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Giovanna Strano, "Parlami in silenzio Modì"

12 Febbraio 2021 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #giovanna strano, #recensioni, #pittura

 

 

 

 

Parlami in silenzio Modì

Giovanna Strano

 

Aiep Editore, 2020

pp 272

14,00

 

Un’altra bella biografia romanzata a firma Giovanna Strano. A parlare in silenzio è Amedeo Modigliani, scultore e pittore livornese, ebreo sefardita, artista bohemienne maledetto, morto precocemente dopo una vita di eccessi tutta dedita all’arte, all’affinamento della ricerca, allo studio dei volumi e dei colori. Lasciarsi ritrarre da Modigliani equivaleva a farsi spogliare l’anima, metterla a nudo, ma anche avere uno scambio con il pittore, fondersi con lui persino fisicamente.

Il romanzo ripercorre la sua vita, dalla nascita - nel letto che la partoriente condivideva con gli oggetti ammassati per evitare il pignoramento - alle numerose donne che lo hanno accompagnato e alle quali ha dato amore ma anche tormento. Donne belle, forti, indipendenti, che per un periodo gli hanno fatto da muse ispiratrici e da sostenitrici, per poi arrendersi all’impossibilità di vivere con un alcolista, un drogato, un fedifrago devoto solo alla sua arte, anarchico e libertario nel profondo. Donne che, alla fine, lo hanno abbandonato, tranne la dolce e sfortunata Jeanne, la più giovane, la più innamorata, la più ingenua, di cui tutti conosciamo la tragica fine.

Una vita minata dalla malattia, bruciata in fretta, consapevole della propria brevità, ardente di passione umana e artistica, vissuta in luoghi sordidi ma fervidi di cultura e arte.

Più che un resoconto di fatti, il romanzo della Strano è due cose: una splendida ricostruzione d’ambiente - la belle époque, Parigi, i quartieri di Montmartre e Montparnasse, il crogiolo di avanguardie letterarie e fermento artistico all’ombra della prima guerra mondiale - e una carrellata di dipinti e sculture, studiati nella loro plasticità ma soprattutto nel loro significato filosofico e umano, perché fra modello e pittore s’intuisce una corrente di comprensione e di scandaglio che va oltre il rapporto artistico. Ogni figura è interpretata nell’animo ma anche riportata alla sua essenza storica, alle sue origini culturali.

Il testo mi ha ricordato il film I colori dell’anima di Mick Davis, perché anche qui una vicenda che potrebbe essere carica di pathos viene invece vivisezionata nel suo contenuto intellettuale, di riflessione sull’arte, e questo si rispecchia nei dialoghi viziati da un didascalismo che li fredda, ma che trova il suo riscatto nella commovente e bellissima analisi finale dell’autoritratto di Modì. Uomo, artista, donnaiolo, bevitore, bruciato dalla passione, mangiato dalla tubercolosi, ma immortale, per noi, per tutti, per l’eternità.

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Giovanna Strano ci parla del suo ultimo libro

8 Maggio 2020 , Scritto da Giovanna Strano Con tag #giovanna strano, #recensione

Giovanna Strano ci parla del suo ultimo libroGiovanna Strano ci parla del suo ultimo libro

 

Giovanna Strano, già autrice de La Diva Simonetta, ci presenta il suo ultimo romanzo.

Il sogno, la realtà. Una dimensione a mezz’aria crea appagamento. Il romanzo fantasy Il bianco gelsomino di Giovanna Strano, Delos Digital, ha un sottotitolo che ne riassume la sostanza: non esistono amori impossibili.

Emozionante e denso di magia, narra una storia fantastica in bilico tra realtà e sogno. La protagonista è Maria Luce, una giovane donna imbrigliata in una vicenda surreale, che la coinvolgerà profondamente nei sentimenti e nel suo stesso modo di essere.

Luce acquista una vecchia casa per andarvi a vivere da sola, conquistando l’indipendenza dai genitori. Al primo accostamento con l’abitazione, ancora da ristrutturare, ha una visione che le riporta alla mente un episodio, senza spiegazione, avvenuto quando era bambina.

All’interno della casa la donna riscopre una nuova dimensione di appagamento. Ma presto accadono eventi inspiegabili, in quanto Luce avverte una presenza estranea che la notte, durante il sonno, le sta vicino.

Da sfondo alla narrazione vi è la bellissima isola di Ortigia, a Siracusa, gioiello pulsante del territorio siciliano, ricca di spunti artistici e culturali che coronano lo svolgimento. Si susseguono momenti straordinari di trasposizione nel passato e l’accostamento con un’entità impalpabile scatena l’amore, la passione.

Eppure qualcosa di estremamente insidioso si aggira tra le mura antiche della casa. La narrazione trascinante conduce il lettore nei meandri dell’inconscio e dell’onirico, ponendo domande cruciali insite nella fragilità dell’esistenza.

La giovane donna ne resta imbrigliata senza via di scampo. Sceglierà di vivere o di vagare eterea nell’aria? Ma qualcun altro deciderà per lei. Indissolubilmente.

 

 

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Giovanna Strano, "Lo specchio delle stelle"

6 Giugno 2021 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #storia, #personaggi da conoscere

 

 

 

Lo specchio delle stelle

Giovanna Strano

 

Nuova Ipsa Editore

pp 213

18,00

 

Giovanna Strano torna al romanzo storico con Lo specchio delle stelle. Qui non si tratta dell’autobiografia di un artista famoso, come Van Gogh o Modigliani, o della modella di Botticelli, ma di un particolare periodo, non molto conosciuto, e di riferimenti alchemici, esoterici e religiosi.

Il luogo è la Sicilia - il romanzo ha il patrocinio della Regione – i personaggi sono i sovrani di Trinacria, Federico III di Svevia ed Eleonora d’Angiò, oltre al templare Ruggero di Flor e al medico alchimista Arnaldo da Villanova.

Fra castelli, segrete, eresie catare, si giunge alla scoperta e decifrazione di un antico misterioso manufatto, sorta di sacro Graal – ma forse è proprio il Graal stesso – un papiro scritto di pugno da Gesù in persona, dove si cela il mistero dell’universo creato. Gli opposti si contrappongono come nel catarismo, la luce e il buio, il bene e il male, Dio e Satana, ma uno solo – scopriremo - è Colui che ha voluto e immaginato tutto, colui nel quale la coniunctio oppositorum si realizzerà.

La corte di Federico III (com’era stata quella del più noto Federico II) è un luogo aperto e tollerante, dove persino l’eresia catara viene accolta e non rinnegata, dove è sempre accesa la fiamma della conoscenza e della cultura. Federico è un uomo di onore e di grande curiosità intellettuale, sua moglie Eleonora una donna illuminata, sostenitrice del progresso e dell’emancipazione femminile. Sposatala per dovere dinastico, Federico s’innamora di lei e con lei ha nove figli, e questo mette in crisi il precedente rapporto con Sibilla Sormella.  

Federico crede nell’amicizia e nella lealtà ma perde i suoi due amici, Ruggero, comandante templare degli Almogavari, megadux dell’imperatore bizantino, e Arnaldo, per colpa di tradimenti.

Arnaldo da Villanova, la cui tomba è stata scoperta nel 1969 nel castello di Montalbano Elicona, - paese crogiolo di religioni diverse e che ospita addirittura due chiese catare - è una singolare figura di medico, una via di mezzo fra un mago e uno scienziato, indagatore dei misteri della natura e dell’alchimia, vicino allo spiritualismo francescano. Viene fatto coincidere con il segreto dell’Argimusco, altopiano siciliano dove si ergono pietre erose dal vento – quasi megaliti naturali, usato come osservatorio astronomico fin dall’antichità.

Personaggio a se stante e onnipresente, la bella terra di Sicilia, il soffio caldo e sensuale dello scirocco, il barbaglio del mare, l’incandescenza del sole e i profumi di piante mediterranee ed erbe medicinali.

Al di là dell’intento filosofico esoterico o della ricostruzione storica, è ben disegnata la psicologia dei personaggi e ben sviscerato il sentimento d’amore, quello che nasce “nonostante”, fra Maria e Ruggero, e soprattutto fra Eleonora e Federico. Amori non scontati, non predestinati, non voluti ma che si sprigionano e crescono fino a travolgere il presente e riscrivere il passato. Maria vedrà morire Ruggero, Federico abbandonerà la madre dei suoi cinque figli per una donna che gli è stata data in moglie solo per convenienza. La Strano è una storica, ma l’amore la affascina, sentimento trascendente, prepotente, quasi religioso e filosofico.

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La letteratura incontra la moda con “La Diva Simonetta” a Siracusa

28 Febbraio 2019 , Scritto da Giovanna Strano Con tag #giovanna strano, #moda, #storia, #personaggi da conoscere, #pittura

La letteratura incontra la moda con “La Diva Simonetta” a Siracusa

 

 

 

 

Appuntamento culturale di rilievo a Siracusa con la presentazione del romanzo La Diva Simonetta – la sans par di Giovanna Strano, Aiep Editore. L’evento ha coniugato la presentazione dell’opera letteraria con la moda, abbinando al romanzo, incentrato sulla vera storia della Venere del Botticelli, un abito strepitoso realizzato dalla stilista Gisella Scibona, autrice di numerosi capi nell’ambito di Art Couture. Lo scenario della splendida Piazza Duomo ha fatto da coronamento a un evento magico, che ha incantato il pubblico coniugando vari linguaggi artistici. La voce dell’attore Francesco Di Lorenzo ha portato gli spettatori direttamente dentro il romanzo, coinvolgendo attraverso un’immersione totale nella narrazione.

L’ultima novità letteraria dell’ormai affermata scrittrice siracusana Giovanna Strano, nonché dirigente scolastico dell’Istituto “Antonello Gagini”, ha raccolto il consenso dei lettori a Milano, Bologna, Rimini, Torino e, per ultima, Siracusa nell’elegante cornice del Salone di Palazzo Vermexio. Si tratta del romanzo storico La Diva Simonetta – la sans par, AIEP Editore, pubblicato da qualche mese e già in vetta alle classifiche.

L’evento, patrocinato dal Comune di Siracusa e, in particolare, dall’Assessorato alla Cultura, è stato introdotto dall’Assessore alla Cultura Fabio Granata, dalla presidente dell’Associazione Fildis Elena Flavia Castagnino, dal docente e artista Nino Sicari e dalla stessa autrice.

L’opera è centrata sulle opere di Sandro Botticelli e ci svela, con uno stile coinvolgente e appassionante, i segreti della Primavera del Botticelli e degli altri capolavori del ‘400, narrando la storia, poco conosciuta, della splendida Simonetta Cattaneo Vespucci, immortalata nelle opere di Sandro Botticelli, del Ghirlandaio, di Benozzo Gozzoli e altri maestri.

La bellissima Simonetta diventa, attraverso i tempi, una musa immortale di bellezza. Lo scenario è la Firenze rinascimentale della seconda metà del ‘400, quella di Lorenzo de’ Medici, un’epoca storica singolare per la ricchezza culturale e l’effervescenza politica che connotano la fioritura dei Comuni e delle Signorie.

L’esuberanza artistica della società del tempo fa da coronamento a una storia vera, celata nei documenti del periodo sepolti in archivi e biblioteche, e velata in molte opere d’arte e nei componimenti letterari dei cantori del tempo, come Agnolo Poliziano, Tommaso Sardi, Bernando Pulci e lo stesso Lorenzo il Magnifico.

Simonetta è la musa ispiratrice del maestro Botticelli, al punto che il pittore esprimerà il desiderio di essere sepolto ai suoi piedi. E proprio l’avvenenza della giovane ne costituirà anche motivo di sventura, in quanto la renderà preda della malvagità e della cupidigia umana. Simonetta morirà nel 1476 all'età di soli ventitré anni. Gli artisti del tempo restituiscono al mondo una figura destinata a divenire immortale attraverso i tempi; per tutti noi resterà in eterno la sans par.

A coronamento dell’evento la docente e artista Angela Gallaro Goracci ha introdotto i lavori degli studenti nella realizzazione della copertina della pubblicazione.

 

 

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Giovanna Strano, "La Diva Simonetta"

7 Febbraio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #pittura, #personaggi da conoscere, #storia, #giovanna strano

 

 

 

 

 

La Diva Simonetta

Giovanna Strano

Aiep editore, 2018

pp 270

14,00

 

Si è da poco spenta l’eco della brillante seconda stagione televisiva de I Medici che mi ritrovo fra le mani un libro molto bello: La Diva Simonetta, di Giovanna Strano. Il romanzo mi fa ripiombare a capofitto nelle vicende della metà del 1400, nella scintillante Firenze della corte medicea. Riecco tutti i personaggi dell’epoca: Lorenzo e Giuliano de Medici, Clarice Orsini, Lorenzo di Pierfrancesco, Lucrezia Tornabuoni, Francesco de’ Pazzi etc.

Il libro è scritto in un bello stile d’altri tempi che ben si sposa con la riproduzione efficacissima del periodo storico. Davanti ai nostri occhi si snoda un affresco di straordinaria potenza, veniamo catapultati nella Firenze del ‘400, in piena fioritura di Comuni e Signorie, fra intrighi di palazzo, feste, ricevimenti, giostre di stampo ancora medievale, tornei e seducenti dame, alle quali galantemente dedicare le vittorie. E, in primo luogo, tanta, tantissima cultura, concentrata in una sola città, come mai s’è visto prima e mai si vedrà in seguito.

Lorenzo il Magnifico, grande statista ma anche mecenate delle arti, ha accentrato intorno a sé letterati, scultori e pittori, in una profusione di bellezza davvero sans par. Ed ecco la splendida Santa Maria del Fiore, i bassorilievi, gli arazzi, le liriche, le pitture sconvolgenti di Botticelli e di Verrocchio, del Ghirlandaio e di un giovane astro nascente: Leonardo da Vinci.

Ne risulta un rigoglio di colori, fiori e natura, di simboli volti ad esaltare, sì, i pregiati committenti, ma anche la bellezza della vita, l’essere umano a tutto tondo com’era nella sensibilità umanistica e rinascimentale. Ecco le liriche del Poliziano, e dello stesso Lorenzo che invita a godere la vita in quanto effimera, con un senso di precarietà e malinconia che già presagisce il barocco di due secoli dopo.

Una corte, quella dei Medici, piena d’intrighi, di amori licenziosi, di libertà di costumi che, tuttavia, non dimentica mai il fine principale: il bene e la prosperità di Firenze, quella stessa “Fiorenza” dilaniata fra Guelfi e Ghibellini per cui si era battuto Dante. Lorenzo vuol renderla più grande, sprovincializzarla, non farla precipitare nell’orbita papale, e non è impresa da poco.

Soprattutto, ritroviamo il maestro Botticelli all’opera sui suoi capolavori, in particolare sulla sontuosa Primavera, e su La nascita di Venere, ispirate da una figura di spicco della corte fiorentina: Simonetta Cattaneo Vespucci, la sans par.

Bellissima, intelligente, colta e volitiva, la ragazza ligure fa girare la testa a tutti gli uomini, compresi entrambi i fratelli Medici, Lorenzo e Giuliano. Ne è travolto e soggiogato lo stesso Botticelli che vorrà essere seppellito ai suoi piedi. Il libro ruota intorno a lei, ai suoi desideri, alla sua cultura, ai suoi amori, al suo inesistente rapporto con l’incolore marito, ai suoi abiti vaporosi, scelti per lei dal suocero, alle sue acconciature lussureggianti di trecce, boccoli e fiori. Solo chi la ama veramente sa apprezzarne l’anima incorrotta, gli altri, come l’avido suocero Piero Vespucci, la considerano un bell’oggetto, un trofeo da esibire, una pedina da utilizzare come esca in società.

Simonetta ama Giuliano de’ Medici. Se il legame che la unisce a Botticelli è quello dell’amor cortese - lui servo che venera colei che non potrà mai avere e che diventa per lui fonte di elevazione artistica - Giuliano incarna l’amore ossessione, quello fatale, la passione violenta che porta alla sciagura, che conduce inevitabilmente alla morte, unico contesto in cui i due amanti saranno liberi, svincolati dai doveri morali e dalle convenzioni sociali.

A due anni dalla morte di Simonetta, però, anche in Giuliano si è operato un cambiamento, il suo amore si è sublimato fino a somigliare a quello angelicato di Dante per Beatrice. Il giorno della congiura dei Pazzi, nella chiesa di Santa Maria del Fiore, egli va incontro al suo tragico destino sapendo che è l’unico modo per ricongiungersi alla sua amata, la bellissima fanciulla di Portovenere, “Madonna del Mare” come nessuna mai.

I difetti del testo, a mio avviso, sono due. In certi momenti somiglia più a un trattato di storia dell’arte che a un romanzo, i dialoghi ne risultano artificiosi e la narrazione perde scorrevolezza.  Inoltre, trovo sbagliata la scelta di affidare due momenti salienti della trama - la violenza subita dalla protagonista da parte del duca d’Aragona e il conseguente abbandono all’amore per Giuliano de Medici – a una prospettiva esterna, poiché il punto di vista si sposta verso Lorenzo di Pierfrancesco, sorta di narratore estraneo degli eventi. E il capitolo X, in cui si esplicita l’amore fra i due protagonisti, è troppo precipitoso.

Per il resto un bellissimo romanzo storico, un libro che ci immerge totalmente in un’epoca, nella multiformità delle interpretazioni, dei rimandi e dei simboli, ma soprattutto nell’arte, nella pastosità delle forme e dei colori. Ogni capitolo è ispirato a un’opera pittorica, la descrive, la fa rivivere, la anima. Le figure prendono vita e balzano giù dalle tele, le musiche si sprigionano, i fiori esalano effluvi di primavera, le bocche ridono. In una parola, siamo dentro la bellezza pura.

 

Giovanna Strano, "La Diva Simonetta"Giovanna Strano, "La Diva Simonetta"
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Prospektiva: un altro modo di parlare di libri

7 Marzo 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #case editrici, #concorsi

Prospektiva: un altro modo di parlare di libri

Ci scrivono da Prospektiva:

"Finalmente Prospektiva: un altro modo di parlare di libri, studiato in Francia e Inghilterra
Dalla Francia e dall’Inghilterra c’è chi già sta tentando di imitare quello che un gruppo di amanti della lettura è riuscito a costruire in Italia. Strano a dirsi ma mentre si parla di giganti dell’editoria, è un piccolo che si fa strada con un modello di promozione della lettura assolutamente originale e innovativo. Si tratta di un progetto nato a Siena nel 1998 che oggi finalmente viene racchiuso in un unico sito: www.prospektiva.it
Prospektiva è un contenitore dove i libri vengono proposti in dieci festival letterari tra Toscana, Puglia, Calabria e Lazio; in televisione con Book generation; in libreria con le monografie; in particolari “contropremi” letterari e infine utilizzando i Bookcrossing e le contaminazioni enogastroletterarie per alimentare, oltre che la pancia, anche l’anima. Nutrimenti dunque che vedono coinvolti ogni anno decine di scrittori, giornalisti, editori e basta poco per capire che il progetto piace.
Tanti i nomi che sono saliti sui palcoscenici dei festival letterari: da Beppe Severgnini a Maurizio De Giovanni, da Alessandro Haber a Davide Riondino, da Lirio Abbate a Giuliana Sgrena, da Loriano Macchiavelli a Marco Malvaldi. Fino ad oggi in 57 edizioni di festival tra Cropani (Catanzaro), Barga (Lucca), Novoli (Lecce), Castiglione di Garfagnana (Lucca), Terracina (Latina), Civitavecchia (Roma) e Castelnuovo (Lucca), sono stati oltre 120 gli ospiti con editori come Sellerio, Longanesi, Mondadori, Giunti, Fandango, Chiarelettere e molti altri ancora.
Un progetto che vede coinvolti decine di collaboratori sparsi in tutta Italia e che ogni anno si ritrovano al Salone Internazionale del libro di Torino per fare il punto della situazione e parlare di festival, ospiti e libri. Tra questi Andrea Giannasi, Gianluca Pitari, Massimo Lerose, Piergiorgio Leaci e Maurizio Poli primi promotori di tanti momenti letterari.
Tutto questo è Prospektiva sostenuto da enti e dentro le “Città del libro” il progetto lanciato dal Centro per il libro e la lettura dal Ministero dei Beni Culturali."


Ecco il resto lo trovi qui:
http://www.prospektiva.it/

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Laboratorio di Narrativa: Danilo Napoli

24 Ottobre 2014 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #racconto, #ida verrei, #poli patrizia

Laboratorio di Narrativa: Danilo Napoli

Racconto dove si mescolano surreale ed orrore, fantasia e verosimile, in una dimensione temporale che spazia da un futuro possibile, mai vissuto, ad un presente in cui il raccapriccio non lascia scampo e annulla sogni e prospettive. Resta solo il delirio premorte. Una giovane e bella donna in carriera, un ascensore che si blocca, uno specchio che rimanda immagini del passato. E poi quel luogo, la cucina-mattatoio dove si consuma l’orrore che impedirà per sempre il ritorno al futuro. Un omicidio di quelli che i cliché della carta stampata e della televisione definiscono “efferati” e di cui, purtroppo, sono piene le cronache: uno zio pazzo che massacra sorella e nipote, le fa a pezzi fino a renderle irriconoscibili e le cucina in un pentolone, un cane che tenta di salvare almeno la bambina senza riuscirci. Tutto questo è ahimè abbastanza scontato nella sua orrifica “normalità” e fa da antefatto a qualcosa di fantastico che avverrà o, meglio, dovrebbe o potrebbe avvenire nel futuro.

L’autore descrive al rallenty le sequenze più truci e cruente, registrando percezioni, suoni, odori, colori, in un crescendo di angoscia, che prende lo stomaco, offusca la mente e ti fa desiderare che finisca al più presto lo strazio della narrazione, ma anche, inaspettatamente, ti spinge a continuare, per vedere come “va a finire”, sino alla conclusione, inevitabile, già intuita.

Lo spunto è interessante ma necessiterebbe di maggiore sviluppo per non apparire forzato. Bravo l’autore a creare l’attesa, il senso di ansia insopportabile che cresce, bravo a connotare personaggi e atmosfere, che si integrano e determinano il climax del racconto, ma sono da potenziare i collegamenti fra presente e futuro, è da vedere se sia davvero il caso di orientare la storia dalla parte di un commissario dai tratti inflazionati il quale, però, si limita a registrare l’accaduto senza metterci del suo. Ultimo ma non ultimo, il cane sembra avere un ruolo fondamentale ma poi sparisce.

Insomma, qualcosa di positivo c’è, in questo “REC” di Danilo Napoli, oltre allo stile pulito e corretto, ed è la voglia che infonde nel lettore di andare avanti, di sapere cosa succede nel finale e come esso si colleghi all’inizio. Pare una banalità questa ma, al giorno d’oggi, è diventato molto difficile trovare una novella, ed anche un romanzo, che stimolino interesse, voglia di voltare pagina. Peccato che la storia si perda o, meglio, risulti incoerente e non del tutto attinente con il suo stesso svolgimento.

Patrizia Poli e Ida Verrei

REC.

Sara Valliani entrò nell’ascensore dell’edificio alle 09.00 in punto.

Puntuale, come sempre.

D’altronde, per lei era deformazione professionale, essere puntuale. A 35 anni era considerata uno dei migliori ingegneri del pianeta. Lavorava in un paesino della California ad un progetto segretissimo per conto della NASA, in un edificio di dieci piani che non presentava alcun nome all’esterno. Era il sogno di ogni ingegnere lavorare in un luogo simile. I privilegi non finivano mai, l’area ristoro gratuita era paragonabile ad un ristorante a 5 stelle e gli stipendi erano elevatissimi, addirittura maggiori di quelli dei migliori calciatori internazionali.

Nessuno avrebbe mai pensato ad un banalissimo blocco dell’ascensore, tantomeno Sara.

Pigiò il pulsante che l’avrebbe portata al suo studio al quinto piano e si guardò allo specchio. I costosissimi trattamenti anti-invecchiamento stavano dando i loro frutti. La sua pelle era perennemente abbronzata e le rughe sembravano lontane anni luce. Gli occhi erano lucenti, azzurri, in gradevole contrasto con i capelli neri, che portava lunghi sulle spalle e piastrati. Era alta un metro e settanta e indossava un elegante, ma comodo, vestito nero. Sì, poteva considerarsi una donna molto piacente. Nonché intelligente.

Sorrise alla sua immagine allo specchio e controllò il suo Android di ultima generazione.

Linea inesistente.

Molto strano. Quegli ambienti erano altamente tecnologizzati e permettevano la ricezione della linea telefonica ovunque.

Solo chiamate d’emergenza.

Doveva essersi verificato un guasto, o qualcosa del genere.

Fu al settimo piano che l’ascensore si bloccò completamente. Nessun rumore, nessuna voce elettronica che avvisava del guasto e si collegava con chi di dovere per far ripartire l’aggeggio.

Nulla.

‹‹Oh, Cristo›› sussurrò. ‹‹Adesso devo aspettare che mi tirino fuori di qui e non ho nemmeno avvisato del ritardo.››

Fu in quel momento che la luce si spense. ‹‹Anche al buio, adesso. Ottimo!›› commentò ironicamente.

Si grattò le guance e le palpebre.

“Oddio, non dirmi che il fard che ho acquistato stamattina mi fa allergia” pensò.

Fece luce sullo specchio con il cellulare per guardarsi in viso e lanciò un debole urlo.

Il viso era ringiovanito di più di vent’anni, ed ora somigliava ad una tredicenne con qualche chiletto di troppo.

‹‹Che cosa sta succedendo?›› chiese allo specchio, balbettando.

Ma non ottenne risposta.

Continuò a guardare stupita quel volto delicato e paffuto, che ormai non le apparteneva più da tempo immemore, fino a quando l’immagine lanciò un grido, un urlo sovrumano, qualcosa che non aveva mai sentito in trentacinque anni di vita. E anche l’immagine si contorse in una creatura strana, quasi demoniaca.

Poi lo specchio diventa una cucina, e la cucina un mattatoio.

E Sara Valliani non è più Sara Valliani. O, almeno, non lo è tutta intera.

Sono circa le 14.00 e sto tornando da scuola. Sono felice per due motivi: innanzitutto perché ho preso dieci in matematica, con i complimenti della professoressa (anche se quelle buone a nulla di Daria e Felicia mi lanciavano sguardi carichi d’invidia e mi chiamavano “sfigata”); e poi perché mia madre mi ha finalmente affidato le chiavi di casa. Era ora, a tredici anni!

Così, apro la porta con le mie chiavi e mi ritrovo davanti Jack, il mio fedele pastore tedesco, che mi abbaia. Non si era mai comportato in questo modo prima. Il suo abbaiare è aggressivo. Non mi suona come un saluto, ma come un avvertimento.

‹‹Jack!›› urlo. ‹‹Che diavolo stai facendo?››

Jack ringhia. È fermo nel corridoio e non mi lascia entrare.

Resto ferma sul tappetino dell’entrata, a due passi esatti da Jack, che ora ha ripreso ad abbaiare.

‹‹Mamma?›› chiamo. ‹‹Jack mi sta ringhiando!››

Nessuna risposta.

Inizio ad avere paura.

La vescica preme, deve essere svuotata. Jack non ha mai fatto del male ad anima viva, nemmeno ad una mosca, si può dire. Così, lo ignoro e muovo un passo verso il corridoio.

Jack ringhia di nuovo.

‹‹Si può sapere che cos’hai?›› chiedo, ma non finisco la domanda che comincia a mordermi la felpa blu elettrico che ho indossato stamattina.

‹‹Lasciami!›› urlo. ‹‹Mamma, aiutami!››

Ancora nessuna risposta. L’unica cosa che sento è il ringhiare di Jack mentre mi strattona la maglia sempre più forte.

‹‹Jack, ora basta!›› urlo.

Jack molla la maglia e indietreggia.

Ricomincio a buttare fuori l’aria compressa a causa dell’ansia. Ora posso sentire il battito del mio cuore pulsarmi nelle tempie. Sento anche una puzza strana, ma inizialmente non ci faccio molto caso.

Però faccio caso alla paura che mi ha invaso e che, probabilmente, mi ha fatto sfuggire qualche goccia di urina dalla vescica compressa nei pantaloni che mi calzano leggermente stretti.

Jack resta a guardarmi in silenzio per una manciata di secondi, poi ricomincia ad abbaiare e a ringhiare nella mia direzione. Decido di ignorarlo di nuovo (forse si è impressionato per qualcosa, ma deve pur passargli!), quindi mi giro per chiudere la porta di casa.

Qualcosa mi tira violentemente lo zaino, ringhiando.

‹‹Jack! Ancora?››

Sembra quasi che voglia spingermi fuori di lì. Sento le unghie sui miei jeans e la sua stazza sul mio zaino. Mi appoggio alla porta per non perdere l’equilibrio.

‹‹Mamma! Aiuto!›› urlo di nuovo, ma sono troppo allibita dal fatto che Jack mi abbia tolto quasi completamente lo zaino dalle spalle per rendermi conto che mia madre non mi ha risposto nemmeno questa volta.

Adesso lotto con Jack per il possesso dello zaino. Lui si arrende e abbaia più forte di prima, poi mi supera ed esce fuori.

Resto a guardarlo, confusa.

Jack abbaia ancora, ma non ringhia più. Mi sembra diverso anche il suo modo di abbaiare, non più rabbioso, ma quasi… supplichevole.

‹‹Che sta succedendo, Jack?››

Continua ad abbaiare ed io, ferma, a guardarlo. Poi comincia a correre verso la strada.

“Magari vuole giocare”, penso, senza esserne granché convinta. “Chiederò a mamma”.

Mi volto e sento di nuovo quella puzza strana che non riesco a definire, ma neanche stavolta ci faccio molto caso.

‹‹Mamma?›› chiamo. ‹‹Sono tornata. Ma che aveva Jack?››

Nessuna risposta.

‹‹Mamma, dove sei? Jack mi ha aggredito e poi è uscito di casa abbaiando. Ma cosa gli hai dato da mangiare?››

Ancora nulla.

La prima cosa che faccio è soddisfare il mio bisogno impellente di orinare. Sollevata, esco dal bagno e attraverso il lungo corridoio verso la cucina.

‹‹Zio Oscar?››

Zio Oscar è il fratello di mia madre, e vive con noi nel nostro modesto appartamento in provincia di Salerno. In un certo senso ha rimpiazzato mio padre, che è fuggito con una ucraina lo stesso giorno in cui nacqui. Dove sia andato, ancora non si è capito.

Zio Oscar non è stato molto bene negli ultimi dieci anni. È continuamente in viaggio perché deve curarsi, dice la mamma. Va e torna molte volte dalla comunità in cui è rinchiuso per disintossicarsi. Contemporaneamente, è assistito da diversi medici, che vengono sempre qui a casa per curarlo. Ce n’è una fissa che gli sta sempre dietro. È una psicologa, mi pare. Ah, no, è una psichiatra. Forse.

‹‹Perché la psichiatra, mamma?›› chiesi un giorno.

‹‹La droga gli ha mangiato il cervello, tesoro›› mi rispose. ~~È diventato matto.››

‹‹Matto come?››

‹‹Matto. Non so se potrà vivere ancora con noi›› disse mia madre, con le la-crime agli occhi.

‹‹Come mai?››

‹‹Dicono che è pericoloso. Molto pericoloso.››

Mi dirigo verso la cucina, ma non sento il solito odore di qualcosa di buono cucinato da mia madre o il suono proveniente dalla televisione che guarda mio zio. Quello che le mie narici avvertono è quella puzza strana e acre di prima, come se… non lo so, non riesco a fare paragoni perché non mi era mai capitato prima di sentire un simile odore. Ma è molto più forte e sgradevole di prima.

‹‹Mamma?››

Non mi sente, ma di sicuro è in cucina. Forse ha gli auricolari del mangianastri nelle orecchie, con i Queen a tutto volume. E probabilmente avrà bruciato qualcosa in cucina senza accorgersene.

Ma non credo molto a questa ipotesi. In primis, mamma adora cucinare e non lo fa mai con la musica, poiché può distrarla. E poi… semplicemente non è un odore di bruciato, ma qualcosa di diverso.

L’unico modo per scoprire cosa sia quell’odore e perché né mia madre né mio zio mi rispondono è andare in cucina, poi in salotto poi nelle camere.

‹‹Mamma?››

La porta della cucina è chiusa.

La apro, ma mia mamma non è lì. O, almeno, non è lì tutta intera.

È sul tavolo, a pezzetti.

Ricordavo che la cucina avesse le pareti bianche, ma adesso sono quasi completamente rosse, macchiate di un liquido misterioso che sembra essere sprizzato violentemente.

E l’odore… l’odore proviene da lì. Da mia madre. Mi si è subito impregnato nei vestiti.

Rallenty. I dettagli che ora registro sono a rallenty. Forse è il trauma che ho inconsciamente subito all’ora di pranzo di un qualsiasi sabato invernale.

Il trauma di vedere a pezzi la propria madre.

E così annoto mentalmente alcuni dettagli che poi finiranno registrati insieme ad altri deliri. Ad esempio, appunto nel mio cervello l’occhio mancante di mia madre, il sinistro, che sta rotolando sotto al tavolo. Gli arti inferiori e superiori, impegnati in una cottura a fuoco vivo sui fornelli ai quali mia madre avrebbe dovuto preparare il pranzo.

Resto immobile sull’uscio, incapace di compiere un solo passo. Ma continuo a registrare nella mia mente dettagli. Insignificanti, ma non posso farne a meno.

E quindi, ecco che la mia memoria incassa il ricordo permanente dell’odore che emana mia madre, un tempo maniaca della pulizia e casalinga perfetta. Il cervello e il suo colore e il sangue che impregnava i capelli e le labbra mozzate e le pareti sporche e quella che sembra una spalla e un capezzolo che spunta dal pentolone e l’odore che diventa più forte e le pareti spruzzate di sangue e anche la cucina decorata di rosso e il rosso che è il mio colore preferito e lo spezzatino che ho sempre odiato e il tagliere e il coltello a fianco a lei e la lama che non è sporca di sangue e un movimento strano alle mie spalle.

È un sogno, ne sono sicura. Chiudo gli occhi e li riapro, ma quella visione terribile è sempre lì.

È uno scherzo, ne sono sicura. Ma l’odore mi dà la nausea e mi fa girare la testa.

Provo il vomito. Sento la bile quasi ribollire nel mio stomaco e salirmi fino in gola, ma non posso fare a meno di registrare altri dettagli, come i denti che non ci sono più e che io cerco e che trovo con lo sguardo sul pavimento e il tappetino davanti alla cucina e altro rosso e rosso davanti agli occhi e rosso che adesso odio e rosso che adesso basta così.

Mi volto per andare in bagno, ma la strada è sbarrata da un uomo magro, al-to, imponente, con i vestiti macchiati di sangue.

Mio zio Oscar.

I suoi occhi sono sbarrati e sul suo volto c’è un ghigno terrificante. Ma ancora più terrificante è coltellaccio che impugna nella mano sinistra e, chissà perché, un registratore nella mano destra.

‹‹Mamma!››

Ecco perché Jack si comportava così. Non voleva aggredirmi. Voleva avvisarmi del pericolo. Voleva farmi allontanare da casa.

‹‹Perdonami, Jack.››

Paolo Lindani non aveva mai visto una scena del genere. Almeno non dal vivo, perché nei film dell’orrore bene o male tutti ci ritroviamo, davanti a scene cruenti come quella. Ma chi se lo sarebbe aspettato che quella mattina, in un comune sperduto della Campania, gli occhi del commissario Lindani vedessero un devasto simile?

Era stato svegliato da uno dei suoi agenti migliori, Giovanni Bella, dal suo riposino pomeridiano. Era il suo giorno libero, e in centrale sapevano che non avrebbero dovuto disturbarlo se non in caso di tragedia. In dieci anni, mai nessuno si era permesso di violare la sua giornata di ricarica, e Lindani credeva fermamente che si continuasse in quella direzione, visto e considerato che non succedevano mai tragedie nel territorio della sua giurisdizione.

E invece il telefono squillò.

Paolo Lindani stoppò la puntata di Romanzo Criminale con il telecomando e voltò la testa in direzione del telefono. “Provvederò a togliermi il telefono di casa”, pensò. “Solo fastidi!”

Indugiò un altro po’ sul comodo divano di pelle, restio a lasciare il torpore della camicia da notte e del camino al suo fianco e desideroso di sapere se il Libanese sarebbe riuscito a conquistare Roma, ma alla fine decise di rispondere.

‹‹Pronto?›› disse con voce stanca.

‹‹Commissario Lindani›› esordì la voce di Bella.

‹‹Cristo›› mormorò il commissario.

‹‹Non l’avrei chiamata se non fosse stato urgente›› disse Bella.

‹‹Cosa può esserci di tanto urgente?››

Bella esitò un attimo, poi rispose: ‹‹Meglio che venga qui e veda di persona, commissario.››

‹‹Avevo detto che avreste dovuto disturbarmi solo in caso di tragedia!››

Bella non replicò subito e Lindani pensò che avesse riattaccato. ‹‹È una tragedia, commissario. Gliel’assicuro›› disse con voce cupa, interrompendo la comunicazione.

E ora stava sull’uscio di quella cucina devastata. I pezzi della donna e della bambina erano mischiati insieme sul tavolo della cucina, mentre il corpo di quell’uomo alto ed emaciato era stato trovato penzoloni in una delle due modeste camere da letto. Si era impiccato.

Lindani si mostrava tranquillo agli occhi dei suoi colleghi, ma in realtà sarebbe tornato volentieri a casa a vomitare e a finire la puntata di Romanzo Criminale che aveva lasciato a metà.

‹‹Le vittime sono due?›› chiese a Giovanni Bella, che aveva un’espressione piuttosto provata.

Giovanni Bella annuì. ‹‹La madre e la figlia, a quanto pare. Sara Valliani e Francesca D’Amato, vedova Valliani.››

‹‹Sembra un unico corpo›› commentò Lindani.

Bella annuì. ‹‹Il medico legale dice che la madre è morta circa un’ora prima della figlia, cioè tra le 12.30 e le 13.00. La figlia tra le 13.30 e le 14.00.››

‹‹La bambina quanti anni aveva?››

‹‹Tredici, compiuti da poco.››

‹‹Sai se era a scuola, stamattina?››

‹‹Me ne sono già occupato. Sì, era a scuola›› disse Bella.

‹‹Quindi è tornata da scuola e…››

‹‹…ed è stata uccisa, sì.››

Lindani fissò per un momento il vuoto. ‹‹E dell’altro cosa mi dici?››

‹‹Oscar D’Amato. Il fratello della vittima, lo zio della bambina. Aveva problemi di schizofrenia legati alla droga. Aveva tentato più volte il suicidio, in passato, e le comunità e gli ospedali psichiatrici della zona lo conoscono molto bene.››

‹‹Chi ha trovato i corpi?››

‹‹Un vicino. Il signor Pascale. Ha detto di aver visto il cane dei Valliani ab-baiare davanti alla sua abitazione.››

‹‹Il cane?››

Giovanni Bella annuì.

‹‹E adesso dov’è?›› chiese Lindani.

‹‹È scomparso›› disse Bella, scrollando le spalle.

‹‹Capisco›› disse Lindani, giusto per dare un cenno d’assenso, perché in realtà non ci capiva nulla. La testa cominciava a fargli molto male. ‹‹Vado in centrale ad organizzare le indagini. Tieni il cellulare a portata di mano.››

‹‹Certo, commissario.››

‹‹Se ci sono novità, avvertimi.››

‹‹Ovviamente›› rispose Giovanni Bella.

Paolo Lindani pensò che in centrale forse avrebbe riacquistato un po’ di lucidità e avrebbe potuto pensare meglio al da farsi. Si girò e si avviò verso la sua auto, mentre i suoi colleghi lo guardavano quasi esterrefatti.

“Vi sorprendete che mi sia fatto impressionare, stronzi?”, pensò. “Allora fate una cosa: non rompetemi i coglioni, pivelli che non siete altro.”

Aprì lo sportello della sua Ford Fiesta e fece per entrare, ma non riuscì a resistere alla tentazione di tornare indietro per dire due parole a quelle femminucce che non avevano nemmeno idea del suo passato. Erano due dei nuovi, giovani e inesperti. E Paolo Lindani, in quanto commissario, doveva fargli ben vedere chi comandasse. Doveva e voleva guadagnarsi il loro rispetto. Per cui, era già seduto sul sedile del guidatore della sua auto, quando si alzò nuovamente e si girò in direzione dei due bastardelli che sghignazzavano.

Li aveva già puntati, rivolgendogli uno sguardo truce che li fece impallidire. Sì, era una piccola vittoria per lui, e non riuscì a contenere un sorrisetto divertito. Ma non aveva ancora finito. Voleva farli impaurire per bene: con degli idioti totali come quelli, la forza era l’unico strumento valido per ottenere il rispetto a breve e lungo termine.

Proprio mentre puntava verso quei due ragazzi, che oramai avevano perso il sorriso, gli occhi del commissario Paolo Lindani scorsero qualcosa che lo incuriosì e distolsero l’attenzione dal loro obiettivo originario.

Giovanni Bella che correva verso di lui.

‹‹Commissario!›› lo chiamò.

‹‹Cos’altro c’è?›› Si avvertiva molto acredine nella sua voce, Paolo lo sapeva, ma non poteva farci nulla.

‹‹Ho dimenticato di dirle una cosa molto importante. Sono uno sbadato.››

‹‹Spara, Bella.››

‹‹C’è una cosa interessante nella stanza da letto in cui si è impiccato Oscar.››

‹‹Non tirarla per le lunghe. Che cos’è?››

‹‹Un registratore.››

‹‹E perché è interessante?››

‹‹D’Amato ha registrato le ultime parole della bambina mentre iniziava a farla a pezzi. Erano i suoi sogni per il futuro, una sorta di “delirio pre-morte”, se ne esiste uno. A quanto pare abbiamo perso un futuro ingegnere aerospaziale. Venga, commissario, glielo faccio ascoltare.››

Danilo Napoli

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Sacha Naspini, "Il gran diavolo"

23 Marzo 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #interviste

Sacha Naspini, "Il gran diavolo"

Sacha Naspini

IL GRAN DIAVOLO
Giovanni dalle Bande Nere, l’ultimo capitano di ventu
ra

Rizzoli (collana Rizzoli Max)

I Signori della Guerra - Pag. 368 – € 12,90

Sacha Naspini spicca il volo verso la grande editoria confermando tutte le mie previsioni. Ogni tanto sono buon profeta, anche se non ho mai frequentato scuole di scrittura. Non mi è mai passato per la mente neppure l’idea di aprirne una, chiaro. Non penso di avere niente da insegnare. Luigi Bernardi - un uomo che ci manca molto - è stato il suo mentore (Naspini - che non è ingrato - gli dedica il libro), portandolo dal Foglio Letterario a Perdisa, consigliandolo a Elliot e infine proponendolo a Rizzoli.

Il suo nuovo lavoro è un romanzo storico e ci stupisce per la novità tematica, ma non più di tanto, perché Naspini ha un chiaro talento da sceneggiatore e ha sempre mostrato capacità di scrittura sugli argomenti più disparati. L’ingrato (Il Foglio) era una novella classica maremmana, I sassi (Il Foglio) un noir internazionale, I Cariolanti (Elliot) un lavoro vicino ad atmosfere horror, Le nostre assenze (Elliot) un doloroso romanzo di formazione, Cento per cento (PerdisaPop) un libro intervista sulla vita di un pugile, Noir Desire (PerdisaPop) un saggio narrativo sul famoso gruppo rock… Questo per dire che Sacha Naspini non è uno scrittore occasionale, non ha bisogno della molla che faccia scatenare il meccanismo narrativo, ma è capace di imbastire romanzi caratterizzati per scrittura asciutta e dura, operando come un vero e proprio contaminatore dei generi. Naspini fa letteratura usando i generi, cosa non facile, descrive caratteri ed emozioni, angosce umane e dubbi atroci, raccontando storie.

Vediamo Il Gran Diavolo, partendo dalla sinossi Rizzoli.

“I colpi d’artiglieria sovrastano il fracasso del metallo delle armature e le grida dei soldati all’attacco. Della guerra e della morte, però, non ha paura Giovanni: lui è un Medici, nelle sue vene scorre sangue nobile, ma combattivo e fiero, e ogni giorno affronta il nemico alla testa delle più feroci truppe mercenarie d’Italia, le Bande Nere. Il campo di battaglia è grigio, freddo, immerso nella nebbia, eppure i suoi uomini lo seguirebbero anche all’inferno. Tra questi marcia Niccolò, un giovane soprannominato il Serparo per l’inquietante abitudine di tenere tre o quattro serpenti avvolti intorno al braccio. Custode di una sapienza antica, si affida loro per conoscere il futuro. Perciò gli altri soldati lo tengono a distanza, ma presto conquisterà la fiducia del Capitano, riuscendo a penetrarne lo sguardo severo. E dove Giovanni lo avesse posato, là Niccolò si sarebbe fatto trovare, al suo fianco, in mezzo alla mischia. Sempre”. In questo romanzo storico, Sacha Naspini, con una lingua affilata che si misura con il dolore, il male, la morte, racconta di un’amicizia e di quello scorcio di Cinquecento che fu uno tra i momenti più tumultuosi della Storia d’Italia, quando ogni cosa stava cambiando, e tutti tradivano tutti. E lo fa attraverso un personaggio che incarna perfettamente il suo tempo, quel Gran Diavolo disposto a tutto per dominare la sorte e gli uomini. E continuare a combattere. Un esempio di stile: “Niccolò Durante aveva appena visto entrare suo padre nella chiesa. Adesso guardava la gente in adorazione e pensava al giorno in cui sarebbe toccato a lui immergersi in quella folla come un condottiero. Dalla cappella i canti arrivavano forti. Poi ecco che la calca si mosse davvero, spostando le persone come un’ondata. La statua di san Domenico apparve sulla soglia, sorretta a spalla da quattro uomini. E ricoperta da un immane nodo di serpenti luccicanti”.

Abbiamo avvicinato Sacha Naspini per due brevi domande.

Perché un romanzo storico?

È una mia passione, e da qualche parte doveva prima o poi trovare sfogo. Il “richiamo storico”, se così si può dire, permea quasi tutta la mia produzione - penso a I Cariolanti, Le nostre assenze, I sassi, L’ingrato… Raccontare la storia di Giovanni delle Bande Nere è stata comunque un’altra cosa. Ci spostiamo nel 1500, senza ganci con il presente. Una prova, soprattutto a livello di voce. Insomma, dovevo trovare la mia intonazione, sul narrato. E poi i dialoghi. Far parlare personaggi di cinque secoli fa rendendoli credibili e senza che risultino affettati, non è così semplice. Spero di esserci riuscito. Come spero che il romanzo di ambientazione storica resti nelle mie produzioni future – sembrerà strano, ma contribuisce a rendere più esatto il percorso che sento, come autore, sotto vari punti di vista.

Come ti senti dopo il grande salto con Rizzoli?

Sono curioso. È sicuramente un’occasione importante per raggiungere una nuova fascia di lettori. Per il momento, stiamo organizzando la promozione. Mi preparo a viaggiare un po’. E cerco di trovare il tempo per chiudere i romanzi nuovi.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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Don Gaetano

3 Agosto 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

 

                                                  

 

 

La farmacia De Santis poteva vantare la più antica data di nascita, fra le attività commerciali della zona era considerata un’istituzione. Si poteva affermare che fosse lì da sempre. Il suo fondatore fu un oriundo calabrese, un certo Gerolamo De Santis che era al seguito della spedizione dei Mille. Unificata l'Italia, decise stabilirsi a Napoli e, mettendo in pratica le sue conoscenze e le capacità, aprì una bottega di speziale. Quell’iniziativa incontrò il favore del pubblico e ben presto conquistò stima e rispetto della gente. Alla sua morte, il figlio Giovanni, laureatosi in farmacia, rimodernò i locali, perfezionò le ricette del padre e, con un’accorta conduzione, portò la farmacia al suo massimo splendore.

Davanti alle vetrine si soffermava la gente bene della città, venivano da tutte le parti, per vedere e farsi vedere. Era diventato un punto d’incontro, una tappa obbligata fra i luoghi mondani della città. Il bancone alto e tirato a lucido, di puro mogano, occupava quasi interamente la parete frontale. Dal soffitto pendeva un grosso lampadario di cristallo che rifletteva la sua luce sul pavimento di mattoni rossi passati a cera. Alle pareti laterali, graziose vetrinette a muro abbellivano il locale con il loro contenuto di vasi in porcellana, cristallo e deliziose boccette d'opaline di tutte le misure.

Giovanni, impeccabile nel suo camice bianco odoroso di lavanda, intratteneva i clienti con affabilità, alle signore e ai bambini offriva delle caramelline alla menta di sua produzione, per gli  uomini, invece, aveva dei morbidi e aromatici sigari che riusciva a procurarsi chissà dove. Giovanni fu una persona stupenda, capace anche d'atti di coraggio durante la guerra, si sposò ed ebbe un matrimonio felice, non lo fu invece con i figli, le prime due figlie, nonostante le sue amorose cure, rimasero gracili e delicate, non riuscirono a trovare marito e restarono due zitelle acide e bigotte. Il tanto desiderato figlio maschio, Gaetano, dimostrò fin da piccolo la sua avversione per quel mestiere, non aveva la capacità di proseguire il lavoro del padre. Era di carattere pigro e lascivo, non si curava della sua persona più di quanto non si occupasse del negozio. La sua occupazione preferita era andare a caccia di donne, cercava sempre di palpare le lavoranti del laboratorio della farmacia. Molte volte il padre lo aveva sorpreso nel retro, con il viso arrossato e gli occhi stravolti. Alla morte di Giovanni, suo malgrado, dovette assumersi la responsabilità di portare avanti la farmacia.

Quello fu l’inizio del declino della farmacia De Santis - i clienti, anche i più affezionati, cominciarono a diradare le visite. Provavano repulsione per quell’individuo dai modi sgradevoli e dall’aspetto ambiguo. Aveva un qualcosa di viscido che dava fastidio a tutti. Abbandonati a se stessi, i locali acquistarono una patina di polvere e di sporco, l’intonaco dei muri cominciò a sfaldarsi, i mattoni del pavimento, non più passati a cera, si sgretolarono.

Don Gaetano non aveva mai goduto buona fama nel quartiere, né da ragazzo e nemmeno adesso che era arrivato alle soglie dei cinquanta anni. In tutti questi anni, sul suo conto  erano nate molte dicerie, gli anziani raccontavano di strane storie di donne, episodi piccanti che avevano come protagonista sempre e solo lui, il farmacista. Anni prima era stato anche coinvolto in una brutta storia con una ragazzina di tredici anni, fu scagionato, ma i dubbi restarono sempre su di lui come un ombra.

Il commento più frequente fra la gente del posto era che era “malato”. Il suo aspetto contribuiva ad alimentare le voci su di lui. Indossava perennemente un camice nero dove le chiazze di sporco erano lucide in più punti, specie ai bordi delle tasche dove portava dei fazzoletti che gli servivano per asciugarsi il sudore, cosa che faceva di continuo in tutte le stagioni. Nelle stesse tasche portava caramelle alla menta di cui faceva uso frequente. Per coprire la sua calvizie indossava una specie di papalina nera che non riusciva ad evitare che due ciuffi di capelli grigiastri  uscissero dietro le orecchie dandogli un aspetto alquanto ridicolo. Alla presenza di una donna i suoi occhietti grigi e cisposi si animavano e si mettevano in movimento percorrendo da capo a piedi la malcapitata. Il suo viso grasso e flaccido cominciava a sudare e allora i fazzoletti entravano in azione, viceversa, se l’avventore era un uomo, non lo degnava di uno sguardo e se ne liberava il più presto possibile.

La scarsa clientela che ormai entrava nel suo negozio era limitata a quella più povera, qualche padre di famiglia in difficoltà, disoccupati e stranieri. Erano in pochi a credere ancora nei preparati artigianali, la maggior parte preferiva le farmacie moderne con vere medicine. Gaetano sembrava non dare importanza a queste cose, continuava la sua vita di sempre, fino a quando, proveniente dalla strada principale, una carrozza venne avanti lentamente. Giunta davanti alla farmacia, si fermò per far scendere due anziane signore, piccole e minute, vestite in maniera di altri tempi; sembravano uscite da una stampa di fine ottocento. Con passo deciso entrarono nel negozio e chiusero la porta. L’evento non mancò di suscitare curiosità nel quartiere, era raro vedere una carrozza e, ancora  più raro, vedere due signore anziane vestite in quel modo. La gente si poneva domande, chi erano quelle due anziane donne, cosa potevano volere da Gaetano il farmacista. A por fine alla curiosità pensarono le due vecchiette che, dopo più di un’ora, uscirono e se n'andarono come erano venute, in quella carrozza che le aveva aspettate. Dopo pochi minuti, uscì anche Gaetano in uno stato pietoso, rosso in viso, senza il suo abituale berretto, sudato oltre ogni limite, cercando di arginare il copioso sudore. Nonostante l’orario chiuse in fretta la farmacia e si avviò verso casa.

Da quel momento la farmacia fu transennata per lavori e restò chiusa per oltre un mese. Una mattina una squadra d'operai la circondò e tolse le tavole che la nascondevano agli occhi curiosi della gente. Al posto della vecchia insegna e del fatiscente negozio che era diventato, una nuovissima insegna bianca e verde annunciava l’apertura del  “COVO DELLE STREGHE “Erboristeria De Santis". Tutto era nuovo fiammante: pavimenti, vetrine, il banco, tutto nelle sfumature di colore verde e bianco, tutto molto chic e accogliente. A ricevere i clienti due simpatiche e ossute vecchiette, adorne di trine e merletti.

Di Gaetano nessuna traccia, non faceva più parte del locale. Si venne a sapere col tempo che le sorelle, stanche del suo operato, avevano deciso di toglierli la conduzione della farmacia, prima che andasse completamente in rovina, e lo avevano relegato in laboratorio a preparare le misture di erbe. Purtroppo anche lì dava fastidio, le ragazze si lamentavano della sua presenza, allora le due vecchiette decisero di rispedirlo al paese natale con una lettera d'accompagnamento per il parroco locale che si prendesse cura della salvezza dell’anima del loro congiunto “malato” .

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Arte al bar: MASSIMO ROTUNDO "Sera Torbara: gran finale"

15 Gennaio 2019 , Scritto da Walter Fest Con tag #walter fest, #arte, #arte al bar, #vignette e illustrazioni, #personaggi da conoscere

I fumetti di Massimo Rotundo e l'omaggio di Walter FestI fumetti di Massimo Rotundo e l'omaggio di Walter Fest

I fumetti di Massimo Rotundo e l'omaggio di Walter Fest


 

 

 

 

Amici lettori della signoradeifiltri, Gianni ha acceso il juke box, la compilation di Jamiroquai è musica che fa move up con il cappuccino, è il giusto sound per il dopo feste, ci sentiamo tutti un po' più felici, felici da sembrare ragazzini che aspettano che passi il freddo inverno per tuffarci a volo di passerotto in primavera.

E allora ho pensato che oggi vi avrebbe fatto piacere conoscere questo nuovo personaggio. Un personaggio che, se lo incontraste per strada, vedreste una persona normale, potrebbe essere un elettricista, il titolare di un negozio di orologi, un commesso esperto di una libreria, oppure un simpatico gommista, invece vi parlerò di un grande artista, un vero maestro d'arte. E' maggiormente conosciuto in un certo ambito sia nazionale che internazionale.

Avete mai sentito parlare di Yellow Kid o di Romics d'oro? Massimo Rotundo è uno degli attuali più grandi fumettisti, illustratori e pittori italiani. L'ho scelto perché è un testimone prezioso del fare arte vera.
 

- Senti un po', cazzarone dell'arte, anche questo qua fa roba strana? (Giovanna la milanese.)
 

- A volte sì, ma ti garantisco che è un artista importante.
 

- E che avrebbe di speciale? (Giovanna.)
 

- Sa disegnare e dipingere molto bene con le mani.
 

- Con le mani? Qualcuno lo fa anche con i piedi?
 

- Intendo dire senza l'utilizzo di strumenti elettrici, elettronici, futuristici, fantascientifici.
 

- Alla vecchia maniera?
 

- Sì, ed è quella con più anima.
 

- Ohhh... finalmente uno che sa disegnare! (Franco il gelataio.)
 

- Franco, non essere troppo severo con l'arte moderna, il punto è che stiamo andando verso la fantascienza e molte cose non si faranno più con le mani ma con un click, con un battito di ciglia, con la sola azione vocale e Dio solo sa quello che ci aspetterà, il cinema con i film ha già detto tutto.
 

- Io vado a giocare a biliardo prima che arrivi star trek (Giovanna.)
 

- Io a fare una partita a bocce, se arrivano men in black fateli venire al circolo. (Peppino il pensionato.)
 

- Io un giro in bicicletta prima che mi rapisca un alieno. (Franco il gelataio.)
 

- Io, invece, vado a leggere un fumetto, il classico fumetto con le pagine di carta che ancora si sfogliano con le mani, lo prenderò in edicola, probabilmente l'edicolante mi sorriderà e, sotto gli occhiali, mi dirà che uscirà domani, allora andrò al mercatino a comprare un vecchio Topolino, abbiamo tutti bisogno di sognare, un antistress, un fumetto non è roba solo per ragazzini, è arte mascherata da fantasia, quella che ormai sta scomparendo e sarà in via di estinzione. 

Ecco perché artisti come Massimo Rotundo sono importanti, fanno scuola per aiutare i giovani a vivere meglio, lui e altri come lui, insegnano a muovere le mani, le dita, l'immaginazione, a ridere di una battuta, a emozionarsi per un personaggio, un eroe, un bastardo che a breve le prenderà, un cattivone che finirà male, tutto questo lo puoi trovare in un fumetto che ancora sfoglierai con le mani mentre con gli occhi ti ficchi come un gatto in una storia. No, non è roba solo per ragazzi, un fumetto è per chi ama la vita, utilizzando ancora le mani per sfogliare le pagine di carta, se ne sfiora l'arte, annusandola, toccandola con i polpastrelli che siano anche sporchi di olio della pizza, se vuoi ancora sentirti un umano.

Per farti entrare in un altra dimensione ci penserà gente come Massimo Rotundo, i fumettisti sono tanti, non li vedi perché lontani dai riflettori, amano lavorare a fari spenti su un tavolo pieno di colori e di strumenti come artigiani veri. Ecco, ora ho davanti a me una pagina con due soldati a cavallo, quello con i capelli bianchi dice al biondo che vorrebbe un frullato di mele come glielo faceva la madre. Il giovane dai lunghi capelli invece vorrebbe mangiare trippa e fagioli all'osteria del Greco. Lo sfondo è africano, a breve un ragazzino lo farà cascare da cavallo e lo prenderà a mazzate, interverrà il soldato più vecchio che lo salverà. Io nello scarabocchio mio ho cambiato la battuta, ho mandato il biondo a giocare a pallone ma l'altro non voleva perché non potevano uscire dalla storia... erano solamente in un fumetto.
Massimo Rotundo (Roma, 11 aprile 1955), diplomato all'accademia delle belle arti, esordisce come fumettista nel 1978 con lo storico Lanciostory. Negli anni '80, periodo nel quale il fumetto assume un'immagine più artisticamente chic, collaborerà con numerosi settimanali per storie ambientate maggiormente nella fantascienza e nel poliziesco. Dal 1985 Comic art diventa la sua famiglia e lo sarà per un lungo periodo, fra i suoi lavori più apprezzati "Sera Torbara", il personaggio fatal affascinante Tovarisc Nina, protagonista di ironiche storie sensuali, ambientate fra falce e martello con risvolti pacifisti. Nell'88 anche la Francia lo applaude con la serie erotica Ex Libris Eroticis, con la quale l'eros viene descritto con un tratto a china di gran classe, raffinato come sulle note jazz di un pianoforte. Lo stesso jazz a fumetti viene riproposto dall'artista per la rivista "Blue", con una atmosfera da occhi a mandorla per la serie "Chinagirl". Negli anni '90 l'artista vira per un percorso letterario al quale applica il suo talento e la sua fantasia per interpretare temi classici come in "La pelle di Zigrino", romanzo scritto da Honoré de Balzac, "Pasolini", basato sulle sceneggiature di Jean Dufaux e "I miti dei Greci a fumetti" di Luciano De Crescenzo. Nel '98 un'altra grande famiglia lo accoglie, la Sergio Bonelli Editore, che gli mette in mano la figura di un nuovo personaggio, un cavaliere, un eroe coraggioso e onesto in un mondo post atomico, per fortuna è solo fantasia a fumetto, Brendon, ideato da Claudio Chiaverotti e, a partire dal numero 46, vengono affidate a Rotundo le copertine.

La classe non è acqua e il suo talento naturale, la sua passione, il suo essere un vero artigiano dell'arte, con le mani sempre sporche di colore, seduto su uno sgabello e non su un piedistallo, fanno di lui un protagonista della cultura, dovrei continuare a elencare, storie, personaggi, lavori anche in ambito teatrale e cinematografico, ma a che servirebbe? La solita biografia, bla,bla... no, voglio solo dirvi che Massimo Rotundo è un grande artista, sottolineerò solo due premi che gli sono stati conferiti, lo Yellow Kid nel 1990, il Romics d'oro alla carriera e il "Texone" n°30, che non è un premio ma una leggenda.

Infine, non ve lo avevo detto, ma Massimo Rotundo è anche un insegnante, insegna la tecnica per disegnare fantasia e rimanere umani, la fantascienza può rimanere sulle strisce a fumetti o sui fotogrammi di un film, noi ora andiamo a prenderci un caffè caldo, chi vuole venire?
Amici lettori del blog che vi apre pagine colorate di antistress, vi ringraziamo, salutiamo e vi diamo appuntamento ai prossimi articoli, bye, bye, au revoir, ciao ciao a tutti.

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