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Erba Celeste (2016) di Valentina Gebbia

20 Agosto 2016 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #cinema

Erba Celeste (2016)  di Valentina Gebbia

Erba Celeste (2016)

di Valentina Gebbia

Conosciamo Erba Celeste dalle parole della sua autrice (scrittrice, regista, sceneggiatrice e tecnico del montaggio):

Il film è tratto da uno dei miei romanzi. Se hai visto il sito, saprai il miracolo produttivo che rappresenta, realizzato senza budget, con i tempi di una normale produzione, solo grazie a volontà e passione. Saprai anche che siamo stati invitati, finora, in tre Festival e che il film non è ancora uscito nelle sale. Dovrebbe essere una questione di settimane, ovviamente in un circuito di cinema indipendenti. Daniela Giordano è una delle gioie che questo film mi ha dato”.

Leggiamo la sinossi: “Celeste è una musicista che vive in una residenza per artisti nell’assolato entroterra siciliano, il Baglio Acquecalde. È ammalata di cancro e ha scelto di rompere col pensare comune per curarsi con l’alimentazione naturale, la fitoterapia, i libri e la cannabis. Amaranto, proprietario della residenza, è un affascinante architetto deluso dall’amore, con un carattere spigoloso e con grandi difficoltà a leggere nella propria anima. Insieme a loro, vivono il dottor Camillo, medico amante dell’alcol che ha girato il mondo, e artisti che in quel luogo hanno ritrovato una famiglia, immersi nel verde incontaminato e nell’amore di Celeste. Il loro microcosmo è violato da alcuni eventi: Daniela, scrittrice bizzarra e un po’ fuori di testa, è certa che proprio fra quelle mura, le abbiano rubato il suo ultimo manoscritto, mentre nel comportamento di alcuni anziani, c’è qualcosa di strano e inspiegabile. Amaranto cerca di scoprire cosa accada e, nell’indagare, si troverà a diffidare proprio della sua amica Celeste che, nei pomeriggi domenicali, offre agli amici un tè a base di erbe non identificate. L’uomo crede che Celeste droghi la gente e che i mali del posto scaturiscano da lei. Un anziano attore muore per un apparente attacco di cuore e la situazione si fa sempre più tesa perché anche Doriano, il direttore d’orchestra, si sente male nella notte. Il Baglio Acquecalde finirà per diventare una metafora del mondo, un mondo che spaccia per verità atroci bugie e chiama droghe solo alcune sostanze condannate dalla convenienza della storia. Nell’intrecciarsi di sentimenti forti, storie d’amore, colpi di scena e tenerezza, e soprattutto nell’amicizia tra Amaranto e Celeste, nel loro incontro-scontro, c’è tutta la speranza di chi crede ancora nel futuro della vita”.

Erba Celeste è un buon film indipendente dove la Giordano recita qualche posa, dopo trentacinque anni che non calcava le scene, poco utilizzata nel ruolo della degente Adele, quasi sempre ripresa seduta e con un ruolo non molto influente nell’economia della storia. Un tema difficile come l’uso terapeutico della marijuana ha reso complessa la pratica di autorizzazione legislativa. A nostro giudizio le parti peggiori, quelle più didascaliche e ridondanti, narrate come una lezione scolastica, sono da ricercarsi nelle poche sequenze in cui la regista - attrice tenta di giustificare l’uso della cannabis. Il film gode di molti pregi e di una confezione sontuosa a livello di fotografia e di colonna sonora, una messa in scena pregevole e una recitazione - pur non perfetta - più che passabile visto che gli attori non sono degli affermati professionisti. Molto bravo il protagonista Daniele Musso nei panni di Amaranto, credibile voce narrante e importante presenza come deus ex machina della storia che si sviluppa all’interno della residenza assistita e vede come filo conduttore l’amicizia tra il ragazzo e la degente Celeste. Bene Valentina Gebbia, sia come regista che come interprete, buona la sua performance (a parte le sequenze troppo didascaliche) e interessante la direzione degli attori. Ottimi piani sequenza, suggestive panoramiche, rapide dissolvenze, colore intenso nelle riprese diurne ed efficace fotografia notturna giallo ocra, espressivi volti di anziani ripresi in primo piano. Straordinaria la colonna sonora - una delle cose migliori della pellicola - che accompagna immagini fotografate con mirabile intensità poetica. Note di merito per Ugo Flandina (fotografia) e Maurizo Bignone (colonna sonora) che con il loro lavoro conferiscono alla pellicola un valore aggiunto importante. Non condivido una parola del tema portante del film ma questo non inficia il giudizio estetico che resta molto positivo, inoltre, a parte l’uso della cannabis, resta il condivisibile tema dei valori caduti e degli anziani ormai ritenuti inutili e abbandonati a loro stessi. Difetto di fondo una recitazione teatrale, troppo impostata, e una sceneggiatura - soprattutto i dialoghi - che risente di una scrittura lirica, a tratti persino retorica. La storia riesce comunque a decollare, sollevandosi dalle pastoie di un eccesso didascalico, terminando con un finale da film giallo. Restano pesanti come macigni le parole del protagonista: “Non cambierò il mondo ma d’ora in poi voglio cercare di cambiare un po’ il mio mondo”.

Il film vince con merito il Premio del Pubblico all’ottavo Sciaccia Film Festival, inoltre viene presentato alla sessantaduesima edizione del Taormina Film Festival e nella sezione Sguardi Altrove del Womens Film Festival. Erba Celeste è realizzato con passione e volontà, grazie a molti sponsor e a una produzione composta dagli stesi attori. Girato nella zona di Palermo, con suggestive riprese della spiaggia di Mondello, fiumi montani, palazzi storici e spaccati di lungomare della città sicula. Citazione cinefila da A qualcuno piace caldo di Billy Wilder con un brano del film durante una proiezione, il famoso finale dove si recita la battuta: “Nessuno è perfetto!”.

Regia: Valentina Gebbia. Soggetto e Sceneggiatura: Valentina Gebbia (dal suo romanzo omonimo). Fotografia: Ugo Flandina. Assistenti Fotografia: Duilio Scalici, Salvo Cataldo. Montaggio: Valentina Gebbia, Ugo Flandina. Aiuto Regista: Ugo Flandina. Colonna Sonora: Maurizio Bignone. Assistenti Regia: Duilio Scalici, Antonio Forestieri, Francesco Gebbia. Costumi: Manuela Velardo. Trucco: Salvo Bartolone. Operatore alla Macchina: Duilio Scalici, Ugo Flandina, Salvo Cataldo, Marco Di Stefano, Nicola Virgilio. Scenografia: Manuela Velardo, Maurizio Riotta, Andrea Vita. Fonico: Davide Buglisi. Produttore Esecutivo: Micro Film Associazione Culturale. Direttore di Produzione: Anna Li Muli. Fotografo di Scena: Gero Cordaro. Effetti Speciali: Ivan Monterosso. Musiche: Maurizio Bignone. Pezzi Musicali: Il vento e le rose, La giostra delle favole, Melanconia e conforto, Lo scrigno dei piccoli tesori (eseguite dal Trio Siciliano: Fabio Piazza, pianoforte - Silvio Dima, violino - Giorgio Gasbarro, violoncello); Into the dark, The rason of the soul (eseguiti da Luca Pincini, violoncello e Gilda Buttà, pianoforte); Dancing in the clouds, The restaurant, Forever friends (eseguiti da Sicilia String Orchestra). I brani Baglio e Celeste sono di Fabrizio Fortunato. Brano S’iddu moru: musica e voce di Laura Lala, testo da Cavalleria Rusticana e Anonimo Tradizionale, pianoforte di Sade Mangiaracina, basso Diego Tarantino, batteria Claudio Mastracci. Brano L’urtimo ri l’urtimi: testo e voce Laura Lala, musica e pianoforte Sade Mangiaracina. Brano Nonnuzza: testo, musica e voce Laura Lala, pianoforte Sade Mangiaracina, basso Giacomo Buffa. Brano Flowers di Duilio Scalici e Valerio Panzavecchia, eseguito da Manmuswak. Brano Erba Celeste (titoli di coda): testo Valentina Gebbia, musica Rosario Castelluzzo, voce e arrangiamento Giorgio Spica, Alessandro Mirabella. Interpreti: Daniele Musso (Amaranto), Valentina Gebbia (Celeste), Fabio Gagliardi (Camillo), Daniela Lampasona (Daniela), Luigi La Rocca (Luigino), Pippo Montedoro (Doriano), Daniela Giordano (Adele), Giuseppe Battiloro (Mario), Roberta Murgia (Lucrezia Ballotta), Giorgio Spica (Marcello), Roberta Impallomeni (Laura), Giusy Ferrante (Loredana), Angela Iacomeni (Teresa), Giuseppe Santostefano (Demetrio), Francesco Boscia (Nora Li Puma), Margot Pucci (Giuditta Li Puma), Salvo Ficano (Mirelli), Maurizio Juso (Casimiro), Marina Fragale (Gilda), Adriana Dolce (Altera), Gino Bonanno (Rosario), Marilia Chiovaro (Cecilia), Giuseppe Nicastro (Alfredo), Mirko Ingrassia (Alfredo), Piero Gebbia (Direttore Libreria), Renato Magistrato (Paolo), Marco Maria Correnti (Michele), Daniela Vita (Sara), Antonio Valguarnera (Ruggero), Giuseppe Celesia (amico Amaranto), Marina Provenzano (Vittoria), Patrizio Rizzo (barista), Aldo Messina (medico), Valentina Tilotta (segretaria), Stefano Billante (Leonardo Dorini), Francesco Gebbia, Elena Gebbia, Nicoletta Arena, Ludovico Genuardi, Federico Scrima (ragazzi libreria), Livia Arena Schonberger (turista tedesca), Rosanna Pirajno, Gaspare la Grassa, Toni Catania, Giovanna Ribaudo, Giuseppe Visconti, Vincenzo Gianbanco, Piero Russo, Marcella Abbate, Angelina Gertrude Pace, Antonio Pia Alagna, Giuseppe Caiozzo, Francesco Callari (ospiti residenza), Caterina Buscemi, Maria Terzo (cameriere), Manuela Velardo, Gaspare Catania, Francesco Valguarnera (impiegati residenza), Benedetto Modica, Federico Portelli (trasportatori), Rosario Andrea Lio, Alessandra Benigno (figli Demetrio), Davidel Basile (falegname).

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Onore a Prospero Baschieri, brigante bolognese!

13 Settembre 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli

Onore a Prospero Baschieri, brigante bolognese!

C’è stato un tempo in cui i briganti tingevano di paura le favole della buonanotte davanti al focolare, ma c’erano persone che non li temevano, povera gente per cui i briganti erano eroi. Famiglie, soffocate da tasse e ingiustizie, in cui una nidiata di bambini soffriva la fame e allora un brigante, che rubava ai ricchi per dare ai poveri, diventava un beniamino. Il Robin Hood della città di Bologna fu Prospero Baschieri che, per un breve periodo fra il 1809 e il 1810, compì gesta tali da regalargli l’immortalità ed entrare nella leggenda. Nato in una famiglia di contadini nel 1781, era il quinto di otto fratelli e aveva sofferto i sacrifici della miseria fin dall’infanzia, nelle fredde e paludose pianure emiliane di Maddalena di Cazzano fra Bologna e Ferrara, dove era venuto alla luce. Una zona intensamente popolata e coltivata, ma in cui le bocche da sfamare erano sempre troppe. Si racconta che fosse un omone alto più di due metri, forse il desiderio di farlo apparire “grande” lo rese addirittura un gigante nella fantasia popolare. Lo avevano soprannominato “Pruspron”, di carattere mite, se non veniva provocato, amava stare tranquillo e non avrebbe chiesto di meglio che sposarsi, lavorare la terra e mettere su casa a Cadriano, dove si era trasferito a vivere con la sua famiglia, ma furono i tempi tristi in cui cresceva a negargli anche queste minime soddisfazioni.

Nel 1796 le province settentrionali dello Stato Pontificio erano state invase e conquistate da Napoleone Bonaparte, alla testa del rivoluzionario esercito francese, queste regioni erano entrate così, a forza, a far parte della repubblica cisalpina, dando origine un po’ ovunque a moti di resistenza popolare, simili per forma e per motivazioni a quelli per cui è rimasta gloriosamente famosa la Vandea. In Italia tali movimenti passarono alla storia con il nome di “insorgenza” e in dialetto bolognese gli aderenti vennero chiamati “insurzènt”. Il fenomeno, per falsa ideologia, è stato volutamente sottaciuto e dimenticato, ma resta il più grande caso di insurrezione popolare che la nostra storia conosca, sia per estensione, perché toccò tutte le regioni cadute sotto la dominazione francese che per durata, poiché continuò dal 1796 al 1814. Per questo motivo gli insorgenti, di cui si fa scarsa menzione nei libri di storia, vengono ricordati solo come briganti e le loro gesta indicate alla stregua di delinquenza comune.

In quel lontano 1809 Bologna e i suoi dintorni erano affamati dalle truppe napoleoniche che, in nome della pace, tenevano tutta la popolazione soggiogata da atti di forza e violenza, razziando indisturbati i magazzini e depredando opere d’arte da ogni dove. Icone religiose, libri antichi, quadri, reperti archeologici venivano continuamente prelevati e spediti a Parigi. Napoleone, nel conquistare Bologna sconfiggendo le truppe papaline, aveva promesso libertà, ma aveva finito al contrario col soggiogare il popolo, ridurlo alla miseria e aveva sottoposto i nobili a prestiti “volontari” fino a 250.000 lire. Il capoluogo emiliano fu letteralmente saccheggiato. Nel cortile di San Salvatore fu addirittura allestita una fonderia per sciogliere gli oggetti di culto sottratti dalle chiese e ricavarne metallo prezioso. Unica icona che si salvò dalla razzia, fu quella della Madonna nera venerata a San Luca forse solo perché, ben conoscendone la particolare devozione dei bolognesi, Napoleone volle evitare ogni ulteriore sollecitazione a rivolte popolari pericolose. La fame e la disperazione avevano già fatto ribellare il popolo in sanguinose insurrezioni che erano sfociate nell’assalto ai forni del 1801, quando per protesta era stato rimosso da piazza del Mercato anche “l’albero della libertà” eretto dai francesi al loro arrivo.

Contro gli insorgenti regnava il clima del terrore e arrivò anche la ghigliottina simbolo della repressione, un monito preciso: chi non chinava la testa, la perdeva senza pietà. Fu una novità assoluta per Bologna, eretta a piazza del Mercato, aveva preso il posto della mannaia romana che venne poi ripristinata e usata nello Stato Pontificio come mezzo per le esecuzioni capitali fino al 1870. Una piccola parentesi, la prima sentenza che il boia dovette eseguire con la ghigliottina non fu a carico di rivoltosi, ma per un processo ordinario. Il primato toccò infatti a un certo Bellentani, orafo bolognese la cui moglie lo aveva tradito con un ex abate di San Michele in Bosco che, smesso l’abito talare, ne era diventato l’amante. Il poveretto, scoperta la tresc, aveva perso la testa e ucciso l’ex religioso, anzi aveva ucciso l’ex religioso e poi… perso la testa.

Tornando a Prospero Baschieri, nel 1804, aveva rifiutato di aderire alla leva napoleonica e a ventotto anni divenne capo di un manipolo di “insorgenti”. Le imprese che compì dunque in quel periodo non sono da considerare atti di un criminale comune, ma vanno inquadrate in quel contesto di insurrezione popolare di cui sopra, come rivalsa di una Bologna sofferente per le continue ingiustizie patite durante il dominio napoleonico. Per quasi un anno era riuscito a sfuggire all’orrenda punizione della ghigliottina dando filo da torcere ai francesi, il suo nascondiglio erano le valli, allora paludose, che si estendevano intorno a Bologna, ricche di acque e di canneti e quindi impraticabili a chi non le conoscesse come le sue tasche. Dotato di una certa abilità strategica, riusciva sempre a cavarsela anche perché era benvoluto e amato dalla popolazione che lo reputava un rivoluzionario benefattore e lo aiutava a trovare sempre nuovi nascondigli. Si era messo in testa di liberare il popolo dall’oppressore e, a capo di una banda di 25 contadini, il 4 luglio del 1809 invase Budrio e Minerbio occupando l’intero territorio; sapeva bene di non poterne mantenere il controllo, ma sperava in cuor suo di alimentare focolai di ribellione e di trovare un sempre maggior numero di aderenti alla sua rivolta. Col tempo, divennero una banda di oltre duecento uomini e misero a soqquadro tutta la bassa, da Medicina a Sant’Agata Bolognese. Animato solo dall’incoscienza e dal desiderio di libertà provò anche a liberare Bologna, cercando di aprire una breccia a porta Galliera, ma, con poche armi, senza cannoni e senza l’adesione popolare sperata, fallì miseramente e fu costretto alla ritirata dall’artiglieria napoleonica e dalla Guardia nazionale. Non si arrese, però, e, continuando con azioni di guerriglia, in ottobre occupò San Giovanni in Persiceto, dove sconfisse un folto drappello di francesi che, quando si arresero consegnando le armi, lasciò liberi senza far loro del male, perché Baschieri era un uomo d’onore e dotato di grande coraggio. Con sprezzo del pericolo dimostrò che gli emiliani potevano ancora alzare la testa e in molti paesi della bassa indusse i funzionari alla resa: li costringeva a scappare entro le mura di Bologna e divideva sempre i proventi delle sue imprese nei paesi che liberava con la popolazione affamata. Lui e la sua banda, ebbero anche per un certo periodo l’appoggio esterno dell’arciduca Carlo d’Asburgo, che teneva impegnato l’esercito napoleonico su altro fronte, ma, quando i francesi sconfissero quest’ultimo, Baschieri si ritrovò solo. I francesi cominciarono a perlustrare le campagne in cerca degli insorti. Nonostante ciò, battendosi con onore fino all’ultimo respiro, ben sapendo che oramai ogni speranza era perduta, Baschieri condusse un assalto alla caserma di Altedo, che fu data alle fiamme e, ancora una volta, il presidio francese fu costretto alla fuga

Non sarebbe stato tanto facile ridurlo alla resa, ma spesso la viltà e il tradimento vincono sull’onore e la fede: il 12 marzo 1810, Baschieri fu tradito e consegnato ai francesi dalla famiglia Rubini che gli dava in quel momento ospitalità. Venne raggiunto da un folto drappello di francesi mentre si trovava ospite in una delle loro cascine in località “podere Malcampo”. Dopo un conflitto a fuoco che non risparmiò morti da ambo le parti, Prospero, che si era battuto con forza selvaggia, venne ferito mortalmente. Prima di cadere si guardò intorno salutando per un’ultima volta la sua campagna, raccolse un pugno di terra stringendolo fra le dita e chiedendosi forse perché tutti i popolani non avessero amato come lui quei luoghi, tanto da unirsi nella lotta, ma fu il pensiero di un attimo e poi, per non cadere in mano ai francesi, si tuffò nel canale dove morì dissanguato. I suoi nemici ne raccolsero il cadavere e, in segno di disprezzo, per additarlo ad esempio a tutta la popolazione della bassa che aveva plaudito le sue imprese, lo ghigliottinarono anche dopo morto e la sua testa, conficcata in cima a un palo, rimase esposta a lungo come monito in piazza del Mercato a Bologna, dopo essere stata mostrata come un trofeo, in una sorta di macabro corteo che aveva percorso tutte le lande dove aveva combattuto e vinto contro i francesi.

Prospero era il contadino che aveva liberato la bassa e quando un uomo diventa un eroe si erge a simbolo per l’intera popolazione, così le sue gesta divennero leggenda, ma il popolo è vittima di una strana malattia per cui si lascia condizionare nei giudizi e nelle passioni dal successo e dall’insuccesso e si dimentica in fretta gli eroi innalzando i vincitori. Accadde che nel giro di poco tempo una canzone di chiara marca propagandistica, commissionata dal regime, venne applaudita di piazza in piazza proprio dai membri del suo clan, da coloro che lo avevano osannato e al quale il valoroso Prospero era stato a fianco fino al sacrifico ultimo della sua vita.

Traversando per il campo Per voler cogli altri andare Mi mancarono le forze Non potei più camminare E così steso per terra Senza aiuto e alcun conforto Dei nemici fui la preda e restai per sempre morto Indi a budrio con gran pompa Fui portato con gran festa E dal popol nella piazza Beffeggiata fu mia testa…"

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Il passator cortese

30 Novembre 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #saggi, #personaggi da conoscere

Il passator cortese



Romagna solatia,dolce paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator Cortese,
re della strada, re d
ella foresta”

Con questi notissimi versi, che concludono la poesia “Romagna”, Giovanni Pascoli, romagnolo verace, ha costruito, forse involontariamente, la leggenda del “Passator cortese”, il mito del brigante spietato e crudele con i ricchi ma altrettanto generoso con i poveri. Infatti è proprio a questa poesia e al poeta che la cantò che Stefano Pelloni, in arte Passatore, deve gran parte della sua notorietà, poiché queste rime sui banchi di scuola le abbiamo imparate tutti a menadito, magari abbiamo dimenticato chi fossero i Guidi e i Malatesta, ma le immagini del Passatore e della “azzurra vision di San Marino” difficilmente sono state cancellate dalla nostra memoria.
In Romagna il mito del passatore era ancora vivo quando Pascoli, da fanciullo, nelle lunghe serate invernali, seduto davanti al caminetto, avrà sentito gli anziani raccontarne le avventure, le sue clamorose imprese, i suoi delitti, le sue gesta, le sue astuzie e la sua generosità. Il Passatore fu un autentico protagonista del suo tempo, amato e odiato, rispettato e temuto, il suo cappellaccio, la sua barba nera e il micidiale schioppo ne fecero l'emblema della Romagna. C'è chi giura, ancora oggi, che fosse un ragazzo bello e affascinante, dallo sguardo accattivante e dai profondi occhi scuri.
Ma chi era veramente questo Passatore? Certamente per quanto riguarda il nord è stato il più noto brigante che abbia movimentato la cronaca di quel periodo, siamo a metà del 1800 quando raggiunse l'apice della notorietà .
È chiaro che se la gente ne parla ancora, se la sua immagine compare sull'etichetta di un vino pregiato, significa che le sue vicende hanno colpito la fantasia del popolo, ma in realtà Stefano Pelloni fu lui stesso un prepotente, che usava spesso l'arroganza, che compì crudeli vendette e che perseguì con feroce accanimento e freddezza le persone che gli si opponevano o cercavano di contrastarlo.
Non starò ad elencare tutte le rapine e le razzie che compì nel corso della sua carriera, furono molteplici e ne ricavò un bel bottino. Ad ogni impresa il maltolto veniva in parte diviso fra i briganti, una porzione era destinata ai fiancheggiatori, alle “coperture” o alle persone che avevano dato le “dritte” , e il resto veniva nascosto nel bosco, seppellito in punti precisi che conoscevano solo il Passatore e i suoi più fidati gregari.
A quei tempi la Romagna era ben lontana da quella che conosciamo oggi, fatta di spiagge di velluto e di estati spensierate, allora al mare non ci andava nessuno e l'acqua serviva soltanto a ricavare il sale dalle saline di Cervia o a sfamare qualche famiglia di pescatori. Molte zone in provincia di Ravenna erano ancora coperte da acquitrini malsani e la popolazione moriva di malaria. La romagna tutta era da circa tre secoli sotto il dominio dello stato pontificio, tolta la parentesi napoleonica, che non aveva di certo migliorato le condizioni della popolazione, le terre erano sempre state dominio dei Papi. Non esisteva libertà di stampa, né tanto meno di pensiero, nei paesi più piccoli erano i parroci a farla da padroni e la povera gente ravvisava nelle tirannie che subiva il rappresentante diretto del despota che stava a Roma. Si spiega anche con questo l'insorgenza di un forte sentimento anticlericale che ancora permane nella gente di romagna. In seguito, non a caso la Romagna divenne il primo focolaio dell'idea repubblicana, e sempre non a caso si tenne proprio a Rimini il secondo congresso degli anarchici italiani, nel maggio del 1872 durante il quale si mise in luce il giovane imolese Andrea Costa.
Stefano Pelloni dunque crebbe in un contesto di malcontento generale, era nato il 4 agosto del 1824 ultimo di dieci figli. Il padre possedeva un piccolo podere con casa e stalla e guadagnava benino avendo in concessione il diritto di traghettare su una zattera i passeggeri da una parte all'altra del fiume Lamone. Da questa attività, ereditata in famiglia da generazioni, derivò a Stefano Pelloni il nomignolo di Passatore, appellativo che era già del padre e che non lo abbandonò mai.
Fin da piccolo fu astuto e disubbidiente, un carattere inquieto. Dotato di un'agilità sorprendente, nelle liti fra compagni primeggiava sempre per forza o per astuzia. Non aveva paura di nessuno ed era anche capace di mentire al momento giusto. Il padre, disperato per i suoi comportamenti violenti, decise di allontanarlo da casa, per farlo studiare, ma senza successo alcuno.
Ancora giovanissimo, il Passatore si trovò coinvolto in quello che oggi verrebbe definito un “omicidio colposo”, pare che durante una rissa, scagliando una pietra verso il suo avversario, colpisse invece una donna incinta che, per conseguenza, prima perse il bambino e poi morì a causa di un'infezione. Accusato di omicidio e tratto in arresto fu condannato a tre anni di carcere. Evaso, si dette alla macchia e iniziò la sua carriera di brigante. Forse la realtà degli eventi che portò il Passatore in galera per la prima volta fu leggermente diversa, questa leggenda dell'omicidio involontario servì solo ad alimentarne il mito. In realtà di certo c'è che Stefano Pelloni aveva solo 15 anni quando iniziò a fare i conti con la giustizia pontificia e a 19 era già un brigante discretamente quotato. Successivamente fu arrestato ed evase diverse volte acquisendo sempre più fama e diventando il ricercato numero uno. In tutte le parrocchie fu diffusa una circolare che lo descriveva, una serie di dati che fanno sorridere se paragonati agli odierni identikit :

“Stefano Pelloni
nativo del Boncellino
domiciliato in Boncellino
surnomato Malandri o Passatore
condizione bracciante
statura giusta
anni 20
capelli neri
ciglia idem
occhi castani
fronte spaziosa
naso profilato
bocca giusta
colore pallido
viso oblungo
mento tondo
barba senza
corporatura giusta
segni particolare sguardo truce”

I simboli sono importanti, sintetizzano significati complessi che richiederebbero lunghe spiegazioni, sono rivelatori dell'animo di chi li elegge in propria rappresentanza ed è tristemente rivelatore per i romagnoli che essi si siano dati quale personaggio simbolo la figura di questo brigante, che nella realtà storica non fu nient'altro che un bandito feroce e inutilmente crudele. Un torbido figuro, sifilitico, privo di intelligenza e spessore storico, il quale rubava ai ricchi perchè rubare ai poveri equivaleva a “cercare il grasso nella cuccia del cane” (come si dice in Romagna) e che ai poveri non ha mai dato il becco di un quattrino se non per comprare la loro omertà. Ben sapendo che solo con le minacce non avrebbe ottenuto uguale fedeltà, rimborsava adeguatamente e abbondantemente chi lo proteggeva, in modo da attirare le “simpatie”di sempre nuovi contadini poveri disposti ad accoglierlo nelle loro case, a nasconderlo nei loro capanni. La sua generosità dunque era suggerita da un preciso interesse, così come per comprarne favori e complicità pagava le donne che lo seguivano e che servivano ad allietare lui e la sua banda.
In conclusione, il Passatore non fu veramente né “cortese”, né eroe, compì rapine in ogni paese della Romagna seminando terrore e lasciando morti sul suo cammino, se ne contano almeno una ventina a suo carico, ma sia ben chiaro che la sua avventura di politico non ebbe nulla, non si interessò di liberare la sua terra dall'oppressore ma semplicemente di arraffare quanto più possibile ai cittadini benestanti e solo per tornaconto personale.
Dopo che molta parte dei componenti la sua banda erano stati arrestati, per uno strano scherzo del destino, fu denunciato proprio da un pover'uomo, senza casa, preda delle peggiori tribolazioni e della miseria più nera, fu scovato nascosto in un capanno, ucciso dai gendarmi e portato in giro su un carretto a dimostrazione, per tutto il popolo, che la sua epopea era terminata: era il 23 marzo 1851.

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La casina delle rose

2 Dicembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

La casina delle rose

Siamo giunti alla fine della serie “i mitici anni 60” presentata da Giovanni D'Ippolito che, con il suo ultimo racconto, vede i giovani liceali di paese approdare nelle grandi città per frequentare i corsi universitari. Sullo sfondo l’Italia del boom economico, le tradizioni vecchie di secoli erano state spazzate nel giro di pochi anni per far posto al progresso e a profondi cambiamenti socio-economici. I vini e i liquori diventavano emblema di una tradizione antica che identifica una terra con i propri prodotti, simboli di una civiltà contadina che andava scomparendo. Si passava dal tempo della società agricola, scandito dalle stagioni, ai ritmi frenetici della città e della vita in fabbrica, e al suono rassicurante delle campane della chiesa di paese si sostituiva la musica ad alto volume del juke-box gettonato in ogni bar.

LA CASINA DELLE ROSE

Fra il 1968 e il 1970, il Liceo Scientifico di Bojano aveva “licenziato” i primi corsi di studenti e, per la maggior parte, i ragazzi si erano iscritti all’Università un po’ per vocazione, un po’ per andar via di casa ed acquisire quella libertà da tanto tempo agognata. Le sedi più gettonate erano le più comode e più vicine, quindi ci eravamo distribuiti fra Napoli, Roma e Firenze. Naturalmente per le vacanze, sia estive che invernali, tornavamo a Bojano dalle nostre famiglie ed era proprio durante il periodo natalizio che tutta la città si trasformava in una bisca. Si giocava nelle case private, nei circoli, nei fondaci, nelle cantine, insomma in qualsiasi posto dove si potessero approntare quattro sedie e un tavolo su cui stendere le carte. I giochi più alla moda erano poker, stoppa, zecchinetta, chemin de fer. Tenuto conto della nostra condizione di studenti, durante quelle maratone di gioco, giravano parecchi soldi, ma appunto “giravano” nel senso che un giorno vincevi e quello dopo perdevi, così che alla fine il bilancio delle vincite e delle perdite spesso risultava in pareggio.

Dopo le feste, ovvero intorno all’8 o 10 di gennaio, ognuno rientrava nella propria sede di studio per riprendere le lezioni, ma venti e più giorni di gioco accanito lasciavano sempre degli strascichi, così spesso si decideva di continuare quell’attività anche all’università. Un anno in particolare ricordo che la “febbre “ del gioco era salita a tal punto che si raggiunse l’accordo che, appena ripartiti, ci saremmo rivisti a Roma, sede centrale rispetto alle altre due, dove si sarebbe svolta una tournée di poker non stop di 48 ore presso l’appartamento che alcune ragazze bojanesi avevano in fitto vicino a piazza Bologna. L’organizzazione era perfetta gli studenti che abitavano a Roma avrebbero ospitato coloro che venivano da fuori e, dato il numero dei partecipanti, furono allestiti ben quattro tavoli da gioco nella sala dell’appartamento delle ragazze.

Dopo la sistemazione di napoletani e fiorentini presso le nostre stanze, io ospitavo Flaviano, un carissimo amico col quale ci sentiamo ancora oggi molto legati, ci recammo tutti verso la “bisca” dove, come detto, cominciò un’attività che ci tenne impegnati e svegli per più di 48 ore. Intorno all’una di notte del terzo giorno cominciò la smobilitazione, il mio amico e io, salutati tutti, ci avviammo verso casa che distava poche centinaia di metri dal “covo”. Entrati, con la massima cautela per non svegliare la padrona, ci infilammo nella stanza e, distrutti, ci gettammo sui letti completamente vestiti. Dopo pochi minuti, un gemito strozzato mi scosse dal mio torpore. “Che c’è Flò? “ chiesi usando il nomignolo che gli riservo da sempre. “Gia’ ”, così mi chiama lui ancora oggi, “il dente, mi fa male forte il dente”.

Sempre fornito di medicinali, gli diedi subito due “nisidine”, ma purtroppo, passata una mezz'oretta, non solo non avevano sortito alcun effetto, al contrario il dolore era in aumento. Avevamo sentito dire che l’unica cosa che poteva dare qualche sollievo in questi casi era mettere dell’alcool sul dente, affinché fungesse da anestetico. Sapevo anche, però, che in casa non poteva esservene, poiché la padrona era astemia e io non avevo scorte personali. Pur di non dover uscire, provai a guardare addirittura nel mio armadio in cerca di un po’ di alcol denaturato che potesse servire allo scopo, ma niente. In bagno trovai solo del dopobarba Mennen che, secondo noi, non conteneva alcool a sufficienza.

Ci decidemmo così a uscire e accompagnai il mio amico a un chiosco bar che sapevo aperto tutta la notte e che si trovava vicino casa, proprio di fronte alla monumentale scalinata dell’ufficio postale di Piazza Bologna. “La casina delle rose” era una struttura costituita da tre blocchi di vetrate, uno centrale, adibito a bar , con il bancone proprio di fronte all’ingresso e a destra e a sinistra due ambienti che ospitavano tavolini e sedie.

Erano passate le due quando entrammo con i baveri dei cappotti alzati fin sopra le orecchie, le facce stravolte, la barba lunga di due giorni, le occhiaie e uno di noi con una smorfia (di dolore) dipinta sul viso. Il locale era deserto, il barista un po’ assonnato ci scrutò guardingo, sembravamo più due gangsters usciti da un film che due studenti.

“Una bottiglia di J&B “ chiese il mio amico e, quando il ragazzo fece il gesto di incartarla, allungò la mano, gli bloccò il braccio e a denti stretti disse e due bicchieri”. Ci sedemmo al primo tavolo a destra e cominciò l’operazione “dentista”. Flaviano buttò giù altre due “nisidine” e teneva sul dente dolorante un po’ di whisky, che per tutto il tempo formava una pallina sulla guancia, poi, invece di sputarlo, lo ingoiava e così, dopo poco tempo, vuoi che l’alcool avesse fatto effetto, vuoi che non sentisse più il dolore perché si era bevuto mezza bottiglia, trovò giovamento e il suo aspetto era nettamente migliorato, anzi, aveva la faccia stranamente raggiante, così anch’io cominciai a sentirmi più tranquillo e, per solidarietà, mi concessi qualche bicchierino.

Avevamo forse inconsapevolmente inventato un forte analgesico unendo quel farmaco all’whisky? Il sonno ci era passato e cominciammo a chiacchierare animatamente di sport, l’effetto combinato aveva avuto su Flò un risultato strepitoso e iniziammo a ridere e a fare commenti ironici nei confronti della “fauna” notturna che entrava e usciva dal bar. Il metronotte con la bicicletta che durante il suo giro si fermava a prendere un caffè bollente; le prostitute con vertiginose minigonne che, fra una prestazione e l’altra, cercavano di scaldarsi con un latte portoghese; Carabinieri e Poliziotti che provavano ad accorciare il loro servizio notturno fra una sosta e una sigaretta, il padrone di un cane, in ciabatte e con il cappotto sul pigiama, che spiegava di esser dovuto scendere di corsa perché l’animale aveva male agli intestini.

Il tempo passò veloce e, erano da poco suonate le cinque, quando improvvisamente il bar si animò. Il ragazzo faceva fatica a servire tanti avventori sbucati all’improvviso: “due cappuccini”, “due cornetti”, “un caffè”, “una brioche”. Tutto quel trambusto cominciò ad infastidirci così decidemmo di uscire e ci andammo a posizionare comodamente seduti di fronte, sulla scalinata dell’Ufficio Postale, per goderci ancora un po’ di tranquillità, ma fuori era ancora peggio: autobus che andavano e venivano, una piccola folla che si accalcava al capolinea, altre persone che attraversavano la piazza di corsa, dov’era finita la pace della notte? Io e il mio amico ci guardammo in faccia increduli e ci chiedemmo all’unisono: “Dove cazzo vanno tutti a quest’ora?”.

Naturalmente era gente che andava a lavorare, prendeva i mezzi per raggiungere fabbriche e botteghe, ma per noi, giovani perditempo con poca attitudine allo studio, era una cosa allora del tutto incomprensibile. Ci avviammo verso casa e, una volta finalmente a letto, dormii profondamente, al risveglio trovai sul tavolo la bottiglia di J&B che, alzandosi dal tavolino del bar, il mio amico si era infilato nella tasca del cappotto, dentro, le ultime due dita di whisky e, sotto, un biglietto “Finiscila alla mia salute. Vado a casa a Bojano a curare il dente. Ciao e grazie di tutto.”

Dopo qualche giorno, la bottiglia era vuota e la riposi insieme ad altre di grappa, di Stock 84, Vecchia Romagna, che conservavo vuote sull’armadio della mia camera in una sorta di strana collezione.

Questo episodio mi tornò in mente, qualche anno dopo, quando in un mercatino trovai una piccolissima spilla con attaccato una minuscola bottiglia verde in plastica con la scritta J&B. La comprai e finì attaccata alla mia feluca universitaria, color bluette, unitamente a tanti altri ninnoli, simbolo di qualche episodio o periodo della mia lunga vita di studente .

La casina delle rose
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Le sottocatacombe

28 Aprile 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Ascoltava il rombare del Sottobolide in lontananza, mentre se ne stava seduto in una poltrona. Pensava a sua Madre, a sua Nonna, a Pyotr, al perché Naziale l'avesse coinvolto in quest'avventura pericolosa. Se fossero stati presi, cosa sarebbe successo? Sarebbero stati gattabuiati per quanto? O c'era qualcosa di peggio, in serbo? Non lo sapeva. Non conosceva il serbo.

Sentì il mezzo fermarsi, ma non spegnersi. Ripartì. Gli sembrava s'inclinasse. Stava salendo. Vi era un rumore metallico. Forse era una rampa. Sentì qualcosa che si chiudeva, con un boato, dietro di loro. Seguiva attentamente il racconto dei suoni, chiedendosi cosa significassero, tendendo orecchie  peraltro già piuttosto estroverse. Seguì un sibilo lungo e continuo, e poi il Sottobolide partì fulmineamente imboccando chiaramente un percorso in ripida discesa. Scatto che rovesciò la comoda poltrona su cui sedeva mandandolo a gambe all'aria.

Naziale lo chiamò. Egli uscì dalla Torre Mobile e poi dal sottobolide.

«Dove siamo?»

«Più in basso di dove tu sia mai stato.»

Si guardava intorno, scrutando quell'ambiente cavernoso, spoglio, misterioso.

Il vecchio arzillo lo condusse attraverso un varco e si trovò all'improvviso in una vasta grotta intermittente di luci, persone, movimenti, trilli, scalpiccii – piramidi di schermi si stagliavano presso ogni parete, e monitor lungo le file di bancali con strane, mai viste tastiere nere di gomma, dotate di una striscia variopinta obliqua in un angolo. Varie persone si affaccendavano attorno ad esse, scambiandosi osservazioni, occhiate ed esclamazioni. Sui tavoli c'erano custodie colorate da cui spuntavano strani oggetti semi-rettangolari con due buchi nel mezzo, alcuni dei quali erano o venivano infilati in delle specie di scatole dotate di pulsantiera, che una volta attivate muovevano delle sporgenze rotanti all'interno dei due fori – un filo collegava tali bizzarri strumenti alla tastiera, e sugli schermi apparivano strane immagini dal rozzo e approssimativo disegno.

«Ho capito» mormorò Crispin argutamente «Siamo nel covo dei ribelli e questa è tecnologia avanzata per raggiungere e fondere i circuiti dell'Impero a distanza, torcere il suo oppressivo apparato di controllo ipnoinformatico, devastare il sistema»

«Sagace, molto sagace» commentò Naziale scrutandolo «Ma no, questi sono solo antichi home computer e videogiochi con cui amiamo divertirci»

«Certo, è quello che ho detto» replicò il figlio di Pyotr annuendo con serietà.

«Sai, è un convegno per appassionati di hardware preistorico – anche questa è una forma di ribellione: un rifiuto di utilizzare la tecnologia moderna programmata per seguirci, controllarci, raccogliere informazioni su di noi – come i nostri cerebronanochip» concluse con un occhiolino.

Crispin aprì una grossa O con la bocca e gli occhi si sgranarono come due uova sode attorno alle pupille «Ho dimenticato di spegnerlo! Sanno dove siamo!»

«Non preoccuparti, questo luogo è isolato, e dei particolari sensori hanno già individuato e spento il tuo chip mentre entravi»

«Tenente!» furono interrotti da uno dei giocatori. «L'aspettavamo. Venga nel covo segreto» e li precedette oltre una tendina di perline.

«Tenente?»

«Sì, è diminutivo di “nullatenente”». E lo seguirono.

 

Continua...

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Polonia: un paese sorprendentemente bello

10 Gennaio 2014 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

Polonia: un paese sorprendentemente bello

La regione Malopolska racchiude molti gioielli culturali e naturalistici. Cracovia, invece, è la splendida città del turismo e della cultura.

Eccomi di nuovo in aeroporto. Sono rientrata in Italia da appena una settimana, dopo essere stata negli Stati Uniti e in Canada, ed ora mi trovo nuovamente con la valigia in mano pronta a salire su un aereo della LOT, che mi porterà in un paese europeo che ancora non conosco: la Polonia. E’ tardi, il cielo è scuro ma pieno di stelle. L’Embraer decollerà alle ore 23.45 per arrivare a Cracovia alle 02.00 del giorno dopo. Non riesco a dormire in aereo e il tempo lo trascorro leggendo o scrivendo. Anche questa volta sono emozionata. Mi accade ogni volta che parto per un paese che non ho mai visitato, e la Polonia rientra tra questi.

A qualcuno potrà sembrare strano, ma tutte le volte che affronto un nuovo viaggio mi sento un po’ come quelle bambine che si accingono scartare un regalo desiderato a lungo.

L’aereo è confortevole e ci viene servito anche uno snack. Con la mente sono già a Cracovia, la città definita dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità, dove atterreremo e nella quale ritornerò il penultimo giorno, dopo aver effettuato le numerose visite nelle località più interessanti e più vicine alla città.

L’Ente del Turismo Polacco, sa cosa far visitare ai 6 giornalisti invitati ed ha preparato un fitto programma ricco di suggestioni. All’arrivo troviamo un incaricato dell’Ente Turistico che ci porterà in Hotel dove arriveremo alle 02.30. Lungo la strada che ci conduce dall’aeroporto all’albergo, c’è tanta nebbia, ma il nostro autista guida con la stessa sicurezza con la quale noi gireremmo in una giornata di sole.

Non dormiamo, il tempo è troppo poco per riuscire a prendere sonno e…quando gli occhi incominciano a stancarsi e ad incominciare a chiudersi, ecco che ora di alzarsi.

Fuori c’è ancora una nebbia piuttosto fitta che, a malapena, fa intravedere la gente che va al lavoro e le automobili che passano, ma non appena incomincia a diradarsi riesco a vedere che l’hotel è situato vicino ad un fiume. C’è un ponte e alcuni barconi sono attraccati ad un piccolo molo. Sono le 08.30 e già un gruppo di turisti è fuori con la guida che spiega loro qualcosa riguardo dei grossi pannelli che contengono varie fotografie con le immagini della flora e della fauna.

Qualcuno passa in bicicletta sulla pista ciclabile che costeggia il fiume Vistola, che attraversa tutta la Polonia. Nasce dai Carpazi ed è il fiume più lungo della Polonia che sfocia a Danzica.

Sono le 09.00 e alcuni ragazzi giocano a pallone, nonostante ancora non ci sia una grossa visibilità e non faccia propriamente caldo. L’hotel è situato ai piedi del Castello di Wawel, ma non riesco a vederlo per via della nebbia.

Zakopane, “capitale invernale” della Polonia

E’ ora di partire alla volta di Zakopane, capitale invernale e località turistica più importante per il paese con i suoi tre milioni di visitatori l’anno. E’ un posto perfetto per sciare – non per niente anche Papa Giovanni Paolo II°, prima didiventare la guida spirituale dei cattolici, amava scendere dalle piste dei monti Tatra, la più alta catena montuosa del paese, ai cui piedi, ad un’altezza di 800 metri si trova la bella cittadina.

Zakopane ricorda il papa nel Santuario della Madonna di Fatima di Krzeptowki, dove il Giovanni Paolo II° celebrò una messa e dove ora si trova un monumento dedicato alla sua memoria. Zakopane possiede moderni e ottimi impianti sciistici sul Monte Kasprowy, a circa 2.000 metri di altezza, funivie e trampolini ripidi perfetti anche per gare internazionali, come quella di “Nosal”.

Numerosi gli itinerari a disposizione per chi ama scalare le vette o semplicemente passeggiare in questi luoghi incontaminati, dove si possono incontrare camosci, marmotte,aquile, ma, soprattutto, dove in inverno ci si può cimentare in uno degli sport invernali preferiti, lo sci. Zakopane, offre numerosi impianti: seggiovie e sciovie, piste di sci di discesa e di fondo, pendici di slalom ed un percorso di discesa estremo.

Ma la città è un piccolo scrigno pieno di gioielli, tra i quali troviamo la Chiesa-Cappella di Jaszczurowca, risalente al 1904, il vecchio cimitero, dove riposano illustri polacchi, un piccolo ma molto interessante Museo nel quale sono conservati reperti del folklore montanaro, abiti e arredamenti tradizionali e il Convento delle Orsoline, luogo dove per 16 anni il Papa trascorreva le sue vacanze prima di diventare il Santo Padre. Zakopane è famosa anche per l’aria salubre.

Un monumento è dedicato ad un medico, Titus Chalubinsky, considerato il padre della città perché vi portava la gente malata ai polmoni (soprattutto artisti che conducevano una vita bohemienne), li curava guarendoli.

Zakopane ha 30.000 abitanti molti dei quali vivono in bellissime e tipiche case, con i tetti spioventi e i frontoni scolpiti. Sono case in legno dallo stile molto bello e caratteristico denominato proprio “stile di Zakopane”, che fu inventato da Stanislaw Witkiewicz (critico, pittore e scrittore) e unisce elementi di casa tradizionale di montagna con uno stile del periodo di fine ottocento.

La città è piena di alberghi di qualsiasi categoria, comprese pensioni e case private, atte a soddisfare le esigenze e le tasche di ogni turista, inoltre, poiché la natura è stata molto generosa nei suoi confronti, i suoi dintorni sono pieni di boschi e di fiumiciattoli.

A Chocholowska è un must effettuare un viaggio in carrozza nella sua valle dove numerosi escursionisti camminano fra splendidi panorami e piccoli canyon.

Ottima la sua cucina caratterizzata da prodotti a base di latte di pecora.

Sulle zattere lungo il fiume Dunajec

Lasciata Zakopane, con il ricordo di una città vivace, piena di locali e ristornati, ci rechiamo a Sromowcow dove ci attende una bella sorpresa: la discesa in zattera del fiume Dunajec.

Non si tratta di zattere come le intendiamo normalmente, ma sono una sorta di piccole e strette barchette unite tra loro con la corda.

Portano da 6 a 8 persone e gli zatterieri, sempre 2 per ogni imbarcazione, sono vestiti con gli abiti tradizionali variopinti.

E’ piacevole ascoltare le storie e le leggende che raccontano sulla loro terra mentre tutto attorno è silenzio e si avverte un grande senso di pace.

La discesa turistica del Dunajec risale a oltre 150 anni fa e, indubbiamente, è un’esperienza particolare della durata di 2/3 ore, che consente di ammirare i monti Pieniny con le loro rocce a strapiombo sull’acqua e le alte pareti, oltre alle cime aguzze denominate Trzy Korony (le tre corone) che, in realtà, danno l’impressione di una sola, grande corona.

Il fiume si fa strada fra le montagne dalla forma particolare, fra piccole rapide, uccelli acquatici e una ricca vegetazione che orla le sue rive.

Cracovia, una delle più belle città europee

E’ ora di tornare a Cracovia, e ci rimettiamo in auto per tornare là dove abbiamo trascorso la prima notte ma non abbiamo ancora visitato. Il tempo ci è amico: c’è un bellissimo sole e il cielo è completamente terso.

Clima ideale per visitare i tanti monumenti di grande valore storico che questa città possiede e conserva in maniera egregia.

Come in ogni paese che si rispetti, ci sono sempre le leggende a dare spiegazioni a ciò che non conosciamo. Così è per il nome della città che le deriverebbe da un principe di nome Krak, che la liberò da un drago crudele che aveva “l’abitudine” di mangiare le fanciulle del luogo.

Ma leggenda a parte, Cracovia è una città inaspettatamente splendida e unica nella sua bellezza. Ricchissima di monumenti di grande valore storico e artistico, è rimasta come quando venne costruita nel medioevo.

Dal 1039 al 1596 la città è stata la capitale politica e culturale della Polonia, quando i regnanti decisero di trasferirsi a Varsavia soprattutto per motivi amministrativi. La città conserva numerose opere di grande valore grazie al fatto che la corte reale invitava i più noti artisti d’Europa.

Il turista che visita questa città vive un’atmosfera veramente particolare, che sa di un passato lontano, grazie alle sue numerose testimonianze storiche.

Il cuore della città è la Piazza del Mercato, una delle più grandi piazze medievalid’Europa grazie alle sue dimensioni: un quadrato dal lato di 200 metri, ed è la parte più antica di Cracovia perché sorta nel 1257.

La Piazza è divisa in due parti ed è dominata dal Palazzo del Tessuto, all’interno del quale si possono visitare numerosi negozi ed il Museo Nazionale, che accoglie importanti collezioni.

Sempre sulla piazza si possono ammirare l’antica torre del municipio, Wieza Ratuszowa e la chiesa di S. Adalberto.

Sulla piazza ci sono le superbe torri della Basilica dell’Assunzione della Vergine Maria, la più alta misura 83 metri. Dalla Torre più alta, ogni ora, c’è un trombettiere che suona e si sposta su quattro lati.

E’ un uomo in carne ed ossa a suonare ed è una tradizione che risale al tempo in cui le truppe turche si stavano avvicinando alle mura della città. Il trombettiere riuscì a suonare l’allarme e poi fu ucciso dal nemico con una freccia.

In memoria dell’episodio, che consenti alla popolazione di prepararsi all’attacco, ancora oggi tutti i turisti possono ascoltare e vedere, stando a faccia in su, il trombettiere che suona.

Nella Chiesa della Vergine Maria, una delle più belle chiese della Polonia e più ricche nell’architettura interna. L’altare maggiore è splendido ed unico con 12 bassorilievi sulla vita della Madonna.

E’ l’altare gotico più grande d’Europa, dai colori policromi, eseguito da un incisore di Norimberga, Wit Stwosz, con legno di tiglio dorato. In alcune ore della giornata apre anche ai turisti.

Una suora, con un sottofondo di musica sacra da far venire i brividi ecommuovere anche chi non ha la fede, prende un bastone e apre la grande pala fatta a libretto.

Una volta aperta completamente, si possono ammirare tutte le pitture che rappresentano la storia del Nuovo Testamento, evidenziando fatti della vita di Gesù e della Madonna. Ma la chiesa è ricca anche di molte vetrate originali, tutte dipinte con 120 storie dell’umanità.

Infine, la parte che riguarda il coro (del 1600) ha scene di vita della Vergine, mentre il Ciborio è opera del nostro artista Giovanni da Padova.

Al centro della Piazza si trovano anche le Sukiennice o Mercato dei Panni, edificio gotico risalente al XIV° secolo, sorto come centro commerciale locale, oggi ha l’attico con sculture di Santi Gucci e, al primo piano una Galleria dipittura.

I portici sono occupati da negozi che vendono artigianato locale.

Sempre sulla Piazza, c’è un interessante Museo sotterraneo aperto da appena un anno e che è costruito all’interno in maniera moderna. Vi si trovano monete antiche, carri, basamenti

originali e antichi, ricostruzioni della vita dell’epoca con filmati, ricostruzioni delle botteghe di orafi, fabbri, chiavi, oro, scarpe, serrature, maglie di corazze, statue in terracotta, bilance e sistemi di misura, oltre a resti di mura e vecchie strade.

Una delle strade adiacenti alla piazza è via Florianska, in fondo alla quale si trova l’unica testimonianza delle mura medioevali della città, la porta (Brama) di S. Florianska e il bastione difensivo Barbacane, del quattrocento, il più grande e meglio conservato esempio di fortezza gotica d’Europa.

Lungo la Florianska da non mancare la visita al Muzeum Matejki ricreato nella casa natale del famoso pittore Jan Michalikowa e il pittoresco caffè Jama Michalikowam, luogo di incontro di artisti, nel quale facilmente può capitare di assistere a degli ottimi spettacoli di cabaret.

Un’altra strada veramente stupenda ed antica è la Kanonicza, dove è situato il museo “Art Nouveau” e il teatro Cricot 2.

Da non perdere assolutamente gli edifici del Palazzo Reale, il Wawel, chesovrastano la parte meridionale della città antica, mentre alla cattedrale del Wawel, gioiello dell’arte gotica, nel tempo, sono state aggiunte numerose cappelle, la più famosa delle quali è quella di Sigismund, con la sua magnifica cupola dorata.

Il Castello Wawel, di epoca rinascimentale, si trova su un’altura lungo la Vistola. In origine era la residenza di re e poi di vescovi.

Le stanze reali sono arricchite da una collezione di splendidi arazzi fiamminghi, anche di grandi dimensioni, stufe in maiolica, pavimenti in marmo nero di Cracovia (oggi non esiste più) e legno di larice.

Quadri, anche del Vasari, affreschi, mobili, rendono molto prezioso questo tesoro delle memorie nazionali. In alcuni ambienti è tutto molto italiano-rinascimentale in quanto la Principessa Bona Sforza sposò il re Sigismondo il Vecchio.

Dall’Italia la Principessa portò al castello numerosi artisti, che hanno lasciato sculture pregevoli e opere architettoniche di grande valore.

Attaccata al Castello si trova la Cattedrale di Wawel dei S.S. Venceslao e Stanislao ed è il santuario del patrono della Polonia, S. Stanislao vescovo.

Qui vi si svolgevano le più importanti cerimonie religiose e le incoronazioni dei re mentre nelle cripte sono sepolti quasi tutti i re polacchi. La Cattedrale è in stile gotico con tre navate laterali e risale al 1320.

All’interno è custodito il Tesoro, anche se è andato depauperandosi a causa delle asportazioni subite nel corso dei secoli.

Molto belli il feretro d’argento di S. Stanislao e la cappella di Sigismondo.

Cracovia è definita anche “la città dei giovani” perché vi è una delle più antiche e prestigiose Università d’Europa: la Jagellonica, che si divide in Collegium Maius, costruzione gotica del trecento, e Collegium Novum, in stile neogotico.

E’ stata fondata nel 1364 e sono numerose le facoltà che richiamano giovani da ogni parte della Polonia. All’interno, nel Collegium Maius, è ospitato un Museo che ha la particolarità di mostrare anche 35 mappamondi antichi.

Tra i quali uno del 1508 circa, sul quale venne segnata per la prima volta al mondo anche l’America.

Cracovia stupisce anche per la bellezza dei suoi palazzi, in stile gotico, rinascimentale e barocco, che risalgono anche al 1200.

Le facciate sono tutte completamente restaurate, le strade pulitissime e un grande parco circonda tutto il centro. C’è una grande vivacità sia diurna che notturna grazie ai numerosi locali, ristoranti, bar.

E non sono solo i giovani a godere la città, ma intere famiglie e coppie non più giovani. Cracovia ha un’eleganza che si riscontra anche nell’abbigliamento dei suoi cittadini.

E’ una città sorprendentemente viva e piena di fascino. Se ci si reca nella Piazza del Mercato quando è ora di cena, risuonano ovunque note musicali che vanno dal Jazz a quella moderna. Nei ristoranti all’aperto c’è sempre musica dal vivo. Cracovia è ancora una città colta, e si vede!

La fabbrica di Schindler

Chi non ha visto il commovente film “La fabbrica di Schindler”? Ecco, la fabbrica è a Cracovia ed è diventata un Museo della memoria.

Prima dell’invasione nazista c’era già la fabbrica ed ora è un Museo che racconta la storia di Cracovia nel periodo dell’occupazione dal 1939 al 1945.

La mostra, che come è facile intuire, procura molte emozioni, mostra la storia dei suoi cittadini polacchi ed ebrei, le vicende che hanno segnato la storia della fabbrica di Oscar Schindler e i prigionieri salvati dal campo di concentramento di Plaszow.

La Mostra permanente “Cracovia – periodo dell’occupazione nazista 1939-1945” è stata inaugurata nel 2010 nell’edificio amministrativo della vecchia fabbrica tedesca di vasellame, ancora visibile in grande quantità nei locali esterni dell’edificio.

All’interno sono ancora conservati alcuni macchinari, timbratrice einstallazioni nell’ufficio di Schindler.

Entrando in quest’ultimo l’emozione che si prova è molto forte.

Una mappa di gesso dell’Europa con i nomi delle città scritte in tedesco è ancora situata su una parete, i mobili, la sua scrivania con gli oggetti di uso quotidiano, la lampada da tavolo, le sue foto sono lì e puoi toccare tutto.

In quella stanza puoi avvertire un gran senso di tristezza, dolore, compassione, ammirazione e gratitudine e, all’improvviso, le immagini del film riaffiorano prepotenti e un grande disagio e senso di impotenza pervadono la tua mente e il tuo cuore.

Quanta malvagità, quanta disumanità, quanta umiliazione ha dovuto

Shindler

sopportare quella povera gente.

Di quanti Schindler, che è riuscito a salvare oltre mille ebrei polacchi, avrebbe avuto bisogno la società di quell’epoca?

La Mostra segue un percorso che fra scenografie, luci e suoni, da l’impressione di trovarsi nel terribile periodo e di essere spettatori della vita dell’epoca.

Sentiamo i rumori, viaggiamo in tram, guardiamo dentro le case, un caffè, un salone da barbiere.

Un vasto materiale di memorie e di fotografie è mostrato in molte presentazioni multimediali.

Si può osservare la città prima del periodo bellico fino ad arrivare alla fine dell’occupazione, attraversando tutto il periodo orribile della guerra, dello sterminio di 60 mila ebrei a Cracovia, della fabbrica di Schindler e la fine di quegli orrori.

Una Mostra ben fatta e utile a non far dimenticare ciò di cui è capace l’uomo, nel bene e nel male.

Wieliczka, la spettacolare miniera di sale

Una delle meraviglie della Polonia è senz’altro la miniera di salgemma di Wieliczka. Da sola vale un viaggio nel paese.

Situata a circa 60 chilometri da Cracovia, è stata dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità (la Polonia ha molte località inserite dall’Unesco nella lista dei Monumenti Mondiali culturali da preservare).

E’ la più antica miniera di sale d’Europa conosciuta 3500 anni prima di Cristo.

Attiva dall’anno 1000, oggi è una delle maggiori attrattive turistiche del paese.

La visita inizia con il percorso chiamato “Pozzo di Daniłowicz” attraverso gallerie lunghe circa tre chilometri che conducono a 20 sale.

In realtà, le gallerie sono lunghe circa 300 Km, distribuite su nove livelli ma, chiaramente, per i turisti il percorso è stato limitato alla visita delle opere più belle e importanti costruite all’interno della miniera.

Le sale sono interamente scolpite in grandi blocchi di salgemma e la più bella ed emozionante è senza dubbio la Cappella di Santa Kinga, una vera e propria chiesa. La sala è molto ampia, misura 54 x 17 ed ha un’altezza di 10 metri.

E’ stupefacente osservare l’altare, la grande croce con il Cristo, varie sculture, bassorilievi fatti di sale riproducenti scene bibliche e i lampadari, vere e proprie opere d’arte che possono essere confusi con quelli di cristallo.

C’è anche una grande statua di Papa Giovanni Paolo II°.

Si avverte un’atmosfera molto mistica in questa chiesa, che ancora oggi è usata per celebrare la messa della domenica e della vigilia di Natale, oltre ai matrimoni.

Ha un’acustica perfetta per la musica sacra e si percepisce appena ci si avvicina alla parte alta della cappella. A seconda della provenienza dei gruppi di turisti, infatti, viene fatto ascoltare il loro inno nazionale.

Agli italiani viene fatto ascoltare il “Va pensiero” di Giuseppe Verdi.

E’ veramente una grandiosa opera umana, unica e meravigliosa!

C’è anche la “Sala Nicolò Copernico”, dove è possibile vedere il monumento dedicato al grande astronomo.

E ancora, la “Cappella di Sant’Antonio” dedicata a tutti coloro i quali cercano qualcosa; la Cappella Barocca, scavata dentro un blocco di sale di colore verde e tutta ornata da statuette di Santi.

C’è poi la “Sala Sielec” dove si può vedere come veniva trasportato il sale.

Ci sono figure di minatori e anche di cavalli che aiutavano gli uomini a trasportare il salgemma.

La “Sala Janowice” riproduce scene della scoperta del sale.

Un minatore passa a Santa Cunegonda il primo blocco di sale, con un anello di aggancio all’interno.

La leggenda narra che Santa Cunegonda è diventata patrona dei minatori nelle miniere di sale.

Un altro posto molto bello è la cosiddetta “Sala Bruciata”,nella quale è rappresentato il procedimento di eliminazione del metano che si accumula in miniera. Usando alcune fiaccole dislocate su lunghi pali, i minatori incendiavano il pericoloso gas.

In una sala vi è un modello di lavoratori del sale del periodo Neolitico e un villaggio di antichi coltivatori, inoltre, nella “Sala Kazimierz Wielki” c’è il busto del re Casimiro il Grande.

All’interno della sala Erazm Baraci, c’è un lago di sale molto suggestivo da vedere perché il salgemma che ricopre le pareti intorno allo specchio d’acqua è di vari colori.

All’interno della miniera è stato ricavato anche un ristorante, un bar e piccoli negozi di souvenir oltre ad una sala per spettacoli ed eventi vari.

Il percorso dura circa 2 ore e l’emozione è proprio tanta per aver visto ciò che è riuscito a fare l’uomo, in questo caso i minatori, nel loro tempo libero. Le statue risalgono agli anni ’60.

All’interno della miniera non si avverte umidità e per questa ragione, al terzo piano, è stato costruito un sanatorio dove vengono ricoverate le persone affette da malattie reumatiche e allergiche.

La visita alla miniera, così com’è oggi, è veramente d’obbligo per chi si reca a Cracovia. E’ veramente una delle opere più straordinarie dell’essere umano.

Ancora Cracovia…le ultime visite

Anche Cracovia, con i suoi inestimabili monumenti e le sue meraviglie medioevali, non a caso viene definita “un grande museo”, il più importante dei quali è quello Nazionale che raccoglie opere dal valore inestimabile, come la “Dama con l’Ermellino” di Leonardo da Vinci o il “Paesaggio con il Buon Samaritano” di Rembrandt, insieme a tante altre opere di autori polacchi.

Da menzionare ancora il museo Storico della Città dove si trova il Gallo d’argento di epoca rinascimentale, quello Archeologico, Etnografico, di Storia Naturale, quello Storico della Farmacia, della Pittura, dell’Aviazione e dello Spazio.

Numerose sono le gallerie private che raccolgono le opere degli artisti contemporanei, che vanno dalla pittura ai famosi gioielli in argento.

D’estate interessante da vedere è la Biennale internazionale delle Bambole Regionali, mentre a settembre si svolge la Fiera dell’Arte Popolare di tutte le regioni polacche.

Durante tutto l’anno, inoltre, sono molte le manifestazioni musicali, dove si possono ascoltare orchestre e solisti di fama mondiale.

La particolarità, che aggiunge a tutto questo un’atmosfera che sa di altri tempi, è dovuta al fatto che questi concerti vengono tenuti all’interno delle più belle chiese, nei palazzi e nei saloni delle antiche case borghesi.

Fra l’inverno e la primavera sono diversi gli appuntamenti a cui non si può mancare, come le Giornate della Musica d’Organo, nelle numerose e bellissime chiese di Cracovia, o d’estate il Festival “Musica nella vecchia Cracovia” e per chi vuole ascoltare tutto l’anno del buon jazz, può recarsi nel centro culturale degli studenti “Pod Jaszczurami”, nella Piazza del Mercato Maggiore.

Cracovia, città culturale e turistica per eccellenza, dove non basta un week end per assaporarne l’atmosfera e visitare le numerose bellezze che possiede, chiese incluse.

Sempre ospitale e cordiale, Cracovia, come tutta la Polonia, è rimasta legata allesue tradizioni, amante della cultura e dell’arte, ma con un occhio alla modernità.

E non potrebbe essere diversamente dal momento che nella sua Università ci sono ben 200 mila studenti che hanno fatto denominare Cracovia “la città dei giovani”.

E i giovani sono anche il futuro di questo paese che, a differenza del nostro e di tanti altri, non sta subendo la stessa crisi economica mondiale. La Polonia ama il …ritorno al passato, ma guarda anche al futuro.

Liliana Comandè

Polonia: un paese sorprendentemente bello
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Anch'io sono una finestra?

31 Marzo 2017 , Scritto da Luca Lapi Con tag #luca lapi, #le riflessioni di luca

 

 

     Anch'io sono una FINESTRA?
     Sono una FINESTRA STRAna.
     Inizio con "FINE", ma sono la FINE o il FINE?

     Inizio con "FINE", ma senza "conFINE".
     Finisco con "ESTRA", che sta per "extra" uguale "fuori", come chi, diversamente da me, è considerato ESTRAneo e fatto finire fuori, gettato dalla FINESTRA.
     La FINE (o l'inizio) è fuori, per chi si butta dalla FINESTRA (per suicidarsi o per salvarsi con l'aiuto dei vigili del fuoco), ma non per me, che resto dentro, a guardare dalla FINESTRA, a guardare da me, dentro di me.
     Finisco con "TRA", ma non sto in mezzo e non sono il mezzo (migliore per finire).
     L'inizio è fuori, per chi decide di aprire la porta-FINESTRA ed uscire.
     Sono opaco o trasparente, aperto o chiuso?
     Chiedo aiuto, per aprirmi o mi arrangio, da solo, per imparare?
     Sono con le sbarre, solo per fare entrare da una porta, per non uscirne più?
     Tanti punti interrogativi stanno alla FINESTRA, per entrare o per uscire, per bussare alla porta-FINESTRA o per sfondarla, per conoscere la risposta, fino in fondo, nel profondo.

          Luca Lapi

     
     

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Eh, che maniere

6 Marzo 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo, #televisione

Calimero pulcino nero. No, per carità… scuro… no, anzi, di colore… cioè, diversamente bianco.

Calimero, strano come il brutto anatroccolo, tenerissimo con quel suo guscio frastagliato a mo di cappellino, compare per la prima volta nella pubblicità della Mira Lanza nel 1963. In realtà si scoprirà che non è nero né diverso ma solo sporco.   

Eh, che maniere! Qui tutti ce l'hanno con me perché io sono piccolo e nero... è un'ingiustizia però.

Bei tempi in cui si poteva ancora dire pane al pane e non si era buonisti bensì buoni. Ci sono già in nuce tanti temi nello spot, come il pregiudizio, l’apparenza in contrasto con la sostanza. Il nome del pulcino deriva dalla basilica di San Calimero. 

Quanta solitudine nel primo episodio, dove il pulcino caduto nella fuliggine cerca la sua mamma e viene rifiutato perché nero. Resterà sempre sfortunato, piccolo, coraggioso e solo.

Ava come lava, e come profuma!

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A Natale (non) puoi.

4 Dicembre 2020 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #unasettimanamagica, #adventscalender

A Natale (non) puoi.

 

Mi è sempre piaciuto analizzare le pubblicità, che sono lo specchio fedele della società e del momento attuale. Fra poco è Natale, questo Natale fuori dall’ordinario, il primo così strano almeno dalla fine della seconda guerra mondiale, e mi chiedo come lo stiano affrontando i pubblicitari. Come noi, esattamente come noi: in attesa, in sospeso. Ho visto una pubblicità che chiede ai telespettatori di parlare di come vivranno le prossime festività. Perché mai come adesso il Natale sarà un fatto privato, diverso da quello degli altri.

Il Natale si basa sulla tradizione, sul conformismo, sul consumismo. Ma quest’’anno ognuno dovrà interpretarlo a modo suo. Chi dovrà fare i conti con la malattia, chi con l’isolamento forzato, chi con la mancanza di soldi. Qualcuno, speriamo pochi, se ne fregherà e festeggerà come sempre, con una sarabanda debosciata e decadente, con uno spirito barocco da teschio che traspare sotto il sorriso.

Qualcuno resterà da solo, qualcuno dovrà riorganizzarsi attorno a un nucleo primigenio di sentimenti e tradizioni. Spero di far parte dell’ultima categoria, spero di riuscire a ritagliarmi un nocciolo di ricordi, di folclore, di gesti familiari e tramandati. oppure inventarne di nuovi, chissà.

 

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Laboratorio di narrativa: Giovanni Parigi, "Quando Jack".

10 Novembre 2019 , Scritto da Giovanni Parigi Con tag #racconto, #laboratorio di narrativa, #giovanni parigi

 

 

 

 

Una storia che parla di equilibrio ma lo scardina lasciandoci a bocca asciutta nel finale.

Un bevitore dell’est prestante e nerboruto. Man mano che assume alcol diventa capace di equilibrismi funambolici invece di barcollare. I medici indagano su questa sua peculiarità senza arrivare a nessuna conclusione. Uno strano sdoppiamento di personalità dovuto all'alcol che, là dove toglie, riesce poi ad aggiungere. Igor è anche Jack, "ordine nel disordine". Così come il racconto di Giovanni Parigi, che, pur scritto in maniera corretta e scorrevole, sembra basarsi su un’idea originale ma abortire nel finale. (Patrizia Poli)    

 

 

La minuscola sala d'attesa aveva un paziente in più quella sera di giugno. Riviste spiegazzate, sedie di fòrmica multicolore e un vecchio radiatore a elementi di ghisa arredavano un pavimento a piastrelle azzurrine.

Due anziane signore parlottavano fitto fitto dando occhiate furtive al nuovo malato di cui sapevano solo che era un immigrato dell'Est che chiamavano Igor.

Viveva in una vecchia stalla fatiscente in compagnia di quattro cani, grossi e d'indole, ma che tutti ritenevano addestrati tanto da chiamarli “i leoni” per il loro stare immobili ai quattro angoli dell'edificio, ma abbaiando furiosamente se si avvicinava qualcuno.

Niente pigione per Igor che già aveva fatta la sua di prigione per furto e ricettazione, nonché risse e con queste inizia la sua storia perché immancabilmente ubriaco quando volavano i cazzotti e le sedie.

Inutile dire che nessuna delle due donne era al corrente della o delle patologie di cui pareva soffrire Igor, un pezzo d'uomo ritratto della salute e della virilità, se essa si esprime con la prestanza di cui abbondava, ma senza farne sfoggio.

Faccia lunga, fronte ampia, carnagione chiara, occhi azzurri, capelli mossi e castani su una dentatura lattea, unita a un fisico da atleta, lo rendevano veramente un bell'uomo, anche quando ciondolava in preda all'alcool, come quella sera che navigava su una sedia, ora qua a destra; ora là a sinistra: mai dritto sulla spalliera.

Non c'era da temere, però, perché per sua stessa ammissione lui poteva uccidere cinquanta uomini, ma neppure toccarla una donna, cosa che ne faceva un gentleman forse addirittura d'altri tempi, quelli che battevano le pendole, come lui, ora qua, ora là su quella sedia, pendola lui stesso.

Il tempo passò in fretta, sebbene più in fretta fosse passato l'immancabile informatore scientifico che alla sua vista, alla vista di un fuorilegge fuorisedia passò prima del suo turno, che le rogne lui le curava, ma non le voleva.

Venne anche il turno di Igor che fece fatica ad alzarsi, tanto che cadde quasi in avanti e, appoggiandosi a un'altra sedia, fece un rumore tale che il dottore uscì di corsa dall'ambulatorio per prestare soccorso.

“Cosa succede?” esclamò prim'ancora di superare la scrivania.

“Niènte dotore, niènte. Per poco cadere” rispose Igor ridendo sonoramente da ubriaco.

Il dottore dette un sospiro di sollievo che risollevò anche la sua pazienza, già messa alla prova da una ventina di pazienti anziani e tra sé disse che quella sera ci mancava proprio il gran finale: l'ubriaco dell'est che non bastava Furia.

“Venga, si sieda che si sentirà meglio” disse prendendolo per un braccio, lui che nemmeno era la sua metà, cosa resa ancora più evidente da un pallore e una magrezza stempiata con cui lottava ricorrendo a un riportino, mentre una barbetta incolta pretendeva d'ingannare l'occhio, sebbene rada e biondiccia.

“Allora, quanti bicchieri?”.

“Due dotore, due bottiglie. Whisky”.

“Olà, non ci siamo fatti mancare nulla se anche di marca”.

“Jack dotore, il vechio Jack” disse aprendosi alla seconda sonora risata che mostrò tutta la sua bianchissima dentatura.

Il dottore avrebbe voluto mettersi a ridere, ma si astenne subito dopo aver abbozzato un sorriso e, piegando la testa a sinistra per non farsi notare troppo, riprese la serietà professionale.

“Ma io dotore non qui per Jack”.

“Per sua moglie allora? Non ci credo” lo interruppe sorridendo il dottore.

“Ah-ah-ah, no dotore, io non moglie io...” disse alzandosi a stento scostando la sedia e correndo nuovamente il rischio di cadere “Io, vede...” e stese le braccia a volo d'uccello, stringendo le ginocchia, lungo e dritto come un palo.

“Ecco io così!”concluse lucidissimo, fermo, dritto e immobile su una gamba sola e le braccia perpendicolari al corpo tanto da formare alle ascelle un angolo di novanta gradi perfetto.

Poi ruotò i polsi in senso antiorario, dopodiché fletté gli avambracci fino a toccarsi le spalle: ora la destra, poi la sinistra e tutto in perfetto equilibrio, cosa che lo faceva somigliare a un ginnasta o a un pugile stando all'ultimo movimento: la rotazione della testa come a sciogliersi i muscoli del collo prima del match.

Mai barcollò, sebbene quei movimenti, specie su una gamba sola, avrebbero fatto perdere l'equilibrio a un ventenne sobrio.

Il dottore aveva assistito a tutta la scena e da ultimo si strinse il volto e la rada barba con la mano sinistra, per poi mordersi il labbro inferiore in un moto di riflessione stupita.

“Da quando Igor?”.

“Io sempre, sempre così quando sbronzo, quando Jack!”.

“Bah, di solito l'abuso di alcool fa perdere l'equilibrio, mentre tu lo acquisti. Ho capito bene?” chiese il dottore.

“Sì dotore, sì. Io in equilibrio quando Jack” rispose Igor.

“Hai mai fatto visite specialistiche? Sai, il tuo potrebbe essere un caso scientifico interessante. Personalmente mai ho avuta una notizia simile, men che meno ho assistito a un performance simile da parte di un ubriaco. Che ne diresti di farci degli esami?”.

“Bène dotore, bène. Fare esami. Posso adesso sedere?” chiese educatamente Igor.

“Certo, certo scusami se ti ho tenuto così scomodo... Oddio, stai bene così però...” disse ridendo il dottore che subito mise mano al file delle impegnative e vergò tutta una serie di esami, molti per la verità, ché il caso lo incuriosiva.

“Li ho prescritti urgenti, vedrai che tra un po' di giorni ti chiamano. Fatti trovare pronto, ma non ubriaco, per favore!”.

“No, no niente Jack dotore. Parola!” e così fu perché mai, nonostante una decina d'esami, si presentò ubriaco.

Neppure quando, risposte alla mano, tornò all'ambulatorio per conoscerne l'esito che fu ottimo: sano come un pesce, anzi, sano come Igor.

Il dottore, alla fine della lettura dei referti, si strinse il mento con la mano, aprì bene gli occhi e sospirò, concludendo il tutto con una smorfia di dubbio:

“Qui Igor va tutto a meraviglia, non saprei dirti. Che ne diresti se, accompagnandoti, ti portassi da uno specialista, un luminare sui disturbi dell'equilibrio intendo, bada bene, che poi... che vuoi disturbare se sbronzo sembri un ginnasta... boh!?” esclamò di nuovo il dottore per poi aggiungere: “Che fai Igor, vieni o no a Milano? M'interessa il caso, Igor, m'interessa davvero per questo ti accompagnerei”.

“Bène, bène dotore vengo. Io pagare il viaggio”.

“Lascia fare, rimettiamo tutto al Sistema Sanitario. Il modo lo trovo. La scienza ha un prezzo, caro Igor!” replicò il dottore per poi aggiungere “Ti chiamo io per comunicarti il giorno della visita, dammi il numero di cellulare e fatti trovare pronto ma... un po' sbronzo che sbronziamo… ma che dico, sbrogliamo la faccenda”.

“Ah-ah-ah-aha dotore sempre Jack allora! Due giorni, quattro bottiglie ah-ah-aha” gridò entusiasta Igor alla proposta che non avrebbe potuto essere più piacevole.

“Mi raccomando: che rimanga tra me e te. Andiamo in macchina e guido io, d'accordo?”.

“Sì dotore. Lei chiama, io bevo e lei guida ah-ah-aha!”.

“Ci vediamo, allora”.

“Sì, buonasera dotore”.

Grazie al fatto di essere colleghi e a qualche conoscenza, nel giro di una settimana la visita ultra-specialistica fu possibile e partirono per Milano, non dopo però aver fatto il pieno all'auto e a Igor, il quale non esagerò e ricorse a una sola bottiglia di Jack prima del viaggio certo, però, in virtù di quell'esperienza che solo la strada sa insegnarti, che la seconda e magari la terza l'avrebbe offerta lo specialista e pure una riserva: un "Old", addirittura.

Il viaggio fu veloce e silenzioso nonostante che Igor scoppiasse in sonore e immotivate, per il dottore, risate.

All'autogrill, Igor fece conoscenza con un gruppo di ragazze straniere in gita, le quali non gli tolsero gli occhi di dosso, specie quando notarono la proporzione tra le sue spalle e i suoi glutei che lo rendevano, ai loro occhi, una meraviglia.

Dette loro un'ultima occhiata dalla porta a vetri che le rifletteva e si voltò per un dispiaciuto occhiolino da quell'avanzo di galera che aveva fatta l'ennesima strage, perché lui poteva uccidere cinquanta uomini, ma conquistare cento donne.

La clinica era in centro e si avvalsero della metropolitana per giungerci e poco dopo già erano a colloquio con il dottor Toni, luminare internazionale sui disturbi dell'equilibrio, ma che stavolta avrebbe dovuto affrontare il primo caso della sua vita: l'alcool come sostanza non solo coadiuvante al suo miglioramento ma, in quel caso, capace di renderlo addirittura miracoloso.

Il medico condotto illustrò il caso con Igor silente, mostrando tutti gli esami fatti che Igor, ubbidiente, aveva portati con sé. Dall'anamnesi non risultò niente, così come niente aveva refertato il medico curante, per cui si procedé a una serie di esami specialistici ad hoc che si avvalsero del contributo di tutta l'equipe interna e, telefonicamente, esterna.

Da ultimo si decise di osservare il fenomeno ocularmente e si ordinarono al bar dei liquori di cui fu chiesta non solo la preferenza, ma anche l'uso abituale.

“Jack, solo Jack dotore” disse Igor allo specialista e così ne arrivarono tre bottiglie "Old" che Igor scolò senza l'uso del bicchiere, come suo solito e come gli era stato consigliato di fare.

Già dopo la prima bottiglia, digiuno e con i fumi di quella casalinga, Igor divenne loquace parlando del più e del meno.

Poi, alla seconda, dopo circa una mezz'oretta, si alzò e barcollava un po', ma fu alla metà della terza bottiglia che l'equilibrio fu perso e ciò lo costrinse ad appoggiarsi ora al medico curante; ora allo specialista e, infine, a un infermiera a cui dette un bacio sulla guancia, facendole poi l'occhiolino, il secondo in poche ore.

“Ecco, adesso Dottor Toni, adesso! Guardi! Igor fermo!” gridò il medico condotto.

Igor, rimanendo sul posto, strinse le ginocchia, allargò le braccia e si mise su una gamba sola rivolto all'intera equipe che guardava sottecchi, uno a uno, facendosi da sinistra per poi giungere a destra della fila e viceversa.

Roteò i polsi in senso orario e antiorario, fletté prima l'avambraccio destro sino alla spalla, poi il sinistro e, sempre su una gamba sola, sciolse i muscoli del collo come un pugile al primo round. Tutto questo su una gamba sola e un'espressione lucida, ferma impenetrabile che andava da una parte all'altra della fila di dottori che aveva davanti.

Lo specialista, come suo solito quando concentratissimo, fece vagare la lingua su tutto il palato e chiuse il pugno sinistro facendo strisciare ritmicamente il pollice sull'indice.

“Scenda...Voglio dire torni su due gambe” ordinò a Igor.

Igor obbedì e la conseguenza fu un ciondolare ubriaco senza freno, tanto che dette il secondo bacio all'infermiera che, divertita, sorrise con gli occhi dolci.

Poi Igor scolò l'ultima metà della terza e ultima bottiglia, mentre i dottori discutevano tra loro senza rendersi conto che Igor aveva già preso appuntamento con la signorina.

L'equipe non fece passare molto tempo per esprimere un primissimo giudizio, ma prima ancora chiese di nuovo a Igor di riprendere l'assetto precedente, cosa che Igor fece volentieri e tutto da capo, tranne aggiungere l'incredibile: un surplace su una gamba sola, alternando sinistra e destra ritmicamente a braccia divaricate ruotando, ovvio, i polsi in senso orario e antiorario, flettendo, poi, gli avambracci sino alle spalle e roteando le pupille anch'esse in senso orario e antiorario.

L'intero personale rimase allibito: tre bottiglie di “Jack Old” e tutto in perfetto ordine nel disordine, se non addirittura nel caos dell'ubriachezza, nonostante un esercizio estremamente difficoltoso persino per un ginnasta professionista!

Il parlottare dei medici, dopo di ciò, si fece fitto e irritato, a volte giunse a essere nervoso, perché le ipotesi di studio potevano essere tutte e tutte sbagliate, ma un soluzione doveva esserci: mai era esistito un presidio farmacologico col nome di “Jack Old l'impassibile” che permetteva l'impossibile!

Si decise un ultimo esame del sangue per valutare il tasso alcolemico e il metabolismo, ma tutto indicava una sbronza colossale che faceva ripartire le ipotesi nuovamente da zero.

Per un paio di ore, dopo tutti gli esami possibili, l'intera clinica fu piegata alla sbronza di Igor, ma poi dovette cedere, cedere professionalmente e personalmente perché incapace di giungere a una diagnosi sensata che non apparisse essa stessa ubriaca.

Erano tutti in fila ed erano sei, sette con l'infermiera che aveva assistito divertita ed eccitata; e, come accadeva durante la leva, il caso obbligò al passo in avanti. Lo fece il luminare che chiuse l'argomento con il discorso di resa.

“Mi scusi, mi dice per favore come cazzo fa?”.

“Aha-ah-ah-aha” rise fragorosamente Igor ripetendo daccapo tutto quanto l'esercizio ma cambiando l'espressione del volto, che si fece serissima, come quella di un maestro che ripete una lezione non compresa dagli studenti, sebbene due esempi, tanto che le figure e gli esercizi furono così lenti che sembravano mimati.

“Capischi?”chiese Igor su una gamba sola, le braccia aperte e, stavolta, le palme aperte e le dita divaricate come per quasi un “dammi il cinque” tra amici davanti agli occhi dell'equipe .

“Tu, capischi?” chiese di nuovo Igor rivolto al luminare.

Il luminare aggrottò le sopracciglia, inarcò le labbra e appena appena accennò un no muovendo la testa calva e bassa, al che Igor “scese” per barcollare di nuovo e di nuovo abbracciare l'infermeria ormai sua.

Dopo la dimissione di Igor, per giorni il luminare rifletté sul caso e riuscì a stilare una relazioncina, ma promettendosi, però, di pensarci ancora un po' su sull'opportunità di proporre il caso all'attenzione della comunità scientifica.

Le due paginette che aveva scritte al computer necessitavano della sua firma in calce e la vergò. Prima il nome per esteso; poi passò al cognome, ma qui ebbe una pausa a metà parola, quasi l'ultimo estremo tentativo di capirci qualcosa.

Rimase per una decina di secondi con la stilografica in mano, puntata sull'ultima lettera scritta, poi si grattò il mento con l'altra mano; incurvò le labbra per un'invenzione a dei pensieri e sgranò gli occhi, per poi scrivere di fretta le lettere mancanti al cognome come per uscire da quel tunnel buio d'ipotesi.

Inserì la relazione stampata in una cartella contenuta in un cassetto della scrivania che aveva la chiave. Chiuse quel cassetto e chiuse la faccenda per riprendere, oltre la porta dello studio, il suo solito equilibrio, pardon, aplomb.

 

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