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Quello che gli uomini non dicono

14 Febbraio 2015 , Scritto da Mari Nerocumi Con tag #mari nerocumi, #erotismo

Quello che gli uomini non dicono

Difficile per una Donna del ventunesimo secolo festeggiare San Valentino nel modo in cui desidera…

TU, uomo,
come vuoi stare al passo di una che ha adottato il multitasking come regola di
vita, che, pur volendo, manco se l’ammazzi si ferma,

TU, uomo,
come speri di non renderti ridicolo coi soliti cioccolatini (che so’ sempre
pochi perché te li magni pure te) e i fiori comprati al semaforo?

TU, uomo,
che vorresti fa’ il romanticone-piacione (con me) solo in questo giorno dell’anno,
perché se non era per i mille post che hai visto nella tua pagina di Facebook e
quando te lo ricordavi…

TU, uomo,
che sei quello che sei, o fungi, nella tua sola apprezzabile funzione, solo nei
romanzi di pollastre che leggiamo…

come farti dire quello che realmente desideriamo?

No perché, parliamoci chiaro, e che non si dica che le donne non si mettono in discussione, nessuno sa davvero cosa l’altro/a vorrebbe sentirsi dire, specie in questo giorno così solenne !

O meglio, una Donna sa cosa un uomo vorrebbe sentirsi dire …viceversa un po’ meno

Se una Donna dice: “Scopami!”, l’uomo è contento e ci mette un attimo a togliersi i pantaloni…

Se un marito dice: “Ti amo”, dopo un po’ di anni di matrimonio, il giorno di San Valentino,
la moglie manco se lo fila (anzi quasi gli ride in faccia per quanto le sembra strano) o, peggio che vada, pensa: -“me lo ha detto perché deve farsi perdonare qualcosa, cosa avrà fatto il bastardo stavolta?” …e così parte un crescendo sempre più pericoloso per la futura vita di coppia.

Ma allora, come fargli dire:

Ti voglio. Adesso. E se non sei disposta a farti
sculacciare, come meriteresti, ti scoperò sul divano subito, in fretta, per il
mio piacere , non
il tuo.” (parola di Christian Grey)?

Il segreto è nel classicissimo “farsi desiderare come se ce la avessimo solo noi sulla faccia della terra e lui voglia solo la nostra”.

D’altra parte, come ha ben detto una mia saggia amica in questi giorni:

“Il dilemma non è se ci sia vita oltre la morte, bensì se ci possa essere vita oltre la patata!”.

Ma, tornando a noi, come facciamo a fargli pronunciare ‘ste fatidiche parole alla Christian nel giorno di San Valentino?

Care amiche, la risposta è che … non lo so! …

Il multitasking l’abbiamo inventato noi, mica loro…

Se fanno una cosa alla volta siete pure fortunate… (perché almeno la fanno). E quindi il “Ti amo” va già considerato come una dignitosa performance.

Ma proprio grazie al multitasking, signore, il regalo quest’anno ve lo potete fare da sole
e, vi assicuro, senza sprecarvi nemmeno tanto. Basta ridurre a icona la finestra di “moglie sacrosantamente esigente per via delle sue esigenze” e far visualizzare a schermo intero la spettacolare “femme fatale con venature sadomaso”.

Oh insomma, con l’accappatoio ancora addosso, i capelli bagnati e tutta unta di crema idratante, non ho detto a mio marito: “Scopami!” (dopotutto sono una signora…)

Aprendo l’accappatoio, gli ho detto: “Legami, solo così puoi fermarmi!” …e ho buttato sul letto la cintura.

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"Le Metamorfosi" di Ovidio

27 Agosto 2018 , Scritto da Laura Nuti Con tag #laura nuti, #miti e leggende, #sezione primavera

 

 

 

 

Le Metamorfosi (Le Trasformazioni), sono un poema in 15 libri e comprendono miti e leggende di origine greca e romana: in circa 250 racconti, Ovidio riassume tutto l'antico mondo della mitologia, che va da Omero fino ai poeti dell'età di Augusto. Ovidio infatti si propone di narrare una «storia dell'universo» attraverso le trasformazioni che in esso sono avvenute, e per far questo, si ispira a tutta la mitologia classica, ma soprattutto a quella dell'età ellenistica.

La letteratura dell'età ellenistica ebbe, infatti, un interesse molto vivo per il tema delle trasformazioni e in particolare per l’eziologia (dai greco «aition» = causa), cioè la ricerca della causa, dell'origine di alcuni fenomeni. I racconti eziologici erano destinati a spiegare fatti sorprendenti: cerimonie particolari, strane usanze, nomi di luoghi, di piante, di animali ecc., dei quali si era perduto il significato e che perciò apparivano misteriosi, incomprensibili.

Partendo dall'osservazione dei fenomeno e tenendo conto delle sue particolari caratteristiche, si costruiva una storia fantastica che ne dava una spiegazione e una motivazione.

La letteratura ellenistica, inoltre, utilizzava la tecnica di incastonare racconti in altri racconti o di raggruppare una serie di storie indipendenti l'una dall'altra ma con in comune uno stesso tema.

Nelle Metamorfosi, Ovidio usa queste tecniche narrative e rielabora con la sua fantasia i racconti mitici tradizionali, nelle loro versioni più rare, raffinate e sconosciute.

I miti, in realtà, hanno ormai perduto da tempo il loro valore religioso. Gli dèi descritti da Ovidio non regolano le sorti dei mondo dall'alto dell'Olimpo, ma scendono spesso sulla terra, amano, sono gelosi, si adirano, hanno sete di vendetta; queste passioni, così umane, coinvolgono e travolgono giovani, donne, fanciulli, e sono spesso causa della loro trasformazione. La metamorfosi, quindi, crea un legame fra il mondo degli dèi e quello dei mortali che dà nuova vita ai miti perché li fa diventare storia della natura e dell'uomo: infatti in ogni fiore, in ogni scoglio si nasconde una storia che ha per protagonisti amanti infelici, donne innamorate, fanciulli  imprudenti.

La metamorfosi può essere un premio (ad esempio Ercole, per il suo coraggio, viene trasformato in divinità e assunto in cielo); il rimedio a un errore commesso dagli déi o a un'ingiustizia degli uomini (ad esempio Giacinto, ucciso involontariamente da Apollo, e Leucotoe, condannata a morte dal padre infuriato, divengono piante odorose); una punizione (ad esempio il feroce tiranno Licaone è mutato in lupo): in ogni caso, anche se sotto nuova forma, buoni e cattivi continuano a esistere come elementi della natura.

Inoltre, questi esseri trasformati, anche dopo la metamorfosi non dimenticano chi erano e perché sono diventati così: il girasole continua ad amare il Sole, la pernice non ha più il coraggio di volare in alto, lo scoglio di Perimele desidera ancora gli abbracci del suo innamorato. Animali, piante, rocce conservano quindi la loro umanità.

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Franz Krauspenhaar, "Capelli struggenti"

18 Ottobre 2018 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #poesia

 

 

 

Franz Krauspenhaar
Capelli struggenti
Marco Saya Edizioni, 2016

- Pag. 90 - Euro 10

 

Franz Krauspenhaar è poeta anche quando fa prosa, ma quando scrive poesia tocca vertici di sublime bellezza difficilmente eguagliabili in questo asfittico Duemila letterario. Non credo che Franz si definirebbe uomo del Duemila, sono sicuro che come il concittadino Vecchioni opterebbe per la definizione di uomo del Novecento, secolo che ci rende orgogliosi di esserci nati per la grande fioritura culturale che l’ha caratterizzato. Krauspenhaar ha pubblicato nove romanzi, un saggio e cinque raccolte di poesie, tra le sue ultime operazioni intellettuali ricordiamo la pregevole collaborazione a una rivista culturale imprescindibile come Il Maradagal, ben diretta da Sara Calderoni.

Capelli struggenti è una raccolta intensa e poeticamente uniforme, composta da quattro sillogi: Momenti intimi - Strani momenti - La pertosse dell’anima - Complimenti, bistecche, laghi, il terrore, l’orrore, appuntamenti al buio, i capelli … Capitolo conclusivo affidato alle prose liriche del Gran finale con corse, violoncelli, merde, e i pezzi che ci compongono. Filo conduttore il pessimismo cosmico, il senso della profonda vacuità della vita, condito di sferzante ironia, quasi sarcasmo, che accompagna tenebrosi pensieri di morte incombente sui nostri giorni, compagna invisibile ma sempre presente, tale da rendere il poeta come un foglio giallo, sotto una biro che non scrive. Liriche che parlano di suicidio, angoscia, disperazione, mancanza d’amore, solitudine, assenza di speranza, viaggi verso terre lontane come la Thailandia, fratelli scomparsi in una feritoia della vita, madri ritrovate nel profumo di vaniglia, incubi che recano risvegli ansanti e sconvolti.

Versi senza speranza come: Siamo tutti invecchiati/ non è stato difficile, il tempo/ ruba e scava dove trova, anzi trova/ sempre terra e detriti. Ma anche: In vent’anni non ho conosciuto nessuno/ ho incontrato migliaia di persone/ senza conoscere anima viva/ non sono solo, siamo in tanti/ ad essere soli. La morte immaginata come un’ultima birra, un domani che non avrà luogo, un’ultima pigione da pagare. E poi l’inutile estate, la prigione ad aria aperta, in attesa di un nuovo inverno, pronta a sfondare ogni residuo benessere, una disperazione che continua a perpetrare i suoi incubi e a diffondere dolore. Stupende le prose finali, a tratti persino bukowskiane nella loro espressività diretta, senza fronzoli, ma sempre attente a conservare la musicalità delle parole. Concludo dicendo che Capelli struggenti - come ogni libro di poesia - si apprezza di più se letto a voce alta, declamato o recitato, come ho fatto questa sera prendendo mia figlia come cavia, che cercava un libro per addormentarsi. Ha resistito abbastanza, sino a La pertosse dell’anima, apprezzando le liriche e interrompendo per chiedere il significato di alcune parole.

La poesia non è morta, come affermano certi soloni, sono i veri poeti che scarseggiano, oltre a mancare editori competenti e appassionati. Krauspenhaar e Saya sono una coppia che non delude. Confezione spartana e prezzo accessibile: 10 euro per un libro intenso e coinvolgente che ti fa venire voglia di affrontare subito una seconda lettura.

 

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

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Marco Saverio Loperfido, "Memorie di un bugiardo"

8 Giugno 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 

 

Memorie di un bugiardo

Marco Saverio Loperfido

 

Annulli Editori, 2017

pp 225

13,00

 

Chissà perché, leggendo Memorie di un bugiardo di Marco Saverio Loperfido, mi è venuto in mente Il cimitero di Praga, forse per l’atmosfera strana e cupa. Ma qui Praga non c’entra, qui è Venezia che giganteggia e rappresenta la parte più riuscita dell’opera.

Nella seconda metà dell’Ottocento un truffatore sbarca il lunario spacciando penne, a suo dire appartenute a personaggi famosi. Così facendo viene in contatto con molte figure rappresentative della cultura del tempo, da Melville a Wagner, da Dumas a Nietzsche a Dostoevskij etc. Loperfido è laureato in filosofia e si sente che in questo libro ha riversato molte delle proprie conoscenze. La trama artificiosa e similpicaresca è fin troppo un pretesto per spaziare in campo intellettuale, a scapito della scorrevolezza.

Il protagonista è un amorale che s’imbeve di nichilismo grazie alle sue frequentazioni culturali. La sua vita è un’immersione nella cultura, suo malgrado. C’è, però, un alter ego, il debole prete Gioacchino, che vive per interposta persona e probabilmente non esiste nemmeno. Egli si comporta come una sorta di Bignami della letteratura. Chiuso nella sua stanza, legge al posto del protagonista e riassume per lui, assorbendo avidamente, attraverso narrazioni scritte ed orali, una realtà che la sua condizione claustrale gli impedisce di vivere. Ma è tutto un gioco di specchi, narratore e prete si odiano come possono odiarsi due differenti parti di una stessa persona, quella intellettuale e quella pratica, quella che vive e quella che contempla. Così come nel precedente romanzo di Loperfido, i due protagonisti lentamente si avvicinano fino a confluire, fino a chiamarsi con lo stesso nome, fino a scrivere l’uno la storia dell’altro.

Ma, ripetiamo, il personaggio più riuscito non è il protagonista, né il suo riflesso clericale, né alcuna delle tante figure in cui si imbatte, bensì la città che fa da sfondo, da culla e da cornice, alle vicende, fra calli umide e lo sciacquio delle onde lungo le banchine.

 

Venezia è l’unico luogo al mondo per il quale io riesca a provare la stessa cosa che provo per la musica. In queste calli sembra che aleggi sempre una musica, non credete? Venezia è un silenzioso ma incessante concerto a cielo aperto. Visitare Venezia è come calarsi dentro a una sinfonia.” (pag 191)

 

La città è magica e fantasmagorica, può illuderci e farci vedere quello che non è, creando sosia, riflessi, “false verità”, “falsi amici” e “claude glass”, per tornare al precedente romanzo dell’autore. Senza dimenticare che tutto è narrato, appunto, da un bugiardo.

 

Per chi vive a Venezia questo è abbastanza normale e inconsciamente lo sappiamo tutti: la città sull’acqua può, in un istante e grazie ai suoi riflessi, diventare magicamente un vaneggiamento sotto il cielo traslucido.” (pag 68)

 

Così due personaggi finiscono per chiamarsi con lo stesso nome, così un manoscritto compare, scompare e poi viene riscritto da capo, così una prostituta è smerciata per fidanzata. “Forse anche i fiori, pensai, non sono altro che ingannatori di api”. (pag 115) E nella natura umana, anche nella più elevata, si nasconde sempre quella animale.

 

 

 

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Guido Mina di Sospiro, "Sottovento e sopravvento"

19 Giugno 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #guido mina di sospiro

 

 

Sottovento e sopravvento

Guido Mina di Sospiro

 

Ponte alle Grazie, 2017

pp 198

14,90

 

Lo stereotipo de la bella e la bestia “sperduti nell’azzurro mare” in questo romanzo multistrato, suo malgrado avvincente.

In Sottovento e sopravvento, di Guido Mina di Sospiro, ci sono i classici elementi della storia di avventure - la mappa del tesoro, l’indizio cifrato, il cattivo che mette in pericolo i buoni, il naufragio, l’isola del tesoro – il tutto, però, complicato dallo stile non banale e dal non facile sostrato metafisico e alchemico. Senza fare spoiler, possiamo solo dire che, alla fine, il tesoro si rivela dapprima l’oro degli alchimisti, poi la pietra filosofale stessa, condensata in un concetto assoluto: la congiunzione degli estremi altro non è che l’amore, quello che riesce a unire il diverso, la bella e la bestia, il maschile e il femminile, l’intelletto e la natura, ed è capace di restituire ai protagonisti il senso di sé e della vita, di andare oltre la presenza fisica dell’altro, di farsi talmente infinito ed immenso da permettere la possibilità di altri amori collaterali.

I personaggi principali sono Chris e Marisol. Lui è il buon selvaggio, l’uomo rude irlandese, forzuto e puzzolente, nato con un difetto fisico, una gobba da far invidia a Leopardi e a Quasimodo, e con un animo semplice ma dolce e risoluto. A causa di quella gobba di cui non si è mai lamentato, pensa che la vita, Dio o chi per lui, gli debba un risarcimento che infine otterrà. È religioso e terreno insieme, prega Dio e accetta la realtà per quella che è, traendone il meglio. È un cercatore ma si rende conto che, comunque, tutto è caso, e le cose migliori sono quelle capitategli accidentalmente, come i figli. In effetti, se ci pensiamo, per quanto ci affanniamo a programmare, a studiare, a lavorare, a farci una posizione, tutti gli eventi davvero importanti della nostra vita sono occorsi per caso (o per congiunzione astrale) e sarebbe bastato un piccolo scarto per far andare tutto nella direzione opposta.

 

Può darsi, ma il fatto è che solo le cose che ho trovato accidentalmente m’hanno dato gioia nella mia vita. I miei bambini; tu; e ora persino Dio. Non l’avevo mai trovato nella Bibbia, e neanche in chiesa, per quanto lo avessi cercato. L’ho trovato sul vulcano, durante l’eruzione” (pag 176)

 

Poi c’è Marisol/Ruth, cubana trapiantata a sua insaputa a New York, tutta razionalità, scienza, filosofia e matematica.

 

Nel pensiero”, dice, “ci sguazzavo, me ne imbevevo, lo respiravo e assimilavo come se fosse ossigeno” (pag 40).

 

È alla ricerca dell’algoritmo capace di eludere i paradossi che sono “l’ultimo baluardo della non scienza”. Non riuscendo a confermarlo, diventa acatalettica, cioè dubbiosa di tutto, e di conseguenza depressa e abbattuta, per giungere infine alla scoperta di essere fatta di mare e di sole anche lei. Scopre che si può pensare in modo irrazionale, che possono esistere più dimensioni e più realtà parallele dove il tempo scorre in maniera diversa, che potrebbero esserci strani e misteriosi dei a muovere gli eventi creando congiunzioni astrali a nostro favore o sfavore.

Quando l’irrazionalità irlandese incontra la razionalità newyorkese, è in grado di smantellarla e far riemergere il sostrato sudamericano caraibico, cosicché Marisol si accorge che c’è un iperuranio nel quale gli opposti si attraggono e confluiscono sopra e sotto vento, dove gli dei del nord e del sud lavorano insieme, dove il tempo si annulla in un eterno presente, senza inizio né fine. Scopre, soprattutto, che la vita è bella e vale la pena viverla senza ragionarci troppo sopra.

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L’amore idealizzato e vagheggiato della Agus in Mal di pietre

11 Agosto 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

 

Mal di Pietre

Milena Agus

 

Nottetempo, 2016

 

 

Una ragazza trova un quadernetto con i bordi rossi. Appartiene alla nonna. Lì la donna si è confidata, mettendo nero su bianco desideri e timori ma soprattutto voglia... voglia di amore carnale, di mani intrecciate e sudore sulla pelle.

Si torna quindi indietro nel tempo. Come scenario, la Sardegna della seconda guerra mondiale; come narratore – un narratore che risulta essere attento e scrupoloso –, la nipote della donna. La donna – viene chiamata per tutto il testo nonna, mai un nome né un riferimento più preciso – è poco equilibrata, un po’ inquieta. Giunta a un’età in cui è normale esibire un marito – pena la compassione di tutti – non riesce a farsi chiedere in moglie. È una bella donna, non le mancano di certo i pretendenti. Ma lei, quando qualcuno si mostra interessato, gli scrive poesie bollenti, piene di sentimento e di desiderio. Ha frequentato solo le prime classi delle elementari, tuttavia scrive da sempre – malgrado debba farlo da sola, di nascosto, con il quadernetto tra le gambe e i sensi all’erta perché non entri nessuno –, è il suo modo per sfogare quell’inquietudine. Loro però non capiscono, fuggono dinnanzi a quell’arte, a quel sentimento. Quando i suoi decidono di farla convolare a nozze con un uomo rimasto da poco vedovo, lei rimane interdetta. Non c’è amore, grida a gran voce. Quando lui però fa notare che l’amore non sia necessario, le cose vanno veloci. La narratrice/nipote chiama nonno quell’uomo pratico e non interessato alle dicerie, alle cattiverie gratuite di chi considera la sua futura moglie una pazza da rinchiudere in manicomio.

All’inizio è un legame tiepido. Sono coinquilini. Lei è un’artista, in tutti i sensi. Per come vive la sua vita, sì, ma anche per le sue qualità di poetessa, di scrittrice. È un po’ in aria, nel senso buono dell’espressione. Non si conforma alla società, alle sue assurde e banali regole. Poi, la svolta. Non è proprio amore, il loro, ma diventa un legame fatto di rispetto, normalità e sesso. Sesso senza remore né paure. Sesso senza religione e senza timori. Senza tabù. 

Quando va alle terme per trovare un rimedio ai calcoli renali – Mal di pietre è un calco dal sardo che indica proprio i calcoli renali –, conosce un uomo distinto. Il Reduce. Menomato dalla guerra, attraente e colto. Se ne invaghisce. Finito il problema, fa ritorno alla sua vecchia vita. Rimane tutta la vita divisa tra due fuochi, amando sì il marito ma bramando anche il Reduce.

È un amore vagheggiato, idealizzato, quello che si trova nell’opera di Milena Agus. Un amore fatto di stranezza ma anche di normalità – perché chi è strano e chi è normale, in questo nostro mondo?

Un libro che tratta di amore – perché l’amore ha infinite sfumature –, di diversità, di pregiudizi, di vite particolari vissute in modo particolare. Un libro che si legge in un pomeriggio ma che regala tanto, che stupisce tanto. Un libro che è diverso da qualunque altro si sia letto in precedenza, con uno stile talmente particolare che  si potrebbe riconoscere una pagina scritta dalla Agus tra mille. Un libro dall’immenso valore.

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Stefano Colli, "La diaspora del senso"

18 Agosto 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

La diaspora del senso

Stefano Colli

 

Edizioni Helicon, 2017

pp 78

11,00

 

Ancora un altro poeta, ancora un’altra silloge, La diaspora del tempo, di Stefano Colli, scritta con estrema fluidità e semplicità. Poesie non ermetiche, suddivise in tre sezioni, la prima dedicata allo scrivere versi, la seconda agli orrori della storia odierna, la terza più intima e personale.

Le liriche di Colli non rinunciano mai a soffermarsi su di sè, sull’atto stesso del poetare, sul parto delle sillabe, che è irrinunciabile, consolatorio ma spesso inutile. L'autore dialoga con Alda Merini, con Dino Campana, i riferimenti classici sono espliciti e voluti, quel non chiedere la parola di montaliana memoria ci impone di riflettere su cosa serva poetare, se debba o meno essere legato alla vita: “perché non hanno un pubblico i poeti?/se i versi non si aprono alla vita/e il poetare è questione di castelli privi di un ponte levatoio? E ancora: Un giorno senza versi è come vivere una seconda morte.

Se scrivere parole è gesto intimo, personale, liberatorio, è comunque anche un ponte, un occhio sulla realtà che ci circonda, come i naufragi nel mediterraneo, come i paesi distrutti dal terremoto o dalla guerra. Così lo scrivere assomiglia al tradurre, non da un altro mondo ma da questo, non da un iperuranio ma dalla bruta realtà che ci circonda, fatta di scene terribili, del piccolo Aylan arenato su una spiaggia, di sofferenza ma anche di una natura distaccata, a volte matrigna, sempre contemplativa e da contemplare, una natura alla quale ispirarsi per raggiungere una sorta d’indifferenza che ci protegga dal dolore. C’è un vano tentativo di comprensione, subito abbandonato a causa della diaspora del senso, che coincide con la perdita di umanità in generale ma anche con la solitudine e incomunicabilità del singolo. Il male del mondo - gli occhi dei bambini vittime della guerra - non si può redimere, il dolore sarebbe forse un poco lenito dall’amore, servirebbe il sorriso di una donna, ma anche quello ormai è negato, lei è lontana, fisicamente o moralmente, e scrivere diventa il surrogato di amare.  

Lo stile è molto scorrevole e misurato, alcuni versi, però, denotano poco sforzo e potrebbero, con maggiore approfondimento, risultare meno banali, come , ad esempio “all’ineffabile angoscia del nulla”. Non basta usare parole poetiche e indefinite, come notte, luna, stelle o mare, per ottenere i risultati di Leopardi. Forse, la cosa più interessante di questa raccolta è proprio, come dicevamo prima, quel rimasticare versi già digeriti di un comune patrimonio poetico: Venne la morte e aveva occhi di follia, piegandoli ad esprimere l’indicibile orrore di momenti come l’11 settembre, anch’essi, non casualmente, parte di una storia che ci accomuna tutti.  

Ci sono però picchi di splendore in alcune poesie, sia sociali che introspettive, come in Ragazza di Kobane e  Surrogato di amare, di cui riportiamo alcuni versi.

 

Ogni mattina pregherò per rivedere

quel bagliore nello sguardo di ragazzi

ignari del tempo che impiega

una sigaretta a consumarsi, lenta

tra le rovine di una città assediata

E la vita che scorre, indomita

Con il fumo confuso tra i capelli

E in tasca soltanto la speranza. (Da Ragazza di Kobane)

 

***

Esposti a questo strano vento

di un ottobre malato, si levano

i tuoi capelli verso il cielo grigio

come storni impauriti

in cerca di una timida gioia.

Riempio il bianco della pagina

solo per sopravvivere, ma so

che stasera scrivere

può essere soltanto il surrogato di amare. (Da Surrogato di amare)

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Fabio Izzo, "I cavalieri che non fecero l'impresa"

7 Maggio 2016 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

Fabio Izzo, "I cavalieri che non fecero l'impresa"

Fabio Izzo

I cavalieri che non fecero l'impresa

Terra d'ulivi Edizioni - Euro 13 - Pag. 135

Fabio Izzo lo conosco da quando ha cominciato a pubblicare racconti, per il semplice motivo che il suo primo editore sono stato io, prima sul Foglio Letterario rivista e subito dopo nella collana narrativa. Ricordo ancora l'editing sul suo primo libro, Eco a perdere, roba del 2003 se non vado errato, ma ancora in catalogo, passando per Balla Juary, Doppio umano, Il nucleo... Fino a To jest e l'esperienza esaltante della partecipazione al Premio Strega 2014. Può darsi che non sia obiettivo quando leggo Fabio Izzo, ma lo considero un grande letterato, uno scrittore che se ci fosse una giustizia ed esistessero ancora i talent scout non pubblicherebbe con Il Foglio Letterario e con Terre d'ulivi, ma con Mondadori.

Izzo proviene dalla terra di Pavese, tra il Monferrato e le Langhe, un luogo difficile da abbandonare, e nel suo ultimo romanzo racconta il senso di appartenenza alla provincia, si sofferma sulla vita che passa e dispensa sconfitte, sottolinea il distacco da un mondo vuoto e superficiale dove non resta il tempo per fermarsi a pensare. Izzo scrive un romanzo che vede protagonista un autore di fumetti a disagio con la vita, in cerca d'amore e di certezze, ma soprattutto a caccia di un'etera musa ispiratrice e della giusta dimensione per narrare storie. Hildebrando Aristolakis è il nome d'arte del nostro cavaliere destinato a non fare l'impresa, che lotta contro i mulini a vento di una società che vorrebbe cambiare ma è perfettamente consapevole che non riuscirà mai a farlo. Il romanzo racconta il distacco tra uomo e superuomo, più semplicemente tra la dimensione esteriore e la rappresentazione più intima del nostro essere.Tema portante l'impossibilità di concretizzare i propri sogni, di trasformarli in realtà, ma anche il riuscire a vivere nonostante tutto, accontentandosi della propria dimensione provinciale, ai margini della vita che pulsa, lontano dalle metropoli.

Non è una scrittura facile quella di Izzo, intrisa di rimandi letterari, anche ad autori poco noti al grande pubblico, ma importanti nella formazione dello scrittore. Izzo contamina cultura alta e cultura bassa, letteratura e fumetto, parla di calcio e ricordi, di provincia e metropoli, di Pavese e attaccamento alle proprie radici.

Termino la lettura di questo breve ma intenso romanzo e mi pongo una domanda: perché non l'abbiamo pubblicato noi? Non sarebbe cambiato niente, chiaro, ma mi prende una strana tristezza quando leggo un romanzo che rappresenta un'occasione perduta, che profuma di rimpianto. I cavalieri che non fecero l'impresa è un impercettibile tassello di narrativa utile in un mondo letterario pervaso dal niente pubblicizzato con grande strombazzamento mediatico. Se riuscite a trovarlo, leggetelo. Per parafrasare un dialogo tra i personaggi del romanzo, non vi cambierà la vita ma ve la renderà migliore.

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Federica Cabras, "E non VISSERO FELICI E CONTENTI"

16 Agosto 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #federica cabras

E non VISSERO FELICI E CONTENTI

Federica Cabras

Streetlib

pp 254

12,50

Un romanzo, questo E non VISSERO FELICI E CONTENTI di Federica Cabras, che disorienta sotto tanti punti di vista. Appartiene al genere noir ma sembra voler scavare nell’approfondimento psicologico. Parte da una premessa accattivante (e da un paio di capitoli in medias res che sono i migliori del libro e fanno ben sperare) per poi evolvere in qualcosa di inaspettato e diverso. È scritto con un linguaggio divertente ma che ha anche ambizioni letterarie. Alterna una narrazione fin troppo tradizionale con agili dialoghi (le visioni del protagonista maschile) che sono la parte più riuscita. Vuol dimostrare che da un atto malvagio può scaturire anche il bene ma lo fa mescolando a un’apparente leggerezza un’atmosfera mortuaria.

I protagonisti sono Eddie e Sandie, due coniugi che riportano alla mente certe coppie diaboliche della cronaca recente: Olindo e Rosa, Erica e Omar etc. Amori malati, dipendenza eccessiva e reciproca, una delle due figure che plagia l’altra fino a indurla al male, fino all’omicidio.

I due sposi vivono un rapporto tormentato, si sono allontanati psicologicamente dopo la morte in culla di una figlia, non hanno, però, mai smesso di amarsi di un amore malato che somiglia all’odio e che li terrà uniti fino alla morte e oltre. Lei è bellissima, fredda, egoista, calcolatrice, cattiva. Lui è debole e la subisce. Lei gli è infedele con un uomo che si dimostrerà pericoloso.

Ma la storia, che non posso svelare per intero, sebbene avvincente e scorrevole, non quadra, mostra delle incongruenze. Com’è possibile che una persona che fa di tutto per salvarsi dalla morte decida subito dopo di uccidersi?

Anche lo stile, come abbiamo detto, alterna momenti letterari ad altri comici, dialoghi serrati e moderni ad altri più banali. Le figure secondarie sono sviluppate in un modo che forse è eccessivo per il ruolo che ricoprono, come se si volesse rendere più corale il romanzo, senza però avere il coraggio di farlo fino in fondo.

Credo che l’autrice abbia bisogno di lavorare ancora, non solo di editing (c’è una serie di strani refusi che fa apparire il testo quasi tradotto da una lingua straniera) ma anche per liberarsi dalla zavorra che sembra frenarla. Parlo del fatto di non aver ben deciso quale strada prendere, se quella della storia di sentimenti o del thriller - per mescolare i due generi e farlo davvero bene bisogna essere Stephen King - e neppure quale stile adottare, se una narrazione effervescente che mal si sposa con il cupo e orrifico argomento trattato, oppure un linguaggio più elevato e poetico.

Se la Cabras saprà scegliere una delle due strade, senza mixarle indecisa - errore che riscontro in parecchi esordienti - raggiungerà senz’altro degli ottimi risultati perché le premesse per un buon incremento ci sono tutte.

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Gianluca Pirozzi, "Nomi di donna"

28 Settembre 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #racconto, #gianluca pirozzi

Nomi di donna

Gianluca Pirozzi

L’Erudita, 2016

pp 169

16,00

È così difficile trovare una raccolta di bei racconti e questi, contenuti in Nomi di donna di Gianluca Pirozzi, belli lo sono davvero, anzi di più. Sono originali, raffinati, scritti con maestria, sembra di avere fra le mani già un classico.

Qui nomen omen, ogni racconto un nome di donna, con storie peculiari e diverse fra loro. C’è la vedova che corre all’alba per sentire ancora la presenza del marito a fianco, c’è la femme de chambre che indulge in un piccolo vizio (ci viene in mente La carriola di Pirandello) capace di scompaginarle la vita ordinata, c’è la nera che si chiama Bianca ed è sopravvissuta al naufragio di un barcone, c’è la maestra Fabiana che cambia sesso e diventa il maestro Andrea, c’è la trapezista con la crisi di panico, c’è la prostituta che muore nell’incendio doloso della sua roulotte, c’è la moglie uccisa dal marito in un raptus di violenza. Ci sono tante figure dai nomi a volte comuni, come Nadia o Diana, a volte importanti, come Galatea o Aristea.

“I nomi, Sandro, non sono un dettaglio da poco o una casualità! È vero, non ce li scegliamo, al massimo tentiamo di adattarli storpiandoli con diminutivi o surrogati, ma sta a ciascuno di noi dargli il senso che ogni nome reca in sé e a riempirli dei nostri significati e del nostro modo di essere con la nostra vita.”

E poi, quando sei quasi oltre la metà della lettura, ti viene in mente che forse quel nome l’hai già sentito e ti costringi a tornare indietro per renderti conto che sì, avevi visto giusto, quel personaggio è davvero già comparso a margine di un racconto precedente e ora c’è un reprise del motivo, uno sbalzo temporale in avanti o indietro, un nuovo ramo è germogliato a formare una chioma folta, e capisci che tutti i racconti formano un’unica - a questo punto grandiosa - trama di romanzo simil picaresco ed immaginifico che ricorda un po’ quelli dei sudamericani Marquez e Allende. Gianluca Pirozzi ha vissuto in molte parti del mondo e, se è vero che il batter d'ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas, forse c’è un senso in tutto ciò che accade, una trama invisibile e sottile lega ci lega gli uni agli altri.

Più che di realismo magico o di surrealismo, si tratta di una raffinata rappresentazione della mente umana attraverso varie patologie. Molti dei personaggi, anche se non tutti, sono affetti da manie borderline, curiosamente derivate dalle loro passioni e dal loro lavoro. Diana, etologa, ha l’abitudine di paragonare ogni persona che incontra, anche i compagni di vita, agli animali. Edda, interprete simultanea, continua a tradurre mentalmente ogni parola e situazione. Alcune di queste manie sfociano nel delirio e nell’omicidio, altre in fughe, altre ancora restano confinate nel privato. Ma dietro a codeste fissazioni eccentriche si celano metafore della comune esistenza. Diana che non riconosce più in Ottavio il capriolo cui era solita paragonarlo, è simbolo, per contrasto onirico, della fine dell’amore, di come all’improvviso chi avevamo tanto vicino ci appaia diverso, dissonante, strano, non ci capacitiamo di averlo voluto al nostro fianco e riesca difficile persino rammentare il perché dei sentimenti e degli slanci che provavamo.

Quando capita di recensire testi così interessanti, che, pur nella loro intellettualità e nel loro spessore, sono avvincenti e intriganti, torna davvero la voglia di leggere.

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