per l’individuo che non ha voglia di lavorare, che non sa approfittare dei doni di questa terra, delle opportunità.

E le massime evangeliche?

In America le massime evangeliche sono rovesciate. Alla religione di fratellanza si sostituisce una religione dell’individuo, solo, senza mediazioni, senza la Madonna o Sant’Antonio, di fronte a un Dio severo, crudele, imperscrutabile. Nessuna meraviglia che i senzatetto non siano visti, tanto meno contati. Essi sono una stonatura. Meglio turarsi le orecchie, chiudere gli occhi e non farci caso.

Meglio, quindi, il nostro cattolicesimo francescano?

Senza dubbio. Il cattolicesimo mediterraneo ed in modo particolare lo spirito francescano considerano il povero un fratello privilegiato, perché più vicino al Regno dei cieli. Nei paesi anglosassoni non è così. La povertà come condizione cronica di individui e gruppi trascende il piano economico, diviene condanna morale che non investe solo i falliti, ma tocca anche giovani ai primi passi della carriera.

Negli USA, quindi, non esiste una “questione sociale”, nel senso che la struttura della società è rimasta statica nel tempo, e le classi sociali non si sono mai modificate?

Negli USA le classi sociali, almeno nel senso tradizionale, sono scomparse. L’evoluzione del meccanismo industriale, la robotificazione del lavoro e l’informatizzazione degli uffici hanno creato un processo di omogeneizzazione dei lavoratori in senso genericamente impiegatizio. I ceti medi vanno scomparendo, trasformandosi in una zona sempre più ampia senza un’immagine precisa. Il vertice della società diventa sempre più ristretto.

Alla base della società, adesso, c’è una umanità che non può essere chiamata “classe”, perché non produce, ma costituisce una “sottoclasse”.

Essa vive ai margini, anzi nello scantinato della società, in una zona dove le norme della società regolare non hanno corso, dove la stessa linea di demarcazione fra lecito e illecito, fra legge e crimine si fa incerta, labile, inesistente.

Questa “zona senza legge”può essere chiamata "ghetto”, anche se con un significato diverso dal ghetto del lavoro industriale?

Certo. Il ghetto odierno non è più quello operaio, analizzato da Marx ed Engels e da Charles Dickens. Quelli erano ancora ghetti operai in senso proprio, collegati con la razionalità del lavoro in fabbrica. Gli abitanti dei ghetti dell’Ottocento venivano sfruttati, perché inseriti in un processo produttivo regolare.

Il ghetto di oggi non produce niente. Esso è formato da neri, messicani, chicanos, portoricani e da tutti i tipi ispanici. Da questi ghetti di oggi escono i ragazzotti del lavoro minorile, le donne che lavorano ad ore e la notte spazzano gli uffici, tutta la manodopera precaria che alimenta l’economia detta invisibile, la quale è tale solo per quelli che non hanno occhi per vedere.

Lo sfruttamento di questi abitanti, formicolanti nel buio e nel tanfo dei vicoli privi di luce, ha assunto forme nuove, che aspettano di essere ancora esplorate e scientificamente analizzate.

In quale zona delle metropoli abita questa umanità cosiddetta “invisibile”?

Nei vecchi centri urbani decrepiti, abbandonati dai benestanti che vivono nel suburbio, a sicura distanza dalle aree degradate e dalle baraccopoli, che qui sorgono nel centro e non, come in Europa, nelle periferie.

La ricerca sociologica non fa nulla per studiare questa nuova situazione sociale?

Qui la ricerca sociologica si è, purtroppo, stranamente bloccata. Forse non ha trovato committenti sufficientemente generosi o distratti per commissionare certi studi.

Eppure, la violenta rivolta dei neri di Los Angeles (maggio 1992) ci ha fatto “vedere” persone che vivono ai margini della società, in condizioni miserevoli.

La mentalità media americana, ossia la “élite dominante bianca, anglosassone e protestante”, pensa che i moti e la sollevazione di Los Angeles sono dovute a cattive abitudini che i neri avrebbero contratto negli anni passati, specialmente durante le amministrazioni democratiche, a causa degli enormi benefici di ogni genere e soprattutto a causa delle elargizioni eccessive di denaro che ne hanno fatto dei fannulloni, incapaci di badare a se stessi, pigri, tanto esigenti quanto ignavi e perdigiorno.

La “questione sociale” è stata, dunque, “psicologizzata”, se si può usare questa definizione?

Questo, infatti, è il modo classico usato dai governanti reazionari per reprimere e sopprimere un problema, piuttosto che capirlo e risolverlo. Le differenze materiali, corpose, perfettamente quantificabili in termini di reddito, longevità media, salute, istruzione, tipo di abitazione e di lavoro, sono ridotte a stati d’animo. Le ineguaglianze economiche e culturali non derivano dalle caratteristiche strutturali della società, insomma, ma sono una conseguenza del comportamento degli stessi poveri. I poveri sono, cioè, colpevoli prima perché sono poveri e poi perché è colpa loro se lo sono. Le vittime diventano, in sostanza, carnefici di se stesse.

E’ per questo motivo che i programmi sociali delle amministrazioni democratiche vengono bloccati dalle amministrazioni repubblicane, come sta succedendo oggi, 2013, con la riforma sanitaria ( “Affordable Care Act”, Atto di cura a prezzi accessibili) sostenuta dal presidente democratico Barack Obama ?

E’ così, e di conseguenza la povertà diventa più insopportabile a seconda delle amministrazioni.

Mi permetto di trarre da questa conversazione con il professore Franco Ferrarotti alcune considerazioni.

Prima, che la povertà di massa non è una questione religiosa o di etica personale, tranne casi individuali.

Seconda, quindi, che la povertà dipende strettamente dalla politica economica messa in atto dalle amministrazioni pubbliche locali, nazionali e internazionali.

Terza, che i senza tetto e tutti coloro che vivono sotto la “soglia di povertà” ( 30.000 dollari di reddito per una famiglia di quattro persone), o di “quasi-povertà” ( sotto i 46.000 dollari a nucleo familiare), che all’incirca costituiscono il 48,5 % della popolazione, dovrebbero partecipare attivamente alle votazioni politiche o amministrative, esprimendo le loro preferenze per i candidati progressisti, che negli USA sono chiamati democratici.

Sono questi, infatti, che lottano contro la povertà, contro i privilegi, contro le disuguaglianze e soprattutto che vogliono tassare le grandi ricchezze economiche per realizzare, ad esempio, una riforma sanitaria pubblica, che assicuri le cure necessarie a tutti con costi accessibili; la costruzione di alloggi popolari; una scuola pubblica contro gli istituti privati accessibili solo alle famiglie dei miliardari.

Una dimostrazione della possibilità di rivoluzionare la politica sociale ed economica è stata data dalla popolazione di New York che ha eletto, nel novembre 2013, sindaco il democratico Bill De Blasio che, tra l’altro, appartiene ad una famiglia originaria di Sant’Agata dei Goti di Benevento.

( Franco Ferrarotti, I grattacieli non hanno foglie, Laterza, 1991; Bush e il ghetto invisibile, L’Unità, maggio 1992; Federico Rampini, Il sindaco rosso espugna la New York dei ricchi, la Repubblica, 6-11- 2013)

Mostra altro

Dino

11 Novembre 2013 , Scritto da Biagio Osvaldo Severini Con tag #biagio osvaldo severini, #racconto

La guerra aveva costretto Dino, che aveva appena sei anni, a vivere in casa della nonna, lontano dai genitori, soprattutto lontano dalla mamma.

La nonna era rimasta vedova in giovane età. Era cresciuta in un ambiente popolare e contadino. Aveva ereditato da quell'ambiente tutte le caratteristiche negative che lo distinguono: l'asprezza dei modi e l'attaccamento al denaro che, d'altra parte, era scarso.

Ella aveva avuto e cresciuto dei figli; ma, nonostante fosse la loro madre, s'era comportata anche con loro sempre con ruvidezza e autoritarismo: "I figli si baciano, quando dormono", soleva ripetere spesso, per giustificare quel suo modo di fare.

Dino era molto timido. Aveva bisogno di sentire intorno a sè affetto, amore, per poter estrinsecare le sue passioni e i suoi pensieri.. Nella vecchia casa della nonna, invece, con quei muri massicci, con quelle porte pesanti cigolanti e scure, aveva trovato l'ambiente adatto a farlo intristire.

Era maggio e tutto, fuori, aveva acquistato un aspetto ridente. Al paesello, dove Dino era costretto a vivere, era festa: la festa del Santo Patrono.

La mattina Dino si era alzato di buon'ora, svegliato dalle note di una banda musicale: era un grande avvenimento per lui.

Saltato giù dal letto, andò alla finestra, l'aprì e un'ondata di sole e di musica invase la stanza. Si stropicciò gli occhi ancora incerti e abbagliati dalla forte luce solare, poi guardò fuori. Avrebbe voluto vedere la banda. Ma i tetti delle case vicine, più alte, glielo impedirono.

Il suono si avvicinava, diventava sempre più forte; la banda passava per la strada sotto la sua finestra. Ma una fila di fabbricati si intrometteva tra questa e quella, togliendo la visuale.

Dino, allora, si alzò sulle punte dei piedi. Poi, salì su di una sedia. Invano! I tetti stavano là immobili, impenetrabili. Dino sentiva di odiarli, perchè non gli permettevano di spaziare con la vista.

"Ah, se fossi ricco! vorrei costruirmi una casa alta, alta; una casa più alta di tutte. Mi metterei sulla veranda e, lassù, potrei sentirmi libero, padrone di tutto e di tutti", pensava Dino estasiato, mentre la banda si allontanava e il suono arrivava alle sue orecchie ovattato.

" Dino!", la voce stridula della nonna lo fece ritornare alla realtà della sua stanza scura, opprimente, della sua casa piccola, soffocata dalle altre. "Non restare alla finestra svestito! potresti prendere il raffreddore e se ne andrebbero dei soldi per i medicinali".

Dino sapeva, però, che il raffreddore la nonna glielo aveva sempre curato con un decotto, fatto con fichi secchi, mele e zucchero, che gli piaceva tanto. E quasi quasi valeva la pena di prendersi il raffreddore. Ne vedeva così poco di zucchero e di frutta; eppure ne era tanto goloso.

E ricorda, anzi, che un giorno, vedendo un compagno addentare avidamente delle belle e polpose mele, gliene venne un tal desiderio che, di nascosto, ne raccolse una mezza rosicchiata, gettata dall'altro sazio, e la mangiò, trovandola gustosissima.

Frattanto s'era vestito. Aveva indossato l'abito nuovo che metteva, di sicuro, solo nelle grandi occasioni e, saltuariamente, la domenica. Si guardò allo specchio; si girò e rigirò e pensò che non era poi tanto brutto, come spesso gli diceva la nonna. Quel giorno anche lui avrebbe potuto figurare di fronte ai compagni. Ma il pensiero che l'indomani avrebbe dovuto indossare di nuovo il vestito rattoppato e logoro, gli fece passare ogni velleità di superiorità e finanche di uguaglianza.

Decise, infine, di uscire. Già! Ma quel giorno era festa! Aveva bisogno di soldi. Si presentò, allora, davanti alla nonna con gli occhi al pavimento e, con voce tremante, disse: "Nonna, è festa....sono arrivati..."

"Ho capito!", rispose fredda e con voce aspra e sdegnata la vecchia, " Vuoi i soldi. Te li dartò, ma sta' attento a come li spenderai. Cerca, anzi, di conservartene una parte; pensa che sono costati sacrifici immensi. Non fare lo spendaccione".

"Si!", rispose timidamente Dino, pensando che la somma doveva essere alquanto sostanziosa per una simile morale. Si rallegrava al pensiero di poter mostrare i soldi ai compagni, di farsi invidiare, di...

"Eccoti cinquanta lire!", disse la nonna, infilando la mano nella tasca del grembiule nero che portava sempre; poi, consegnò il denaro a Dino.

Dino restò di stucco. "Cinquanta lire?!.... Solo cinquanta lire?!", commentò mentalmente.

La testa gli si chinò, al punto che con il mento si toccava il petto. Gli occhi si arrossarono. Voleva piangere. Avvertiva un desiderio prepotente di manifestare il suo dolore per la condizione di inferiorità, in cui veniva sempre a trovarsi nei confronti dei suoi coetanei. Ma non una lagrima sgorgò da quegli occhi nerissimi e malinconici.

Voleva svestirsi, gettarsi sul letto, restare in casa per tutta la giorata. Ma gli riusciva penoso ancor più spiegare la ragione del suo comportamento. E poi, non era da lui lamentarsi.

Uscì.

Appena fuori la porta dovette socchiudere gli occhi, perchè di nuovo abbagliato dalla luce solare, vivida e splendente come non mai. Quel sole, quella luce, e il cinguettio allegro degli uccelli, lo fecero sorridere.

Imboccò di buona lena il vicoletto che portava in piazza. Si fermò in un punto dove la mancanza di fabbricati permetteva di vedere la vallata che si stendeva ai piedi del paesello, costruito sul cocuzzolo di una collina piuttosto alta.

Il terreno che scendeva lungo la valle era ricoperto da un verde diseguale, ma che offriva all'occhio un insieme riposante. Nel mezzo scorreva un fiume dalle acque chiare, limpide e talmente placide che da lontano sembravano ferme; lungo le rive, ricoperte da una folta e varia vegetazione, si trovava un gruppo di case, che la lontananza e l'altezza del punto di osservazione facevano apparire piccole, piccole, come quelle di un presepe.

Dino guardò con nostalgia quelle case. In u na di esse si trovava la mamma.

Alcuni colpi di tamburo lo destarono dal sogno ad occhi aperti. La banda musicale “attaccava un pezzo”.

Dino affrettò il passo e arrivò in piazza. C'erano degli archi di legno ricoperti di lampadine multicolori; in un angolo era situata la cassarmonica; intorno intorno alla piazza bancarelle cariche di noccioline, torrone, caramelle, biscotti ricoperti di zucchero, castagne infilate e tante altre golosità, che fecero venire l'acquolina in bocca a Dino.

C'era pure il venditore di gelati e, in una piazzetta vicina, la giostra: altre tentazioni.

E tanta, tanta gente, allegra, vestita a festa, che andava su e giù, si urtava, si fermava, si icrociava, formava dei capannelli rumorosi.

Dino camminava in mezzo a quella confusione sballottato da una parte all'altra, ricevendo gomitate e spintoni da quelle persone troppo euforiche, per poter badare ad un ragazzino.

Dino, dopo aver cercato di seguire una sua direzione, si lasciò trasportare dalla corrente della folla.

Dopo un certo tempo, acciaccato pestato e assetato, si trovò a passare davanti alla bancarella del gelataio. Si fece largo tra la selva di gambe e si fermò ad un lato della bancarella. Ordinò un cono da venti lire.

"A cioccolato e crema", disse all'uomo che gli aveva chiesto come lo desiderava.

Avutolo, Dini lo girò e rigirò tra le dita, guardandolo con occhi luccicanti. Lo avvicinò, poi, alle labbra con gesto lento e cominciò a leccarlo, e in quel gesto assomogliava tanto ai cagnolini. La lingua che schioccava e il viso sorridente denotavano il piacere che gliene derivava.

Era arrivato a metà, quando, alzando gli occhi dal gelato, si accorse che un ragazzino, più piccolo di lui e con i vestiti a brandelli, aveva puntato i suoi occhietti, mesti e quasi allucinati, sul suo gelato.

A quella vista, Dino perdette tutta la sua gaiezza. Il suo viso ridivenne triste e un lampo di luce cattiva attraversò i suoi occhi. Il gusto della crema del gelato era svanito.

Perchè quel bimbo, indubbiamente più infelice di lui, si era avvicinato proprio a lui? Perchè guardava fissamente proprio il suo gelato? Che cosa sperava da lui, che a stento poteva permettersi il lusso di comprare un gelato per sè?

Turbato e sconvolto, di scatto voltò le spalle per non vedere. Leccò ancora una volta la crema; ma non potè continuare. Sentiva lo sguardo del fanciullo sempre puntato su di sè. Si rivoltò. Si avvicinò al fanciullo deciso ad allontanarlo, anche a schiaffi.

Ma lo sguardo del fanciullo, diventato dolce e implorante insieme, lo rabbonì. Porse, allora, la parte del gelato rimasta al bimbo con gesto cordiale e con il sorriso sulle labbra.

Il bimbo, appena lo ebbe tra le mani, lo portò alle labbra e si mise subito a correre tra la folla.

Dino lo seguì con lo sguardo per un pò; poi, si infilò, pure lui, di nuovo tra la folla.

Si fermò, dopo un non lungo vagabondare, davanti ad una bancarella carica di dolci e noccioline. Comprò, con venti lire, un filo di noccioline e un pezzetto di torrone. Questa volta si nascose in un portone, e sgranellò tutto con evidente piacere.

Ritornò a camminare in mezzo alla folla. Ad un certo punto fu attratto da un signore che faceva il “gioco delle tre carte”: chi puntava sulla carta giusta, vinceva la somma posta sulla carta. Pensò di poter raddoppiare le ultime dieci lire che aveva in tasca. Si avvicinò al tavolino e mise le dieci lire sulla carta che lui pensava vincente. Ma non era quella vincente. Aveva perso gli ultimi spiccioli. Che delusione!

Mentre vagava deluso e sconfortato, venne attratto da un fatto singolare.

Di fronte a lui c'era un fruttivendolo che, in occasione della festa, aveva esposto molte ceste colme di frutta.

La folla, che comprava o si informava sul prezzo e sulla qualità, era molta. Il fruttivendolo, intento a pesare e a rispondere, non si accorgeva che alcuni ragazzi, approfittando della confusione, rubavano quello che era più a portata di mano e si dileguavano prontamente tra la folla. E lo avevano già fatto per diverse volte, senza che l'uomo se ne accorgesse.

Dino, riflettendo sulla facilità dell'impresa, poichè aveva finito i soldi, fu tentato di agire alla stessa maniera.

"Se lo fanno loro che non hanno soldi come me, posso farlo anche io", ragionava tra sè, quasi a giustificare l'azione che stava per compiere.

Attraversò la strada, facendosi largo tra la folla. Si avvicinò piano piano alle ceste della frutta. Aspettò che gli altri ragazzi tornassero alla carica , affondò, quindi, una mano nella cesta delle ciliegie e scappò via di corsa.

Quella volta il fruttivendolo, sfortunatamente, si accorse del furto e incominciò a gridare: "Ragazzacci!....Vagabondi!...Ladri!", disse infine con voce tuonante ed irata.

Ladro! Questa parola colpì Dino come una sferzata. "No, lui non era un ladro!"

Si fermò e, anche se a malincuore, ritornò sui suoi passi. Si avvicinò all'uomo, che era ancora infuriato, e gli porse le ciliegie.

"Ah, ecco uno di quei ladruncoli! adesso ti aggiusto io", sbraitò il fruttivendolo e colpì più volte il viso di Dino con forti manrovesci.

Dino, punto sul vivo per quella punizione inaspettata e piuttosto immeritata, si trasformò in una piccola belva. Sferrò calci e pugni negli stinchi e nello stomaco del bruto, che fu costretto a mollarlo. Subito fuggì, piangendo per l'ira, il disappunto, il dolore.

" Bella ricompensa, per avergli riportato le ciliegie! ...avrei fatto meglio a squagliarmela, come gli altri", disse tra i singhiozzi; e concluse :" Sono un buono a nulla; per rubare ci vuole fortuna e coraggio".

A forza di spintoni e dopo aver ricevuto varie pestate , arrivò alla giostra.

Ad un lato c'era il "tiro a segno" con fucili ad aria compressa: vi gareggiavano i giovanotti, desiderosi di mettersi in mostra davanti alle ragazze - "cittadine" le chiamavano - dello stesso tiro al bersaglio; ma proprio la presenza di quelle faceva tremare loro la mano.

I ragazzini si divertivano a sparare contro un disco girevole, su cui erano dipinti dei numeri: il premio era costituito da caramelle corrispondenti, per quantità, al numero centrato.

Per andare sulla giostra "giracavallo" occorrevano trenta lire. Dino non aveva più una lira. Come fare?

Vide che la giostra veniva spinta dal di dentro da alcuni ragazzi; dopo un determinato tempo, a turno, ognuno di loro faceva un giro gratuitamente.

La soluzione!

Si avvicinò al padrone della giostra e chiese di poter entrare anche lui a far parte del gruppo di ragazzi che azionava la giostra. Ricevuto il consenso, si mise a spingere, cercando di nascondersi il più possibile, perchè si vergognava di farsi vedere dai compagni di scuola.

Per un pò tutto andò bene. Poi, la fatica incominciò a farsi sentire e Dino, anziché spingere, quasi si appoggiava, si aggrappava alla giostra, lasciandosi trasportare.

Le grida festose e gioiose che i bambini dalla giostra rivolgevano alle loro mamme lo incantavano.

"Mammina, vedi come vado sul cavallo a dondolo!"

"Mammina, com'è bello andare sull'aereo!"

"Mammina, guarda come guido l'automobile!"

Queste ed altre mille frasi i bambini rivolgevano allegri alle madri, e queste ridevano, e mandavano baci e chiamavano i loro pargoletti coi nomi più dolci: "tesoruccio !"; "passerotto !"; "amore mio!"

Dino ascoltava e, con lo sguardo perso nel vuoto, come fissando un'immagine evanescente e lontana, sorrideva.

Un ceffone lo fece battere con la faccia a terra e lo riportò brutalmente alla realtà. Era stato il padrone della giostra a darglielo, visto che lui non spingeva e che, anzi, s'era addirittura seduto sulla piattaforma girevole.

Dino si alzò da terra con il viso sporco di polvere e di un pò di sangue che usciva da una escoriazione. Guardò l'uomo con occhi che, furenti dapprima, si riempirono subito di lacrime; poi, si allontanò con passo lento e pesante.

Era notte. Dino era accoccolato in un angolo della piazza, il più deserto e buio. Guardava in alto: c'era la luna che risplendeva argentina in un cielo terso e trapuntato di stelle. Guardava quella luna e quelle stelle e voleva pensare a tante cose. Ma nella sua testa c'era solo una confusione che, piano piano, si attenuò e svanì, fino a trasformarsi come in un vuoto. Sentiva solo un suono di violini dolce, sottile, penetrante che lo inebriava. Tutte le cose che lo circondavano si misero, all'improvviso, a girare, confondendosi: stelle, persone, cielo, case, luci.

Si trovò, meravigliato, in un mondo sconosciuto.

Una grande sala, con pavimenti sfavillanti e dipinti magnificamente; con pareti ricoperte di quadri stupendi e di cornici d'oro. In mezzo alla sala era imbandita una tavola lunga smisuratamente. Su di essa si trovavano dolci di ogni specie e grandezza, e frutta bellissima dai colori vivaci e invitanti.

Intorno a lui camerieri in livrea attendevano i suoi ordini.

Egli era vestito come i principini di un tempo, quelli che si vedono spesso nelle pellicole di cappa e spada.

"Maestà, aspettiamo i vostri ordini!", disse uno dei camerieri, che sembrava il capo. "Il pranzo è pronto e i bambini poveri, che voi avete fatto chiamare, sono dinanzi al portone".

"Fateli entrare, allora!", rispose Dino.

Una marea di bambini, mal vestiti sporchi e affamati, si riversò all'improvviso nella grande sala e prese d'assalto la tavola così riccamente imbandita.

Dino guardava, e il viso sorridente rivelava la sua immensa gioia.

Si avvicinò al cameriere, che prima aveva parlato, e disse: "Questi fanciulli resteranno sempre con noi; anzi, ordino che venga punito chi oserà far loro del male".

"Sarà fatto, maestà!", disse il cameriere, e si inchinò.

Dino si avvicinò alla tavola; guardò i bambini che mangiavano avidamente; poi, si sedette e stese la mano per afferrare una grossa mela....Ma la mano brancolava nel buio dell'angolo della piazza e stringeva solo aria...

Dino si svegliò al rumore degli spari dei fuochi artificiali.

Stordito e deluso, si avviò tristemente verso casa, attraverso quel vicoletto che la mattina era parso tanto festoso, e che allora era buio e tetro.

Intanto, in mezzo alla piazza, la gente sgranocchiava noccioline e commentava, per lo più con suoni gutturali, la bellezza dei fuochi che illuminavano di colori vari e vivaci la notte.

BIAGIO OSVALDO SEVERINI

Mostra altro

WALDEN DUE – UTOPIA PER UNA NUOVA SOCIETA' a cura di b.o.severini

7 Ottobre 2013 , Scritto da Biagio Osvaldo Severini Con tag #biagio osvaldo severini, #filosofia

Il programma di vita. La concezione dell’uomo. La punizione, il rinforzo positivo e il problema della libertà. Gesù e la chiesa cristiana. La democrazia, gli USA e l’URSS. Il governo a W.D. No al leader, al Principe, all’eroe. Una società cooperativa non competitiva.

Il romanzo fu scritto da Skinner - famoso psicologo sperimentale statunitense e caposcuola del comportamentismo operante contemporaneo - nel 1945, dopo aver letto uno studio sui movimenti perfezionisti in America nel XIX secolo e nel momento in cui la civiltà occidentale attraversava un brutto momento, con le distruzioni, le morti e gli assassinii causati dalla seconda guerra mondiale.

Skinner voleva manifestare il suo pensiero sul modo di risolvere i problemi della vita quotidiana, grazie all’aiuto della “ingegneria comportamentale”( “behavior modification”) degli uomini, evitando l’azione della politica. Ciò viene idealmente realizzato in una comunità di mille persone, di cui Frazier è il demiurgo.

In questo romanzo, appunto, Skinner descrive la vita di una comunità utopica, tanto per intenderci alla maniera della platonica “Repubblica”, della campanelliana “Città del Sole”, della “Utopia”(Repubblica perfetta) di Thomas Moro, della baconiana “Nuova Atlantide”.

Le problematiche affrontate scaturiscono da intuizioni politiche e sociali interessanti, che hanno del profetico, e che sono sempre attuali: il lavoro, il consumo dei beni, il denaro; le condizioni più favorevoli per la creazione artistica e la musica; l’educazione e l’istruzione, il controllo dell’ambiente fisico e sociale, le emozioni, il processo naturale di crescita, le differenze di QI (Quoziente di Intelligenza); la famiglia, il matrimonio, l’ossessione del sesso, il divorzio, il rapporto madre-figlio, la donna; il governo e la vita a W.D. .

Il programma del demiurgo Frazier è essenzialmente un movimento religioso, liberato da qualsiasi aggancio con il sovrannaturale, ispirato dalla decisione di costruire il paradiso in terra, illuminato, appunto, dalla filosofia della ingegneria comportamentale.

In questa comunità si valorizza la dignità della persona.

La prima meta della vita è la felicità; la seconda è una rapida ed attiva spinta verso il futuro.

La regola fondamentale consiste nel dire sempre e niente altro che la verità.

Nei confronti dell’uomo non si sostiene la sua bontà innata, né la sua innata malvagità; ma si ha fiducia nel potere di riuscire a cambiare il comportamento umano, rendendo gli uomini adatti alla vita di gruppo con soddisfazione di ognuno.

Il cambiamento del comportamento si può ottenere tramite il “rafforzamento positivo”, consistente nel creare una situazione che piace, o nel rimuovere una che non piace. La “punizione” non viene considerata efficace per ridurre la probabilità che una certa azione si ripeta. La punizione è efficace solo temporaneamente; inoltre, l’azione punita potrà pure non essere più ripetuta, tuttavia resterà nel soggetto la tendenza, il desiderio di ripeterla. Essa, perciò, potrà essere ripetuta in altre circostanze o si trasformerà in nevrosi.

Frazier fa notare che Gesù è stato il primo a scoprire il potere che si trova nel rifiutarsi di punire: infatti, egli ama i suoi nemici.

La chiesa cristiana, però, non presenta molti casi in cui è stato fatto del bene ai propri nemici, perché coloro che la reggono sono devoti al “potere” sia temporale che simulato, afferma Frazier.

E anche tutti gli altri poteri – da quello politico a quello familiare - si sono serviti della forza della punizione, del castigo, della vendetta contro i loro nemici, oppositori, resistenti. Essi sono stati oppressivi e, quindi, hanno fatto sorgere il problema della libertà.

Gli uomini lottano per la libertà, contro le prigioni o la polizia o la loro minaccia, in sostanza contro l’oppressione; ma non lottano mai contro le forze che fanno sì che essi agiscano nel modo che vogliono agire.

A W.D. le persone fanno quello che vogliono fare, non quello che sono costrette a fare. Ognuno soddisfa i propri bisogni e osserva le leggi. Questa è la fonte del tremendo potere del “rinforzo positivo”.

La democrazia si è dimostrata chiaramente superiore ai governi dispotici, tanto che con la seconda guerra mondiale i fascismi e i nazismi sono stati distrutti. Ma il trionfo della democrazia non significa che essa sia il governo migliore.

Negli USA, ad esempio, il governo del popolo, tramite il voto, è un travisamento. Il voto è uno stratagemma per incolpare la gente della situazione. Il popolo non è dominatore, ma capro espiatorio. E’ la maggioranza che governa in maniera dispotica.

In URSS la sperimentazione rivoluzionaria è morta; la propaganda è indottrinamento; c’è il culto della personalità; il governo si serve delle tecniche capitalistiche per spingere la gente ad agire come richiede lo schema comunista, cioè ricorre alle ricompense stravaganti ed irregolari, ad una distribuzione non equa della ricchezza, alla punizione o alla minaccia della punizione.

Quanto durerebbe il comunismo, se venissero fatti a pezzi i ritratti di Lenin e di Stalin?

A W.D. il governo ha le qualità della democrazia, senza averne i difetti; esso pensa ai benefici di tutti. L’intelligenza è utilizzata per il bene della società piuttosto che per quello dell’individuo intelligente; per migliorare le condizioni di vita del futuro piuttosto che quelle immediate.

Il leader, l’eroe esistono nelle società prescientifiche, in cui il governo è un’arte, ossia una scienza imperfetta, per cui si ha bisogno di avere fede nella benevolenza, nella saggezza di qualcuno che realizzi un governo giusto.

Una società che agisce per il bene di tutti non può tollerare un Principe, un Cesare, un Napoleone, uno Stalin, perché l’eroe diventa sempre despota ( la presenza del demiurgo Frazier non contraddice questa principio?, ndr).

A W.D. viene scoraggiata la venerazione dell’eroe, perché è una società cooperativa, non competitiva e il governo è una scienza. Una società senza eroi ha una forza quasi favolosa.

A W.D. nessuno agisce mai per il beneficio di qualche altro, tranne che come mandatario della comunità. Il favoritismo personale come la gratitudine personale sono stati distrutti dagli ingegneri culturali.

Nessuno è mai in debito con nessuno e nessun gruppo è mai inferiore rispetto all’intera comunità.

A W.D. non si realizza una politica imperialistica; non c’è nessuna mira sui possedimenti altrui; nessun interesse nel commercio con l’estero; ma si incoraggia la felicità e l’autosufficienza.

“Walden Due” può essere considerato, in definitiva, un grandioso esperimento riguardante la struttura di un mondo pacificato e pacifico.

Quanta forza profetica traspare dalle parole di Skinner in relazione a certi avvenimenti politici internazionali accaduti solo dopo il 1989 (caduta del muro di Berlino) e quanta condivisione fanno nascere in noi alcune forti affermazioni di etica politica, fondata sull’uguaglianza e, quindi, sulla condanna del personalismo!

( Burrhus Frederic Skinner, Walden Due, La Nuova Italia, 1981)

Biagio Osvaldo Severini

Mostra altro

Ricordo di Ugo Riccarelli di B.O.Severini

11 Agosto 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #recensioni, #biagio osvaldo severini

Ricordo di Ugo Riccarelli

Premio Strega 2004

Biagio Osvaldo Severini

Ugo Riccarelli nacque nel 1954 ed è morto oggi, 22 luglio 2013. Ha vinto il Premio Strega nel 2004. Il romanzo premiato si intitolava “Il dolore perfetto”(Mondadori, 2004).

Il dolore perfetto è il dolore circolare, avvolgente, profondo, totale che invade corpo e anima e coinvolge emotività, sentimenti, ragione, sensi. Questo dolore non lascia zone d’ombra o vie di fuga. Ti scuote in tutto l’essere. E’ questo il pensiero dell’autore.

Il linguaggio del romanzo è asciutto, essenziale, concreto, aderente alla psicologia dei personaggi, al loro lavoro, al luogo dove vivono, alle idee che hanno, alla vita che conducono.

Lo stile è a volte acuminato, a volte dolce, a volte gioioso, a volte pittorico, a volte spietato.

La narrazione inizia dalle vicende esistenziali del Maestro elementare che parte da un paesino vicino a Sapri ( Salerno) e arriva in un paese della Toscana, arroccato anch’esso sopra una collina.

Siamo nell’Italia del 1861, subito dopo l’Unità. Il Maestro vuole insegnare a leggere, scrivere e far di conto a quel 95% di persone che è ancora analfabeta.

Il Maestro è anarchico ed è seguace delle idee di Carlo Pisacane che proprio a Sapri (1857) vide fallire la sua missione e vide massacrare i suoi seguaci dalle truppe borboniche: “eran trecento, giovani e forti e sono morti”, dirà il poeta risorgimentale Luigi Mercantini nella nota lirica “La spigolatrice di Sapri”.

Successivamente si incontrano altri numerosi personaggi, collegati direttamente o indirettamente agli avvenimenti della storia italiana.

La repressione operata dal generale Bava Beccaris delle agitazioni milanesi del 1898 e l’uccisione a cannonate dei popolani che chiedevano “pane!”.

E ancora, l’epidemia della “spagnola” (1918 – 1919). Non si era quasi neppure finito di contare i morti del I conflitto mondiale, che la febbre spagnola fece morire migliaia di altre persone, portando con sé anche spavento e disperazione.

L’ascesa dei fascisti al potere, anche nei piccoli Comuni, dove “le camicie nere costrinsero al silenzio gli ultimi oppositori con gli argomenti del bastone, delle minacce e delle purghe”.

E oppositori erano i socialisti, i comunisti, gli anarchici, i cattolici democratici, tutti definiti dai fascisti “traditori, cospiratori, infidi, sfasciatori dell’Italia”.

La caduta del Duce il 25 luglio 1943 e l’armistizio dell’8 settembre dello stesso anno.

Ma soprattutto si sottolineano le atrocità dei fascisti della Repubblica Sociale di Salò (1943 – 1945) con la connessa viltà di quelli che “se ne stavano chiusi in casa a lasciar morire libertà e compassione che ormai nessuno più conosceva”.

Arriva la campagna di Russia della II guerra mondiale e la disfatta dell’esercito italiano durante la marcia della morte bianca nella steppa “impietosamente ghiacciata, sferzata da un vento polare e stretta nella morsa del gelo”.

I rari superstiti italiani sopravvissero grazie alla “umanità degli Ucraini che li accolsero in casa e li curarono”.

Può sembrare un arido libro di storia e di politica. E’, invece, un romanzo pieno di umanità che mette in evidenza le conseguenze derivanti alle persone dai grandi eventi, soprattutto conseguenze drammatiche, tragiche, dolorose, attraverso le quali passarono e passano le storie personali, le quali poi sono le uniche che contano, perché sono esse che fanno la storia con le loro sofferenze, con le loro gioie, con le loro nascite e morti, in un continuo avvicendarsi. E’ il dolore perfetto della vita, che si chiede in se stessa.

Una nota finale dello scrittore si sofferma su un episodio particolare: la visita a una macchina del moto perpetuo. Un aggeggio che individui strani, forse degli utopisti, costruiscono per dimostrare che si può arrivare al moto perpetuo, nel senso che una volta dato l’avvio ad una ruota, questa poi continua a muoversi autonomamente, senza bisogno di un motore, cioè senza consumare energie.

E’ capitato anche a me, durante la mia fanciullezza, di assistere ad un esperimento sul moto perpetuo derivante da una ruota costruita da un personaggio del paese, che quasi tutti consideravano “stranulato”, che viveva in un suo mondo fatto di utopie, ed era, forse, felice così.

Quella macchina del moto perpetuo fece percepire allo scrittore “per la prima volta il senso dell’utopia, la vidi fatta dai fili, dalle ruote e dagli snodi di quel marchingegno”. Io rimasi semplicemente sorpreso.

La macchina del moto perpetuo e’ la metafora del dolore perfetto e della felicità ricercata e trovata nell’utopia?

E’ una sintesi imperfetta di un grande romanzo e il ricordo immediato, ma sentito, di un autore dal respiro europeo, che merita di essere letto o riletto.

Mostra altro

COSA FARE PER ESSERE INFELICI? Adriana Pedicini presenta Biagio O. Severini

13 Giugno 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #saggi, #filosofia, #psicologia, #biagio osvaldo severini

Paul Watzlawick

Manuale per la ricerca dell’infelicità. Infelicità, mente e creatività. Rigidità mentale, caparbietà e coerenza. Il peso del passato. Autosuggestione. Tasse ed evasione fiscale. Effetto dopo sbornia. La felicità sta nella partenza, non nella meta. Il piacere umano è futuro. Le illusioni delle alternative e la pazzia. Il pessimismo moralistico. Comunicazione e infelicità: Amore e spontaneità. Schopenhauer, l’amore e la compassione. La sublimazione della libìdo. Donne facili, prostitute e omosex. La collusione. Il latin lover.

Professor Watzlawick, lei ha voluto sottolineare l’importanza della conoscenza delle istruzioni per rendersi infelici. Come se gli uomini avessero bisogno di un aiuto o di una consulenza psicologica per diventare degli esseri infelici, per vivere una vita all’insegna dell’infelicità. Già naturalmente noi uomini siamo infelici. Il nostro scopo, le nostre energie psichiche dovremmo utilizzarle, invece, per combattere l’infelicità, o per attenuarla e, quindi, migliorare il nostro modo di vivere, durante l’arco di tempo, più o meno lungo, che intercorre tra la nascita e la morte. Lei, invece, ci vuole fornire un manuale, del tipo di quelli scolastici, con i precetti da seguire per diventare bravi ricercatori delle occasioni più succulenti per riempirci di infelicità. Non è strana la sua tesi? Eppure, psicologi e psichiatri si affannano a farci arrivare pubblicazioni di ogni tipo per orientare il nostro comportamento verso la felicità.

Guardi che nel corso della vita effettivamente tutti possono essere infelici per disgrazie varie. Quello che va imparato è, invece, il rendersi infelici. Per rendersi infelici non basta una sventura personale. E’ necessario impegnarsi a fondo. Purtroppo, in questa direzione non ci aiuta la letteratura psicologica e psichiatrica, perché pochi autori e studiosi si sono dedicati a fornirci delle indicazioni o delle informazioni utili e pertinenti su tale questione. Questi autori, anche se pochi, sono eccellenti. Io voglio solo aggiungere una metodica e basilare introduzione ai meccanismi più sfruttabili e verificabili dell’infelicità.

D’altra parte, l’infelicità ci è dolorosamente necessaria. L’infelicità, se ben si riflette, è la materia delle grandi creazioni artistiche. La letteratura mondiale si nutre di catastrofi, crimini, colpe, follie, tragedie, disgrazie. Si pensi all’ “Inferno” di Dante che è di gran lunga più geniale del suo “Paradiso”; al “Paradiso riconquistato” di Milton che è del tutto insipido nei confronti del “Paradiso perduto” ; del “Faust I” di Goethe che ci commuove fino alle lacrime, mentre il “Faust II” fa sbadigliare.

Mi scusi, ma per secoli ci hanno fatto credere che lo scopo della vita doveva essere la felicità. Certo, sotto specie diverse, di volta in volta la vita etica, la vita contemplativa, l’assenza di turbamenti e di passioni, la vita ultraterrena, il nirvana o altre cose simili. Ma sempre alla ricerca della felicità. Ora, ci domandiamo, a costo di sembrare ingenui, che cosa è la felicità?

Le rispondo subito che il concetto di felicità non è definibile. Terenzio Varrone contava 289 interpretazioni sulla vita felice e così anche Agostino.

Quindi, l’uomo è condannato ad essere infelice, a non avere un attimo di respiro in questa infelicità quotidiana, predeterminata, definitiva?

A tal proposito voglio ricordare le parole tratte dai “Demoni” di Dostoevskij: “L’uomo è infelice perché non sa di essere felice…Chi lo comprende sarà subito felice, immediatamente, nello stesso istante”.

In sostanza, dobbiamo capire che “noi” siamo i creatori non solo della nostra infelicità, ma anche nella stessa misura della nostra felicità.

Ma come si fa ad accusare l’uomo, gli uomini di essere gli autori della propria infelicità? Essa non dipende dal destino, da una forza superiore, misteriosa, imperscrutabile, o dalla convivenza con gli altri? Come facciamo a diventare giorno dopo giorno avversari di noi stessi?

La strada per l’infelicità ce la mostrano continuamente le massime del buon senso, della sensibilità popolare o, addirittura, ci viene indicata dall’istinto. D’altra parte, ricordiamoci che prima di tutto l’infelicità ce la possiamo creare nel chiuso della nostra mente.

Un esempio concreto?

Si pensi alla massima fondamentale della vita di ciascuno di noi: c’è un unico punto di vista valido e questo è il mio. Chi è convinto di ciò rimane fedele a se stesso, ai suoi principi e non è disposto a nessun compromesso; rifiuta continuamente ogni cosa, perché non rifiutare significherebbe già tradire se stesso; il duro e puro in questo senso rifiuta anche un consiglio che oggettivamente sarebbe vantaggioso per lui. Egli, in nome di una coerenza eroica, rigetta anche ciò che a se stesso appare come la migliore raccomandazione, in quanto raccomandazione fatta a se stesso. Chi agisce alla luce di questa convinzione, conclude che il mondo sta andando in rovina.

In questo caso che fare?

Tenere presente l’aurea massima degli antichi romani: “Ducunt fata volentem, nolentem trahunt” , il fato conduce dolcemente chi lo segue, trascina chi gli resiste.

Mi permetta di aggiungere che la coerenza come fedeltà ad una teoria o una visione del mondo non deve trasformarsi in cocciutaggine, caparbietà, cecità mentale fino alla negazione di qualsiasi evidenza. Ma bisogna essere capaci di valutare razionalmente sia gli obiettivi, sia i mezzi, sia i principi alla luce del nuovo, se il nuovo è più consono alla vita socio-ambientale.

Certo.

Si dice che il fluire del tempo effettivamente guarisce le ferite psichiche, lenisce il dolore per la perdita di una persona cara, per l’abbandono di un’ innamorata o di un innamorato, perché subentra l’oblio che avvolge tutto il passato nella nebbia della dimenticanza. Eppure c’è chi si ostina a voler ricordare tutti gli avvenimenti più dolorosi degli anni dell’infanzia o dell’adolescenza, quasi a voler far rivivere le sofferenze, dimenticando di proposito qualche avvenimento bello.

Purtroppo, è così. C’è chi si ostina a ricordare la propria infanzia e pubertà con crudo realismo, come periodo dell’insicurezza, del dolore del mondo e dell’ansia per il futuro e non rimpiange di quei lunghi anni neppure un giorno di felicità.

Anche in amore l’aspirante all’infelicità per eccellenza non si convince e non si lascia convincere che in fondo quella relazione fosse da tempo mortalmente malata, anzi che troppo spesso si era chiesto in qual modo avesse potuto fuggire da quell’inferno. No, per lui la separazione non è il male peggiore. Allora si isola dalla vita sociale e aspetta al telefono che l’amata perduta gli comunichi il suo ritorno, cosa che non avverrà mai.

Questo guardare al passato, questo camminare con la testa rivolta all’indietro, ci impedisce, quindi, di dedicarci al presente e di constatare che, se ci soffermiamo sui particolari attuali, possiamo anche scorgere qualche occasionale non-infelicità. Ma questa probabilità deve essere assolutamente esclusa dalla mente del votato all’infelicità: il passato è sempre presente e condiziona giornalmente la sua vita! Non è così?

Sicuro. Quello che ci cagionarono Dio, mondo, destino, natura, cromosomi e ormoni, società, genitori, parenti, polizia, insegnanti, medici, capi o soprattutto amici, è talmente grave che la minima insinuazione circa il poter forse fare qualcosa contro tale condizione è già di per sé un’offesa. E inoltre manca di scientificità...

Mi perdoni, se l’interrompo, ma teorie, tecniche e terapie psicologiche famose – si pensi alla psicoanalisi – sostengono che la personalità presente è frutto del vissuto, del passato di ognuno di noi.

Qualsiasi testo di psicologia ci dice, infatti, quanto la personalità sia determinata dai fatti accaduti nel passato, soprattutto nella prima infanzia. Del resto, ogni bambino sa che ogni cosa accaduta lo è per sempre. Ciò spiega tra l’altro la brutale serietà ( e la lunghezza) delle relative indagini psicologiche.

A questo punto, le domando: se un numero crescente di persone si convincesse che la loro condizione è disperata ma non seria, si potrebbe non dico rompere, ma almeno scalfire questo legame con il passato e aprirsi al presente e al futuro?

La persona esperta di infelicità, in caso di una gioia non voluta e improvvisa, direbbe : “ora è troppo tardi, ora non la voglio più”, oppure renderebbe il passato responsabile anche del “bene”, a tutto vantaggio della presente infelicità.

Ricordo la frase pronunciata da un lavoratore del porto di Venezia, quando gli Asburgo lasciarono questa città: “ Maledetti gli Austriaci, che ci hanno insegnato a mangiare tre volte al giorno!”

Oltre alla forza maggiore, esistono, quindi, anche adattamenti e comportamenti ai quali gli individui votati all’infelicità sono attaccati saldamente come la cozza allo scoglio. E questo è segno di rigidità mentale, di incapacità di flessibilità logica, di mancanza di ristrutturazione del campo visivo e di “insight”, di illuminazione geniale innovativa.

Per delle cause non ancora chiarite dagli studiosi del comportamento, tanto gli animali quanto gli uomini tendono a considerare gli adattamenti, che si rivelarono all’occasione i migliori possibili, come gli unici eternamente praticabili. Per cui si continua a utilizzare la stessa soluzione del passato, con il risultato di non trovare “ora” la via di uscita dalla situazione problematica, il che genera disagio.

Non si capisce che le situazioni mutano con il passare del tempo. Anzi, l’aspirante all’infelicità è convinto che esista un’unica soluzione e che questa, in quanto unica, non può mai essere messa in discussione.

Allora, ognuno di noi è autore della propria infelicità, e questa infelicità se la crea rifiutando l’evidenza della ragione e dell’esperienza, che gli farebbero trovare una luce di ottimismo nel mare magnum del pessimismo. E’ così che ci creiamo l’infelicità, con l’autosuggestione?

Prendiamo ad esempio, un innamorato che sia convinto di amare follemente una donna, ma che non abbia mai fatto capire a questa di ardere di passione per lei. Poi, all’improvviso chiede alla donna, inconsapevole, di sposarlo. La donna manifesta sorpresa, e quasi sconcerto. L’innamorato autosuggestionato, allora, di fronte a queste reazioni, conclude che aveva ragione lui, che aveva accordato la sua benevolenza a chi non se la meritava.

Altri esempi molto comuni. Ogni semaforo, in luoghi diversi, diventa rosso ogni volta che voi vi avvicinate. La fila che scegliete è sempre la più lunga. La ragione vi porterebbe a pensare che la frequenza con cui trovate il verde o il rosso è quasi la stessa. Ma voi, incalliti pessimisti, respingete questa probabilità. Vi convincete, invece, che oscure potenze superiori si accaniscono contro di voi. Questa consapevolezza vi rende possibili ulteriori, importanti scoperte, perché ora il vostro sguardo è pronto a cogliere connessioni sorprendenti, che sfuggono invece alle ottuse e inesperte intelligenze normali! Gli uomini comuni tendono a minimizzare le situazioni. Voi no, voi notate dappertutto le insolite e misteriose connessioni della vita quotidiana! E gli amici che si sforzano di dimostrarvi che non ogni cosa è dannosa per voi, ebbene questi amici sono ipocriti!

Ogni cittadino può riuscire, attraverso questo speciale “training” mentale, a crearsi una situazione penosa e soffrirne, senza sapere di esserne l’autore.

Come si può uscire da questa situazione?

Bisogna affrontare il problema non solo mentalmente, ma facendo ricorso anche alla verifica pratica.

Molti adottano un’altra soluzione: rifiutano o scansano una situazione temuta. Essi, ad esempio, fanno il calcolo dei rischi a cui si va incontro, compiendo una determinata azione, ed evitano quella o quelle azioni. Ma quante e quali sono le situazioni pericolose che si devono evitare o accettare? Andare in aereo? Andare in auto? Andare a piedi? Rimanere in casa? Non alzarsi dal letto? Non mangiare i cibi provenienti da terreni inquinati? Non mangiare cibi grassi? Ognuna di questi comportamenti presenta, però, dei rischi. Allora, che fare?

Bisogna abituarsi ad applicare il sano buon senso a un problema settoriale e accontentarci di successi parziali.

Se ho ben capito, significa evitare gli eccessi, ricorrendo a soluzioni razionali, come mangiare per nutrirsi, senza “abboffarsi”, rimpinzarsi (se si tratta di bulimia, allora è una situazione patologica), ma anche senza rifiutare del tutto il cibo (in tal caso si tratta di anoressia, altro aspetto patologico); o valutare, in generale, il rapporto costo-benefici di ogni azione. L’uso della ragione ci deve tenere anche lontani dall’astrologia. Ma quando l’oroscopo ci predice un incidente, un incontro amoroso, una vincita al lotto e l’evento si avvera, noi ci convinciamo che l’astrologia è credibile. Allora, la profezia che si avvera fa parte del mondo culturale dell’aspirante all’infelicità?

Le profezie che si realizzano da sé fanno parte anche del contesto sociale. Si pensi alla questione dell’aumento delle tasse. Quanto più in un paese vengono aumentate le tasse per compensare l’evasione fiscale dei contribuenti, ritenuti ovviamente disonesti, tanto più vengono indotti a questo reato anche i cittadini onesti e, quindi, aumenta l’evasione fiscale.

La mia personale opinione, a tal proposito, è che bisogna, di conseguenza, non aumentare le tasse dei contribuenti onesti, ma combattere l’evasione fiscale con mezzi efficienti e radicali. E si può fare. Il problema è che non lo si vuol fare politicamente.

Concordo pienamente!

Lei parla di un effetto “doposbornia”. Ci vuole chiarire il significato di questo fenomeno?

L’esperto in infelicità conosce bene l’effetto “doposbornia”. Ossia, lo scopo non ancora raggiunto è più desiderabile, romantico e luminoso di quanto possa esserlo quello a cui si è già arrivati. Nella partenza sta la felicità, non nella meta. Ogni realtà annienta il sogno. Il “Seduttore” di Hermann Hesse dice: “Resisti, bella donna, rendi più severe le tue vesti! Incanta, tormenta, ma non concederti a me!” Anche la “vendetta è amara”, come scrive George Orwell. L’isola della felicità di Thomas More si chiama “Utopia” che, guarda caso, significa “in nessun luogo”.

A proposito di felicità che sta nell’attesa, mi permetta di ricordare il nostro grande Giacomo Leopardi che, nello “Zibaldone”, sostiene: “Il piacere umano (così probabilmente quello di ogni essere vivente, in quell’ordine di cose che noi conosciamo) si può dire ch’è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà”. Ed esprime poeticamente questa riflessione nel “Sabato del villaggio”(l’attesa del dì di festa). Fino ad ora, comunque, ci siamo occupati solo dell’infelicità autosufficiente. Vogliamo, ora, affrontarla anche nel campo dei rapporti sociali?

Bene. Diciamo subito che gli aspiranti all’infelicità usano la tecnica delle “illusioni delle alternative” per complicare i rapporti umani. Questo meccanismo consiste nel concedere al partner solo due possibilità di scelta e, non appena ne scelga una, nell’accusarlo di non aver scelto l’altra. Lo schema è questo: se egli fa A, avrebbe dovuto fare B; se fa B, avrebbe dovuto fare A. Regaliamo a nostro figlio due camicie sportive. Quando ne indossa una per la prima volta, guardandolo con aria avvilita, diciamo:”L’altra non ti piace?”

E’ un meccanismo usato molto bene dai giovani nei confronti dei genitori!

Certo. Nel vago periodo compreso tra l’infanzia e l’età adulta, riesce loro facile esigere dai genitori quel riconoscimento e quelle libertà che spettano a un giovane. Ma quando si tratta di doveri sanno sempre nascondersi dietro il pretesto di essere giovani. E quando il padre o la madre ammettono a denti stretti che era meglio non avere figli, passano facilmente per dei genitori snaturati.

Negli istituti psichiatrici, ad esempio, si lascia libero il paziente di partecipare o no alle sedute di gruppo. Se rifiuta, è manifestazione di resistenza, come tale patologica. Se partecipa “spontaneamente” riconosce di essere ammalato e di aver bisogno della terapia. Inoltre, se chiede chiarimenti su quello che gli altri pensano della sua pazzia, gli viene risposto :“ Se tu non fossi pazzo, sapresti che cosa pensiamo”. Se mette in discussione la sua malattia, viene giudicato ancora più pazzo. Se accetta la sua condizione in silenzio, dimostra di essere pazzo e gli altri hanno ragione a definirlo tale.

Con questa tecnica non solo si dimostra la propria normalità, ma si spinge l’altro in una disperazione estrema.

Lei parla di una felicità con significato negativo. Ci vuole spiegare questo aspetto?

I sostenitori del pessimismo moralistico, appartenenti all’ordine dei puritani, sostengono:”Puoi fare quello che vuoi, basta che non sia piacevole.” Per loro, anche se un giorno scoppiasse la felicità nel mondo intero, ci sarebbe sempre da tener presente che “Cristo è morto sulla croce!”

Anche la comunicazione tra persone, siano pure intimamente in rapporto tra loro, può causare incomprensione e, quindi, infelicità. Tra marito e moglie, genitori e figli, innamorati, amici, parenti. Riprendendo riflessioni di Bertrand Russel e di Gregory Bateson, lei sottolinea che ogni comunicazione presenta sia un livello oggettivo che un livello relazionale. La proposizione “questa rosa è rossa” indica oggettività; “questa rosa è più rossa dell’altra” indica relazione. La moglie chiede al marito: “Ti piace questa minestra nuova preparata appositamente per te?”Il marito può rispondere “No” se la trova disgustosa (livello oggettivo); o rispondere “Sì”, per non offendere la moglie (livello relazionale). In quest’ultimo caso, però, il marito corre il rischio di vedersi preparare quella minestra per decenni. Come rispondere in questo caso, per salvare capra e cavoli?

I puristi della comunicazione sostengono che la risposta giusta dovrebbe essere:”La minestra non mi piace, ma ti sono molto grato per la fatica che hai fatto”. La moglie sarebbe contentissima? Provare per credere.

Un’altra difficoltà nella comunicazione è rappresentata dal paradosso dell’esortazione: “Sii spontaneo!”. Come giustamente fa notare anche lei, per la logica formale – di aristotelica memoria – costrizione e spontaneità si escludono: o si agisce spontaneamente di propria iniziativa, o si esegue un ordine. “A o è B o è non-B. Tertium non datur”.

Ma che ci importa della logica? Se posso scrivere “Sii spontaneo”, posso anche dirlo, che sia logico o no. Il problema nasce quando il destinatario dell’esortazione deve eseguire il comando. Compie l’azione, perché la desidera lui, o compie l’azione contro voglia, solo per accontentare l’esortatore? Lo stesso ragionamento vale per l’esortazione “Sii felice”, o per “Mi devi amare spontaneamente”, e per tante altre paradossali sofisticherie.

A proposito del sentimento dell’amore, a prima vista sembra una cosa semplice, facilmente comprensibile, dolce nei momenti di profonda intimità, quando non si ragiona, anzi non si parla, ma si agisce solo. Quando s’incomincia a ragionare e a parlare sul significato del rapporto, le cose si complicano, per via della comunicazione nel suo livello relazionale. Ossia, quando il partner si pone le domande “Perché mi ama?”, “Perché mi si dona?”, “Perché non chiede di sposarmi?” e simili , allora l’armonia dei corpi e degli spiriti incomincia ad incrinarsi, perché elementi razionali penetrano nell’unione psicofisica spontanea e la trasformano in relazione doverosa, in cui i partner devono assumersi responsabilità, impegni per il futuro, facendo progetti e programmando la vita. E si perde, quindi, la spontaneità dell’amore. Che fare?

In primo luogo, non cercate mai di sapere troppo dal partner sul perché vi ama, ma chiedetelo a voi stessi. Il partner potrebbe non saper rispondere o dirvi un motivo per voi insignificante; inoltre, egli avrà pure un secondo fine che certamente non rivelerà a voi.

C’è un aspetto particolare che voglio discutere con lei. Molti, o alcuni uomini – intendo maschi – hanno, avevano la concezione che la donna che si concede, proprio per questo, non merita più la loro stima.

E’ vero. Questa concezione, nobile soltanto in apparenza, è molto diffusa in un paese dell’Europa meridionale. L’innamorato disprezza la donna che gli si concede, perché una donna onorata non avrebbe fatto “questo”. In questo stesso paese esiste il detto secondo cui “tutte le donne sono puttane, tranne mia madre: lei è una santa”.

Questo per il figlio. Per amore di completezza, professore Watzlawick, ci sarebbe da aggiungere che il ruolo di fratello e di marito porta a precisare:”Tranne mia sorella e mia moglie!”

Ma c’è anche chi non ha nessuna stima di sé e si ritiene non degno di essere amato.

E’ questo il caso di chi non si ritiene meritevole di amore ed è portato a gettare discredito sulla persona che lo ama. Ella ha qualcosa che non funziona nella sua vita interiore: sarà masochista, sarà nevrotica, sarà morbosamente attratta per ciò che è abietto, sarà, insomma, una persona, di sicuro, patologicamente disturbata.

L’irriducibile sostenitore dell’infelicità troverà, dunque, di che alimentarsi in queste singolari e insolubili complicazioni dell’amore. Egli – come lei afferma - troverà aspetti miserevoli nel comportamento delle persone innamorate: “si dice innamorata di me, perché vuole che io la sposi!”; sia nell’amore in quanto tale. A proposito di quest’ultimo aspetto, mi permetta di ricordare la concezione pessimistica che dell’amore aveva Arthur Schopenhauer:“l’amore è nient’altro che due infelicità che si incontrano, due infelicità che si scambiano ed una terza infelicità che si prepara…Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire, affonda sempre le sue radici nell’istinto sessuale…Se la passione del Petrarca ( per Laura) fosse stata appagata, il suo canto sarebbe ammutolito…” Che cosa possiamo, dunque, consigliare a questo eroe dell’infelicità?

Egli dovrà innamorarsi disperatamente di una persona sposata, di un prete, di una stella del cinema o di una cantante d’opera. In questo modo viaggerà fiducioso e lieto, senza mai arrivare, e, inoltre, si risparmierà il disinganno nel dover constatare che l’altro è eventualmente del tutto disponibile a iniziare una relazione – cosa questa che gli farebbe perdere subito ogni attrattiva.

Lo stesso Schopenhauer, però, afferma che esiste un amore da elogiare ed è quello della pietà, della compassione. L’eros, essendo egoistico e interessato, è un falso amore; ogni puro e sincero amore è pietà, è agàpe, che è disinteressato. Anche lei afferma che l’aiuto disinteressato è un eccellente ideale e trova in se stesso la propria ricompensa. Che cosa può obiettare sulla nobiltà della compassione, dell’amore disinteressato per gli altri l’incallito votato all’infelicità?

La forza del pensiero negativo non ha limiti e si sa che chi cerca trova. Il pessimista scopre dappertutto lo zampino del diavolo. Egli pensa: “Mi comporto così perché voglio meritarmi il paradiso, perché voglio essere ammirato ed elogiato, per curare eventuali disinganni? E’ così semplice smascherare il marciume del mondo!

Certo che la letteratura psicoanalitica dà un notevole contributo al pessimista ad ogni costo, allorquando parla di “sublimazione della libìdo”. I casi li ricorda perfettamente lei: il ginecologo è un voyer; il chirurgo è un sadico mascherato; lo psichiatra vuol fare la parte di Dio; il coraggioso pompiere è in realtà un piromane represso; l’eroico soldato sfoga il suo inconscio impulso suicida, il suo istinto di morte; il poliziotto si occupa dei delitti degli altri per non diventare egli stesso un criminale; il famoso detective ha un malcelato atteggiamento paranoide. E si possono aggiungere i casi del figlio o della figlia che non si sposa per accudire la madre o il padre e che sotto l’amore filiale nasconde il complesso di Edipo o di Elettra, ossia l’amore inconscio per la madre o per il padre; o di chi si vota alla castità per il timore, sempre inconscio, di essere castrato; per l’ignoranza dell’anatomia e fisiologia femminile ( la convinzione della donna bambola, senza sesso) o di quella maschile ( la convinzione dell’uomo bambolotto, senza sesso); o per l’ossessione di commettere atti immondi.

Anche la persona soccorrevole può con il suo comportamento far naufragare un rapporto?

Certo. Immaginiamoci soltanto un rapporto a due fondato principalmente sull’aiuto che uno dei partner dà all’altro. Questo rapporto può fallire o riuscire (anche qui “tertium non datur”). Se fallisce, alla fine la delusione porterà il soccorritore ad abbandonare. Se riesce, il soccorritore abbandonerà lo stesso, perché non è più necessario il suo aiuto . Il rapporto comunque si spezzerà.

Mi pare che soprattutto nelle donne si riscontra questa tendenza a convertire i reietti in modelli di virtù!

Ci sono donne, infatti, che per potersi sacrificare hanno bisogno di uomini problematici e deboli: bevitori, criminali, giocatori. Per realizzare il loro potenziale di infelicità, esse si impegnano a fondo con amore e soccorrevolezza, incuranti dei comportamenti sempre uguali degli uomini. Per questo tipo di donna non va bene un uomo relativamente indipendente, perché egli non avrebbe bisogno di aiuto costante. Per lei non va bene il principio che una mano lava l’altra. L’uomo deve essere sempre debole e bisognoso di essere redento.

E, quindi, non si dovrà mai arrivare alla redenzione, altrimenti lo scopo finisce e il rapporto si rompe. Viaggiare, dunque, ma mai arrivare alla meta!

Lei afferma che nella teoria della comunicazione questo modello si chiama “collusione”. Ce ne vuole spiegare il significato?

Immaginiamoci una madre senza figlio, un medico senza ammalati, un capo senza Stato. Sarebbero soltanto ombre, uomini provvisori. Ognuno di noi ha un’immagine di se stesso e nel rapporto con il partner tendiamo a farci confermare e ratificare tale immagine. Solo attraverso quel partner che svolge nei nostri confronti un tale ruolo, noi siamo “veramente”; senza di lui siamo abbandonati ai nostri sogni, e i sogni, si sa, sono bolle di sapone.

Per semplificare, il masochista ha bisogno del sadico. Ma anche il giudice ha bisogno dei delinquenti, così come lo psichiatra ha bisogno dei pazzi, lo psicologo dei disturbati psichici, e così via.

E’ così. Anche l’altro partner si adatta al ruolo, proprio perché egli stesso per esistere “veramente” vuole svolgere quel ruolo. Ogni rapporto di collusione finisce immancabilmente nell’assurdità del “Sii spontaneo!”

Possiamo pensare al rapporto di un cliente con una prostituta!

Il cliente desidera naturalmente che la donna gli si dia non soltanto per i soldi, ma anche perché lo vuole “veramente”. La cortigiana di talento riesce benissimo a suscitare e a mantenere questa illusione. Praticanti dotate di meno abilità falliscono, perché portano il cliente al disinganno, al “doposbornia”. Anche nelle relazioni omosessuali esiste il pericolo del disinganno, perché il desiderio è quello di avere un rapporto con un uomo “vero”, ma purtroppo si constata che l’altro, a sua volta, è “soltanto” un omosessuale.

Il disinganno può verificarsi anche nel comportamento del “latin lover”?

Certo, se si pensa che i comportamenti delle donne in America latina, negli Stati Uniti, in Scandinavia e in Europa sono diversi e sono cambiati nel corso dei decenni. Il “latin lover” che fosse convinto di ottenere sempre successo con lo stesso comportamento, si troverebbe ben presto a fare i conti con il disinganno, perché non troverebbe sempre la donna giusta pronta ad adattarsi alle sue esigenze.

Questa considerazione si può estendere anche al comportamento nostro nei confronti degli stranieri e degli stranieri nei confronti del paese ospitante. Nessuno può lasciarsi guidare dai pregiudizi, perché, se lo fa, cade in comportamenti insensati, stupidi.

Quasi tutti noi ci comportiamo, lasciandoci guidare dal presupposto che il nostro mondo “è” il vero mondo; insensati, falsi, illusori, stravaganti sono i mondi degli altri. Se siamo ostinatamente convinti che noi abbiamo ragione e gli altri sempre torto, le tensioni tra locali e stranieri non si attenueranno mai, anzi aumenteranno di intensità. Anche nel rapporto tra partner bisogna smettere di essere ossessionati dall’idea di dover battere il partner per non essere battuti. In questo modo si può vincere insieme e si può perfino vivere in armonia con l’avversario decisivo, che è la vita.

Come possiamo chiudere questa conversazione?

Con le stesse parole dell’inizio. Un personaggio dei “Demoni” di Dostoevskij dice: “Tutto è buono…Tutto. L’uomo è infelice, perché non sa di essere felice. Soltanto per questo…Chi lo comprende sarà subito felice, immediatamente, nello stesso istante…”

Grazie per la cortesia.

Biagio Osvaldo Severini

( Paul Watzlawick “Istruzioni per rendersi infelici”, Feltrinelli. Il professore è morto nel 2007 all’età di 85 anni)

Mostra altro

La cultura dell’educazione in una società complessa di B.O.Severini presentato da Adriana Pedicini

10 Maggio 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #saggi, #educazione, #biagio osvaldo severini

La cultura dell’educazione in una società complessa
JEROME BRUNER

Epoca rivoluzionaria. Disagio degli attori educativi. Antinomie e complessità. Cultura rivoluzionaria. Dialogo e istruzione estensibili a tutti. Metodologia della ricerca e mente proattiva. I giovani e i problemi cruciali. Identità narrativa e alterità. Mente interpretativa. Comunicazione ed educazione. Colpa degli insegnanti e degli intellettuali la rovina della scuola e della cultura?

Ci troviamo a vivere un momento di radicale trasformazione delle istituzioni educative che sono o preposte esplicitamente ai processi formativi, o ne sono implicate indirettamente.

Società, famiglia, scuola, gruppo dei pari e mass media sono attraversate da cambiamenti veloci e diversi che le trasformano e le fanno cadere , a volte, in conflitto di competenze e di interessi.

Un’attenzione peculiare viene rivolto alla scuola e all'educazione, ma non si mancherà di accennare ad altre aree tematiche rilevanti nel campo della sociologia dell'educazione.

La scelta cade sulla scuola, perché in essa confluiscono e interagiscono, formalmente o informalmente, le diverse componenti della vita comunitaria.

E anche perché, come sottolinea Vincenzo Cesareo ( "Elementi di sociologia dell'educazione", Carocci editore, Roma, 2004), il sistema formativo è sempre e comunque radicato in una realtà sociale definita, per cui, se quest'ultima è coinvolta in processi di modificazione profonda, è impossibile che esso vi rimanga estraneo a lungo, nonostante eventuali resistenze.

Il disorientamento delle istituzioni educative genera un clima di crisi e di sfiducia, in cui si trovano a disagio sia i genitori, sia gli educatori in genere, sia gli alunni di ogni ordine e grado.

Per cercare di dare un contributo al chiarimento della questione, si può partire dalle riflessioni dello studioso nordamericano Jerome Bruner, esposte nell'interessante lavoro "La cultura dell'educazione".

A questo fine rivolgo al professore - in una intervista immaginaria - alcune domande su specifiche problematiche educative e non solo.

Egregio professore, mi permetta di ricordare che Hegel amava sostenere che, quando bisogna iniziare un discorso, è importante cominciare dal “cominciamento”. Perciò, soffermerò la sua attenzione su una questione preliminare di carattere, diciamo così, terminologico.

Il processo formativo deve essere inteso etimologicamente come attività di “educare”, ossia guidare, o come “educere”, ossia “tirar fuori”?

Il modello da tenere presente deve essere quello di Pitagora, che pretendeva dai suoi allievi l’obbedienza assoluta, secondo il principio dell’ “Ipse dixit”; o viceversa quello di Socrate, secondo il metodo della “maieutica”, dell’aiutare l’allievo a “partorire” la verità, ad arrivare alla conoscenza, impegnando le proprie forze?

Da questa prima problematica scaturiscono, di conseguenza, altri interrogativi.

Nel processo educativo deve, dunque, assumere importanza: il magistrocentrismo (il maestro è il centro), o il puerocentrismo ( il bambino è il centro); l’insegnamento ( “in-signare”, per cui il docente porta dentro la mente del bambino i segni della conoscenza), o l’apprendimento ( “ad-prehendo”, per cui l’allievo con la sua mente si muove per afferrare gli elementi della conoscenza); l’eteroeducazione (per cui si riceve la conoscenza dall’esterno), o l’autoeducazione, per cui ci si educa da soli); la socializzazione ( per cui è l’adulto che sottopone il bambino al processo di acquisizione di comportamenti sociali), o lo sviluppo sociale ( per cui il bambino possiede in sé le spinte a vivere con gli altri)?

Porre l’accento sull’insegnante o sull’alunno comporta una serie di cambiamenti di prospettiva nel processo educativo, negli obiettivi educativi, nell’orientamento scolastico.

Ma comporta anche una visione diversa della concezione della società: la centralità spetta allo Stato o al cittadino, all’autorità o alla libertà, al dogmatismo o al problematicismo?

In sintesi: credere, obbedire e combattere per uno Stato etico assolutistico? O criticare, decidere, dialogare in uno Stato di diritto democratico?

Non sono problemi di poco conto, com’è facile capire.

Certo. Per trovare una soluzione, dobbiamo riflettere sul fatto che in epoche rivoluzionarie la società è sempre dominata dalle contraddizioni. E la nostra è un’epoca rivoluzionaria. Perciò, essa è dominata dalle contraddizioni, dalle antinomie…

…Scusi, nella mia mente subito affiorano i ricordi legati alle famose antinomie della ragione di cui parla Kant, nelle quali l’antitesi sostiene il contrario della tesi; come esempio,cito l’antinomia del mondo: il mondo ha un’origine nel tempo ed è limitato nello spazio (tesi); il mondo non ha origine nel tempo, né nello spazio (antitesi). Secondo la logica formale le antinomie sono un paradosso, perché due proposizioni riferite allo stesso oggetto nello stesso momento non possono essere vere entrambe: il principio del terzo escluso non lo ammette: A o è B o è non-B ( “tertium non datur”).

Anche l’educazione è travagliata dalle contraddizioni.

Infatti, lei elenca tre antinomie del campo pedagogico. Con il suo permesso, le sintetizzo.

La prima riguarda l’individuo e la società. Tesi: l’educazione deve mirare a realizzare le potenzialità dell’individuo; antitesi: l’educazione deve mirare a riprodurre, consevare la cultura della società attuale.

La seconda si riferisce allo sviluppo intrapsichico o allo sviluppo interpersonale. Tesi: l’apprendimento è intrapsichico, allora è centrale l’alunno con le sue doti naturali e bisogna coltivare la mente dei migliori; antitesi: lo sviluppo mentale è interpersonale, allora è importante che l’insegnante fornisca a tutti gli alunni gli attrezzi simbolici con cui sviluppare le doti naturali.

La terza è relativa alla conoscenza locale o alla storia universale. Tesi: la conoscenza locale è valida di per sé e non ha bisogno di una teoria universale per essere convalidata (questa tesi appare nei movimenti estremistici localistici); antitesi: esiste una storia universale che si manifesta nei fatti locali in tempi, luoghi e circostanze precise e ci sono personaggi che si autoproclamano portatori di valori universali.

Come si risolvono queste antinomie?

La soluzione delle antinomie non può essere trovata nel campo della logica formale, ma solo in quello della pragmatica.

Voglio dire che nel campo dell'educazione, per valutare quello che vogliamo insegnare o vogliamo far apprendere, e per sapere in che direzione ci vogliamo muovere, dobbiamo tenere in debito conto queste antinomie. Quindi, capire che la giusta misura non sta nella scelta della tesi o dell'antitesi, ma nel considerare i vari aspetti presenti in una società complessa come la nostra.

Come concepire, allora, il processo e gli obietti educativi?

L'educazione deve essere concepita come un processo anch'esso complesso, intrinsecamente antinomico e interdipendente, in cui confluiscono sviluppo e formazione, auto ed eteroeducazione.

Anche gli obiettivi educativi diventano, di conseguenza, complessi: bisogna tendere a realizzare le potenzialità individuali, ma salvaguardando la società; riconoscere le differenze dei talenti naturali, ma fornendo a tutti gli strumenti della cultura; rispettare le identità locali, ma difendendo anche la coesione come popolo, per evitare sia la torre di Babele dei localismi, sia l'omologazione della globalizzazione.

Quale deve essere, allora, la caratteristica generale della scuola?

Una risposta di carattere generale mi porta ad affermare che la scuola deve essere una comunità propositiva, collaborativa, solidaristica, promotrice di una cultura rivoluzionaria, soprattutto in una situazione di deprivazione.

Per capire meglio, vuole scendere nell’analisi della sua affermazione?

Bene. Alcuni esperimenti psicologici su animali e su bambini hanno dimostrato che essi, se allevati in situazioni di deprivazione sensoriale affettiva e culturale, rivelavano deficienze, quando venivano sottoposti a test relativi a normali compiti di apprendimento e di soluzione di problemi.

Questi esperimenti ci fanno capire, in sintesi, che gli esseri umani, in particolare, presentano le caratteristiche di essere non solo "reattivi", ma anche "proattivi".

Gli uomini, in sostanza, non solo necessitano delle stimolazioni, ma le cercano, soprattutto vogliono interagire con gli altri, vogliono essere aiutati a sviluppare le loro capacità.

La scuola, allora, deve intraprendere un'azione positiva nel senso di spingere gli alunni a vivere in una comunità scolastica propositiva, per permettere loro di costruire le proprie competenze e di sviluppare un effettivo senso di appartenenza ad una comunità collaborativa.

La comunità scolastica deve, quindi, strutturarsi come un ambiente, in cui si elabora un progetto legato agli interessi degli alunni e che essi stessi contribuiscono ad organizzare con le loro idee.

Solo così operando, si può sperare di contrastare l'alienazione, l'impotenza e la mancanza di scopi della società più ampia.

La scuola deve diventare, in concreto, un luogo dove sperimentare: come usare la mente; come trattare con gli altri; come trattare con l'autorità; come formarsi l'autostima; come mettere in pratica i principi etici, che la società esterna non sempre applica.

Lei afferma che la scuola deve diventare promotrice di una cultura rivoluzionaria. Quando una cultura diventa rivoluzionaria?

La cultura diventa rivoluzionaria, semplicemente quando è coerente con i principi dichiarati nelle "Carte dei diritti dell'uomo" e quando diventa dialogica, narrativa, interpretativa.

Narrazione significa, infatti, vedere le cose da un altro punto di vista, significa rompere gli schematismi tradizionali totalizzanti, considerati, dopo millenni, di origine divina o naturale e, perciò, immodificabili.

La scuola deve applicare, inoltre, nella pratica quotidiana i diritti dell'uomo e permettere all'alunno di farlo, sperimentando le proprie capacità e i propri limiti.

Se la scuola non realizza questa pratica educativa, spingerà l'alunno a cimentarsi nel campo della "crimininalità spicciola" o nei comportamenti anomali (bullismo, antisocialità, ribellismo, ed altro).

Si sa che le società nazionali e la società mondiale stanno attraversando un periodo di trasformazioni e di crisi profonde, che investono stili abitativi, modelli di famiglia, consapevolezza etnica, opportunità socioeconomiche.

Si sa anche che i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, con in mezzo la classe demografica media che sta scendendo al di sotto della soglia della povertà.

Allora, cambia anche la percezione della scuola?

Senza dubbio. La classe sociale dei ricchi manderà i propri figli nelle scuole dove si formano i dirigenti. La classe media considererà la scuola e la cultura come il migliore investimento. Gli ultimi della scala socioeconomica non avranno più fiducia nella scuola, perché non la considereranno più come una via d’uscita dalla povertà e l’abbandoneranno.

In questa situazione di tensioni e di conflitti, in una società in trasformazione la scuola deve assumere, quindi, funzioni nuove?

Le scuole dovrebbero diventare luoghi dove venga praticata la reciprocità culturale, dove gli alunni siano messi in grado di acquisire la consapevolezza di quello che fanno, di come lo fanno, del perché lo fanno.

La scuola, quindi, non dovrebbe semplicemente rinnovare le abilità tradizionali - quelle che rendono un paese competitivo sui mercati mondiali - , facendole acquisire per imitazione, ma dovrebbe rinnovare soprattutto l'apprendimento, nel senso di farlo diventare più partecipativo, più proattivo, più collaborativo, più costruttivo di significati.

L'istruzione, in sostanza, dovrebbe uscire dai limiti angusti della prospettiva utilitaristica e strumentale, tipica di una società acquisitiva ed efficientistica, e diventare disinteressata, bene in sé e diritto estendibile a tutti.

Questo nuovo modo di concepire "l'apprendimento come collaborazione nel produrre senso", dovrebbe significare non imporre ai più deboli la versione dei più forti; quindi, dovrebbe portare al riconoscimento delle minoranze e alla sconfitta della visione unilaterale della soluzione dei problemi, alla eliminazione dell'egemonia e dell'unanimismo, con la conseguente creazione di un mondo più solidaristico e più democratico.

Per sperare di realizzare queste finalità, si dovrebbe cambiare anche il rapporto tra docenti e alunni?

Certamente. In classe, ad esempio, si dovrebbe privilegiare il "dialogo", perché esso rappresenta la forma di conversazione che, aprendo alla problematicità, favorisce la possibilità di arricchimento e di perfezionamento dei contenuti.

In questa prospettiva andrebbe cambiata anche la concezione della cultura!

La cultura, infatti, dovrebbe essere intesa come l'acquisizione di tecniche e procedure per gestire e capire il mondo e, in questo senso, vanno apprese le nuove tecnologie (CD-rom, ipertesti, strutture ramificate, ed altre) che ci permettono di controllare e dominare i mezzi di comunicazione di massa e di non esserne schiavi.

La tecnologia è essenziale per la cultura, ma non ne rappresenta certo il punto centrale. Il punto centrale della cultura è la metodologia di ricerca e di uso della "mente proattiva".

Cosa fare per interessare i giovani alla istruzione e alla cultura?

Per operare un cambiamento della nostra cultura e della nostra scuola, bisognerebbe scegliere prima di tutto i problemi cruciali, quelli che gli alunni vivono ogni giorno e a cui sono sensibili, come, ad esempio, il degrado ambientale, le violenze a scuola, la droga, il fumo, gli omicidi nella società locale, lo sfaldamento della famiglia.

I giovani, infatti, vivono dentro queste stesse contraddizioni e cercano con il gruppo dei pari di realizzare un'esperienza vitale accanto all'esperienza familiare, di mediare il rapporto con gli adulti, di riempire il vuoto creato dalla distanza psicologica con gli interlocutori adulti, genitori e docenti in particolare.

Spesso i comportamenti devianti nascono proprio dalla necessità di "rendersi visibili" alla società degli adulti, come sottolinea Palmonari (citato in "Elementi di sociologia dell'educazione", a cura di Elena Besozzi).

La scuola con funzioni nuove deve significare che essa dovrebbe raccordarsi, appunto, con le esigenze dei giovani, con il desiderio di acquistare una identità e sviluppare una personalità autonoma.

Una identità che, come dice il filosofo Paul Ricoeur, deve essere concepita come "identità narrativa, dinamica" che fa pensare ad una continua dialettica di accordo e disaccordo tra azione e agente, tra sé e l'altro, mantenendo sempre presente il legame con la responsabilità.

Alla luce di questa teoria narrativa e processuale dell'identità, e quindi dal riconoscimento dell'alterità e della differenza e al contempo della responsabilità del soggetto, è possibile procedere ad una ricostruzione del legame sociale e all'attenuazione dei problemi della devianza.

Quando si è sottolineato l'importanza del "dialogo" nella scuola, si voleva proprio chiarire il principio fondamentale di una scuola con funzioni nuove, in cui possano convivere autonomia e reciprocità, in una continua approssimazione verso l'altro, in cui si impara a leggere il modo in cui l'altro legge il mondo; dove le diversità non vanno ridotte al silenzio; dove c'è una continua dialettica tra libertà individuale e legame sociale verso le istituzioni.

Per quale ragione insiste sulla forma dialogica?

La forma dialogica si rende necessaria, anche perché adeguata alla nuova visione della mente umana.

Oggi, gli psicopedagogisti fanno notare che la mente solitaria probabilmente è stata la proiezione della nostra ideologia occidentale.

La mente non è più una semplice "tabula rasa", né una rete di relazioni logiche, ma è una mente orientata ai problemi, interpretativa, diretta verso gli scopi, alla ricerca di rapporti con altre menti attive, con gli altri e con i loro punti di vista.

La mente, poi, costruisce i discorsi, servendosi delle idee acquisite, concatenandole tra loro secondo regole grammaticali e sintattiche, per giungere ad una conclusione e alla comunicazione strutturata.

A proposito di comunicazione, che rapporto esiste tra essa e l’educazione?

Voglio sottolineare che ogni educazione è sempre comunicazione; pertanto, non ci può essere contrapposizione tra educazione e comunicazione. Come il pensiero è sempre pensiero di qualcosa, anche la comunicazione è sempre processo dialettico e interattivo e, quindi, avviene all'interno di legami mediati, "inter-mediati", nel senso che c'è sempre un termine intermedio di confronto all'interno dei flussi comunicativi.

Come si struttura la personalità di un ragazzo?

Quando abbiamo accennato alla concezione dell'identità narrativa, abbiamo voluto evidenziare che la personalità di ciascun alunno si struttura proprio nella conversazione con se stesso e con gli altri, nello sperimentare l'altro come differenza, nel prestare attenzione all'altro che genera in noi tensione, ciò che giustifica l'impegno e la fatica di crescere.

Questa finalità della scuola comunicativa si può realizzare, se, come abbiamo detto, i problemi cruciali e le procedure per riflettere su di essi entrano a far parte della scuola e del lavoro che si svolge in classe.

Se, invece, lasciamo fuori dell'aula, per convenienza o per delicatezza, gli argomenti scottanti, la scuola comincia a presentare un aspetto così estraneo e così lontano dal mondo, che molti ragazzi potrebbero non sentirsi più a loro agio e a non trovare più posto al suo interno per se stessi e per i loro amici.

I ragazzi potrebbero chiedersi: che cosa ci faccio in una istituzione che lascia fuori della porta i problemi della vita reale, della strada, della paura di vivere in quartieri degradati?

E sono soprattutto i ragazzi delle classi più povere a non amare la scuola, perché la sentono troppo astratta e separata dalla vita reale, come già detto.

Sono d’accordo con le sue affermazioni e ne traggo la conclusione che in tal modo si può dare una spiegazione – ma non è la sola – dell’ origine del fenomeno della dispersione scolastica.

Prima di terminare, vorrei conoscere il suo pensiero sull’accusa che viene rivola agli insegnanti americani di essere i colpevoli del disastro dell’educazione nazionale.

Non sono stati gli insegnanti e le scuole a creare le condizioni che hanno reso così difficile la situazione educativa americana. Non hanno creato loro una classe sociale inferiore. E non avrebbero mai potuto compromettere la missione di ricerca e di sviluppo di un'industria competitiva quale l'americana come hanno fatto gli avventurieri che negli anni Ottanta hanno dato la scalata alle imprese investendo in azioni-spazzatura. Né hanno creato, come hanno fatto gli speculatori di borsa e gli speculatori immobiliari, un mondo di senzatetto da una parte e di consumisti dall'altra, che oggi affliggono la nostra economia e minano la nostra determinazione. Non sono loro i responsabili del problema della droga, che adesso Washington propone ironicamente di risolvere affidandone il compito di prevenzione alle scuole, invece di bloccare l'afflusso di stupefacenti nel nostro paese o di distruggere i cartelli nostrani della droga.

Come ben riflettono e descrivono anche la nostra situazione italiana queste osservazioni critiche!

Per migliorare il sistema educativo e renderlo idoneo a guidare il futuro, diventa necessario, allora, avere idee chiare su dove vogliamo andare e su quale tipo di umanità vogliamo essere.

Per Bruner l'obiettivo non deve essere quello di formare una società-azienda competitiva sui mercati mondiali, ma di formare una nazione "nella quale e per la quale valga la pena di vivere".

Certo, non bisogna negare l'importanza di avere lavoratori con una solida preparazione scientifica e matematica, in grado di competere ora con i Giapponesi, i Cinesi e gli Indiani.

Non dimentichiamo, però, che i "cambiamenti rivoluzionari", quelli che aprono nuovi orizzonti culturali, sono stati portati avanti non da avventurieri, da speculatori di borsa o immobiliari, da spacciatori di droga, bensì da poeti, commediografi, musicisti, filosofi.

E’ per questo - Bruner conclude - che "che in un regime di tirannia i primi ad andare in prigione sono i romanzieri , i poeti, i filosofi, i pensatori. E' per questo che io li voglio in una classe democratica: perché ci aiutino a vedere ancora, in modo nuovo".

E come dargli torto?

( Intervista realizzata sulla base dell’opera di J. Bruner: “La cultura dell’educazione”, Feltrinelli, Milano, 2000)

Mostra altro

Adriana Pedicini LA CULTURA DELL'EDUCAZIONE IN UNA SOCIETA' COMPLESSA di Biagio Osvaldo Severini

5 Aprile 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #educazione, #saggi, #biagio osvaldo severini

Biagio Osvaldo Severini

 

La cultura dell’educazione in una società complessa
JEROME BRUNER
Epoca rivoluzionaria. Disagio degli attori educativi. Antinomie e complessità. Cultura rivoluzionaria. Dialogo e istruzione estensibili a tutti. Metodologia della ricerca e mente proattiva. I giovani e i problemi cruciali. Identità narrativa e alterità. Mente interpretativa. Comunicazione ed educazione. Colpa degli insegnanti e degli intellettuali la rovina della scuola e della cultura?

Ci troviamo a vivere un momento di radicale trasformazione delle istituzioni educative che sono o preposte esplicitamente ai processi formativi, o ne sono implicate indirettamente.
Società, famiglia, scuola, gruppo dei pari e mass media sono attraversate da cambiamenti veloci e diversi che le trasformano e le fanno cadere , a volte, in conflitto di competenze e di interessi.
Un’attenzione peculiare viene rivolto alla scuola e all'educazione, ma non si mancherà di accennare ad altre aree tematiche rilevanti nel campo della sociologia dell'educazione.
La scelta cade sulla scuola, perché in essa confluiscono e interagiscono, formalmente o informalmente, le diverse componenti della vita comunitaria.
E anche perché, come sottolinea Vincenzo Cesareo ( "Elementi di sociologia dell'educazione", Carocci editore, Roma, 2004), il sistema formativo è sempre e comunque radicato in una realtà sociale definita, per cui, se quest'ultima è coinvolta in processi di modificazione profonda, è impossibile che esso vi rimanga estraneo a lungo, nonostante eventuali resistenze.
Il disorientamento delle istituzioni educative genera un clima di crisi e di sfiducia, in cui si trovano a disagio sia i genitori, sia gli educatori in genere, sia gli alunni di ogni ordine e grado.
Per cercare di dare un contributo al chiarimento della questione, si può partire dalle riflessioni dello studioso nordamericano Jerome Bruner, esposte nell'interessante lavoro "La cultura dell'educazione".
A questo fine rivolgo al professore - in una intervista immaginaria - alcune domande su specifiche problematiche educative e non solo.
Egregio professore, mi permetta di ricordare che Hegel amava sostenere che, quando bisogna iniziare un discorso, è importante cominciare dal “cominciamento”. Perciò, soffermerò la sua attenzione su una questione preliminare di carattere, diciamo così, terminologico.
Il processo formativo deve essere inteso etimologicamente come attività di “educare”, ossia guidare, o come “educere”, ossia “tirar fuori”?
Il modello da tenere presente deve essere quello di Pitagora, che pretendeva dai suoi allievi l’obbedienza assoluta, secondo il principio dell’ “Ipse dixit”; o viceversa quello di Socrate, secondo il metodo della “maieutica”, dell’aiutare l’allievo a “partorire” la verità, ad arrivare alla conoscenza, impegnando le proprie forze?
Da questa prima problematica scaturiscono, di conseguenza, altri interrogativi.
Nel processo educativo deve, dunque, assumere importanza: il magistrocentrismo (il maestro è il centro), o il puerocentrismo ( il bambino è il centro); l’insegnamento ( “in-signare”, per cui il docente porta dentro la mente del bambino i segni della conoscenza), o l’apprendimento ( “ad-prehendo”, per cui l’allievo con la sua mente si muove per afferrare gli elementi della conoscenza); l’eteroeducazione (per cui si riceve la conoscenza dall’esterno), o l’autoeducazione, per cui ci si educa da soli); la socializzazione ( per cui è l’adulto che sottopone il bambino al processo di acquisizione di comportamenti sociali), o lo sviluppo sociale ( per cui il bambino possiede in sé le spinte a vivere con gli altri)?
Porre l’accento sull’insegnante o sull’alunno comporta una serie di cambiamenti di prospettiva nel processo educativo, negli obiettivi educativi, nell’orientamento scolastico.
Ma comporta anche una visione diversa della concezione della società: la centralità spetta allo Stato o al cittadino, all’autorità o alla libertà, al dogmatismo o al problematicismo?
In sintesi: credere, obbedire e combattere per uno Stato etico assolutistico? O criticare, decidere, dialogare in uno Stato di diritto democratico?
Non sono problemi di poco conto, com’è facile capire.
Certo. Per trovare una soluzione, dobbiamo riflettere sul fatto che in epoche rivoluzionarie la società è sempre dominata dalle contraddizioni. E la nostra è un’epoca rivoluzionaria. Perciò, essa è dominata dalle contraddizioni, dalle antinomie…
…Scusi, nella mia mente subito affiorano i ricordi legati alle famose antinomie della ragione di cui parla Kant, nelle quali l’antitesi sostiene il contrario della tesi; come esempio,cito l’antinomia del mondo: il mondo ha un’origine nel tempo ed è limitato nello spazio (tesi); il mondo non ha origine nel tempo, né nello spazio (antitesi). Secondo la logica formale le antinomie sono un paradosso, perché due proposizioni riferite allo stesso oggetto nello stesso momento non possono essere vere entrambe: il principio del terzo escluso non lo ammette: A o è B o è non-B ( “tertium non datur”).
Anche l’educazione è travagliata dalle contraddizioni.
Infatti, lei elenca tre antinomie del campo pedagogico. Con il suo permesso, le sintetizzo.
La prima riguarda l’individuo e la società. Tesi: l’educazione deve mirare a realizzare le potenzialità dell’individuo; antitesi: l’educazione deve mirare a riprodurre, consevare la cultura della società attuale.
La seconda si riferisce allo sviluppo intrapsichico o allo sviluppo interpersonale. Tesi: l’apprendimento è intrapsichico, allora è centrale l’alunno con le sue doti naturali e bisogna coltivare la mente dei migliori; antitesi: lo sviluppo mentale è interpersonale, allora è importante che l’insegnante fornisca a tutti gli alunni gli attrezzi simbolici con cui sviluppare le doti naturali.
La terza è relativa alla conoscenza locale o alla storia universale. Tesi: la conoscenza locale è valida di per sé e non ha bisogno di una teoria universale per essere convalidata (questa tesi appare nei movimenti estremistici localistici); antitesi: esiste una storia universale che si manifesta nei fatti locali in tempi, luoghi e circostanze precise e ci sono personaggi che si autoproclamano portatori di valori universali.
Come si risolvono queste antinomie?
La soluzione delle antinomie non può essere trovata nel campo della logica formale, ma solo in quello della pragmatica.
Voglio dire che nel campo dell'educazione, per valutare quello che vogliamo insegnare o vogliamo far apprendere, e per sapere in che direzione ci vogliamo muovere, dobbiamo tenere in debito conto queste antinomie. Quindi, capire che la giusta misura non sta nella scelta della tesi o dell'antitesi, ma nel considerare i vari aspetti presenti in una società complessa come la nostra.
Come concepire, allora, il processo e gli obietti educativi?
L'educazione deve essere concepita come un processo anch'esso complesso, intrinsecamente antinomico e interdipendente, in cui confluiscono sviluppo e formazione, auto ed eteroeducazione.
Anche gli obiettivi educativi diventano, di conseguenza, complessi: bisogna tendere a realizzare le potenzialità individuali, ma salvaguardando la società; riconoscere le differenze dei talenti naturali, ma fornendo a tutti gli strumenti della cultura; rispettare le identità locali, ma difendendo anche la coesione come popolo, per evitare sia la torre di Babele dei localismi, sia l'omologazione della globalizzazione.
Quale deve essere, allora, la caratteristica generale della scuola?
Una risposta di carattere generale mi porta ad affermare che la scuola deve essere una comunità propositiva, collaborativa, solidaristica, promotrice di una cultura rivoluzionaria, soprattutto in una situazione di deprivazione.
Per capire meglio, vuole scendere nell’analisi della sua affermazione?
Bene. Alcuni esperimenti psicologici su animali e su bambini hanno dimostrato che essi, se allevati in situazioni di deprivazione sensoriale affettiva e culturale, rivelavano deficienze, quando venivano sottoposti a test relativi a normali compiti di apprendimento e di soluzione di problemi.
Questi esperimenti ci fanno capire, in sintesi, che gli esseri umani, in particolare, presentano le caratteristiche di essere non solo "reattivi", ma anche "proattivi".
Gli uomini, in sostanza, non solo necessitano delle stimolazioni, ma le cercano, soprattutto vogliono interagire con gli altri, vogliono essere aiutati a sviluppare le loro capacità.
La scuola, allora, deve intraprendere un'azione positiva nel senso di spingere gli alunni a vivere in una comunità scolastica propositiva, per permettere loro di costruire le proprie competenze e di sviluppare un effettivo senso di appartenenza ad una comunità collaborativa.
La comunità scolastica deve, quindi, strutturarsi come un ambiente, in cui si elabora un progetto legato agli interessi degli alunni e che essi stessi contribuiscono ad organizzare con le loro idee.
Solo così operando, si può sperare di contrastare l'alienazione, l'impotenza e la mancanza di scopi della società più ampia.
La scuola deve diventare, in concreto, un luogo dove sperimentare: come usare la mente; come trattare con gli altri; come trattare con l'autorità; come formarsi l'autostima; come mettere in pratica i principi etici, che la società esterna non sempre applica.
Lei afferma che la scuola deve diventare promotrice di una cultura rivoluzionaria. Quando una cultura diventa rivoluzionaria?
La cultura diventa rivoluzionaria, semplicemente quando è coerente con i principi dichiarati nelle "Carte dei diritti dell'uomo" e quando diventa dialogica, narrativa, interpretativa.
Narrazione significa, infatti, vedere le cose da un altro punto di vista, significa rompere gli schematismi tradizionali totalizzanti, considerati, dopo millenni, di origine divina o naturale e, perciò, immodificabili.
La scuola deve applicare, inoltre, nella pratica quotidiana i diritti dell'uomo e permettere all'alunno di farlo, sperimentando le proprie capacità e i propri limiti.
Se la scuola non realizza questa pratica educativa, spingerà l'alunno a cimentarsi nel campo della "crimininalità spicciola" o nei comportamenti anomali (bullismo, antisocialità, ribellismo, ed altro).
Si sa che le società nazionali e la società mondiale stanno attraversando un periodo di trasformazioni e di crisi profonde, che investono stili abitativi, modelli di famiglia, consapevolezza etnica, opportunità socioeconomiche.
Si sa anche che i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, con in mezzo la classe demografica media che sta scendendo al di sotto della soglia della povertà.
Allora, cambia anche la percezione della scuola?
Senza dubbio. La classe sociale dei ricchi manderà i propri figli nelle scuole dove si formano i dirigenti. La classe media considererà la scuola e la cultura come il migliore investimento. Gli ultimi della scala socioeconomica non avranno più fiducia nella scuola, perché non la considereranno più come una via d’uscita dalla povertà e l’abbandoneranno.
In questa situazione di tensioni e di conflitti, in una società in trasformazione la scuola deve assumere, quindi, funzioni nuove?
Le scuole dovrebbero diventare luoghi dove venga praticata la reciprocità culturale, dove gli alunni siano messi in grado di acquisire la consapevolezza di quello che fanno, di come lo fanno, del perché lo fanno.
La scuola, quindi, non dovrebbe semplicemente rinnovare le abilità tradizionali - quelle che rendono un paese competitivo sui mercati mondiali - , facendole acquisire per imitazione, ma dovrebbe rinnovare soprattutto l'apprendimento, nel senso di farlo diventare più partecipativo, più proattivo, più collaborativo, più costruttivo di significati.
L'istruzione, in sostanza, dovrebbe uscire dai limiti angusti della prospettiva utilitaristica e strumentale, tipica di una società acquisitiva ed efficientistica, e diventare disinteressata, bene in sé e diritto estendibile a tutti.
Questo nuovo modo di concepire "l'apprendimento come collaborazione nel produrre senso", dovrebbe significare non imporre ai più deboli la versione dei più forti; quindi, dovrebbe portare al riconoscimento delle minoranze e alla sconfitta della visione unilaterale della soluzione dei problemi, alla eliminazione dell'egemonia e dell'unanimismo, con la conseguente creazione di un mondo più solidaristico e più democratico.
Per sperare di realizzare queste finalità, si dovrebbe cambiare anche il rapporto tra docenti e alunni?
Certamente. In classe, ad esempio, si dovrebbe privilegiare il "dialogo", perché esso rappresenta la forma di conversazione che, aprendo alla problematicità, favorisce la possibilità di arricchimento e di perfezionamento dei contenuti.
In questa prospettiva andrebbe cambiata anche la concezione della cultura!
La cultura, infatti, dovrebbe essere intesa come l'acquisizione di tecniche e procedure per gestire e capire il mondo e, in questo senso, vanno apprese le nuove tecnologie (CD-rom, ipertesti, strutture ramificate, ed altre) che ci permettono di controllare e dominare i mezzi di comunicazione di massa e di non esserne schiavi.
La tecnologia è essenziale per la cultura, ma non ne rappresenta certo il punto centrale. Il punto centrale della cultura è la metodologia di ricerca e di uso della "mente proattiva".
Cosa fare per interessare i giovani alla istruzione e alla cultura?
Per operare un cambiamento della nostra cultura e della nostra scuola, bisognerebbe scegliere prima di tutto i problemi cruciali, quelli che gli alunni vivono ogni giorno e a cui sono sensibili, come, ad esempio, il degrado ambientale, le violenze a scuola, la droga, il fumo, gli omicidi nella società locale, lo sfaldamento della famiglia.
I giovani, infatti, vivono dentro queste stesse contraddizioni e cercano con il gruppo dei pari di realizzare un'esperienza vitale accanto all'esperienza familiare, di mediare il rapporto con gli adulti, di riempire il vuoto creato dalla distanza psicologica con gli interlocutori adulti, genitori e docenti in particolare.
Spesso i comportamenti devianti nascono proprio dalla necessità di "rendersi visibili" alla società degli adulti, come sottolinea Palmonari (citato in "Elementi di sociologia dell'educazione", a cura di Elena Besozzi).
La scuola con funzioni nuove deve significare che essa dovrebbe raccordarsi, appunto, con le esigenze dei giovani, con il desiderio di acquistare una identità e sviluppare una personalità autonoma.
Una identità che, come dice il filosofo Paul Ricoeur, deve essere concepita come "identità narrativa, dinamica" che fa pensare ad una continua dialettica di accordo e disaccordo tra azione e agente, tra sé e l'altro, mantenendo sempre presente il legame con la responsabilità.
Alla luce di questa teoria narrativa e processuale dell'identità, e quindi dal riconoscimento dell'alterità e della differenza e al contempo della responsabilità del soggetto, è possibile procedere ad una ricostruzione del legame sociale e all'attenuazione dei problemi della devianza.
Quando si è sottolineato l'importanza del "dialogo" nella scuola, si voleva proprio chiarire il principio fondamentale di una scuola con funzioni nuove, in cui possano convivere autonomia e reciprocità, in una continua approssimazione verso l'altro, in cui si impara a leggere il modo in cui l'altro legge il mondo; dove le diversità non vanno ridotte al silenzio; dove c'è una continua dialettica tra libertà individuale e legame sociale verso le istituzioni.
Per quale ragione insiste sulla forma dialogica?
La forma dialogica si rende necessaria, anche perché adeguata alla nuova visione della mente umana.
Oggi, gli psicopedagogisti fanno notare che la mente solitaria probabilmente è stata la proiezione della nostra ideologia occidentale.
La mente non è più una semplice "tabula rasa", né una rete di relazioni logiche, ma è una mente orientata ai problemi, interpretativa, diretta verso gli scopi, alla ricerca di rapporti con altre menti attive, con gli altri e con i loro punti di vista.
La mente, poi, costruisce i discorsi, servendosi delle idee acquisite, concatenandole tra loro secondo regole grammaticali e sintattiche, per giungere ad una conclusione e alla comunicazione strutturata.
A proposito di comunicazione, che rapporto esiste tra essa e l’educazione?
Voglio sottolineare che ogni educazione è sempre comunicazione; pertanto, non ci può essere contrapposizione tra educazione e comunicazione. Come il pensiero è sempre pensiero di qualcosa, anche la comunicazione è sempre processo dialettico e interattivo e, quindi, avviene all'interno di legami mediati, "inter-mediati", nel senso che c'è sempre un termine intermedio di confronto all'interno dei flussi comunicativi.
Come si struttura la personalità di un ragazzo?
Quando abbiamo accennato alla concezione dell'identità narrativa, abbiamo voluto evidenziare che la personalità di ciascun alunno si struttura proprio nella conversazione con se stesso e con gli altri, nello sperimentare l'altro come differenza, nel prestare attenzione all'altro che genera in noi tensione, ciò che giustifica l'impegno e la fatica di crescere.
Questa finalità della scuola comunicativa si può realizzare, se, come abbiamo detto, i problemi cruciali e le procedure per riflettere su di essi entrano a far parte della scuola e del lavoro che si svolge in classe.
Se, invece, lasciamo fuori dell'aula, per convenienza o per delicatezza, gli argomenti scottanti, la scuola comincia a presentare un aspetto così estraneo e così lontano dal mondo, che molti ragazzi potrebbero non sentirsi più a loro agio e a non trovare più posto al suo interno per se stessi e per i loro amici.
I ragazzi potrebbero chiedersi: che cosa ci faccio in una istituzione che lascia fuori della porta i problemi della vita reale, della strada, della paura di vivere in quartieri degradati?
E sono soprattutto i ragazzi delle classi più povere a non amare la scuola, perché la sentono troppo astratta e separata dalla vita reale, come già detto.
Sono d’accordo con le sue affermazioni e ne traggo la conclusione che in tal modo si può dare una spiegazione – ma non è la sola – dell’ origine del fenomeno della dispersione scolastica.
Prima di terminare, vorrei conoscere il suo pensiero sull’accusa che viene rivola agli insegnanti americani di essere i colpevoli del disastro dell’educazione nazionale.
Non sono stati gli insegnanti e le scuole a creare le condizioni che hanno reso così difficile la situazione educativa americana. Non hanno creato loro una classe sociale inferiore. E non avrebbero mai potuto compromettere la missione di ricerca e di sviluppo di un'industria competitiva quale l'americana come hanno fatto gli avventurieri che negli anni Ottanta hanno dato la scalata alle imprese investendo in azioni-spazzatura. Né hanno creato, come hanno fatto gli speculatori di borsa e gli speculatori immobiliari, un mondo di senzatetto da una parte e di consumisti dall'altra, che oggi affliggono la nostra economia e minano la nostra determinazione. Non sono loro i responsabili del problema della droga, che adesso Washington propone ironicamente di risolvere affidandone il compito di prevenzione alle scuole, invece di bloccare l'afflusso di stupefacenti nel nostro paese o di distruggere i cartelli nostrani della droga.
Come ben riflettono e descrivono anche la nostra situazione italiana queste osservazioni critiche!
Per migliorare il sistema educativo e renderlo idoneo a guidare il futuro, diventa necessario, allora, avere idee chiare su dove vogliamo andare e su quale tipo di umanità vogliamo essere.
Per Bruner l'obiettivo non deve essere quello di formare una società-azienda competitiva sui mercati mondiali, ma di formare una nazione "nella quale e per la quale valga la pena di vivere".
Certo, non bisogna negare l'importanza di avere lavoratori con una solida preparazione scientifica e matematica, in grado di competere ora con i Giapponesi, i Cinesi e gli Indiani.
Non dimentichiamo, però, che i "cambiamenti rivoluzionari", quelli che aprono nuovi orizzonti culturali, sono stati portati avanti non da avventurieri, da speculatori di borsa o immobiliari, da spacciatori di droga, bensì da poeti, commediografi, musicisti, filosofi.
E’ per questo - Bruner conclude - che "che in un regime di tirannia i primi ad andare in prigione sono i romanzieri , i poeti, i filosofi, i pensatori. E' per questo che io li voglio in una classe democratica: perché ci aiutino a vedere ancora, in modo nuovo".
E come dargli torto?

( Intervista realizzata sulla base dell’opera di J. Bruner: “La cultura dell’educazione”, Feltrinelli, Milano, 2000)

Mostra altro
1 2 > >>