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Cortés contro gli Antropofagi: due trilogie sulla Conquista del Messico e l’avvento del Mondo Moderno

24 Marzo 2021 , Scritto da Guido Mina di Sospiro Con tag #guido mina di sospiro, #recensioni, #storia

Cortés contro gli Antropofagi: due trilogie sulla Conquista del Messico e l’avvento del Mondo ModernoCortés contro gli Antropofagi: due trilogie sulla Conquista del Messico e l’avvento del Mondo Moderno

 

Di Guido Mina di Sospiro

tradotto dall’inglese da Patrizia Poli; pubblicato nell’originale nella New English Review dell’aprile 2021

 

“Gli esseri umani sono buoni.”—Jean Jacques Rousseau.

“Gli esseri umani sono buoni.” —Detto diffuso fra i cannibali.

 

Graham Hancock e Juan Carlos Sánchez Clemares hanno dato alle stampe due trilogie sulla conquista del Messico, rispettivamente: La guerra degli dei, il romanzo epico sulla conquista spagnola del Messico, che consiste in La notte del serpente (volume 1); Il ritorno del serpente (volume due); La profezia del serpente piumato (volume 3); e Cronicas de un Conquistador, che consiste in Un nuevo Mundo (volume 1); Mexico – Tenochtitlan (volume 2); Un mundo nuevo (volume 3). Nell’insieme, la trilogia di Hancock annovera 1476 pagine, mentre quella di Sánchez Clemares 1811. Sono due lavori colossali e “monumentali”, nell’etimologia originale, che deriva da monere, latino per “ricordare”. Queste due grandi opere sono un memento non solo di una conquista trionfale, e di una delle più incredibili serie di imprese militari nella storia, ma della nascita del mondo moderno, per ragioni che spiegherò entro breve.

Fin dal tempo di Impronte degli dei sono un avido lettore di Graham Hancock. Con tale libro ha essenzialmente inventato un nuovo genere letterario: la saggistica narrativa. È stato fra i primi ad avere l’idea di scrivere saggistica con la tecnica della narrativa (avvincente, veloce).  Come risultato ha prodotto un libro appassionante, e poi vari altri. Non solo ha adottato la tecnica del romanzo, ma molti, e io fra questi, pensano che sarebbe un romanziere eccezionale e, in effetti, lo è. La premessa della trilogia de La guerra degli dei è la creazione di due personaggi immaginari sul vivido sfondo di personaggi e avvenimenti storici: Tozi, una giovinetta locale dotata di poteri magici che cerca di salvare coloro che ama; e Pepillo, un orfano spagnolo che viene preso sotto l’ala di Hérnan Cortés, e impara come si diventa un conquistatore. Un’altra particolarità dell’interpretazione di Hancock della conquista è la magia: entra nella testa dell’imperatore azteco Montezuma e ci resta fino a che non viene ucciso, mostrando al lettore quanto la religione, qualcuno potrebbe definirla idolatria, abbia avuto a che fare con la caduta dell’Impero Azteco (sebbene “Mexica” sia la parola giusta, che userò da qui in avanti.)   

A causa dell’interesse di Hancock per l’esoterismo, c’è molta magia nella sua trilogia: quella di Moctezuma e quella di Tozi, oltre a lunghe escursioni nella mente di Cortés, che è ritratto come molto devoto a San Pietro. È importante che il lettore contemporaneo si renda conto che la religione ha caratterizzato sia l’Impero Mexica sia l’Impero spagnolo; la sua influenza è stata pervasiva in entrambi, dettando sia credenze sia azioni. Ma le due religioni erano straordinariamente differenti, cosa che ha esacerbato lo scontro di culture.

Nonostante tali lunghe digressioni nella magia, ciò che più di tutto mi è piaciuto sono le battaglie. Hancock si dimostra maestro nel descriverle, e ce ne sono molte; in tutte, gli Spagnoli sono assurdamente sfavoriti e tuttavia… Mi chiedo, ad esempio, quale altro avanzo di esercito della storia, assediato, affamato e sfinito, sarebbe stato capace di vincere la battaglia di Otumba, e subito dopo l’ecatombe della Noche Triste? Confesso di essere tornato di recente a questa trilogia proprio per rileggere le scene di battaglia che sono rese in maniera superba.

Un’altra caratteristica dell’opera è il ritratto che gradualmente emerge di Cortés di un Ulisse in carne e ossa: furbo, audace, astuto, spericolato, sicuro di sé, versatile (politropos), e così carismatico che, cinque secoli dopo gli avvenimenti, il suo carisma trasuda dalle pagine di entrambi i romanzi. Per fare un esempio: molti di voi hanno sentito parlare dell’ordine dato da Cortés di bruciare tutte le navi – che è parente del bruciare i propri ponti, nel senso militare di tagliarsi intenzionalmente la possibilità di ritirata – per obbligare i suoi uomini a sopravvivere per mezzo della conquista, sebbene non avesse idea di ciò che aspettava lui e loro. In realtà ha fatto di più: ha riunito i suoi capitani e ha detto loro che c’era un “broma” nelle navi, un tarlo che stava divorando tutto il legno. Era meglio smantellare le navi e tenere il legno che poteva essere salvato per costruire una città, per inciso La Villa Rica de la Vera Cruz, l’odierna Veracruz. E le navi furono debitamente smantellate. Come se non bastasse, in castigliano la parola “broma” significa anche “scherzo”. 

In Cronicas de un Conquistador, Sánchez Clemares ricorre a un unico personaggio – Diego de la Vega Hurtado y de Velasco – un mercenario, di antica e illustre nobiltà ma squattrinato che, dopo essersi distinto come grande combattente in Italia, finisce a Cuba, e s’imbarca su una delle navi della flotta di Cortés. Siccome Diego ha studiato, ma non è certo uno scrittore, nemmeno nella più fervida immaginazione, Sánchez Clemares non compie l’errore di farlo scrivere fluentemente e in modo accattivante, poiché sta soltanto compilando una cronaca, priva di velleità letterarie. Se ciò è stilisticamente appropriato, inevitabilmente rallenta la narrazione. Lo scritto procede lemme lemme senza gli abili crescendo e decrescendo, in intensità e ritmo, riscontrabili nella trilogia di Hancock. Ma il colpo  magistrale che Sánchez Clemares mette a segno è che molto gradualmente, quasi impercettibilmente, rende la prosa di Diego sempre più scorrevole e avvincente, così che alla fine del volume 2 è del tutto appassionante: l’iniziale (e voluto) tirare avanti si trasforma in un inarrestabile telos narrativo. La ricchezza di dettagli sui Mexica è stupefacente e, come nell’opera di Hancock, gli eventi narrati sono storicamente accurati, così come le ambientazioni e tutti i personaggi coinvolti, a parte i due creati da Hancock e quello di Sánchez Clemares, come spiegato. 

E che dire del linguaggio utilizzato da Sánchez Clemares? Un castigliano antico, a tratti aulico, con coniugazioni e consecutio temporum insoliti per i miei occhi e orecchi ma, oh, graditissimi. Il che fornisce ancora più credibilità alla storia: ci si sente come se si fosse tra i conquistadores, ad ascoltarli mentre tramano la prossima mossa – o il prossimo tradimento. Non erano santi, ma la loro avidità per l’oro e sete di fama erano uguali alla loro fede religiosa, e fin dal principio il clero fu dalla parte dei nativi, proteggendoli dagli abusi, con grande dispiacere degli spietati conquistadores.  

Dei molti conquistadores descritti oltre Cortés, tutti storicamente accurati, quello che più colpisce – tostissimo e senza scrupoli – è Pedro de Alvarado, le cui gesta, incluse quelle dopo la Conquista del Messico, che il lettore interessato dovrà cercare altrove, sembrano ugualmente irrealizzabili. Meriterebbe un romanzo a parte.

I Mexica erano convinti che gli spagnoli fossero dèi (teules), e alcune delle loro straordinarie imprese militari suggeriscono che fossero per lo meno … titani. Per inciso, dalle lunghe conversazioni che ho avuto con l’uomo della medicina della tribù Miccosukee in Florida, e con uno sciamano dei Navajos in Arizona, è emerso il fatto che a tutt’oggi essi considerano gli italiani e gli spagnoli diversi dal resto degli europei, gente speciale, favorita dagli dei. E i Mexica avevano molte profezie che presagivano l’arrivo dei conquistadores. Detto ciò, a quei tempi l’esercito spagnolo era probabilmente il più disciplinato e ben addestrato al mondo, e l’acciaio spagnolo era il più forte.

Entrambe le trilogie chiariscono che i Mexica erano conquistadores quanto gli spagnoli. Le nazioni che i primi avevano conquistato – e dalle quali esigevano un pesante tributo di prodotti agricoli, metalli, gemme, piume (che consideravano di gran valore), schiavi, così come gente da usare nei loro sacrifici e poi mangiare – tutte senza riserva li odiavano. Varie nazioni si allearono prontamente con Cortés contro i Mexica e, dopo la Noche Triste, mentre Cortés era intento a riprendersi Tenochtitlan, ambasciatori dei Mexica cercarono di persuadere i loro vicini ad allearsi con loro contro gli spagnoli, ma per la maggior parte invano.

Inoltre, le donne, di solito figlie di importanti dignitari, che venivano date in moglie come dono a conquistadores di alto rango, erano subito più felici fra gli spagnoli, poiché la condizione della donna fra i Mexica e le altre nazioni era terribile. Tali matrimoni misti, che iniziarono senza indugi, portarono al mestizaje (meticciaggio), cioè la mescolanza razziale e culturale degli amerindi con gli spagnoli che dette inizio al mondo moderno. Gli inglesi, invece, erano razzisti, e non ebbero mai intenzione di stanziarsi nelle proprie colonie. Ma gli spagnoli si stanziarono prontamente nel Nuovo Mondo, e immediatamente si sposarono con donne locali.

I sacrifici umani e la conseguente antropofagia, una costante allora tra i Mexica e tutte le nazioni che ruotavano attorno al loro impero, erano scioccanti per gli spagnoli, e continuano a esserlo per la nostra sensibilità moderna, al punto che per lungo tempo sono stati del tutto negati dagli storici ben pensanti. Ben prima della conquista del Messico, i padri fondatori della Cristianità avevano deciso di spiegare il sacrificio estremo di Cristo – la sua morte sulla croce per la redenzione dell’umanità – nei termini più scioccanti e abominevoli che potessero immaginare: il cibarsi rituale della carne di Cristo e il bere il suo sangue durante la Santa Comunione (che, nella cristianità pre-ecclesiastica, aveva presumibilmente più a che fare con l’agàpe o, più intrigante ancora, con ciò che il mio co-autore Joscelyn Godwin e io descriviamo nel nostro romanzo Forbidden Fruits). Chiaramente l’antropofagia fu considerata già a quei tempi come il più aberrante di tutti i comportamenti umani, che l’umanità peccatrice e immeritevole aveva inflitto al suo Salvatore. E questi cattolicissimi conquistadores giunsero in quello che è l’attuale Messico per scoprire con orrore che ogni nazione contro la quale combattevano si dedicava cronicamente all’antropofagia. Non ebbero dubbi: era opera del Diavolo. Persino quando alcune di queste nazioni divennero alleate degli spagnoli, non smisero di sacrificare esseri umani e mangiarli. Verso al fine della conquista, quando Cortés e il suo esercito stavano assediando Tenochtitlan con tale successo che nessun cibo poteva raggiungere i Mexica dentro la città, gli spagnoli si chiesero come potessero i loro nemici continuare a combattere così ferocemente per mesi. Come si scoprì, mangiavano tutte le vittime che trovavano: ottime proteine di grande valore nutritivo. 

Nel suo libro Los Invencibles de América, Jesús A. Rojo Pinilla sostiene che, lungi dal commettere genocidio contro i Mexica, Cortés e i suoi conquistadores li salvarono da un olocausto autoinflitto. Non conoscendo l’allevamento degli animali, i Mexica e i loro vicini si stavano mangiando l’un l’altro fin quasi all’estinzione. Non solo commettevano decine di migliaia di sacrifici umani ogni anno per motivi religiosi, e come conseguenza mangiavano le cosce delle vittime sacrificali, ma la loro antropofagia era diffusa per la scarsità di cibo. Il canone occidentale contemporaneo, ancora oggi strenuo difensore e propagatore della Leyenda Negra (la propaganda britannico/americana – e anche italiana [basta pensare a I promessi sposi] – che demonizza la Spagna e tutto ciò che è spagnolo), alla luce di prove storiche e archeologiche c’insegna l’opposto: che il Messico pre-colombiano era il Giardino delle Delizie e che i conquistadores procedettero allo sterminio. Il test del DNA sulla popolazione messicana contemporanea rivela però che il 30% è di pura discendenza Maya o Mexica; il 60% meticcio; e solo il 10 % bianco. Se il presunto olocausto avesse avuto luogo, il DNA dei messicani contemporanei non indicherebbe una schiacciante discendenza bianca? 

Ma il concetto di buon selvaggio è sopravvissuto fino a oggi; anzi, non potrebbe essere più di moda. In una visione del mondo distintamente manichea, ci viene insegnato che i nativi erano sempre i buoni, e gli invasori europei sempre i cattivi: una squisita e inequivocabile dicotomia. Jean- Jacques Rousseau ha scritto: Le principe de toute morale (…) est que l’homme est un être naturellement bon, aimant la justice et l’ordre: qu’il n’y a point de perversité originelle dans le cœur humain (…). (Il principio di tutta la morale [...] è che l’uomo è un essere naturalmente buono, amante della giustizia e dell’ordine; e nel cuore umano non c’è perversione intrinseca). 

Forse Julius Evola non aveva torto quando definì l’Illuminismo, Oscurantismo: prendi un’idea (un ideale) e trasformala in un dogma, ignorando ogni evidnza contraria. Questo non è accaduto solo con l’ovviamente erroneo concetto del buon selvaggio. Molte sono state le idee (gli ideali) inventate durante la cosiddetta Età dell’Illuminismo che si sono trasformate rapidamente in dogmi (quando tali idee hanno come sostenitore la ghigliottina, vi stupireste di quanto velocemente vengano adottate), sui quali si basa la società contemporanea. Non avevano e non hanno alcuna rispondenza nella realtà, ma da quando ciò è stato un requisito per un dogma? Indipendentemente da ciò, Il Discorso sulla Diseguaglianza di Rousseau e il suo Contratto Sociale sono i fondamenti del moderno pensiero sociale e politico. Rousseau divenne il membro più famoso della Société des amis del la Constitution, La Società degli amici della Costituzione, rinominata la Società dei Giacobini. Il periodo in cui essa fu all’apice include il Regno del Terrore, durante il quale più di diecimila persone furono messe a morte in Francia, molto spesso per “crimini politici”.

Così l’ammiratore del buon selvaggio, il difensore della bontà intrinseca dell’uomo incorrotto, è anche la mente dietro la macchina assassina votata all’eliminazione di ogni dissenso. Quella, ci viene detto da storici entusiasti, è stata l’Età dell’Illuminismo.

Bene, il buon selvaggio, cinque secoli fa, in quello che è l’attuale Messico, mangiava i suoi simili umani con trasporto. Portavano le vittime sacrificali sulla cima di una piramide, strappavano loro il cuore, che gettavano su un braciere, impalavano la testa oppure la lasciavano rotolare lungo i gradini, si tenevano le braccia e le gambe, che mangiavano, e gettavano via il resto. Si formavano fiumi di sangue che non seccavano mai.

Sia Hancock sia Sánchez Clemares raccontano dei recinti da ingrasso in cui venivano rinchiusi bambini e giovani vergini, per essere ingrassati e alla fine mangiati. L’incubo immaginato dai fratelli Grimm in Hänsel e Gretel veniva attuato su scala industriale dai Mexica. L’allevamento degli animali (come il concetto della ruota, o una metallurgia capace di produrre l’acciaio) non è mai venuto in mente ai Mexica: era più semplice e veloce mangiare la gente. Ciò non era limitato a un occasionale sacrificio ai loro déi sanguinari, era una pratica comune, un fenomeno pervasivo. Sembra caratterizzare le Americhe: con l’eccezione dei contemporanei Stati Uniti e del Canada, dal Messico odierno fino al Cile, l’antropofagia era un stile di vita (?) o, piuttosto, una graduale autoeliminazione. 

Entrambe le triologie sono magistrali; quella di Hancock sembra a prima vista la migliore, ma quella di Sánchez Clemares diventa altrettanto convincente e, poi, straordinaria. Come collega scrittore, non so come siano riusciti a… vivere mentre scrivevano le loro rispettive 1476 e 1811 pagine, visto che normalmente un romanziere vive col fiato sospeso e la mente militarmente occupata da trama, struttura, dialoghi e riflessioni fino a che la prima stesura non è finita. Tanto di cappello a entrambi: le trilogie mi sono piaciute immensamente. 

 

Cortés vs. the Anthropophagi: Two Trilogies about the Conquest of Mexico and the Coming into Being of The Modern World

 

by Guido Mina di Sospiro

 

Human beings are good.—Jean-Jacques Rousseau

Human beings are good.—A popular saying among cannibals

 

Graham Hancock and Juan Carlos Sánchez Clemares have authored two trilogies about the conquest of Mexico; respectively: War God: The Epic Novel of the Spanish Conquest of Mexico, which consists of Nights of the Witch (volume 1); Return of the Plumed Serpent (volume 2); Night of Sorrows (volume 3); and Crónicas de un Conquistador, which consists of Un nuevo mundo (volume 1); México-Tenochtitlan (volume 2); Un mundo nuevo (volume 3).

Cumulatively, Hancock’s trilogy numbers 1,476 pages, while Sánchez Clemares’s, 1,811. They are two colossal and monumental works, “monumental” in the original etymology that derives from monere, Latin for “to remind”. These two great works are a reminder not only of a successful conquest, and of one of the most incredible series of military feats in recorded history, but of the coming into being of the modern world, for reasons that will be explained shortly.

Ever since the now classic Fingerprints of the Gods I have been a keen reader of Graham Hancock. With that book he essentially invented a new literary genre: narrative nonfiction. He was among the first to have the idea of writing nonfiction with the technique of (engaging, fast-paced) fiction. As a result, he produced a page-turner, and several more after it. Not only did he adopt the technique of novel-writing, but many, and I among them, felt that, if he tried his hand at it, he would be a terrific novelist—and so he is. The premise for the War God trilogy is the creation of two fictional characters amidst the vivid background of historical characters and occurrences: Tozi, a local young girl with magical gifts who tries to save those she loves; and Pepillo, a Spanish orphan who is taken under the wing of Hérnan Cortés, and learns what it takes to be a conquistador. Another peculiarity of Hancock’s interpretation of the conquest is magic: he enters the head of Aztec Emperor Montezuma and stays inside it until he is killed, showing the reader how much religion, or some may call it idolatry, had to do with the fall of the Aztec Empire (though “Mexica” is the correct word, which I shall be using henceforth).

Indeed, because of Hancock’s interest in esoterica, there is a lot of pertinent magic in his trilogy: Moctezuma’s and Tozi’s, as well lengthy explorations of the mind of Cortés, who is depicted as being very devoted to Saint Peter. It is important for the contemporary reader to appreciate that religion featured very prominently in both the Mexica and the Spanish Empire; its influence was all-pervasive for both, thus dictating beliefs and actions alike. But the two religions were strikingly different from one another, which exacerbated the clash of cultures.

Despite such lengthy digressions into “magic”, what I enjoyed above all were the battles.[1] Hancock proves to be a master at describing them, and there are many; in all of them the odds were absurdly against the Spaniards, and yet… I wonder, for example, what other beleaguered, hungry, thirsty and exhausted remnant of an army in recorded history would have been able to win the Battle of Otumba, and right after the hecatomb of the Noche Triste? I confess to having gone back to this trilogy recently specifically to reread the battle scenes, which are superbly rendered.

Another characteristic of the work is the portrait that gradually emerges of Cortés as an Odysseus in the flesh: cunning, fearless, astute, risk-taking, overflowing with confidence and versatility (polytropos), and so charismatic that, five centuries after the facts, his charisma exudes from the pages of both novels. To give an example: most of you have heard about Cortés’s order to burn all ships — which is akin to burning one’s bridges, in the military sense of cutting off one’s own retreat intentionally — to force his men to survive through conquest, though he had no idea what he and they may have to face. He actually did better than that: he gathered his captains and told them that there was a broma in the ships, an insect that was eating away all the wood. It was better to dismantle the ships and keep what wood could be salvaged to build a city, incidentally, La Villa Rica de la Vera Cruz, today’s Veracruz. And the ships were duly dismantled. In addition to that, in Castilian the word broma also means “joke”.

In Cronicas de un Conquistador, Sánchez Clemares resorts to a single fictional character — Diego de la Vega Hurtado y de Velasco — a professional soldier from ancient and illustrious nobility, but penniless, who, after distinguishing himself as a great warrior in Italy, ends up in Cuba, and boards one of the ships of Cortés’s fleet. Being Diego well-schooled, but not a writer by any stretch of the imagination, Sánchez Clemares does not incur the mistake of making Diego write flowingly and engagingly, as the latter is merely compiling a chronicle, devoid of literary velleities. While this is stylistically appropriate, it inevitably slows down the pace. The writing chugs along without the artful crescendi and decrescendi in intensity and pace to be found in Hancock’s trilogy. But the magisterial thing that Sánchez Clemares pulls off is that he very gradually, almost imperceptibly renders Diego’s prose increasingly flowing and engaging, so much so that by the end of volume 2 it is no less than riveting: the initial (and deliberate) chugging along morphs into an unstoppable narrative thrust. The wealth of details about the Mexica and all the other nations is stunning and, much as in Hancock’s work, the events narrated are historically accurate, as are the settings and all characters involved except for the two created by Hancock and the one by Sánchez Clemares, as mentioned.

And what to say of the language Sánchez Clemares employs? An ancient, at times archaic Castilian, with conjugations and sequences of tenses unusual for my eyes and ears but, oh, so wonderful. This lends even more credibility to the story: one feels as if he were among the conquistadores, listening in as they plot the next move—or the next betrayal. They were no saints, but their greed for gold and thirst for fame were equal to their religious faith, and from the start the clergy was on the side of the natives, protecting them from abuse, much to the chagrin of the more ruthless conquistadores.

Of the many conquistadores described other than Cortés, all historically accurate, the most striking — ruthless and badass — is Pedro de Alvarado, whose deeds, including those after the Conquest of Mexico, which the interested reader will have to find elsewhere, seem equally impossible to achieve. He deserves a novel of his own.

The Mexica were convinced that the Spaniards were gods (teules), and some of their inconceivable military accomplishments would suggest that they were at least… titans. Incidentally, from long conversations I have had with the bundle-carrier of the Miccosukee nation of Florida and with a shaman from the Navajos, in Arizona, the reality has surfaced that to this day they consider Italians and Spaniards different from the rest of the Europeans, special people at least favored by the gods. And the Mexica had many prophecies vaticinating the arrival of the conquistadores. That said, the Spanish army back then was probably the most disciplined and well-trained in the world, and Spanish steel was the strongest.

Both trilogies make clear that the Mexica were conquistadores as much as the Spaniards. The nations the former had conquered — and from which they exacted a heavy tribute of agricultural produce, metals, gems, feathers (which they considered very valuable), slaves as well as people to use in their sacrifices and then eat — all unreservedly hated them. Various nations readily allied themselves with Cortés against the Mexica and, after the Noche Triste, when Cortés was intent on recapturing Tenochtitlan, Mexica ambassadors tried to persuade their neighbors to strike an alliance with them against the Spaniards, but mostly in vain.

Moreover, the women, usually daughters of important dignitaries who were given as gifts to high-ranking conquistadores to become their wives, were immediately happier among the Spaniards, as the condition of a woman among the Mexica and the other nations was dreadful. Such intermarrying, which got underway in earnest, led to the mestizaje, the racial and cultural mixing of Amerindians with Spaniards that began the modern world. The English, on the other hand, were racist, and never really intended to settle down in their colonies. But the Spaniards readily settled in the New World, and readily married local women.

The human sacrifices and the subsequent anthropophagy, a constant accompaniment to life then among the Mexica and all the nations around their empire, were most shocking to the Spaniards, and continue to be so for our modern sensibility, to the point that for a long time they were outright denied by bien pensant historians. Well before the conquest of Mexico, the founding fathers of Christianity had decided to explain Christ’s ultimate sacrifice — his death on the cross for the redemption of humankind — in the most shocking and abominable terms they could think of: the ritual eating of Christ’s flesh and drinking of his blood during the Holy Communion (which, in pre-ecclesiastical Christianity, was presumably more about agape or, more tantalizingly, what my co-author Joscelyn Godwin and I describe in our novel Forbidden Fruits). Clearly anthropophagy was singled out as early as then as the most extreme and aberrant of all possible human behaviors, which sinful and undeserving humankind had meted out to their Savior. And these very Catholic conquistadores arrived in what today is Mexico to discover to their horror that every nation they fought against chronically engaged in anthropophagy. There was no doubt in their mind: it was the work of the devil. Even when some of these native nations became allies of the Spaniards they could not stop sacrificing humans and eating them. Toward the end of the conquest, when Cortés and his army were besieging Tenochtitlan so successfully that no food could reach the Mexica inside the city, the Spaniards wondered how could their enemies keep on fighting so fiercely for months. As it transpired, they were eating all the casualties they could find, be they their enemies or their own soldiers: good protein there, and plenty of nutritional value.

In his book Los Invencibles de América, Jesús Á. Rojo Pinilla maintains that, far from committing genocide against the Mexica, Cortés and his conquistadores saved them from a self-inflected holocaust. Animal husbandry being unknown to the Mexica, they and their neighbors were essentially eating each other to the brink of extinction. Not only did they commit tens of thousands of humans sacrifices every year for religious motivations, and thereafter ate the thighs of the sacrificial victims, but their anthropophagy was widespread because of the scarcity of food. The contemporary western canon, still a staunch supporter and propagator of the Leyenda Negra (the British/American propaganda that demonizes Spain and all things Spanish), in the face of historical and archeological evidence teaches us the opposite: that pre-Columbian Mexico was the Garden of Earthly Delights and that the conquistadors proceeded to exterminate everyone. DNA testing on contemporary Mexican population reveals that 30% of them are of pure Mexica or Maya descent; 60%, mestizo; and only 10%, white. If the alleged holocaust had in fact taken place, wouldn’t the DNA of contemporary Mexicans indicate an overwhelmingly white descent?

But the concept of the bon sauvage has survived to this day; indeed, it could not be more in vogue. In a distinctly Manichean worldview, we are taught that the natives were always good, and the European invaders always ruthless and cruel: heroes and villains, how delightfully unequivocal. Jean-Jacques Rousseau wrote: Le principe de toute morale (...) est que l’homme est un être naturellement bon, aimant la justice et l’ordre ; qu’il n’y a point de perversité originelle dans le cœur humain (…) (The principle of all morality [...] is that man is a naturally good being, a lover of justice and order; that there is no original perversity in the human heart [...].) 

Julius Evola was on to something when he called the Enlightenment, Obscurantism: take an idea(l) and turn it into a dogma, regardless of all the evidence against it. That did not happen exclusively with the ostensibly flawed concept of the bon sauvage. Many were the idea(l)s invented during the so-called Age of Enlightenment that turned quickly into dogmas (when such idea[l]s have a guillotine as their enforcer, you’d be surprised at how quickly they get adopted), and upon which contemporary societies still hinge. They had and have no correspondence to reality, but since when has that been a requirement for a dogma? Regardless of that, Rousseau’s Discourse on Inequality and The Social Contract are the foundations of modern social and political thought. He became the most famous member of the Société des amis de la Constitution, the Society of the Friends of the Constitution, renamed the Society of the Jacobins. The period in which it was at its most effective includes the Reign of Terror, during which well over ten thousand people were executed in France, most often for “political crimes”.

So the admirer of the bon suavage, the advocate of the inherent goodness of uncorrupted man, is also the mind behind a killing machine bent on eliminating any dissenter. That, we are told by enthusiastic historians, was the Age of Enlightenment.

Well, the bon sauvage, five centuries ago in what is Mexico today, ate his fellow humans with abandon. They took the people to be sacrificed at the top of a pyramid, ripped out their heart, which they tossed on a brazier, either impaled their head or let it roll down the steps, kept their legs and arms, which they ate, and threw away the rest. Rivers of blood thus formed, and never dried up.

Both Hancock and Sánchez Clemares write of the fattening pens in which children and young virgins were kept, there to be fattened and eventually eaten. The nightmare imagined by the Brothers Grimm in Hansel and Gretel was carried out on an industrial scale among the Mexica. Animal husbandry (much like the concept of the wheel, or a metallurgy capable of producing steel) never occurred to the Mexica: it was more expedient to eat people. This was not limited to the occasional sacrifice to their bloodthirsty gods; it was an ongoing, all-pervading phenomenon. It does seem to characterize the Americas: with the exception of contemporary USA and Canada, from contemporary Mexico all the way down to Chile anthropophagy was a way of life (?), or rather, of gradual self-annihilation.

Both trilogies are superb; Hancock’s seems at first the better one, but Sánchez Clemares becomes just as good, and then, incredibly good. As a fellow writer, I don’t know how they managed to… live while they wrote their respective 1,476 and 1,811 pages, as normally a novelist lives with bated breath and his mind militarily occupied by plot, structure, dialogues and thoughts until the first draft is done. Hats off to both: I enjoyed the trilogies immensely.

 

 

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#unasettimanamagica Buon Natale signor lupo!

27 Dicembre 2013 , Scritto da Marco Lucchesi Con tag #marco lucchesi, #racconto, #fantasy

<<Ciao Signor Lupo!>>

Il bambino che tenevo sulle ginocchia mi guardava con uno sguardo che non riuscivo ad interpretare...divertito?...incuriosito?...basito?...insomma aveva una bella faccia di culo! Maledetto bambino!

Maledetto bambino...maledette luci troppo forti per i miei occhi attuali...maledetto centro commerciale del cazzo...maledette feste! Maledetto spirito natalizio! Ma soprattutto: "Stramalidetto me!"...stra-"malidetto"...non "maledetto".

"Stramalidettooooo!"

Accedenti a me, alla disoccupazione, alla crisi, al lavoro che non avevo...a parte questo ridicolo surrogato: fare il "Babbo Natale" al centro commerciale alle porte della città.

Il che voleva dire fare il coglione (e non sarebbe stato un dramma...è una vita che lo faccio!) vestito di rosso ed imbottito di gomma piuma e pellicce varie, per 12 ore al giorno dal 10 dicembre alla sera del 24.

Sotto riflettori nucleari a 40 gradi fahrenheit, peggio che a Fukushima durante l'esplosione del reattore.

A prendere in braccio una moltitudine di bambini sognanti, in realtà odorosi di bagnoschiuma-cacca-dolciallozenzero-torrone-libriscolastici-latte-mamma-nylon, che volevano a tutti i costi vedere Babbo Natale e chiedergli personalmente cosa avrebbero desiderato sotto l'albero...

Ovvero cosa "volevano" sotto l'albero, il condizionale nel mondo capitalistico dove vige la regola del consumismo a tutti i costi non esiste...Loro "volevano", "esigevano" quello che mi chiedevano. Nessun rispetto per la mia figura (benché decisamente ridicola), nessuna concessione alla tradizione, nessuna remora morale nel vedere Babbo Natale dal vivo...

Io non l'avevo mai visto Babbo Natale da piccolo, e neanche l'avrei voluto vedere! Era troppo bello sentire cosa asseriva di vedere dalla finestra la nonna, quando la mattina del 25 entrava nella mia cameretta sostenendo che "là fuori" c'era Babbo Natale...che stava partendo verso chissà dove dopo avermi lasciato i regali che mi meritavo...Che bellezza! Che tempi! Ero un bambino vero, non una piccola jena golosa di tutto, come questi qui.

...ero un bambino...

<<No bimbo...non sono il Signor Lupo! Sono Babbo Natale! Non vedi?>>

<<Ciao Signor Lupo!>> continuava l'infante...stupido cazzone! Sul fondo del mio cuore nero speravo che non arrivasse all'età della riproduzione.

<<Va bene bimbo...Allora se mi hai chiesto tutto quello che vuoi per stanotte, lascia venire qualche tuo compagnuccio che si è fatto tardi! Oh-oh-ooooooooh!>>

Non mi era venuto molto bene l' "Oh-oh-ooooooooh!"...Merda. Era uscito come un ruggito strozzato! Infatti l'infante non aveva più quella faccetta di culo, ora era un po' perplesso...Perplesso ma anche spaventato. Il bordo dei suoi occhietti stava già cadendo verso il basso, spinto da lacrime che volevano uscire ma erano ancora un po' ritrose...Tornando dai suoi genitori teneva la faccia rivolta verso di me, come se temesse che lo seguissi...o gli balzassi addosso mentre era girato...

"Bene! Così impara a rompermi le palle mentre lavoro! Con queste luci stroboscopiche che mi entrano nel cervello...Bene! Buon Natale di terrore moccolone! E vaffanculo!"

Ero contento mentre pensavo tutto ciò. Un po' di sollievo per le mie membra scosse e fluide di dolore sordo e incontrollabile e la mia mente sempre più annebbiata via via che la notte si avvicinava...

Ero contento, ma già il rompimento di coglioni stava per prendere di nuovo il sopravvento. Rompimento di coglioni di nome Flavio...o Fulvio...o Livio...non l'avevo ancora capito...

Lui, il responsabile del settore giocattoli, tittirillò legati col filo e cazzi a molla natalizi mi stava guardando tra lo sfavato e il disperato oltre la cerchia dei genitori e dei bambini in attesa del loro turno col "Babbo".

Ed ecco che ora si stava avvicinando...<<Scusate signori e signore. Scusate bambini. Il centro commerciale sta per chiudere e, oltretutto, Babbo Natale si dovrà mettere in viaggio per soddisfare tutte le vostre richieste e quelle di tutti gli altri bambini del mondo...Quindi vi pregherei di avviarvi verso l'uscita. Magari i piccoli che non hanno parlato col "Babbo" imbuchino le letterine con i regali che vogliono nella cassetta rossa lì...sì proprio quella signora...>>, qualche mugugno si stava sollevando tra i genitori...qualche bambino aveva cominciato a piangere...Anche quello che avevo avuto sulle ginocchia per ultimo! Che bello!

<<...e te levati di culo. Adesso!...ma tu guarda che rintronato...>>, la gentilezza di Flavio-Fulvio-Livio era proprio in linea con la notte Santa che stava per giungere...

<<...ma...capo ho ancora mezzora da fare...>>

<<Togliti dalla mia vista ho detto!...ma non ti sei accorto dell'espressione e della voce che avevi con l'ultimo marmocchio??!! Sembrava che te lo volessi mangiare! Trana via che mi hai rotto!>>

<<Mi scusi capo, è che magari sono un po' stanco...accaldato...con 'sto costume...>>

<<Sei Babbo Natale, ritardato! Volevi venire in bermuda e camicia hawaiana??!!...guarda...levati da qui...tra un mese ti arriveranno i soldi...Forse prima, ma togliti-dalle-palle-subito! Mi mandi via i clienti sennò!...coglione...ma tu guarda chi mi dovevo ritrovare sul groppone...VAI VIAAA!!!>>

<<Va bene capo...si calmi...e...Buon Natale...>>

<<VAFFANCULO ALTRO CHE BUON NATALE!!>>

L'ignoranza della gente è veramente senza fondo, stavo pensando mentre mi ritiravo nei magazzini per sfilarmi lo stupido costume...lo stavo pensando ma ero anche contento. Perché, e Flavio-Fulvio-Livio aveva ragione, stavo veramente arrivando al limite. Non ce la facevo più.

D'altronde, come pensavo prima..."Stramalidetto me!"...Tra tutti i lavori che potevo trovarmi nel periodo natalizio (non molti in realtà...sapete...la crisi...) proprio Babbo Natale il 24 dicembre, luna piena, mi ero ritrovato a fare...

Sì, perché...io mi chiamo Juri...e sono un lupo mannaro...un lupo mannaro ma anche un disoccupato! E dovevo lavorare almeno sotto queste feste! Ché pagano bene!...è che mi ero completamente scordato della luna piena il 24 notte. Puttanaeva! Non casca mai di Natale! Proprio quest'anno!...lupo mannaro, disoccupato e con la merda addosso se posso aggiungere...

Era da due giorni che la "bestia" aveva cominciato a scorrermi sotto la pelle. Sempre di più. Sia chiaro, non è mai una sensazione piacevole...ma vestito da Babbo Natale per 12 ore vi posso assicurare che i preliminari della "muta" sono proprio insopportabili!...le vampate...la tachicardia...l'insensibilità agli arti, alle mani soprattutto...l'impressione dei peli che sembrano urlare sotto pelle...gli artigli e le fauci "fantasma" (cioè mi sembra di averli ma non li ho...ancora...)...la voce che, come prima col fottuto bimbetto, esce roca o un po' troppo animale...ed il fatto che, a volte, qualcuno se ne accorge...bambini piccoli, cani (che mi stimano tantissimo!), gatti (che mi odiano a distanza...), qualche adulto matto (o considerato tale)...E allora sono contorcimenti mentali e sforzi fisici per apparire solo un po' eccitato o affaticato...non sull'orlo di un cambio morfologico così estremo!

Insomma...era Natale, quasi. Luna piena alle 23.20. Stanotte sarei "mutato" e avrei mangiato. Avrei mangiato a sazietà. D'altronde la notte Santa si fa il cenone...o no?!

Solo che una leggera inquietudine mi stava prendendo: troppa gente in giro, troppe luci, troppo movimento. Io di solito ci stavo attento a queste cose. Mi preparavo bene. Sceglievo posti isolati. Zone buie. Prede ben fruibili senza far tanta confusione...stanotte sarebbe stato impossibile, ma "o così o pomì!"...

La Fame, in aggiunta alla smania da "cambiamento", mi stava letteralmente dilaniando. Era un bisogno di una fisicità incomprensibile nella forma umana, di una "realtà" e "presenza" terrificante da quanto era concreta. Niente di paragonabile alle nostre sensazioni, alla nostra sensibilità di scimmie evolute...che tutto basavano sulla vista, sulla luce, sui colori. L'uomo mangia con gli occhi! Io mangiavo con tutto il mio corpo...

Divoravo persone.

E con esse divoravo menti...pensieri...presenti e futuri. Divoravo mondi che poi rivivevano dentro di me. La mia pancia piena come una galassia in continua trasformazione, che si ingigantiva mese dopo mese...ad ogni luna, dopo ogni caccia. Si ingigantiva per poi implodere su se stessa...come se un buco nero si formasse dopo una supernova...Tutte le volte. Tutti i santi mesi lunari...

Il centro commerciale dove avevo lavorato fino a pochi minuti fa era alla periferia est della città, distava circa cinque chilometri dal centro. Non avevo un mezzo di locomozione (sapete...la crisi...), quindi mi avviai a piedi. Camminare per me non era davvero un problema, potevo farlo per giorni. Soprattutto ora che il Lupo dentro stava diventando dominante.

Il problema sarebbe stato invece trovare un posto al riparo da occhi indiscreti per mutare. E teoricamente non sarebbe stato semplice, in una città di duecentomila abitanti!...ma in realtà un'idea ce l'avevo...nel centro storico ancora qualche palazzo in rovina e diroccato dai tempi dei bombardamenti c'era....In particolare avevo pensato ad un fazzoletto di terreno incolto, una specie di "giungla urbana" con erbe alte un metro e cespugli di rovi, situato dietro l'abside di una vecchia chiesa sconsacrata. Tra la chiesa e un antico magazzino usato fino al secolo scorso per stoccare grosse giare di terracotta contenenti olio, scaricate dalle navi del porto. Un palazzotto di un piano che, secondo le buone intenzioni di molte amministrazioni comunali, doveva diventare sede di mostre permanenti...museo navale...pinacoteca...polo di arti figurative...ambasciata del Burgighistan...e che invece era rimasto umile palazzotto fatiscente. Sede di popolate riunioni di condominio per numerose generazioni di ratti...

In genere non ero così sprovveduto da mutare e cenare in città. Era rischioso. E poi oltre la statale, alla periferia orientale, c'erano campi che continuavano per chilometri, fino a basse colline coperte dalla macchia, che si estendevano per migliaia di ettari. E lì c'erano poderi isolati e roulotte di barboni, campi nomadi e campi scout, il carcere, la discarica, varie bettole frequentate da cacciatori e bracconieri, appostamenti fissi dispersi nel bosco, un'azienda faunistico-venatoria (con ottimi cervi e daini...in mancanza di meglio...) ed alcuni paesotti di poche centinaia di abitanti...fare sparire una o due persone, ai margini di questa "società sparsa", ogni tre-quattro mesi, era un rischio controllato. Nessuno mai si era allarmato o accorto di niente. E poi alternavo le cacce in loco con quelle che organizzavo anche in posti molto distanti, fuori regione e addirittura oltre confine. Un lupo mannaro nel nuovo millennio deve stare attento! Si fa presto a finire sul web o in qualche ridicola trasmissione televisiva per via di un piccolo errore...una ripresa fatta da un cellulare o da una foto trappola non era più un evento così improbabile! Siamo tutti sotto controllo per la miseria! E ci piace controllarci a vicenda e farci i cazzi degli altri! Che razza di mondo...

Con la Fame che mi ottenebrava la mente e la bestia che mi schizzava fuori da tutti i pori della pelle, per fortuna il freddo umido e pungente portato da una brezza marina mi stava tenendo nel "me stesso" umano ancora abbastanza saldamente.

Erano le 23.00 ed ero ormai arrivato nel luogo che avevo prescelto per "cambiarmi". Sarebbe stata la seconda volta stasera: prima avevo dismesso i panni del "Babbo ciccione ridicolo Natale Oh-oh-oh vaffanculo", panni che tenevo ancora in un sacchetto di cartone e che avrei volentieri bruciato (forse...domani...)...e adesso avrei indossato i molto onorevoli e poco ortodossi panni del lupus hominarius, rappresentante solitario di un'antica razza ormai ridotta al lumicino...troppo schiettamente sincera per una società che stava perdendo ogni umanità, per quanto bestiale essa fosse...

Ore 23.15: la "trasformazione" è un processo insospettabilmente veloce e indolore, rispetto alla fastidiosa "smania" che la precede ed a dispetto della profonda riorganizzazione scheletrica e muscolare dell'organismo che la subisce...alle 23.20 ero già Lupo. Un bel Lupo alto e slanciato, con un vello setoloso grigio e folto, muscoli guizzanti sotto di esso, uno stomaco vuoto e urlante e un paio di fauci desiderose di nutrirlo! Perfetto! Bellissimo!

Da Lupo, anche se si perdono molte caratteristiche mentali dell'uomo e si diviene un po' più istintuali e governati dalla "pancia"; anche se non si riesce a parlare correttamente e se i pensieri sono a volte un po' faticosi, di solito non si abbandonano certe caratteristiche personali. Ad esempio io sono, a ragione o a torto, ritenuto dagli altri un tipo molto brillante e simpatico, pronto alla risata ed alla battuta sarcastica...quindi, in ottemperanza, ma anche come parodia rispetto allo spirito natalizio che pervadeva quella notte...mi cambiai per la terza volta rimettendomi il costume del Babbo! L'operazione risultò un po' complessa per l'assenza di "mani" ben funzionanti, sostituite da zampe artigliate poco adatte a manovre così fini, ma alla fine riuscii a re-infilarmi l'abito rosso ed il cappello d'ordinanza...e il completo non mi stava neanche tanto stretto, perché pensato per un vecchio panzone petomane, semmai un po' corto...Babbo Natale doveva essere una gran mezza sega, ma io facevo la mia porca figura!

Così fantasiosamente agghindato salii velocemente (e quanto velocemente potevo muovermi non potete capirlo!) sul tetto del palazzotto-magazzino e da lì, con pochi precisi balzi, su quello della casa più vicina.

Il panorama della mia città, da tale inconsueto punto di vista, aveva una sua decadente bellezza: ad ovest il fanale pulsante del porto, le gru, le navi "container", i silos ed i transatlantici che parevano alberi addobbati galleggianti, il tutto a precedere l'immensità scura in continuo movimento del mare.

A nord le fiamme malate delle torri di combustione a indicare la landa desolata dalla raffineria di petrolio.

A sud e ad est lei...una piccola grande città...con le tante chiese che si andavano colmando di gente in attesa della messa.

Le fortezze, macchie buie come tumori della notte.

Le case, gli stabili, i caseggiati, i grattacieli, dimore moderne o antiche, punteggiate da lumi...fiochi fari...fuochi fatui a segnalare famiglie, donne o uomini, piccoli universi isolati, pur così vicini tra loro...

Stanotte una di quelle famiglie avrebbe ricevuto una visita inconsueta. Una visita sicuramente da raccontare negli anni a venire...ma di anni a venire sfortunatamente non ce ne sarebbero stati più.

La Fame mi dette l'ultimo avvertimento come con una coltellata al centro degli occhi...mi riscossi dal poetico intorpidimento, che mal si addiceva al mio stato, e mi avviai verso uno dei palazzi più antichi del quartiere, una casa nobiliare del '600 caratterizzata da una bella facciata, con un terrazzo sorretto da due colonne doriche d'arenaria. Lì viveva un unico nucleo famigliare, il resto erano tutti appartamenti in attesa da anni di essere affittati...e che non lo sarebbero mai stati viste le folli pigioni richieste...Mi calai lungo la grondaia d'angolo fino allo "scalo", ovvero fino ad una delle strade che fiancheggiavano i canali d'acqua marina che rendevano particolare quel quartiere, e costituivano una rete di comunicazione usata fino al secolo scorso per il trasporto delle merci dal porto.

Volevo entrare dalla porta principale dell'appartamento suonando il campanello, non intrufolandomi di nascosto come un qualsiasi ladruncolo! Entrai nell'ampio atrio a terreno (il portone era aperto, come avevo previsto) e rasentando il muro mi mossi verso il pianerottolo del secondo piano, dove risiedeva la famiglia Paglieri: padre e madre di mezza età e due figli piccoli, forse troppo per loro.

Come vedete, in quanto carnivoro "puntuale" benché generalista, anch'io facevo le mie indagini per individuare le prede che fossero più accessibili, fruibili e "convenienti". Era già da un po' che pensavo ai Paglieri, ma non avevo mai voluto affrontare il rischio di una "cacciarella" in piena città...gli eventi dell'ultimo mese mi avevano però messo alle strette! Se volevo arrivare sano di mente alla prossima luna dovevo metabolizzare mooolte proteine in breve tempo.

Una famiglia di quattro persone era perfetta...

Arrivai silenziosamente all'appartamento e, senza fare calcoli (...non ne ero molto in grado in realtà...), suonai il campanello con il mio pseudo dito della mia mano-zampa...mi accostai all'uscio, munito di spioncino, per impedire la mostruosa visuale che, mio malgrado, rappresentavo.

<<Chi è?>>, la voce era femminile.

<<Buon Natale...un pacco per il signor Paglieri...>>, recitai questa semplice formuletta con una voce cavernosa e quasi incomprensibile per le mie sensibilissime orecchie...ma evidentemente il timbro non destò nessun sospetto, forse aspettavano un pacco veramente...forse avevano amici con voci arrochite dall'alcol...Che culo una volta tanto! Tant'è che la porta venne aperta quasi subito...Mi voltai...

Davanti a me si presentò la famiglia al completo: il padre, un signore sulla cinquantina pelato e grassottello, con un cappello come il mio sulle ventitré; la madre, bella donna con capelli lunghi legati a crocchia e falsamente biondi...magrolina purtroppo; i due bambini, sotto i dieci anni, un maschio ed una femmina entrambi piuttosto in carne...

Tutti e quattro evidentemente rimasero piuttosto stupiti nel vedere un Lupo di due metri e mezzo vestito da Babbo Natale.

Il maschietto aveva anche un mezzo sorriso sulle labbra...che faceva? Pigliava per il culo?

La femmina, di poco più grande, aveva gli occhi più che sgranati, forse erano già sporgenti in condizioni normali, ma adesso parevano volerle schizzare dalle orbite.

La madre, con un grembiule a scacchi rossi e bianchi e un mestolo di legno in mano, aveva la bocca abbondantemente impiastricciata con un fastidioso rossetto carminio e la teneva aperta tanto, da sembrare una bambola gonfiabile in carne ed ossa.

Il padre era l'unico che sembrava non aver colto la stranezza della situazione e la bizzarria dell'avventore di quella sera: i suoi occhi erano spenti e velati, non so se da ignoranza, stupidità, vino frizzante o overdose di televisione. Le spalle erano cadenti e l'aspetto generale flaccido. In una situazione fisiologica migliore forse l'avrei scartato, ma quella sera non era il caso di fare i difficili.

Eravamo lì, alle 23.55 della notte di Natale. Tra cinque minuti tutte le campane della città avrebbero annunciato la nascita del redentore: "...pace in terra ed agli uomini di buona volontà...". Eravamo lì: io, e la famiglia Paglieri. I loro occhi umani, dove percepivo sentimenti disparati e molta incredulità, nei miei occhi bestiali, ardenti di Fame e con ormai un limitato raziocinio. Non so se pensassero ad uno scherzo, magari era un reality show o una trasmissione speciale di Teleregione...o se cominciassero a rendersi conto di essere veramente in un film dell'orrore, come comparse...in quanto il protagonista era un altro e loro sarebbero usciti di scena da lì a poco...

Era la notte Santa...forse volete che vi dica che li lasciai stare. Dopotutto a Natale siamo tutti più buoni! Forse volete che vi dica che alzai il muso al soffitto e cacciai fuori un bell'ululato spettacolare e scenico, poi mi lanciai dalla finestra del pianerottolo e dopo mi eclissai nella notte...

Forse volete che vi dica che quella notte cenai con cefali pescati a mano nei canali, con un pollo e mezzo quarto di bue alienati da una macelleria, con dieci panettoni artigianali trafugati dalla migliore pasticceria del centro. So che volete sentirvelo dire...

Invece non andò così.

Perché li mangiai. Li divorai tutti.

Durante la notte di Natale, prima che le campane smettessero di suonare per richiamare le ultime pecorelle, sbranai tutta la famiglia Paglieri. Ma non temete, dopo pochi secondi erano tutti morti. Forse non ebbero neanche il tempo di capire fino in fondo cosa stava succedendo...almeno, il padre non lo capì. Ne sono sicuro!

Alla fine del pasto mi trovai da solo (ovviamente) in una casa semi distrutta (le uccisioni di massa sono forse eventi un po' traumatici e caotici...ma così è...)...ed ancora con una Fame terribile! Ma come?! Avevo ingurgitato carne di quattro persone di cui tre sovrappeso...Doveva bastarmi per venti giorni a regola! Avevo ingoiato tutte le interiora disponibili! Avevo anche triturato alcune ossa, quelle più ricche di midollo...ma, porca puttana, avevo ancora un drago nello stomaco...Un drago che sputava fuoco!

Smanioso e insoddisfatto cominciai a girare per casa...dopo poco individuai la cucina: in ogni armadio, a cui strappavo le ante dalla foga, trovai roba da mangiare...merendine, scatolette di tonno carne fagioli, cracker, grissini, dolci natalizi di tutti i tipi, cioccolata, brick di zuppe precotte, buste di preparati liofilizzati e indefiniti....ma chi se ne importava dopo tutto? Mi ficcai ogni cosa in gola senza stare ad aprire o scartare...ingollai tutto...

Nonostante la mente ottenebrata trovai anche il frigo. Dilaniai a zampate anche quello e mi gettai su forme congelate imprecisate: carni, pesci, capponi, tacchini, insalate di mare, di terra, crostini, crostoni, bruschette, panini, tramezzini...

Ansante mi buttai sul divano...la grossa testa gettata all'indietro, lo sguardo ferale puntato sul soffitto...e lo stomaco dolorante...ma non per i troiai che mi ero ficcato dentro negli ultimi dieci minuti, non per i 200 chili di carne fresca dell'abbuffata precedente...ma ancora per un insopportabile languore!

Ancora Fame! E' Natale! Dovevo mangiare ancora! Tirai su il muso e me lo leccai per inumidirlo, annusando l'aria percepii un odore dolciastro...In fondo alla sala dove mi trovavo, nel casino impressionante della scena del (mio) crimine l'albero adornato e illuminato pulsava di colori gialli-rossi...gialli-rossi...gialli-rossi...l'odore veniva da lì...Gli addobbi erano di cioccolata!

Come se l'albero avesse provato a fuggire mi ci buttai sopra e...lo sbranai! Anche lui! Lo ingollai quasi intero: dal puntale al vaso pieno di terriccio (la famiglia Paglieri amava le tradizioni: l'albero era un vero abete rosso dell'Appennino settentrionale).

Alla fine mi cadde lo sguardo anche sui regali che erano stati amorevolmente collocati dai Paglieri sotto l'albero: delle belle scatole di tutte le dimensioni impacchettate con una deliziosa carta rossa e bianca, con fiocchi argentati...Mi si smosse ancora un qualcosa dentro...allora mangiai anche quelli, uno a uno, tirandomeli tra le fauci come noccioline...

E poi la Fame, così come era diventata un pena insopportabile, sparì del tutto. Come se non ci fosse mai stata. "Ci riaggiorniamo tra venti giorni bello..." mi sembrò di sentirla dire...

Ma ora ero veramente spossato dalla mia stessa foga bulimica e potevo percepire tutto ciò che avevo ingurgitato tintinnare nello stomaco...perché molto di quello che avevo mangiato faceva esattamente quel suono: tintinnava!

La scarsa lucidità che contraddistingue noi lupi mannari durante l'attività predatoria, diventa ancora più evidente quando siamo nella fase della digestione. Ed io ero nel pieno di essa, ma dovevo lo stesso muovermi. Non potevo rimanere lì fino all'alba, quando ci sarebbe stata la "contro-muta" ed avrei riassunto i miei consueti "panni" umani...

Cercai di riscuotermi e velocemente uscii dal palazzo. Una certa luce nel cielo indicava la seconda parte della notte, quella precedente il sorgere del sole. Scivolando da un angolo in ombra all'altro, sfiorando muri, sfruttando il buio degli scarsi giardini pubblici, mi spostai verso la periferia nuovamente. Mi liberai del costume di "Babbo serial killer Natale" in un cassonetto e, nudo, mi sentii meglio e più a mio agio.

La digestione procedeva imperterrita e dovevo già evacuare parte del cenone...sarebbe stata una cosa dolorosa probabilmente, ma era necessaria prima che tornassi uomo.

Non avrei potuto farlo in piena città: la prevedibile stranezza di una deposizione fecale come quella che mi aspettavo (ossa e peli umani, frammenti di palline di vetro e plastica, aghi di abete rosso, brandelli di cappone, scatolette di alluminio accartocciate, domopack con tracce di zuppe pre-cotte...) avrebbe allarmato le autorità e interessato oltremodo quei maledetti ficcanaso dei ricercatori! Ce ne erano alcuni anche qui: gente che si faceva chiamare "scienziato" e che si divertiva e tramestare nella merda delle bestie per vedere cosa avevano mangiato! Pensate che roba! Alcuni addirittura facevano delle analisi genetiche per accertare "nome e cognome" della povera bestia in questione! Vi immaginate che stupore nel ricercatore che avesse analizzato il mio DNA? E che casino sarebbe successo dopo?! Purtroppo il mondo per noi lupi mannari è diventato un posto pericoloso...non si può più neanche cacare in pace!

Con questi pensieri, sempre più chiari nella mia mente a causa dell'uomo che si faceva strada dentro ogni pelo del mio mantello, uscii dalla zona urbana che stava albeggiando. Oltre la statale, attraversata passando dentro una tubazione di scolo delle acque piovane, si estendevano alcuni campi a riposo. Su una lieve altura sorgeva un vecchio cascinale diroccato e disabitato; altre volte avevo atteso la "contro-muta" là dentro, era un posto sicuro.

Ormai al limite della condizione umana entrai fra quelle mura di un'epoca imprecisata e, prima di riacquistare le sembianze dell'altro "me stesso", liberai le mie budella...

Fu bello e selvaggio e sincero.

<<Buon Natale Signor Lupo!>>

M.

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Adriana Pedicini ANCHE LA CULTURA PRODUCE FRUTTI COPIOSI

22 Marzo 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #saggi, #cultura, #biagio osvaldo severini

ANCHE LA CULTURA PRODUCE FRUTTI COPIOSI

di Biagio Osvaldo Severini

Società della conoscenza. Sviluppo degli strumenti cerebrali e crescita economica. Beni culturali ed economia. La cultura della criticità e il gregge. Il compito della cultura. La politica capisce l’importanza di unire cultura e imprese?Incompetenza nella gestione delle istituzioni culturali. Taglio dei fondi o caccia agli evasori? Individualismo o vita comunitaria?

Oggi viviamo nella società della “conoscenza”, dell’ “immaterialità” .

Questo significa che siamo passati dalla società industriale alla società postindustriale.

La conseguenza di questa trasformazione socioeconomica comporta un cambiamento radicale nella attività lavorativa: dalla produzione pura e semplice di “beni materiali” si passa alla produzione di “beni immateriali”; quindi, dall’impiego delle braccia come forza-lavoro alla utilizzazione delle teste “ben fatte”, dei cervelli.

Accanto all’agricoltura, accanto all’industria, anche la cultura può diventare “fruttifera”. Solo che i suoi frutti non sono patate, broccoli, olio, vino, grano, mele, cocomeri, frigoriferi, computer, telefonini e cose simili (pure importanti), bensì beni che non si toccano ma che pure esistono.

I beni immateriali, infatti, sono: la conoscenza; la comunicazione o informazione; il benessere; la qualità della vita.

Noi pensiamo che la “qualità della vita” rappresenti la caratteristica più importante dei beni materiali e immateriali, quella che tutti li contiene e li sintetizza. Già Seneca aveva affermato il principio che “non enim vivere bonum est, sed bene vivere”.

Ci permettiamo di interpretare tale principio, intendendo che la semplice vita corporea da sola non è un bene; bene è invece condurre una vita caratterizzata dalla possibilità di godere, individualmente e comunitariamente, dei “frutti” della operatività manuale e intellettuale. Insomma: stare bene con se stessi e con gli altri.

Produrre beni immateriali, significa valorizzare, ad esempio, la “golden economy”, “ l’economia d’oro dei tesori culturali e ambientali”, considerarli “risorse culturali”, per trasformarli in “risorse economiche”.

I “tesori culturali e ambientali” si trovano in ogni città, in ogni paese, in ogni contrada del Mezzogiorno, del Sud, delle Zone interne.

Essi devono, però, essere portati alla luce del sole; su di essi si devono accendere i riflettori per poterli trasformare in “risorse economiche”.

Il “grado di competitività” di una Nazione, di una Regione, di una Provincia, di un Comune è, perciò, direttamente proporzionale agli investimenti in cultura.

Perché la cultura, infatti, deve essere intesa non più come un campo ristretto alle nozioni o alle teorie specialistiche, ma come orizzonte aperto alla “paideia”, ossia alla formazione della persona; alla “communis humanitas”(Luigino Bruni), ossia alla vita condotta insieme con gli altri uomini; e, infine, alla “polis”, ossia alla vita associata strutturata dalle diverse istituzioni e dai molteplici valori che la costituiscono.

Per essere ancora più chiari: più soldi si investono in “cultura”, più aumentano alcune caratteristiche positive della comunità, quali la competitività, la crescita civile, la sicurezza, la ricchezza economica.

Sviluppo degli strumenti cerebrali e crescita dell’economia

Le facoltà di Economia dell’Università di Torino e di Venezia hanno calcolato in proposito che:

1 euro investito in cultura ha una ricaduta sull’economia cittadina di 21 euro!

Esiste, inoltre, un nesso stretto tra sistema formativo che funziona e che affina gli strumenti cerebrali e la crescita dell’economia.

Questo nesso è spiegato in uno studio pubblicato recentemente dall’ OECD (Organization for Economic and Development), che è riuscito a “misurare” l’effetto del miglioramento delle “prestazioni” del sistema scolastico nazionale sull’economia complessiva del paese che investe nell’istruzione.

Basterebbero pochi miglioramenti nell’istruzione della media PISA ( Programme for International Student Assessment) per determinare un consistente aumento del Pil dei paesi OECD pari a una cifra di 115 mila miliardi di dollari nei prossimi venti anni.

Se poi si riuscisse a portare tutti al livello della Finlandia, che possiede il sistema scolastico migliore misurato con il PISA, l’aumento del Pil complessivo sarebbe pari a 260mila miliardi di dollari (Aldo Bassoni).

Per l’Italia, nei due casi, avremmo rispettivamente 5.223 e 18.094miliardi in più in venti anni.

Beni culturali ed economia

Il professore Severino Salvemini ( docente di Economia dei beni culturali alla Bocconi ) ha dichiarato che “l’Italia ha un patrimonio artistico unico al mondo, ma non sa sfruttarlo. E’ come se la Russia lasciasse arrugginire i suoi gasdotti, come se l’Arabia Saudita decidesse di non fare più manutenzione ai propri pozzi petroliferi. Perché il greggio sta a Riyad come il patrimonio artistico sta a Roma. Con una differenza: l’oro arabo continua a fluire verso l’Occidente, quello italiano è sempre più invisibile”.

In poche parole, bisogna ridurre la distanza tra cultura ed economia, che nel tempo si è, invece, sempre più dilatata.

Ma come va affrontato il problema dei beni culturali?

Per Salvemini la soluzione può essere trovata con due modalità diverse: in termini patrimoniali o in termini reddituali.

In termini patrimoniali “significa considerare il patrimonio dell’Italia, presidiarlo, manutenerlo, valorizzarlo. E’ la scuola di Salvatore Settis, davanti a cui io mi tolgo il cappello…”.

In termini reddituali significa che “la cultura, le arti, l’intrattenimento, i festival e tutto questo genere di cose ha delle ricadute economiche di reddito. Significa che producono occupazione, indotto, portano ricchezza perché attirano turisti, i quali migliorano il reddito degli albergatori che a loro volta fanno aumentare quello delle comunità locali”.

E continua con una considerazione psicologica: “Inoltre, e questo non è un effetto immediato ma non per questo è meno importante, produrre cultura aiuta a cambiare la testa delle persone. E questo è indispensabile, se pensiamo a quanto il mondo sta mutando velocemente”.

La cultura della criticità e il gregge

Noi aggiungiamo che “cambiare la testa delle persone” significa sviluppare la “cultura della criticità”, che ci fa vedere un mondo diverso dall’attuale, che ci spinge a non accontentarci dell’esistente, perché non è vero che, se una cosa esiste, essa è razionale e soddisfacente in assoluto.

Bertold Brecht affermava che “il mondo può essere cambiato solo da quelli a cui non piace”.

La consapevolezza della irrazionalità della situazione attuale, insoddisfacente ed insulsa, ci tiene lontani dal ridurre la nostra vita alla stregua della vita del gregge.

Friederich Nietzsche ha brillantemente descritto ciò che, durante la giornata e per tutta la sua vita, ripetitivamente e noiosamente, fa il gregge: “salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato al piolo dell’istante”.

Il gregge ignora l’ieri, l’oggi e il domani. Gli manca la prospettiva del futuro, la voglia di andare oltre, di aprirsi a nuovi orizzonti. E’ privo di libertà. E’ incapace di decidere se scegliere una via oppure l’altra, ma si lascia guidare dall’istinto, dagli ormoni, dal principio del piacere, dalla necessità di soddisfare ora e subito un bisogno biologico o fisiologico.

Per vivere “e-gregiamente”, per staccarci dal gregge, dobbiamo proiettarci nel futuro, liberandoci dalla massività delle percezioni e del presente, operando alla luce della “spes contra spem”, della speranza nonostante le avversità, dando, così, un senso alla nostra vita, perché essa in tal modo viene progettata da noi.

Purtroppo, questa capacità progettuale, che ci spinge ad operare per trasformare le cose intorno a noi, è tenue, se non manca del tutto, soprattutto in molti giovani.

Ciò, per un verso è un paradosso, perché la proiezione verso il futuro dovrebbe essere collegata strettamente alla giovane età; per un altro verso costituisce anche un danno enorme per la società, in quanto si affievolisce la spinta al cambiamento, all’innovazione, all’invenzione, alla creatività.

Il compito della cultura

Rispetto a queste crisi (economica, sociale, etica, esistenziale) che cosa può fare la cultura?

Salvemini fa notare che “puntare sulla cultura ha due vantaggi: da una parte, in un momento di smarrimento di senso, diventa un ancoraggio per la società; dall’altra, può ridare fiato ad alcune attività economiche, visto che qualcuno dovrà pur pensare a come saranno i nuovi distretti industriali”.

Per Salvemini, dunque, si tratta di collegare la cultura con le imprese, in maniera tale da spingere i dirigenti d’impresa a produrre oggetti che incorporino in sé un valore artistico. Ma per ottenere tale risultato, occorre che i dirigenti d’impresa siano formati culturalmente non in una sola disciplina, ma in diverse sezioni del sapere, per poter concentrare questo sapere polispecialistico nella produzione di un oggetto.

Certo, questo significa immettere nel mercato delle merci un prodotto di alta qualità, un oggetto d’élite.

Ma è questa produzione d’alta gamma che farà uscire l’Italia dalla crisi, sostiene Salvemini.

Per questo studioso “l’Italia che fa le fodere o i componenti del volante non ci sarà più nel 2030. Ci distingueremo per il diritto societario sofisticato o l’ideazione di certi manufatti particolari”.

Alla produzione di oggetti comuni penseranno altri popoli, quelli emergenti che, per una serie di ragioni socioeconomiche, li faranno costare di meno.

La politica capisce l’importanza di unire cultura e imprese?

Salvemini risponde: “In Italia, assolutamente no, tant’è che abbiamo un ministero della Cultura, indipendentemente dalla situazione attuale, sganciato da quello dello Sviluppo economico. Emblematica è la dichiarazione di alcuni ministri, per i quali la “cultura non si mangia”, ma si sbagliano di grosso. La cultura dà lavoro”.

E produce anche euro, ossia ricchezza individuale e nazionale, come riportato sopra.

La tesi della improduttività della cultura è stata spesso sostenuta da classi sociali mercantileggianti, il cui pensiero si può sintetizzare nel motto latino “carmina non dant panem”, la poesia non ci procura il piatto di pasta e fagioli.

A questa tesi si riallacciano quegli studenti che sostengono: “studere, studere, post mortem quid valere?”

A cui qualche insegnante, mantenendo lo stesso stile maccheronico degli studenti, ha risposto: “no studere, no studere, ante mortem quid magnere?”

Al di fuori di questo spirito popolar-goliardico, bisogna sottolineare che molti governi , sia europei che extraeuropei, hanno capito l’importanza della cultura e dell’istruzione, soprattutto nell’attuale società, fondata sull’economia postmoderna.

In questa economia, infatti, “conterà sempre meno il valore d’uso dei prodotti e sempre più la loro valenza simbolica, il significato culturale che gli oggetti incorporano. Per produrre oggetti del genere, bisogna conoscere”, sostiene Salvemini (Espresso, novembre 2010, intervistato da Stefano Vergine).

A suo tempo l’aveva capito Obama che nel pacchetto anticrisi aveva aumentato del 30 per cento il budget annuale del “National Endowement for Arts”.

L’aveva capito Michael Bloomberg, sindaco di New York, che aveva lanciato un piano di sostegno al settore artistico che avrebbe dovuto generare un indotto di 5, 8 milioni di dollari nel solo distretto di Manhattan.

L’aveva capito Sarkozy che aveva accresciuto del 10 per cento il contributo dello Stato francese alla cultura.

L’aveva capito la Germania che aveva aumentato le somme di denaro da destinare alla scuola, all’università, alla ricerca, alla cultura.

In Italia lo hanno capito alcuni amministratori locali. Ad esempio, il governatore della Puglia, Vendola, ha portato l “Italian Wave Love Festival” (musica rock) da Arezzo a Lecce, “perché la cultura è il destino industriale del Sud”. E’ stato assecondato in ciò dal sindaco di Lecce Perrone che ha dichiarato: “… con la cultura si mangia, perché è il comparto economico nascente”.

I nostri governanti nazionali - ci sia o no la crisi economica – invece non lo capiscono. Essi, infatti, sono sempre pronti a tagliare i fondi per le istituzioni scolastiche pubbliche e per le attività culturali in genere. Sempre guidati, consapevolmente o no, dal pregiudizio che la cultura non deve essere data a tutti e chi la vuole se la deve pagare.

E così in molte scuole pubbliche manca la carta igienica, in molte aule mancano i banchi, su molte cattedre manca l’insegnante ad inizio d’anno scolastico, si trovano classi di 40 alunni, mancano gli insegnanti di sostegno, sono state tagliate ore e materie di insegnamento, i pochi laboratori esistenti non funzionano per mancanza di personale .

Non va meglio nell’Università. In Italia - dove è stata inventata l’Università! - dobbiamo amaramente constatare che solo 1(una) Università si trova nei primi 200 posti della classifica mondiale (QS World University Rankings).

Nonostante tutto, dalle nostre Università escono spesso giovani laureati di grande valore, che, però, devono emigrare per trovare un lavoro ben retribuito.

Assistiamo, quindi, alla cosiddetta “fuga dei cervelli” che è doppiamente dannosa per il nostro Paese: spendiamo soldi per la formazione dei giovani e non ricaviamo nessun utile dalle loro capacità creative. Come dire che utilizziamo i pochi fondi messi a disposizione per arricchire gli altri Paesi!

Siamo dei grandi benefattori o degli eccezionali semplicioni (o, se preferite, minchioni) ?

Incompetenza nella gestione delle istituzioni culturali

A tutto questo enorme spreco di energie mentali creative si aggiunge il danno provocato dalla incompetenza nella gestione delle istituzioni culturali specifiche.

Secondo i giornalisti-scrittori Rizzo e Stella ( “Vandali – L’assalto alle bellezze d’Italia”, Rizzoli, 2011 ), le gallerie d’arte inglesi “Tate Britain” hanno fatturato nell’ultimo anno fiscale 76,2 milioni di euro, poco meno degli 82 milioni entrati nelle casse con i biglietti di tutti i musei e i siti archeologici statali italiani messi insieme.

A New York, inoltre, “il merchandising ha reso nel 2009 al Metrpolitan Museum quasi 43 milioni di euro, ben oltre gli incassi analoghi di tutti i musei e i siti archeologici della penisola italiana, fermi a 39,7 milioni di euro. Ristorante, parcheggio e auditorium dello stesso museo newyorkese hanno prodotto ricavi per 19,7 milioni di euro, 3 in più di tutte le entrate di Pompei… dove i servizi aggiuntivi sono stati pari a 46 centesimi per visitatore: un quindicesimo che alla “Tate” e un ventisettesimo che al Metropolitan”

Un disastro, quindi, la gestione dei Beni culturali da parte dei nostri governanti! Perciò, essi non sono “fruttiferi” come in altre nazioni, dove cultura ed economia si abbracciano e prosperano.

Taglio dei fondi o caccia agli evasori?

Si dice che, quando mancano i soldi, bisogna tagliare dappertutto.

Certo, le strutture e gli Enti inutili, i corsi di laurea ridicoli, vanno eliminati. Ma questo non può bastare.

Non sarebbe più utile tagliare l’evasione fiscale, nel senso di scovare chi non paga le tasse e costringerlo a versare nelle casse dello Stato ciò che ha rubato e continua a rubare?

Teniamo presente che l’evasione fiscale in Italia si aggira sui 100 -120 miliardi di euro ogni anno, con un calcolo teorico.

La Guardia di finanza sottolinea che gli accertamenti fiscali hanno portato a questi risultati: redditi non dichiarati per 50 miliardi (46 % in più rispetto al 2009); 8.850 evasori totali per un reddito totale di circa 20 miliardi (47 % in più rispetto al 2009).

Il tutto sarebbe sufficiente per coprire tre finanziarie, senza far pagare le tasse a chi le paga sempre.

Con il recupero di questi ingenti somme di euro evase si potrebbero diminuire, quindi, di molto le tasse sugli stipendi, sui salari, sulle pensioni, sul lavoro e, nello stesso tempo, alimentare la crescita e, quindi, l’occupazione giovanile (mentre oggi la disoccupazione giovanile è salita al 30 %, ossia 30 giovani su 100 non trovano lavoro!).

L’Italia occupa il primo posto – e non è un primato di cui andare fieri! - nella speciale classifica dell’evasione fiscale in Europa: nel 2009 l’evasione fiscale italiana era del 51,1 % del reddito imponibile non dichiarato!

Con oltre metà della popolazione che non paga le tasse, il deficit dello Stato diventa sempre più pesante e rischiamo di trovarci nella stessa situazione dell’Argentina del 2002, che dichiarò fallimento, dice Marcello De Cecco, docente di economia alla Scuola Superiore di Pisa .

Per evitare il “default”, il fallimento, dobbiamo recuperare i soldi dell’evasione fiscale; dare più euro alla scuola, all’università, alla cultura, alla ricerca; tornare a crescere economicamente; puntare verso un modello di sviluppo che privilegi più i consumi collettivi che quelli privati.

Individualismo o vita comunitaria?

L’economia globalizzata, difatti, presenta questa caratteristica: spinge verso la “immunitas”, verso l’esenzione da obblighi nei confronti degli altri a danno della “communitas hominum”, della vita comunitaria, afferma Luigino Bruni (docente di Economia all’Università Bicocca di Milano).

Egli chiarisce che la “immunitas” fonda “l’etica della libera indifferenza”, per la quale ognuno tende a distaccarsi e a non entrare in rapporto con il suo simile, perché “il rapporto è pericoloso, perché il legame con l’altro non piace e può essere troppo impegnativo e doloroso… per cui c’è un ritorno al privato, al legame privatistico, e anche la famiglia è diventata una famiglia privata, non comunitaria”.

Per contrastare questa tendenza dannosa, Bruni propone di operare per una “etica comunitaria”, che dovrebbe essere diffusa attraverso “una grande scuola comunitaria, una scuola pubblica e per tutti, con bravi docenti, anche prendendo i giovani migliori dalle Università e mettendoli nelle aule con gli studenti, a partire dall’istruzione primaria”.

Per realizzare questo programma di una grande stagione educativa, bisognerebbe, però, investire grandi somme di denaro nell’istruzione e nella cultura, se non altro per pagare bene i migliori cervelli e attirarli nella scuola.

Soprattutto, si dovrebbe spingere l’istruzione pubblica a formare la “classe sociale della conoscenza”, la forza lavoro dei “knowledge workers”, lavoratori della conoscenza: ricercatori scientifici, progettisti, ingegneri civili, analisti di software, ricercatori biotecnologici, specialisti in pubbliche relazioni, consulenti direzionali, fiscalisti, banchieri d’affari, architetti, esperti di pianificazione, specialisti di marketing, produttori cinematografici, art director, editori, scrittori, giornalisti. E’ questo il pensiero di Jeremy Rifkin ( “La fine del lavoro”, La biblioteca di Repubblica, 2007).

Per questo economista “l’importanza della classe della conoscenza nel processo produttivo diventa sempre più grande, mentre il ruolo dei due gruppi tradizionali dell’era industriale – fornitori di capitale umano e di capitale finanziario – diventa sempre meno rilevante… i knowledge workers sono gli elementi catalizzatori della Terza rivoluzione industriale… sono i creatori della proprietà intellettuale, gli uomini e le donne le cui idee e conoscenze alimentano la società informatica”.

Ma questo da noi non si fa. Anzi, si tende a far ingrossare sempre più la categoria non qualificata dei “working poors”, non dei “poveri puri e semplici”, ma dei “lavoratori poveri” – spesso giovani e laureati - costretti a farsi sfruttare, a vivere alla giornata, a chiedere “protezione” a chi in cambio gli chiederà “fedeltà”.

Nasce, così, il sistema politico e giuridico delle disuguaglianze funzionale alla forma di governo che tende a cristallizzare, ad ingessare e a perpetuare tale situazione, per manovrare la precarietà e impedire quello che i sociologi chiamano “l’ascensore sociale”, ovvero la dinamicità delle classi sociali.

Un governo politico progressista, invece, dovrebbe occuparsi soprattutto della “crescita pubblica, senza la quale non c’è crescita civile”, sottolinea Bruni (Gli autori citati, se non diversamente indicato, si trovano in “Nuovo Consumo”, 2010).

Come si vede da queste brevi note, il tema della cultura non è un argomento che possa essere affrontato e risolto metafisicamente, librandosi nel cielo delle elucubrazioni cervellotiche ed autistiche.

Quello della cultura deve essere trattato come un problema complesso, legato com’è all’economia, all’etica, all’estetica, all’impegno politico nazionale, alla esistenza individuale, senza dimenticare i diritti universali. Bisogna, certo, soddisfare i bisogni e superare gli stati di necessità di tutti, ma rispettare anche le differenze culturali.

In una recente intervista ( “il manifesto”, marzo 2013), il grande sociologo Alain Touraine ha affermato che nella attuale crisi politica stiamo assistendo alla “centralità della dimensione culturale, etica del nostro stare insieme”. Proprio perché ci troviamo in una situazione sempre sull’orlo della catastrofe, “l’obiettivo è costruire una “polis”, cioè una dimensione politica ancorata all’universalismo delle differenze… in modo da combinare i diritti civili, politici e sociali affermati nella modernità con la salvaguardia dei diritti delle comunità”.

L’impegno per tutti noi, dunque, dovrebbe essere quello di far rivivere quella che è la parte più nobile e civile della nostra storia e che ci ha sempre distinti nel corso dei secoli: la cultura.

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Hyperion Cantos parte 2

6 Ottobre 2014 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #fantascienza, #saggi

Hyperion Cantos parte 2

Nel primo articolo si era concluso il viaggio dei pellegrini e la bambina Aenea aveva attraversato l'ingresso della Sfinge per catapultarsi trecento anni più avanti, incontro al suo destino. Per quanto riguarda le opere di Keats, eravamo partiti da due opere molto tarde, Hyperion e La caduta di Hyperion. Vedremo qui come Keats arriva ai concetti espressi nei due poemi, il raggiungimento dei massimi livelli del suo pensiero e della produzione poetica e come tutto questo si intreccia con il destino di due amanti e con la salvezza dell'umanità.

Endymion

Keats tratta per la prima volta il mito di Endimione in un poema del 1816 dal titolo I stood tip-toe, un lavoro influenzato dalle idee e lo stile di William Wordsworth. Il poema racconta del matrimonio tra un mortale, Endimione, e la Dea della Luna, Cinzia.

Nel 1817 il mito viene ripreso e questa volta Keats si propone di scrivere un poema lungo quattromila versi, intitolato Endymion. La storia parte dagli stessi presupposti, un giovane, un pastore, si innamora della Dea della Luna e ne è ricambiato. Dopo una lunga serie di avventure, durante le quali la Dea è diventata un'irraggiungibile illusione, il protagonista si innamora di una ragazza umana e abbandona ogni velleità di raggiungere la Dea. Il poema si conclude quando la ragazza si rivela essere la sua amata Cinzia, e i due possono finalmente raggiungere il mondo divino.

Endymion è il primo lavoro in cui Keats esplicita uno dei principi base della sua filosofia, un tema ricorrente in tutte le sue opere maggiori: la necessità di accettare la mortalità e le sofferenze per trascenderli e raggiungere una bellezza superiore.

I canti di Hyperion parte III

Il terzo libro, Endymion, inizia tre secoli dopo il viaggio dei pellegrini alle Tombe del Tempo e la guerra tra Egemonia e Ouster. La bomba ai raggi della morte ha distrutto la sfera-dati e i teleporter, provocando la caduta del governo dell'Egemonia e notevoli disagi per tutti i pianeti a funzione burocratica e, in generale, non autosufficienti. Il potere si è riorganizzato in una nuova confederazione, la Pax, a capo della quale si trova la Chiesa Cattolica, guidata da papa Giulio XIV. Il potere della Chiesa, spirituale ma anche temporale, è basato sul sacramento della resurrezione: il crucimorfo, il parassita scoperto da Padre Durè e portato da Padre Lenar Hoyt in pellegrinaggio, è stato modificato: non causa più il degrado delle capacità mentali e sessuali ed è diventato il simbolo del nuovo Cattolicesimo. Secondo la nuova dottrina, predicata in ogni pianeta della vecchia Egemonia ancora abitabile, Dio ha donato il crucimorfo all'uomo, mantenendo la promessa di vita eterna fatta migliaia di anni prima. Chi ha ricevuto il sacramento, e porta il crucimorfo sul petto, al momento della morte può essere inserito in una speciale macchina in grado di riportare in vita la persona, ricostruendone la personalità, i ricordi, l'aspetto fisico e ogni altra caratteristica personale. Grazie al crucimorfo il papa è da circa tre secoli la stessa persona: Giulio XIV è padre Lenar Hoyt, giunto alla sua nona incarnazione e rielezione.

Raul Endymion è un nativo di Hyperion, pianeta periferico dove l'influenza della Pax non è fortissima, nato fra le tribù nomadi che ancora abitano le parti più remote del pianeta e poi spostatosi in città in cerca di lavoro. Il crucimorfo non è mai stato accettato fra queste tribù e Raul non fa eccezione. Al momento, è una guida per turisti ricchi interessati a esplorare le zone più selvagge del pianeta e andare a caccia. I problemi iniziano quando uccide un uomo, uno straniero ricco che ha messo in pericolo la vita della guida durante una battuta di caccia, e rischia di essere condannato alla vera morte, poiché l'assenza del crucimorfo rende impossibile una resurrezione. Viene salvato dal poeta Martin Sileno, uno dei leggendari pellegrini, che usa le sue ricchezze per corrompere le autorità e trarre in salvo Raul. Come ricompensa, il poeta gli chiede di svolgere alcuni compiti:

  • Trovare prima della Pax e proteggere la bambina di nome Aenea, quando uscirà dalle Tombe del Tempo
  • Trovare la Terra, mai distrutta secondo il poeta, e riportarla al suo posto
  • Scoprire i piani del TecnoNucleo e impedire la loro realizzazione
  • Chiedere agli Ouster di donare l'immortalità, quella vera, non il crucimorfo, per il poeta
  • La distruzione della Pax e l'abbattimento del potere della Chiesa
  • Impedire allo Shrike di nuocere a Aenea o distruggere la razza umana

Non avendo altra scelta, Raul accetta, e fugge dal pianeta insieme alla bambina con l'astronave messa a disposizione dal poeta. Il viaggio li condurrà attraverso molti pianeti, sfruttando la rete teleporter, riattivatasi misteriosamente per consentire solo il loro passaggio, seguendo il percorso dell'antico fiume Teti, una “via d'acqua” unita da una serie di teleporter che permetteva di attraversare diverse centinaia di pianeti della vecchia Egemonia. Per tutto il viaggio verranno inseguiti dalla Pax, capace di sviluppare un nuovo motore in grado di viaggiare a velocità superiori a quelle permesse dal motore Hawking e in grado di trasportare una nave in poche ore da una parte all'altra della federazione. Le velocità raggiunte da queste navi, dette Arcangelo, causano la morte dell'equipaggio, e solo chi è portatore del crucimorfo può utilizzarle, perché dotate al loro interno, come ogni nave della Pax con una sezione medica, dei macchinari per la resurrezione.

Su uno dei pianeti visitati la nave dei due giovani viene danneggiata e sono costretti ad abbandonarla per proseguire il viaggio, poiché il processo di autoriparazione sarà lungo diversi mesi. Dopo essere quasi sfuggiti alla morte su altri due pianeti, raggiungono la Terra attraverso un teleporter, dove Aenea sa di dover passare alcuni anni per completare la sua formazione e diventare Colei Che Insegna, titolo datole dal padre, il cìbrido Keats, e da lei sempre rifiutato.

Capacità Negativa

All'improvviso capii quale qualità è necessaria per un Uomo di Successo, almeno in campo letterario, e che è tanto forte in Shakespeare – intendo la Capacità Negativa, ovvero quando un uomo è in grado di convivere con le incertezze, i misteri, i dubbi, senza alcun deplorevole tentativo di cercare la logica o la verità.”

Colpito dal genio di Shakespeare, Keats tenta di spiegare cosa lo affascini tanto del lavoro del Bardo in una lettera del 1817 al fratello. È la prima volta che Keats usa l'espressione Capacità Negativa, ma questo concetto diventerà il simbolo del suo pensiero e sarà rispecchiato in tutte le sue opere successive.

Con Capacità Negativa Keats intende un particolare approccio, basato sull'accettazione della realtà, dei suoi conflitti e delle sue sofferenze, senza il desiderio di trovare una spiegazione logica o ascrivibile a verità, necessario alla produzione artistica di ogni poeta. La parola dubbio usata nella lettera rappresenta, per definizione, un conflitto fra elementi diversi, senza che uno di questi sia in grado di prevalere sugli altri. Secondo Keats per creare vera poesia è necessario rimanere in quello stato di dubbio, di conflitto, senza provare a spiegarlo. Una spiegazione sarebbe, infatti, un tentativo di imporre l'io del poeta, chiudendo la strada all'immaginazione e alla creatività.

In un'altra lettera Keats sostiene che:

Il carattere poetico... non ha un io – è tutto e niente – non ha carattere e apprezza luce e ombra, vive con entusiasmo, sia esso gradevole o disgustoso, alto o basso, ricco o povero, sublime o volgare – prova lo stesso piacere nel creare uno Iago come una Imogene. Ciò che turba il filosofo virtuoso delizia il camaleontico Poeta... Un Poeta è la creatura meno poetica di tutte, perché non ha identità, si trova sempre all'interno di un qualche altro corpo.”

Da questi due passaggi si può dedurre che la Capacità Negativa, così come viene concepita da Keats, è una delle forme più estreme di empatia, poiché l'empatia è, per definizione, la capacità di comprendere e provare le idee e i sentimenti di un'altra persona. Ad ogni modo, Keats non applicava questo principio solo agli esseri umani ma a ogni esperienza mortale, perché solo accettando la mortalità, i suoi tempi e i suoi cicli di gioia e sofferenza, si può creare la sublime bellezza che è arte. E proprio la natura temporanea della bellezza, la consapevolezza di una sua inevitabile fine, è il motivo per cui è necessario viverla con tanto entusiasmo e trasporto.

Il concetto di Capacità Negativa è alla base delle sei grandi Odi del 1819, che, in un crescendo, porteranno Keats a raggiungere le più alte vette della sua produzione poetica in giovanissima età, poco tempo prima della sua morte.

Le Odi

Le odi rappresentano la forma più elevata di lirica poetica, e sono la forma di espressione poetica delle emozioni e dei sentimenti. La definizione stessa di ode si adatta con tale precisione al pensiero di Keats che non deve sorprendere se le sei odi del 1819, le prime cinque scritte tra aprile e maggio e l'ultima nel settembre dello stesso anno, sono considerate il punto più elevato della produzione del poeta. Le sei odi sono: On Indolence, To Psyche, To a Nightingale, On a Grecian Urn, On Melancholy, To Autumn. Tutte queste, a vari livelli, trattano i temi che sono sempre stati al centro del pensiero del poeta: la bellezza, la natura, l'eternità dell'arte in contrapposizione alla mortalità umana, il rapporto tra gioia e dolore, il ruolo del poeta e il potere dell'immaginazione.

On Indolence

Da un punto di vista dei contenuti è la prima delle odi, perché introduce tutti i temi e le immagini che saranno trattati in seguito, posti di fronte al poeta come tentazioni alle quali resistere. La storia è molto semplice: un giovane passa pigramente una calda mattina d'estate quando vede tre figure, Amore, Ambizione e Poesia, passare accanto a lui. Osservandole sente il desiderio di seguirle, ma resiste, vinto dalla pigrizia.

Il poeta sembra sostenere che uno stato di inattività e insensibilità è preferibile alla possibilità di abbandonarsi all'amore, all'ambizione e alla poesia. Amore e ambizione vengono rifiutate perché obbligherebbero il narratore a vivere la vita intensamente e accettare la sua inevitabile fine, quando lui preferisce rimanere immobile e ignorante. Per questo motivo Poesia è la più pericolosa delle tre, perché non è mortale, è la nemesi della pigrizia e richiederebbe una intensità delle esperienze e sensazioni ancora maggiore rispetto alle altre due figure. L'insistenza delle tre figure, le loro continue apparizioni, indicano che il poeta dovrà cedere alla tentazione delle tre, vivendo il dolore e la frustrazione della mortalità umana prima di raggiungere l'immortalità dell'arte.

Questa ode, per le immagini che evoca e il suo significato, può essere considerata una prefazione alle altre cinque odi, nelle quali il narratore abbandona il suo stato inerte ed esplora i temi dell'amore, dell'ambizione e dell'arte.

To Psyche

Keats riprende il mito di Psiche, la donna amata e abbandonata da Cupido e che, dopo una lunga serie di vicissitudini, si è riunita all'amato ed è stata ammessa in paradiso. Il poeta si trova a camminare in una foresta quando incontra i due amanti, colti in un momento di intimità, e ne descrive la scena evocando immagini e sensazioni volte a esaltare il desiderio e la tensione sessuale. Riflettendo su quello che la ninfa non ha mai avuto, ammessa in ritardo in paradiso, quando ormai l'epoca degli dei era finita, il poeta decide di costruire per lei un tempio in cui Psiche possa ricevere gli onori che merita.

Questa ode si ricollega a un concetto, espresso in una lettera del Maggio 1819 ma molto diffuso nella cerchia di poeti frequentata da Keats, in cui il poeta sostiene che il credo Cristiano in una ricompensa oltre la morte non può giustificare le sofferenze umane. Keats contrappone alla concezione Cristiana della vita come luogo di dolore (“vale of tears”) quella di luogo di crescita delle anime (“vale of soul-making”). Solo aprendosi alla natura, all'amore, alla sessualità e attraverso di questi sviluppare una consapevolezza di sé, il poeta si può elevare a livello del divino. La storia di Psiche, l'amore per Cupido, le difficoltà prima essere riunita all'amato e l'ascensione in paradiso diventano una rappresentazione mitica di questo concetto.

To a Nightingale

Il poeta parte da una situazione iniziale di insensibilità, da cui viene destato dal canto di un usignolo. Il risveglio però non rigenera il narratore, ma anzi lo conduce a una lunga riflessione sul potere dell'immaginazione umana. Quando il poeta cerca di seguire il canto, affidandosi all'arte e all'immaginazione si ritrova perso in un'oscurità di sensazioni che rimandano alla morte. L'usignolo, appartenente a un modo diverso e antico, è immortale e quindi non è affetto da questi rimandi, mentre il poeta tenta allo stesso tempo di trascendere la vita per poter creare l'arte e rimanere consapevole di sé. Quando il narratore comprende la natura immortale dell'usignolo e il suo lontano splendore, ritorna violentemente al presente e al proprio io, domandandosi se l'esperienza sia stata reale o meno, mentre l'uccello vola via.

Il messaggio che Keats vuole trasmettere è che, per quanto l'immaginazione, creando stabilità e bellezza, possa permettere all'individuo di provare le più elevate sensazioni, come il canto dell'usignolo, la dimensione temporale è imprescindibile. L'immaginazione tenta l'individuo con la bellezza creata, pur essendo impossibile per l'uomo provare altro che tempo e cambiamento. Se quindi la bellezza e l'arte hanno una funzione di riscatto dell'esperienza umana, questo è possibile solo attraverso una maggiore comprensione di noi stessi e dei paradossi della natura, e non in una realtà trascendente (come quella proposta dal Cristianesimo nell'idea di vita dopo la morte).

On a Grecian Urn

Gli stessi temi di To a Nightingale vengono ripresi qui da un punto di vista differente. In questo caso il poeta trova un'urna su cui si trova una narrazione per immagini, le scene rappresentano una danza e l'inseguimento di un gruppo di donne. Nonostante la rappresentazione suggerisca un movimento, il narratore sottolinea l'immobilità, spaziale e temporale, a cui sono costrette le figure, e quindi il paradosso di una rappresentazione umana in una condizione impossibile per l'uomo, che può esistere solo nel tempo e nel cambiamento. Le domande del poeta restano senza risposta, e anche quando egli prova a immaginare una realtà atemporale, trova una città vuota e silenziosa, priva di umanità. L'urna, attraverso le immagini e il fallimento dell'immaginazione nel trovare una dimensione umana alla rappresentazione, rivela l'impossibilità di una connessione tra natura umana e bellezza eterna.

On Melancholy

L'unica ode ad usare l'imperativo, è un invito all'azione, a non lasciarsi travolgere dalla tristezza, elencando nella prima parte una serie di azioni da evitare, e nella seconda e terza strofa suggerendo approcci alle situazioni che generano questo stato d'animo: pur consapevoli, della mortalità della bellezza e la gioia umana, è importante goderne finché è possibile invece di rifugiarsi in uno stato di depressione. Nell'ultima strofa il poeta spiega come la gioia sia tanto acuta e travolgente perché destinata a finire, come la bellezza sia più desiderabile perché destinata a sfiorire. È l'ultimo stadio dell'accettazione della condizione umana, la capacità di accettare la brevità della gioia e della bellezza mortale, di cercarla e amarla maggiormente per il periodo in cui è possibile viverla, prima dell'inevitabile trasformazione in dolore e sofferenza.

To Autumn

È l'ultima ode e, di fatto, l'ultima opera di Keats, dove riprende il tema di On Melancholy: il narratore descrive un paesaggio autunnale, ricco di vita e di frutti, lo contempla, pone domande ma sono il paesaggio, i suoni, gli odori e le attività di raccolta a fornire le risposte. Non c'è la fretta nell'ottenere le risposte presente in To a Nightingale, né la natura aliena dell'urna greca a rendere impossibile la comunicazione. Questa ode esprime un'accettazione dei processi naturali e posiziona l'esperienza umana all'interno dei cicli temporali della natura, rimette l'uomo all'interno dello spazio e del tempo che gli appartengono.

I canti di Hyperion parte IV

Stella Lucente

Dopo aver completato il periodo di formazione sulla Terra, Aenea inizia a vagare su vari pianeti, in incognito, entrando in contatto con molte persone che andranno a formare un primo circolo di seguaci, per quanto la giovane donna rifiuti di essere considerata una divinità o un profeta. Di pianeta in pianeta, le sue parole raggiungono migliaia di persone che rifiutano il controllo del TecnoNucleo e della Pax e, convinte dalle sue parole, scelgono di liberarsi per sempre del crucimorfo. Alcune persone la seguono nei suoi viaggi, fino a stabilirsi con lei su un pianeta alla periferia della Pax, culla del credo buddhista originale e residenza del Dalai Lama.

Qui diventerà la guida spirituale più importante, a cui persino il Dalai Lama bambino farà ufficiosamente riferimento. Qui aspetterà il ritorno di Raul, inviato a recuperare l'astronave, abbandonata su un pianeta sconosciuto e mezzo di trasporto fondamentale nei viaggi che ancora la aspettano. Per Aenea passeranno cinque anni prima del suo ritorno, il tempo di iniziare a diffondere in modo capillare il suo messaggio e di trasformarsi in una giovane donna. Qui Aenea e Raul iniziano a vivere la storia d'amore, emblema di un legame che è unione di sentimenti e fisicità in un estasi romantica e sublime. Aenea è la stella intorno a cui ruotano le speranze dell'umanità, in grado di fare luce su quest'epoca buia, il centro dei pensieri, dei sentimenti, dei desideri di Raul così come lui è per lei.

Il TecnoNucleo e la Pax

La Pax ha lanciato una crociata contro gli Ouster, a cui Aenea si è unita in quanto alleati naturali nella lotta contro il crucimorfo. Nei suoi discorsi Aenea spiega come il parassita sia un nuovo tentativo di continuare lo sfruttamento dei cervelli umani fallito in precedenza con la distruzione dei teleporter ordinata da Meina Gladstone. Attraverso il parassita il Nucleo può controllare l'essere umano, registrarne ogni sua azione, sfruttarne le energie, fare esperimenti di qualsiasi tipo. Il crucimorfo è lo strumento perfetto per schiavizzare l'essere umano, costruito con lo scopo di mimetizzarsi con il credo Cristiano, scudo ideale per chi, dopo gli eventi che hanno segnato la fine dell'Egemonia, ha tutto l'interesse ad agire nell'ombra.

Inoltre, il Nucleo sfrutta il Vuoto che Lega in modo distruttivo. Il Vuoto che Lega, o Spazio di Planck, è un luogo fisico, “un ambiente multidimensionale con realtà propria e con topografia propria”. I vari strumenti, considerati dall'uomo come grandi avanzamenti tecnologici, che permettevano spostamenti di dati, oggetti o persone a velocità superiori della luce, sono violazioni dello spazio di Planck. Il Nucleo, autore del progetto e della realizzazione del motore Hawking, sapeva che questa tecnologia era un fallito tentativo di creare una porta verso questo spazio. Aenea paragona il motore Hawking al tentativo di “muovere un vascello oceanico provocando una serie di esplosioni a poppa e cavalcando le onde d'urto”. Gli Astrotel, le comunicazioni istantanee tra pianeti attraverso il Vuoto che Lega, equivale a “comunicare da un capo all'altro di un continente per mezzo di terremoti artificiali”, né sono mai esistiti migliaia di portali teleporter, ma solo uno, simile al “raggio di una torcia fatto lampeggiare qua e là rapidamente in una stanza chiusa”.

Il Vuoto che Lega rappresenta lo spazio ideale per il TecnoNucleo, che non avrebbe più avuto bisogno di esseri umani e strumenti fisici per viaggiare, ma durante le prime caute esplorazioni scoprì la presenza di altre creature, entità aliene, incomprensibili, pericolose. Furono queste entità a salvare la Terra dalla sua distruzione progettata dal Nucleo. Questo evento spaventò definitivamente le IA, che compresero come queste entità fossero in grado di manipolare tempo e spazio a loro piacimento e disponessero di risorse di energia inimmaginabili. Questa scoperta costrinse il Nucleo a tornare alla propria origine di parassita e continuare a sopravvivere sfruttando gli esseri umani. Da qui, la necessità dei teleporter prima e del crucimorfo poi: il Nucleo ha bisogno di una specie umana statica e docile per potersene cibare.

Per questo gli Ouster rappresentano una minaccia: questo gruppo discende dai primi coloni, inviati in crio fuga negli anni precedenti l'incidente che causerà l'apparente distruzione della Terra. Giunti ai limiti delle loro risorse, avendo fallito nella loro missione di trovare nuovi pianeti abitabili, posti di fronte alla scelta di morire o modificare i propri corpi utilizzando un misto di ingegneria genetica e nanotecnologie, hanno scelto quest'ultima. Non hanno trovato pianeti adatti alla vita umana, quindi hanno modificato l'uomo per adattarsi ai pianeti. Per lo stesso motivo, Aenea è una minaccia. Non si tratta solo della distruzione dei crucimorfi.

Il Vuoto che Lega

In un tempo che fu c'era il Vuoto. E il Vuoto era al di là del tempo. In senso proprio, il Vuoto era un orfano di tempo, un orfano di spazio.

Ma il Vuoto non era di tempo, non era di spazio e certamente non era di Dio. Neppure il Vuoto che Lega è Dio. In verità, il Vuoto si sviluppò molto dopo che tempo e spazio picchettarono i confini dell'universo; ma, non legato al tempo, non imbrigliato nello spazio, il Vuoto che Lega è filtrato all'indietro e in avanti da una parte all'altra del continuum fino all'esplosione primordiale e al piagnucolio finale.

Il Vuoto che Lega è una cosa dotata di mente. Proviene da cose dotate di mente, molte delle quali furono a loro volta create da cose dotate di mente.

Il Vuoto che Lega è cucito di materia quantica, intrecciato di spazio di Planck, di tempo di Planck, si trova sotto e intorno lo spaziotempo come l'involucro di una coperta trapunta è intorno e sotto l'imbottitura di ovatta. Il Vuoto che Lega non è né mistico né metafisico, sgorga dalle leggi fisiche dell'universo e risponde a quelle stesse leggi, ma è un prodotto di quell'universo in evoluzione. Il Vuoto è strutturato da pensiero e sentimento, un prodotto della consapevolezza di sé dell'universo. E non semplicemente di pensiero e sentimento umani: il Vuoto che Lega è composto di centomila specie senzienti in miliardi di anni di tempo. È l'unica costante nell'evoluzione dell'universo, l'unico terreno comune per le specie che si svilupperanno, cresceranno, fioriranno, appassiranno e moriranno, milioni di anni e centinaia di di milioni di anni luce una dall'altra.

Quale sia la forza legante e la porta d'ingresso al Vuoto che Lega fu intuito da Sol alla fine del secondo libro: l'amore. Nonostante questo, non riuscì ad accedervi perché, lui come molti altri, non era dotato della “capacità sensoriale di vedere chiaramente il Vuoto che Lega”. Aenea sostiene che molte persone, quelle dotate di “cuore e mente aperti” hanno colto immagini del Vuoto. Questo perché “come lo zen non è una religione ma è religione, il Vuoto che Lega non è uno stato della mente, ma è stato di mente. Il Vuoto è tutta probabilità come onde stazionarie, interagisce con quel fronte d'onda stazionario che è la mente e la personalità umane. Il Vuoto che Lega è toccato da tutti noi che hanno pianto di felicità, che hanno detto addio a un amante, che si sono esaltati nell'orgasmo, che sono stati sulla tomba di una persona amata, che hanno visto il proprio figlio aprire gli occhi per la prima volta”.

L'uomo

È questo il centro del pensiero di Aenea, il virus di cui lei è fisicamente portatrice: nel suo corpo esistono disposizioni uniche di DNA e agenti virali nanotecnologici, bevendo anche una sola goccia del suo sangue l'essere umano ne è infetto e diventa a sua volta portatore. Nel giro di poche ore questi agenti generano il cambiamento, provocano l'avvizzimento e la perdita del crucimorfo e spingono l'uomo verso una nuova fase evolutiva, provocando una frattura netta con il passato. Per quanto questo processo venga definito “comunione”, e del resto il gesto stesso richiama il rito Cristiano, si notano due differenze: primo, questa scelta garantisce una vita mortale attraverso l'abbandono del parassita, al contrario del rito Cristiano; secondo, nel momento in cui si accetta la “comunione” si è portatori del cambiamento e si può usare il proprio sangue per “comunicare” altre persone. L'uomo viene riportato alla sua natura, riposizionato all'interno del ciclo naturale di vita e morte, gioia e perdita di cui è parte, al contrario dell'abominio del crucimorfo, e viene spinto verso il cambiamento, verso una nuova evoluzione, impossibile da prevedere.

Attraverso questo processo il Vuoto che Lega ritorna centrale alla vita umana e grazie al Vuoto è possibile rimanere in contatto con altre forme di vita, umane e non, ed è possibile viaggiare fisicamente nell'universo, ascoltando le voci e la musica della vita, entrando nello Spazio di Planck, e uscendone in un altro luogo. L'unica restrizione a questo principio è che il viaggiatore deve già avere un'esperienza diretta della destinazione, o deve essere guidato da qualcuno che la possiede. Infatti, se l'amore è parte della materia dell'universo, è l'empatia a rendere possibile lo spostamento, ma l'empatia verso qualcosa di sconosciuto è impossibile.

Conclusione

Aenea si eleva al di sopra degli altri esseri umani per le sue conoscenze e per la sua natura messianica, ma nonostante tutto è un essere umano, è carne e sangue. Keats ha spesso definito il poeta come un mortale capace di avvicinarsi al divino. In questo caso, il poeta insegna agli altri uomini come abbracciare la realtà mortale, trascendere le sofferenze e comprendere la materia dell'universo per accedere al Vuoto che Lega. E proprio Raul è metafora di questo passaggio, lui che meglio degli altri conosce la natura umana di Aenea, non riesce per molto tempo a capire quale sia il messaggio. Sarà uno degli ultimi a bere il sangue di Aenea, e solo alla fine, quando tutto sembra perduto, riesce a mettere in pratica i suoi insegnamenti, primo uomo a entrare nel Vuoto che Lega e a spostarsi nello spazio attraverso di esso, lui proveniente da una tribù di pastori.

Keats chiamerebbe Capacità Negativa l'abilità necessaria all'uomo per accedere allo spazio di Planck, perché è lo stesso principio teorizzato dal poeta a permetterlo. Il Vuoto è formato dai pensieri e sentimenti di ogni specie esistente nell'universo, entrarvi significa abbandonare il proprio io e sentire, percepire i pensieri e i sentimenti di tutte quelle specie. Alcuni, quelli proveniente da umani o specie simili, saranno facilmente interpretabili, altri meno, ma solo attraverso questo legame empatico è possibile viaggiare attraverso il Vuoto senza causare i danni che le rozze tecnologie del Nucleo provocavano.

Epilogo

Ho speso molte parole per arrivare a questo punto e ho appena scalfito la superficie dei Canti e delle produzione poetica di Keats. Non una parola sullo stile, sui personaggi, sulla diversità dei mondi, sui viaggi nello spazio e nel tempo, sui paradossi, sul pensiero politico di Keats, sulla metrica, sui versi. Lo spazio è finito molte righe fa, e forse anche il vostro tempo e la vostra pazienza. Quale sia il destino di Aenea e Raul, come vivranno e come si concluderà il loro viaggio e la loro storia lo lascio scoprire a voi.

Una bel racconto è una gioia per sempre:

la sua bellezza aumenta; mai nel nulla

si perderà, sempre per noi sarà

rifugio quieto, e sonno pieno di sogni

dolci, e tranquillo respiro, e salvezza.

But when the melancholy fit shall fall	   Sudden from heaven like a weeping cloud,	 That fosters the droop-headed flowers all,	   And hides the green hill in an April shroud;	   Or on the rainbow of the salt sand-wave,	     Or on the wealth of globed peonies;	 Or if thy mistress some rich anger shows,	   Emprison her soft hand, and let her rave,	     And feed deep, deep upon her peerless eyes.

But when the melancholy fit shall fall Sudden from heaven like a weeping cloud, That fosters the droop-headed flowers all, And hides the green hill in an April shroud; Or on the rainbow of the salt sand-wave, Or on the wealth of globed peonies; Or if thy mistress some rich anger shows, Emprison her soft hand, and let her rave, And feed deep, deep upon her peerless eyes.

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Breaking bad ai tempi di un Memento mori globale

21 Maggio 2020 , Scritto da Guido Mina Di Sospiro Con tag #guido mina di sospiro, #televisione, #il mondo intorno a noi

 

 

 

 

Tradotto da Patrizia Poli dall’originale Breaking Bad during a Time of Global Memento Mori, pubblicato nel numero di giugno, 2020, della rivista New English Review.

 “Quanti funerali passano davanti alle nostre case? E tuttavia non pensiamo alla morte. Quante morti premature?” Così scriveva Seneca duemila anni fa. Prima di lui, Platone, discutendo della morte di Socrate, nel Fedone, affermava che “i veri filosofi sono sempre intenti alla pratica di morire” .

La morte è stata al centro della filosofia occidentale e di tutte le religioni e le mitologie. Siamo tutti gravati da un memento mori, ma la maggior parte di noi cerca di dimenticarlo, fino a quando non siamo posti, direttamente o indirettamente, di fronte all’inevitabilità della morte. In tempo di pandemia, il memento mori, assunta la forma di un virus, si è acutizzato, poiché siamo tutti ansiosi circa il nostro benessere e quello dei nostri cari. Siccome la pandemia è coincisa con una quarantena, ci siamo ritrovati con molto tempo a disposizione. Oltre alla lettura, alla scrittura, all’ascolto della musica e alla preparazione di insolite ricette di cucina, ho fatto una maratona di alcune serie televisive. Breaking Bad, che ha vinto più premi di qualsiasi altra produzione e che è stata immensamente popolare, mi è sembrato un buon punto di partenza. Ora sono in grado di affermare che può essere considerata una rappresentazione della cultura occidentale agli albori del 21° secolo.

Vari sono i temi che ritengo emblematici. Il memento mori diventa all’improvviso molto pressante nella mente di Walt, l’insegnante di chimica delle superiori, quando gli viene diagnosticato un cancro polmonare inoperabile allo stadio tre. Circa cento anni prima, Thomas Mann aveva trattato il problema della malattia e dell’imminenza della morte ne La montagna incantata da un punto di vista metafisico e filosofico, con ogni personaggio principale nel sanatorio che impersona una diversa corrente filosofica. All’inizio del 21° secolo, Vince Gilligan e gli altri creatori di Breaking Bad trattano lo stesso tema della malattia e dell’imminenza della morte con la decisone, da parte di Walt, di diventare un produttore di metanfetamina.

Il pragmatismo americano – il non abbiente Walt intende lasciare soldi a sua moglie e ai suoi figli – al posto delle riflessioni ontologiche ed escatologiche. Per uno che ha studiato tutta la vita religioni comparate, mitologia e filosofia, una tale scelta sembra stupefacente. Ma, d’altra parte, è giusto paragonare Thomas Mann a Vince Gillian e ai suoi colleghi? L’ambiente europeo del post prima guerra mondiale agli Stati Uniti degli inizi del ventunesimo secolo? È giusto paragonare un’opera magna letteraria di immenso respiro con una serie televisiva? Considerando quanto hanno scritto di quest’ultima i critici, direi di sì, dal momento che hanno preso Breaking Bad molto sul serio. Forse perché contiene elementi di ciò che oggi passa per “literary fiction”, o narrativa letteraria (le mie opinioni a riguardo sono espresse nel saggio Contro gli scrittori che contemplano il proprio ombelico e pubblicano romanzi che sono un inventario di banalità, con la prosa di un bambino di seconda media. Ovvero: sul declino della “narrativa letteraria”). Il tempo dedicato al motivo della metanfetamina – la sua produzione e distribuzione e tutti i personaggi sgradevoli ma coloriti che queste comportano – è più o meno lo stesso di quello dedicato alle dinamiche della  famiglia di Walt: la moglie, i due figli, il cognato e la cognata. E tali dinamiche sono sviluppate nello stile di quella che oggi passa per narrativa letteraria: molta angoscia suburbana e complicazioni che aspirano all’universalità di uno Shakespeare o di un Cervantes, ma posano su spalle molto inadeguate. Walt e Hank, suo cognato, non sono né Amleto né Don Chisciotte. La gente comune non è in grado di occuparsi di problemi filosofici semplicemente perché non sa che la filosofia esiste, come d’altronde la gran parte degli americani. 

Ma, dopo tutto, la filosofia non è forse concepita solo per una elite? Il dramma La vida es sueño (La vita è sogno) di Calderon de la Barca fu estremamente popolare quando esordì nel 1635 e da allora  è rimasto nel repertorio teatrale come un classico senza tempo. I suoi motivi principali sono distintamente filosofici: il tema religioso preponderante nella vita di allora, ovvero il libero arbitrio contro la predestinazione; e il concetto di vita come sogno, che si può ritrovare nell’Induismo, nel Buddismo, in Eraclito, in Platone e, più a ridosso dei tempi di de la Barca, in Cartesio con il suo inquietante argomento del sogno, vale a dire: se nel sogno il mondo ci sembra reale e ci rendiamo conto che è irreale solo al risveglio, come facciamo a essere sicuri che quando siamo svegli siamo veramente svegli? Troppo complesso per lo spettatore comune? A giudicare dal successo del drama, il secolo d’oro della Spagna deve aver prodotto delle platee piuttosto sofisticate.

Ma torniamo ad Albuquerque e alle imprese dei narco. Breaking Bad è infarcito di incongruenze fin dall’inizio: Walt, da giovane, è stato un genio ma poi non è riuscito nella vita per motivi che non sono ben spiegati, o non sono spiegati affatto; suo cognato è, a favor di trama e di suspense, un agente della DEA; Walter Jr, il figlio adolescente di Walt e di sua moglie Skyler, soffre di paralisi cerebrale; Skyler rimane incinta a oltre quarant’anni e, sebbene la sua sia una gravidanza non programmata e sia lei sia Walt non siano affatto religiosi, non abortisce.

Confesso di essere rimasto affascinato da Pablo Escobar, una sorta di don Chisciotte malvagio, e di aver letto parecchi libri su di lui, principalmente in spagnolo, dato che i gringos sembrano del tutto incapaci di comprendere che tipo di personaggio fosse. Sebbene ciò che Escobar ha fatto nella vita sia più strano di uno stesso romanzo, all’inizio non c’era niente di insolito in lui o nella sua famiglia. Certo Escobar non era un futuro premio Nobel, tutt’altro; proveniva da una famiglia molto modesta, ma non moriva di fame; non era oberato da un figlio malato o da una gravidanza non voluta – la qual cosa rende la sua ricerca di ricchezze favolose a dispetto di tutto ciò che poteva opporglisi tanto più incomprensibile. In altre parole, a paragone della realtà, Breaking Bad sa di arbitrario. 

Skyler, la moglie da sempre sofferente, merita una menzione a parte. Innumerevoli spettatori hanno visto in lei l’archetipo della lagnona, della megera, della bisbetica. E per lagnarsi, si lagna eccome! Fortunatamente la funzione di avanzamento veloce mi ha risparmiato molta della sua petulanza. Ma questo è un problema comune ai polizieschi narco: non hanno spazio per le donne, le quali o piagnucolano, fino alla nausea, o scimmiottano gli uomini, in modo poco convincente. Le storie sul narco traffico sono chiaramente di stampo maschile; hanno come protagonisti buoni e cattivi, questi ultimi molto più avvincenti, e, tra di essi, una zona grigia popolata da anti-eroi o malavitosi con atipici crucci di coscienza.

Un extraterrestre che guardasse Breaking Bad concluderebbe che la cultura occidentale agli inizi del 21° secolo è diventata completamente atea. In cinque stagioni, per un totale di sessantadue episodi, e una durata di sessantadue ore, cioè due giorni e quattordici ore, Dio e la religione sono menzionati due sole volte: dopo la collisione di due aeroplani sopra Albuquerque, una ragazza della scuola di Walt chiede, parafrasando, “Come ha potuto Dio permettere che accadesse questo?” E la preside taglia corto esortando lei e altri studenti a rimanere nell’ambito della laicità; poi si vedono due sicari messicani strisciare per terra assieme ad alcuni contadini verso una capanna nel deserto che contiene simboli della Nuestra Señora de la Santa Muerte, una santa del cattolicesimo folk messicano. Oltre a ciò, niente. Questo campionario di umanità, l’extraterrestre relazionerebbe  ai suoi pari, non ha posto per gli dei o per la religione, salvo che per dei sicari e dei contadini che provengono da una società più primitiva.

In una storia la cui raison d’être è l’imminenza della morte e ciò che Walt può fare in risposta ad essa, non c’è Dio, né si prega, né c’è religione. In un contesto ideale per un’indagine ontologica ed escatologica, non c’è assolutamente niente del genere. Come inconsapevole, tardiva appendice all’esistenzialismo, l’uomo è ritratto nella sua vulnerabilità in un universo caotico e privo di significato. Cartesio, l’Illuminismo, Marx, Darwin, Wittgenstein e infine il Circolo di Vienna hanno lavorato alacremente all’annientamento della metafisica – con Rudolph Carnap che formalmente l’ha rifiutata come priva di senso poiché le affermazioni metafisiche, egli sosteneva, non potevano essere provate o confutate dall’esperienza – e hanno ottenuto un successo trionfale. Mentre la scienza, tra gli altri con Heisenberg – ironicamente, poiché questo è il nome di battaglia di Walt nella serie – che ha donato al mondo il suo principio d’indeterminazione, ha mostrato che le cose non sono così fisse in natura e che c’è molto più di ciò che si vede a occhio nudo (il che, incidentalmente, il coronavirus ha evidenziato molto vividamente con tutto il nostro frenetico lavarci le mani) la cultura convenzionale continua a basarsi su principi laici se non chiaramente atei, basati su costrutti occidentali arbitrari postulati da filosofi di tendenza aristotelica. Ancora oggi nel mondo occidentale una contraddizione è percepita come un grave faux pas in quasi ogni contesto. Ciò è dovuto alla legge di non contraddizione, o la seconda legge tradizionale, definita da Aristotele nella sua metafisica: “È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo”. Mentre tale “assioma” è utile in un tribunale e in molte altre applicazioni terra terra, non dovrebbe mai essere stato frainteso per una legge che governa l’universo. La natura, infatti, è piena di contraddizioni, e gli eventi più importanti nella vita sono quelli che vanno contro le statistiche.

Ho finito Braking Bad grato alla Apple TV per la sua funzione di avanzamento veloce, e con la sensazione che i suoi autori siano sprovvisti culturalmente e matafisicamente falliti.

 

 

“How many funerals pass our houses? Yet we do not think of death. How many untimely deaths?” Thus wrote Seneca two thousand years ago. Well before him, Plato, discussing Socrates’s death in Phaedo, stated that “the true philosophers are always occupied in the practice of dying.”

 

Death has been at the core of western philosophy, and of all religions and mythologies. We are all burdened with the memento mori, but most of us tend or try to forget it, until we are faced, directly or indirectly, with the inevitability of death. During a time of pandemic, the memento mori, having assumed the form of a virus, becomes acute, as we are all anxious about our wellbeing and that of our loved ones. Since the pandemic has also come with a lockdown, we have found ourselves with a lot of time on our hands. In addition to reading, writing, listening to music and cooking unusual recipes, I have been binging on a few TV series. Breaking Bad, which has won more awards than any other production ever, and which has been immensely popular, seemed like a good starting point. I can now argue that it can be viewed as a representation of western culture at the dawn of the 21st century.

 

Various are the themes in it that I find emblematic. The memento mori suddenly becomes very pressing in the mind of Walt, the high school chemistry teacher, as he is diagnosed with stage 3, inoperable lung cancer. About a hundred years before, Thomas Mann treated the problem of illness and impending death in Der Zauberberg (The Magic Mountain) in philosophical and metaphysical fashion, with each main character in the sanatorium impersonating a different philosophical strain. Early on in the 21st century, Vince Gilligan and the other creators of Breaking Bad handle the same theme of illness and impeding death with the resolve, on the side of Walt, of becoming a maker of methamphetamine.

 

American pragmatism—as the impecunious Walt intends to leave behind funds for his wife and two children—in lieu of ontological and eschatological reflections. To a lifelong student of comparative religion, mythology and philosophy, such a choice seems astonishing. But then, is it fair to compare Thomas Mann to Vince Gillian and his associates? The milieu of post WWI Europe to that of the US in the early 21st century? Is it even fair to compare a literary magnum opus of immense breadth to a TV series? Judging from what critics have written about the latter, I suppose it is, as they took Breaking Bad very seriously. Presumably also because there are elements in it of what nowadays is understood as “literary fiction” (my views on this subject are delineated in the essay The Decline and Fall of Literary Fiction”). The time dedicated to the methamphetamine motif—its production and distribution and all the unsavory yet colorful characters that such activities entail—is more or less equal to the time devoted to the dynamics of Walt’s family: his wife, two children, brother-in-law and sister-in-law. And such dynamics are developed in the style of what nowadays passes for literary fiction: plenty of angst and complications that aspire to the universality of Shakespeare or Cervantes, but rest on very inadequate shoulders. Walt and Hank, his brother-in-law, are no Hamlet or Don Quixote. Ordinary people cannot deal with philosophical problems simply because, well, they are unaware that philosophy exists, as the vast majority of Americans.

 

But then, isn’t philosophy intended just for an elite? Calderón de la Barca’s play La vida es sueño (Life is a dream), was extremely popular when it premiered in 1635 and has remained in the theater repertoire ever since as a timeless classic. Its main motifs are distinctly philosophical: the religious theme prevalent in people’s life at the time, which was free will versus predestination; and the concept of life as a dream, which can be found in Hinduism, Buddhism, Heraclitus, Plato and, closer to de la Barca’s times, in Descartes’s unsettling dream argument. Too high-flung for the ordinary spectator? Judging from the play’s success, Spain’s Golden Age must have produced some sophisticated audiences.

 

Back to Albuquerque and narco undertakings. Breakind Bad is larded with improbabilities from the beginning: Walt, as a young man, was a genius, but then turned out to be an underachiever for reasons that are not explained satisfyingly, or in fact at all; his brother-in-law is, conveniently for the plot’s suspense, a DEA agent; Walter, Jr., Walt’s and his wife Skyler’s teenage son, has cerebral palsy; Skyler gets pregnant in her forties, and although it is an unplanned pregnancy and both she and Walt are thoroughly irreligious, she does not get an abortion.

 

I confess to having been fascinated by Pablo Escobar, a sort of evil Don Quixote, and to have read my share of books about him, chiefly in Spanish, as the gringos seem uniformly unable to comprehend what he was about. Although what Escobar did in his life is proverbially stranger than fiction, and then some, at first there was nothing unusual about him or his family. Escobar was no promising Nobel Prize material, far from it; he came from a family of very modest means, was not starving; he was not burdened with an ill son or an unwanted pregnancy—which makes his pursuit of fabulous riches in the face of everything that stood in his way all the more inexplicable. In other words, compared to the real thing, Breaking Bad reeks of arbitrariness.

 

Skyler, the long-suffering wife, merits a separate mention. Countless viewers have seen in her the archetype of the whiner, the nag, the shrew. And whine she does! Mercifully, the fast-forward feature has spared me most of her petulancies. But this is a common problem in graphic crime stories: they have little room for women, who either whine ad nauseam, or ape men, not very convincingly. Crime stories about narco-trafficking are distinctly male; they feature heroes and villains, the latter far more engaging, and a grey zone in between.

 

An extraterrestrial watching Breaking Bad would conclude that western culture in the early 21st century has become entirely atheistic. In five seasons, for a total of sixty-two episodes and a cumulative duration of sixty-two hours, i.e., two days and fourteen hours, there are two mentions of God or religion: after the collision between two planes over Albuquerque, a girl in Walt’s high school asks, paraphrasing, How could God allow this to happen? And the principal cuts her short exhorting her and all other students to keep things secular; and two Mexican hitmen are shown slithering along with some peasants towards a hut in the desert that contains symbols of Nuestra Señora de la Santa Muerte, a female saint in Mexican folk Catholicism. Other than that, nothing. This sampling of humanity, the extraterrestrial would relate back to his peers, has no place for gods or religion, save for killers and peasants who hail from a more primitive society.

 

In a story whose raison d’être is the imminence of death and what Walt can do in response to it, there is no God, no praying, no religion. In a context ripe for ontological and eschatological probing, there is absolutely nothing of the sort. As an unwitting, belated appendage to existentialism, man is portrayed in his helplessness in a chaotic and meaningless universe. Descartes, the Enlightenment, Marx, Darwin, Wittgenstein and finally the Vienna Circle worked alacritously at the annihilation of metaphysics—with Rudolf Carnap who formally rejected them as meaningless because metaphysical statements, he stated, could not be proved or disproved by experience—and succeeded triumphantly. While science, inter alios with Heisenberg—ironically, since that is Walt’s nom de guerre in the series—who gave the world his uncertainty principle, has shown that things are not so fixed in nature and that there is much more than meets the eye (which, incidentally, the coronavirus has brought home very vividly with all our frantic handwashing), mainstream culture continues to hang on to secular if not outright atheistic principles based on arbitrary western constructs postulated by philosophers of an Aristotelian slant. To this day, in the western world a contradiction is perceived as a grave faux pas in just about any context. That is because of the law of non-contradiction, or the second traditional law, defined by Aristotle in his Metaphysics as, “One cannot say of something that it is and that it is not in the same respect and at the same time.” While such an “axiom” is useful in a court of law and in many other such pedestrian implementations, it should never have been misconstrued for a law governing the universe. In fact, nature is full of contradictions, and the most relevant events in one’s life are the anti-statistical ones.

 

I came away from Breaking Bad grateful to Apple TV for its fast-forward feature, and sensing that its authors are culturally underprovided and metaphysically bankrupt.

 

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George MacDonald, "Lilith"

7 Aprile 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #fantasy

La saga di Lilith

George MacDonald

Auralia edizioni

Abbiamo già parlato di “Sulle ali del Vento del Nord”, dello scozzese George MacDonald, scritto nel 1871, che ha come protagonista la Morte. La saga di Lilith, composta attorno al 1895 e declinata nei tre romanzi “Oltre lo specchio”, “Lilith” e “La casa del rammarico”, riprende la figura del demone femminile associato con il vento. Protagonista della trilogia è Lilith, dall’accadico Lil-itu, signora dell’aria, creatura collegata alla tempesta e al gatto. Nella cultura mesopotamica, Lilith era un demone, che gli ebrei hanno mutuato durante la cattività babilonese e trasformato nella prima moglie di Adamo, ripudiata per essersi rifiutata di obbedire al marito. Da sempre possiede caratteristiche negative, di un femminino notturno, stregonesco, adultero e lussurioso. Nell’ottocento, però, con l’emancipazione femminile, viene a rappresentare la donna forte che non si assoggetta più all’uomo, è rivalutata dai moderni culti neopagani ed assimilata alla Grande Madre.

Nel primo libro, il protagonista, Vane, si ritrova in un mondo parallelo, seguendo Mr Raven, un inquietante bibliotecario capace di trasformarsi in corvo, che poi scopriremo coincidere con Adamo. Qui vivrà avventure di ogni sorta, incontrerà mostri, uccelli, bambini, scheletri, donne bellissime, animali favolosi. Molti i topoi della letteratura fantastica. Il primo è lo specchio magico, il device capace di fungere da tramite fra universi paralleli, come l’armadio de “Le Cronache di Narnia” – e non a caso C.S. Lewis era il più grande ammiratore di MacDonald. Altre immagini ricorrenti sono la battaglia degli scheletri (cfr. i sentieri dei morti di Tolkien, film come “La Mummia”), i defunti addormentati nella cripta, la foresta buia e minacciosa (cfr. Selva oscura, Bosco Atro, Foresta di Fangorn.)

Ma l’incontro principale sarà quello con Lilith, donna bellissima ma malvagia, prototipo di tutte le vampire precedenti e successive. Se la Lilith ebraica sfruttava le polluzioni notturne dei giovanotti per generare dei jiin, quella di MacDonald si comporta come una sanguisuga che morde e salassa per mantenersi in forze. La sua bellezza è la sua forza ma anche il suo peccato. Contemplarsi la appaga, come accade alla perfida matrigna di Biancaneve, ma amplifica la sua egocentricità, la allontana dal Bene, la rende autoreferenziale e cattiva.

Al pari della Lilith del mito, anche questa costituisce una minaccia per i bambini. E la comunità dei piccoli innocenti (che ricordano Diamante, il Bambino di Dio di “Sulle ali del Vento del Nord”) è una caratteristica peculiare della saga. Ma Lilith è anche incarnazione della misoginia, della paura che il maschio ha della donna, di colei che può avvilupparlo, stregarlo, succhiargli via l’anima insieme col seme. È una belle dame sans merci non molto dissimile dalla Ayesha di Rider Haggard.

A differenza di Tolkien, che non amava lo scrittore scozzese proprio per questo motivo, il fantasy di MacDonald - teologo, predicatore e mistico - ha una forte connotazione allegorico - religiosa. Nel trattato “L’immaginazione fantastica”, MacDonald sostiene che un racconto ben costruito deve avere anche un significato, non necessariamente palese all’autore, e modificabile secondo il livello culturale dei lettori. Non è un caso che a ripubblicare la saga di Lilith sia l’Auralia edizioni, diretta da Marco Gionta, speaker di radio Vaticana e cultore di temi afferenti alla spiritualità cristiana, come le tradizioni angeliche. Tutta la saga, e, più in generale, tutta la materia narrata da MacDonald, si basa sulla dicotomia Bene/Male, Luce/Oscurità, Dannazione/Redenzione, Leopardo bianco/Leopardo maculato. Peccato e perdono sono i due temi principali, strettamente connessi l’uno all’altro. Il peccato esiste, fa parte della realtà e della creazione. Per superarlo, occorre conoscerlo e sperimentarlo.

Il peccato di Vane è l’ostinazione, la presunzione di poter fare a meno degli altri; quello di Lilith, più grave, è l’aver fatto a meno addirittura di Dio, pensare di essersi immaginata da sola. Lilith vive immersa nel buio del suo egoismo, chiusa in se stessa, cieca ai bisogni degli altri, capace persino di uccidere sua figlia. Il luogo che si è creata è l’inferno stesso, o meglio, l’angoscioso deserto della sua mente peccatrice. Lilith è bellissima perché pensata da Dio ma ha una macchia sulla mano, indice della corruzione che avanza, del male che consuma (come il ritratto di Dorian Gray.) Il leopardo coperto di macule è la forma definitiva del male.

Questa non è sul leopardo ma sulla donna” disse, “e non se ne andrà finché non ti avrà divorata fino al cuore e la tua bellezza scivolerà via da te attraverso la ferita aperta.” (pag 78 secondo volume)

Occorrerà un verme bianco, un biblico serpente che, come la spada di Shannara, s’insinuerà nel suo seno e la mostrerà a se stessa, rivelandole l’abisso della sua perversione, l’orrore di ciò che è. Ma, a differenza dell’oggetto magico di Terry Brooks, il verme opererà in lei una conversione dichiaratamente religiosa. Solo così Lilith potrà arrendersi al bene, lasciarsi redimere, accettare la morte, perdere addirittura un pezzo di sé. Ma da questa perdita scaturirà un nuovo inizio, rinascerà la vita, sgorgherà l’acqua dell’espiazione e del risanamento suo e di tutta la natura.

“Il Male che hai programmato” riprese Adamo “non lo realizzerai mai, Lilith, perché Dio – e non il male – è l’Universo, ma finirà: cosa sarà di te quando il Tempo sarà svanito nell’alba del mattino eterno?Pentiti, ti supplico e diventa di nuovo un angelo di Dio!” (pag 78 secondo volume)

L’escatologia di MacDonald non concepisce una dannazione eterna. Tutto fa ritorno, prima o poi, al Creatore, a colui che ha pensato la creatura.

Anche il protagonista non è scevro dal peccato, è egoista e, per sua stessa ammissione, avido, impulsivo, sciocco. “Sarai morto per tutto il tempo che rifiuti di morire”, gli dice il corvo, alias Mr Raven, alias Adamo. Ovvero: sarai un peccatore finché non opererai una catarsi, finché non accetterai la perdita di ciò che eri in precedenza per trasformarti in qualcosa di nuovo, di puro, di risanato. Fondamentale il concetto che bisogna morire per vivere davvero. Solo arrendendosi, abbandonandosi al sonno nella fredda camera della morte, si potrà sognare e poi rinascere a vita vera e imperitura.

La legge morale è una sola, non la si può reinventare né ribaltare, nemmeno in un mondo “secondario o sub creato”. Laddove Tolkien inventa un universo ateo, basato su valori laici come l’eroismo, il sacrificio, la lealtà, MacDonald ci offre un nucleo religioso potente che, se parte in sordina col primo libro, si fa sempre più esplicito nel procedere del racconto. Numerosissime le allusioni bibliche anche lampanti, come la presenza di Adamo ed Eva, l’Eden in cui vivono creature innocenti (i Bambini), l’Ombra del serpente tentatore, la città di Dio del finale. Le vicende narrate hanno anche parecchie similitudini con il viaggio dantesco, ma senza la potenza realistica, oltre che allegorica, del fiorentino. Quello di MacDonald è un universo dantesco edulcorato, illanguidito e rivisitato in chiave preraffaellita.

I difetti del libro sono, a nostro avviso, due: la sensazione che, almeno all’inizio, proceda per accumulo, lasciandosi guidare attraverso i capitoli solo dalla fervida e gotica fantasia dell’autore, e la lirica impenetrabilità dei dialoghi, dovuta all’innegabile influenza del linguaggio delle Sacre Scritture.

We have already talked about "At the back of the North Wind", by the Scottish George MacDonald, written in 1871, which has Death as its protagonist. The saga of Lilith, composed around 1895 and declined in the three novels "Beyond the mirror", "Lilith" and "The house of regret", takes up the figure of the female demon associated with the wind. The protagonist of the trilogy is Lilith, from the Akkadian Lil-itu, lady of the air, a creature connected to the storm and the cat. In Mesopotamian culture, Lilith was a demon, whom the Jews borrowed during the Babylonian captivity and turned into Adam's first wife, repudiated for refusing to obey her husband. It has always had negative characteristics, of a nocturnal, witchy, adulterous and lustful feminine. In the nineteenth century, however, with female emancipation, it comes to represent the strong woman who no longer submits to man, is reevaluated by modern neo-pagan cults and assimilated to the Great Mother.

In the first book, the protagonist, Vane, finds himself in a parallel world, following Mr Raven, a disturbing librarian capable of transforming himself into a crow, whom we will later discover to coincide with Adam. Here he will experience all sorts of adventures, meet monsters, birds, children, skeletons, beautiful women, fabulous animals. Many are the topoi of fantastic literature. The first is the magic mirror, the device capable of acting as a link between parallel universes, such as the wardrobe of "The Chronicles of Narnia" - and not surprisingly C.S. Lewis was MacDonald's greatest admirer. Other recurring images are the battle of skeletons (see Tolkien's paths of the dead, films such as "The Mummy"), the dead asleep in the crypt, the dark and threatening forest (see Dark Forest, Mirkwood, Fangorn Forest. )

But the main meeting will be with Lilith, a beautiful but evil woman, prototype of all the previous and subsequent vampires. If the Jewish Lilith used the nightly pollutions of the youngsters to generate jiins, that of MacDonald behaves like a leech that bites and bleeds to maintain its strength. Her beauty is her strength but also her sin. Contemplating herself satisfies her, as happens to the perfidious stepmother of Snow White, but amplifies her self-centeredness, distances her from the Good, makes her self-referential and bad.

Like the myth's Lilith, this too poses a threat to children. And the community of innocent children (who remember Diamante, the Child of God of "At the back of the North Wind") is a peculiar feature of the saga. But Lilith is also the embodiment of misogyny, of the fear that the male has of the woman, of the one who can envelop him, bewitch him, suck his soul away together with the seed. She is a belle dame sans merci not unlike Rider Haggard's Ayesha.

Unlike Tolkien, who did not like the Scottish writer for this reason, MacDonald's fantasy - theologian, preacher and mystic - has a strong allegorical - religious connotation. In the treatise "The fantastic imagination", MacDonald maintains that a well-constructed story must also have a meaning, not necessarily evident to the author, and modifiable according to the cultural level of the readers. It is no coincidence that the Auralia edizioni, edited by Marco Gionta, speaker of Vatican radio and expert on themes relating to Christian spirituality, such as angelic traditions, republishes the saga of Lilith. The whole saga, and, more generally, all the matter narrated by MacDonald, is based on the dichotomy Good / Evil, Light / Darkness, Damnation / Redemption, White Leopard / Spotted Leopard. Sin and forgiveness are the two main themes, closely related to each other. Sin exists, it is part of reality and creation. To overcome it, you need to know it and experience it.

Vane's sin is obstinacy, the presumption of being able to do without others; Lilith's, more serious, is has even done without God, thinking that she imagined herself. Lilith lives immersed in the darkness of her selfishness, closed in on herself, blind to the needs of others, capable of even killing her daughter. The place that has been created is hell itself, or rather, the anguished desert of her sinful mind. Lilith is beautiful because she was conceived by God but has a stain on her hand, an indication of the corruption that is advancing, of the evil she consumes (like the portrait of Dorian Gray.) The leopard covered with macules is the definitive form of evil.

 

"This is not about the leopard but about the woman," he said, "and will not go away until he has devoured you to the heart and your beauty will slip away from you through the open wound."

It will take a white worm, a biblical snake that, like Shannara's sword, will creep into her bosom and show it to herself, revealing the abyss of her perversion, the horror of what she is. But unlike Terry Brooks' magical object, the worm will perform an openly religious conversion in her. Only in this way can Lilith surrender to the good, let herself be redeemed, accept death, even lose a piece of herself. But from this loss a new beginning will spring, life will be reborn, the water of expiation and of its healing and of all nature will flow.

 

"The evil you have planned," Adam continued, "you will never realize it, Lilith, because God - and not evil - is the Universe, but it will end: what will become of you when Time is gone in the dawn of the eternal morning? Repent , I beg you and become an angel of God again! " (pag 78 second volume)

 

MacDonald's eschatology does not conceive of eternal damnation. Everything returns, sooner or later, to the Creator, to the one who thought the creature.

Even the protagonist is not free from sin, he is selfish and, by his own admission, greedy, impulsive, foolish. "You will be dead for as long as you refuse to die," says the crow, aka Mr Raven, aka Adam. That is: you will be a sinner until you perform a catharsis, until you accept the loss of what you were previously, to transform yourself into something new, pure, healed. The concept that one must die to really live is fundamental. Only by surrendering, abandoning oneself to sleep in the cold chamber of death, will one be able to dream and then be reborn to real and imperishable life.

The moral law is one, it cannot be reinvented or reversed, even in a "secondary or sub-created" world. Where Tolkien invents an atheist universe, based on secular values ​​such as heroism, sacrifice, loyalty, MacDonald offers us a powerful religious nucleus that, if it starts quietly with the first book, becomes more explicit in the progress of the story. Numerous biblical allusions, even glaring, such as the presence of Adam and Eve, the Eden in which innocent creatures (the Children) live, the Shadow of the tempting serpent, the city of God of the finale. The events narrated also have several similarities with Dante's journey, but without the realistic, as well as allegorical, power of the Florentine. MacDonald's is a Dante universe sweetened, weakened and revisited in a Pre-Raphaelite key.

The defects of the book are, in our opinion, two: the feeling that, at least at the beginning, it proceeds by accumulation, letting itself be guided through the chapters only by the author's fervid and gothic fantasy, and the lyrical impenetrability of the dialogues, due to the undeniable influence of the language of the Holy Scriptures.

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Leggermente sovversivi o semplicemente strani libri che fanno a gara per la mia attenzione sul mio tavolino da notte

20 Giugno 2019 , Scritto da Guido Mina di Sospiro Con tag #guido mina di sospiro, #recensioni, #poli patrizia

 

 

 

 

Leggermente sovversivi o semplicemente strani libri che fanno a gara per la mia attenzione sul mio tavolino da notte

 

di Guido Mina di Sospiro

Pubblicato su New English Review, tradotto dall’originale inglese da Patrizia Poli

 

Milioni di persone prendono quotidiane dosi di vitamine e integratori (chi potrebbe fare a meno, tra gli altri, delle bacche di Acai o della polvere Reishi?). Io prendo alte dosi di terapia anti-banalità più spesso possibile, il che include anche di notte. Sul mio comodino ci sono due pile di libri, tomi che fanno a gara per la mia attenzione, e che leggo a spizzichi. La maggior parte, se non tutti, provengono da librerie dell’usato che tendo a sovvenzionare, siccome in quelle “normali” la propaganda conformista è così inevitabile che esse ne sono diventate uno dei veicoli ufficiali.

Può darsi che una selezione dei libri che ho attualmente sul comodino catturi anche il vostro  interesse. Senza un ordine particolare:

El horror de Dunwich (L’orrore di Dunwich), by H.P. Lovecraft.

Considerato al centro dell’universo dei miti Cthulhu, questo racconto è simile ad altri di Lovecraft per quanto riguarda la reazione che provoca nel lettore: si passa da “Ma, è mostruoso?  a “Sì, è  mostruoso!” fino a “Mio Dio, è tremendamente mostruoso!”. In aggiunta, la sua prosa è indigesta: così manierata che sembra una parodia. La grazia salvifica arriva quando Lovecraft è tradotto in una lingua romanza. Ho letto Lovecraft tradotto in italiano e in castigliano, com’è avvenuto con questo particolare libro, e la sua prosa diventa più elegante e meno pesante semplicemente perché le lingue romanze aprono più parentesi e reggono meglio periodi lunghi. Ho comprato El horror de Dunwich in Urueña, la Villa del Libro, o città del libro, in Castilla y Lèon, nella Spagna centrale. Lì ci sono più librerie che bar. Posta sulla sommità di una collina, circondata da antiche mura fortificate, è un luogo in cui qualsiasi bibliofilo vorrebbe perdersi. Con la prosa di Lovecraft resa più leggibile dal fatto di essere stata tradotta in una lingua romanza, posso capire perché egli sia diventato parte dell’attuale credenza in antichi alieni e nella manipolazione preistorica dell’umanità; a tal punto che è considerato un involontario chiaroveggente.

I fiumi scendevano a Oriente, di Leonard Clark.

Ah, i bei vecchi tempi quando un esploratore esplorava… l’inesplorato. Oggi che non è rimasto più niente da esplorare, i diari di viaggio avventurosi si sono trasformati in cronache d’imprese bizzarre, come, ad esempio, scalare l’Everest volgendo le spalle alla sommità, senza ossigeno e per giunta bendati. “A oriente delle Ande Peruviane”, recita la quarta di copertina, “c’è la vasta foresta pluviale del Gran Pajonal, impreziosita da fiumi cristallini e abitata da selvaggi per i quali la tortura e la morte sono cose di tutti i giorni”. Davvero? Allora devo leggere, l’editore deve aver supposto che i lettori pensassero. E a quel tempo lo fecero. Pubblicato nel 1953, riporta avventure datate 1949 che sono, per gli standard attuali, incredibili. Certi passaggi, come il seguente, sono comici nel loro candore. “È accertato che prima della scoperta dell’America e degli antichi Inca, la sifilide era sconosciuta in Europa. Uno scienziato di Lima ha estratto - dalle tombe degli Inca precolombiani - le ossa di persone sifilitiche, dovute, secondo lui, al fatto che gli Indiani andini lavoravano con i lama e avevano un antico istinto per la sodomia.  Molto probabilmente l’umanità deve questa maledizione a Pizarro e al lama andino. C’era una legge nazionale che proibiva a ogni maschio indiano di viaggiare con una mandria di lama per più di ventiquattro ore a meno che una donna non lo accompagnasse. E siccome tutte le donne disponibili facevano i turni nelle miniere, le carovane di lama furono bloccate per tempo indefinito.”

Back to God’s Country (Ritorno alla città di Dio) di James Oliver Curwood

Nella zona di Washington, le vendite BIG (Books for International Goodwill) sono imperdibili. Decine di migliaia di libri sugli scaffali, al prezzo di 3 dollari per quelli con la copertina rigida, 2 dollari per quelli in brossura, e 1 dollaro per i tascabili. Come funziona? “B.I.G raccoglie più di 1000 libri al giorno, la maggior parte dei quali vengono inviati in parti del mondo scarsamente fornite, per tenerli vivi e per aiutare la crescita dell’educazione e della cultura nelle nazioni in via di sviluppo. I libri non adatti alla spedizione vengono venduti ai residenti. I proventi delle vendite dei libri pagano le spese di spedizione oltreoceano verso comunità che si stanno costruendo le loro biblioteche.”  Sempre alla ricerca di libri vecchi, sebbene abbia imparato in questi ultimi gli anni che è più difficile rintracciarli, ho preso, tra gli altri, Back to God’s Country di Curwood, una raccolta di racconti su animali, umani e aspri elementi della natura nel Grande Nord, con la sua copertina originale, cosa rara per un libro pubblicato un secolo fa, insieme al quel sottile aroma di muffa che mi piace tanto, poiché compro i libri anche a seconda del loro aroma. A parte questo, ho pensato che Curwood fosse solo qualcuno che scopiazzava Jack London. Mi sono dovuto ricredere: sostenitore ante litteram dell’ambientalismo, fu uno degli autori più venduti negli anni venti, e almeno diciotto film sono stati ricavati dalle sue storie. Back to God’s Country (1919) fu il film muto di maggior successo della storia americana. Rappresenta, per inciso, una  delle prime scene di nudo della storia del cinema. Il personaggio principale del film fu stranamente cambiato: dall’alano a Dolores, una protagonista umana – cosa che dispiacque molto a  Curwood.

La voce delle pietre. Civiltà perdute di Robert M. Schoch

Ogni volta che mi trovo a Sedona, in Arizona, mi dirigo venti miglia più a sud verso Cottonwood, dove David Hatcher Childress, l’Indiana Jones della vita reale, ha una delle sue librerie Adventures Unlimited. Durante l’ultima visita ho quasi saccheggiato il posto. Fra le tante perle ho scovato Civiltà Perdute di Schoch. Non è facile farci cambiare la nostra opinione sulle origini della civiltà, ma Schoch gradualmente costruisce un percorso convincente. “Eresia!” Gridano all’unisono gli archeologi conformisti; ciò che irrita gli accademici è che questa non è l’opera di un ciarlatano ma di un collega accademico, dell’Università di Boston, con un PH.D dell’Università di Yale. “Dovrebbe ragionare diversamente!” è la critica che gli viene frequentemente mossa da colleghi meno arrabbiati ma ugualmente disapprovanti. Lo stesso, sebbene in altre branche della conoscenza, accade per Rupert Sheldrake, James Stevens Curl, Joscelyn Godwin e altri. Tali studiosi sono tutti visti come rinnegati. Ma, siccome la verità non si cura delle conventicole, delle consorterie, né delle nozioni ed idee preconcetti, tali attacchi da parte del mondo accademico devono essere interpretati soltanto come un buon segno.

La gran aventura del reino de Asturias: Asì empezò la Reconquista, by José Javier Esparza. (La grande avventura del regno delle Asturie: così iniziò la reconquista.)

A Cangas de Onìs, nelle Asturie, ho comprato questo libro del saggista e critico monocolo Esparza, il quale sta facendo una professione del revisionismo storico. Questo libro, in particolare, annuncia orgogliosamente sulla copertina di aver raggiunto l’ottava edizione, e forse più da allora (settembre 2016). Come molti altri imperi coloniali, la Spagna, dopo la fine del franchismo nel 1975, ha attraversato un periodo in cui si è sentita profondamente in colpa per il suo passato. A differenza del Regno Unito, tuttavia, si sta sviluppando una controtendenza, grazie alla quale la sua complessa e ricca storia viene rivalutata; alcuni spagnoli cominciano a sentirsi fieri della loro eredità. Le Asturie sono l’unica regione della Spagna che non è mai stata catturata dai Mori; la Riconquista, che è culminata otto secoli più tardi con l’espulsione dei Mori dalla penisola iberica, ha avuto inizio in quel reame remoto e montagnoso, capitanata da un regno visigoto. Ci è stato detto che i Mori hanno tenuto viva la cultura durante i secoli bui, mentre il resto dell’Europa era addormentato. In realtà, la cultura è risorta col rinascimento carolingio (dopo che Carlo Martello ebbe sconfitto l’esercito saraceno) ed è stata tenuta in vita da migliaia di monaci e frati, nei monasteri di tutto il continente, che trascrivevano antichi manoscritti, finché questi ultimi vennero riportati in auge nell’alto Medioevo, in Italia e altrove. I Mori produssero alcuni filosofi aristotelici dilettanti di seconda categoria e poco d’altro; mai musica o arte figurativa, ovviamente, perché erano entrambe proibite dal Corano. Qualcuno dirà che l’eredità architettonica che i Mori si sono lasciati dietro in Spagna è notevole, ma le chiese preromaniche in miniatura, che i primi re delle Asturie riuscirono a costruire attorno a Oviedo come segni di una Cristianità imperitura, sono toccanti, mentre così tante piazze e luoghi pubblici, edifici religiosi e universitari, palazzi e costruzioni sontuose che la Spagna ha prodotto nei secoli, mentre la Riconquista si spostava da nord a sud, sono spettacolari. Ciò che La gran aventura del reino de Asturias spiega nel dettaglio è come si sono comportati i Mori, in realtà come si comportano tutti i barbari invasori, saccheggiando, rapinando, uccidendo, dando fuoco e radendo al suolo tutto quello che incontravano sul loro cammino.

La lancia del destino, di Trevor Ravenscroft

Pubblicato per la prima volta nel 1973, La lancia del destino si riferisce alla lancia del centurione romano Longino che trapassò il fianco di Cristo sulla croce. Un giovane e squattrinato Hitler poté ammirarla nella camera del tesoro asburgico nella Hofburg, a Vienna (ci sono altre di queste lance in esposizione a Roma, a Echmiadzin, ad Antiochia e chissà qual è quella autentica, ammesso che ne esista una? Questa quisquilia non sembrava interessare al giovane Hitler). La lancia del destino è il primo ampio studio sulle origini occulte del nazismo. Il modus operandi nel produrre il libro sembrerebbe spurio: Ravenscroft, un seguace di Rudolf Steiner, disse di aver condotto la sua ricerca attraverso la meditazione mistica e rifacendosi agli scritti dell’antroposofista austriaco Walter Stein, affidatigli dalla vedova di quest’ultimo. L’iniziale pretesa dell’autore di aver incontrato Steiner fu in seguito modificata: aveva avuto contatti con lo spirito di Steiner attraverso un medium. Ma, caro lettore, sospendi l’incredulità: ciò che credo interessi di più è l’immagine che emerge dal libro, in cui l’avvento del nazismo sembra inevitabile: Wagner, Nietzsche, Houston Stewart Chamberlain, Karl Househofer e altri famosi pensatori furono tutti influenzati dalla Weltanschauung tedesca. L’avvento e l’ascesa di Hitler, se inseriti un contesto storico, sembrano, almeno col senno di poi, prevedibili. Inoltre, c’è l’intero aspetto occulto del macro-fenomeno, esaminato nei dettagli, che è ugualmente allarmante. Considerato che l’altra grande calamità, il comunismo, non è stato inventato dal niente da Marx ed Engels, ma ha avuto i suoi fondamenti nell’opera di Hegel e, prima di lui, in quella di Kant, e cioè è radicata nella più canonica tradizione filosofica tedesca, si giunge alla conclusione che la cultura germanica nel suo insieme, che sia di estrema destra e/o di estrema sinistra, ha regalato al mondo le sue due più tossiche e ferali ideologie.

Pedro de Alvarado: Conquistador de México y Guatemala, di Adrian Recinos. (Pedro de Alvarado: Conquistatore del Messico e del Guatemala).

Acquistato anni fa a Città del Guatemala, questo libro, pubblicato nel 1952, ha sonnecchiato sullo scaffale fino a che di recente non ho letto l’affascinante trilogia di Graham Hancock War God sulla conquista spagnola del Messico azteco. Mentre Hernan Cortes ci appare come la reincarnazione di Ulisse, il suo braccio destro Pedro de Alvarado è il ragazzaccio fra i conquistadores: bello, appariscente ma temibile, con i capelli biondi lunghi fino alla vita e un arsenale di spade, coltelli e  pistole sempre addosso, spietato almeno quanto inarrestabile. Dopo aver partecipato alla conquista di Cuba e del Messico, si avventurò in quella che oggi è l’America Centrale, conquistò anche la maggior parte di quella regione e fondò il Guatemala, di cui divenne governatore. Riportata alla mia attenzione dal dimenticatoio, ho trovato la biografia di Alvarado, scritta da Recinos, illuminante. Recinos fu politico, storico, saggista, diplomatico, studioso e traduttore di opere precolombiane. Fu un grande esperto della storia nazionale del Guatemala, non solo della civiltà Maya, ma anche dei popoli K’iche’ e Kaqchikel. La sua fu la prima edizione in castigliano del Popol Vuh, basata sulla sua traduzione. Sebbene fosse un criollo, cioè di pura discendenza spagnola, aveva una grande affinità con le popolazioni indigene del centro America. La sua biografia, perciò, non si legge come un’agiografia. Si direbbe che egli si senta combattuto: Pedro de Alvarado è stato il fondatore del Guatemala, ma…

Making Dystopia: The Strange Rise and Survival of Architectural Barbarism, by James Stevens Curl. (Creando la distopia: la strana ascesa e sopravvivenza della barbarie architettonica).

Questo recente libro è stato portato alla mia attenzione dal saggio Modern Architecture’s Disastrous Legacy, scritto da Stevens Curl stesso, e pubblicato sul numero di gennaio di NER. Il suo tomo di 551 pagine dovrebbe figurare orgogliosamente accanto a De architectura (Sull’architettura, o Dieci libri sull’architettura) dell’antico architetto e ingegnere romano Marco Vitruvio Pollio, dedicato al suo mecenate, l’imperatore Cesare Augusto, e I quattro libri dell’architettura di Andrea Palladio (1508-1580).

Making Dystopia di Stevens Curl risponde adeguatamente alla domanda: Che cosa diavolo è successo da allora? Quando si viaggia in Estonia, fra tante altre nazioni, le guide sono pronte a mettere in evidenza varie mostruosità architettoniche ascrivendole ai sovietici. Vero ma, dov’erano, ad esempio, in New Jersey i sovietici? Nonostante la loro assenza, anche là c’è una quantità di orrori brutalisti. Alcuni recensori del libro di Stevens Curl lo hanno stroncato ferocemente: provenendo dal conformismo, da rappresentanti (indottrinati) delle élite che hanno decorato il mondo con una architettura così aberrante, ciò conferma quanto questo libro sia importante, di valore, per non dire profondamente informato.

Tahiti-Nui: By raft from Tahiti to Chile, (Tahiti Nui, in zattera da Tahiti al Cile) by Eric de Bisschop.

Ho trovato questo libro, pubblicato nel 1959, qualche anno fa nella deliziosa libreria Scarthin Books, a Cromford, nel Derbyshire, in Inghilterra. Da un estratto della copertina: “Quando Heyerdahl e i suoi compagni fecero il famoso viaggio sul Kon-Tiki a sostegno della loro teoria che la Polinesia era stata scoperta e colonizzata da genti provenienti dal Sudamerica, de Bisschop decise di confutare questa teoria facendo un viaggio in zattera nella direzione opposta. Con quattro compagni più giovani costruì Tahiti Nui (trattino omesso, G.M.d.S.) a Papeete e, all’età di sessantacinque anni, e contro l’avviso di tutti gli esperti, partì per il periglioso viaggio verso il Cile.” Un’azione spettacolare? Invidia per il successo mondiale ottenuto dalla spedizione del Kon- Tiki? È difficile dirlo leggendo questo libro. De Bisschop era un marinaio devoto e di grande esperienza, completamente francese e gesuita per giunta. Il cocktail di hybris francese/gesuitica è una sorta d’inaspettata delizia, specialmente nei primi capitoli, che sono più teorici, prima della traversata vera e propria. E come andò? Per non rivelarvi il seguito, vi dirò solo che alla fine fu costruito un secondo Tahiti-Nui…

E poi c’è l’altra pila di libri sul mio sovraffollato comodino. Borges aveva ragione quando diceva: “Non posso dormire se non sono circondato dai libri”.

 

Millions take daily doses of vitamins and sundry supplements (who could do without, among others, Acai berries and Reishi powder?). I take doses of mainstream-avoidance therapy as often as I can, which means also at night. There are two big piles of books on my nightstand, tomes that vie for my attention and that I read in dribs and drabs. Most, though not all, come from second-hand bookshops, which I tend to patronize since in the “normal” ones the mainstream propaganda is so inescapable, they have become one of its official vehicles.

 

A selection of the books currently on my nightstand may catch your fancy, too. In no particular order:

 

El horror de Dunwich (The Dunwich Horror), by H.P. Lovecraft.

Considered to be at the core of the fictional universe of the Cthulhu Mythos, this short story seems like Lovecraft’s every story as far as the reaction they provoke in the reader: from, “Is this monstrous?” to, “It is monstrous!” to, finally, “My God, it is inconceivably monstrous!” In addition to that, his prose is indigestible: so very mannered that sometimes it comes off as a parody. The saving grace comes when Lovecraft’s work is translated into a Romance language. I’ve read Lovecraft in Italian and in Castilian, as with this particular book, and his prose becomes more elegant and less heavy simply because Romance languages are more parenthetical and better support long-winded periods. I bought El horror de Dunwich in Urueña, la Villa del Libro, or Bookville, in Castilla y Léon, in central Spain. There are more bookshops in it than cafés. Situated on top of a hill, surrounded by ancient fortified walls, it’s a place in which any bibliophile likes to get lost. With Lovecraft’s prose restored to better readability thanks to its being translated into Romance languages, I can see why he has become part of the current belief in ancient aliens and the prehistoric manipulation of humanity; so much so, in fact, that he is perceived as an inadvertent clairvoyant.

 

The Rivers Ran East, by Leonard Clark.

Ah, the good old days in which an explorer did explore the . . . unexplored. Nowadays, with nothing left to explore, adventure travelogues have turned into chronicles of bizarre undertakings, such as, say, climbing Mount Everest with no oxygen, backwards, and blindfolded to boot. “East of the Peruvian Andes,” reads the book’s flap, “lies the vast rain-forest of the Gran Pajonal, laced with white-water rivers and inhabited by savages to whom torture and death are everyday matters.” Really? Well, I’d better read on, the publishers must have assumed readers would think. And, back then, they did. Published in 1953, the adventures in it date back to 1949 and are, by contemporary standards, incredible. Also refreshing-if-not-comical in their candor are passages such as the following one. “It has been established that prior to the discovery of America and the ancient Incas, syphilis was unknown in Europe. Nearby pre-Colombian Incan graves were at the moment producing—under the spades of a Lima scientist—the bones of syphilitics, due, he believed, to the Andean Indians’ working with llamas and the ancient instinct for sodomy. Very likely humanity owes this curse to Pizarro and the Andean llama. There was a national law which forbade any male Indian from traveling with a herd of llamas on a trip exceeding twenty-four hours, unless a woman went along. And since all available women were working shifts in the mines, the llama trains were stalled indefinitely.”

 

Read more in New English Review:

• Europe

• Letter from Berlin

• Libertarianism VS Postmodernism and Social Justice Ideology

 

Back to God’s Country, by James Oliver Curwood.

In the DC area, the BIG sales (Books for International Goodwill) are unmissable. Tens of thousands of books are on the shelves, priced at $3 for hardbacks, $2 for trade soft-bound, and $1 for pocket paperbacks. How does this work? “B.I.G. collects over 1,000 books per day most of which are sent to under-served parts of the world to keep these books alive and to assist in the growth of education and culture in developing countries. Books not suitable for these shipments are offered for sale to local residents. Proceeds from book sales pay for shipments of books overseas to communities building their local libraries.” Always on the lookout for oldish books, though I have noticed down the years that they are harder to come by, I picked up, among others, Curwood’s Back to God’s Country, a collection of short stories about animals, humans and harsh elements in the Great North, with its original cover, which is rare for a book published a century ago, as well as its slightly musty aroma, which I welcome, as I buy books also in accordance to their smell. Other than that, I thought Curwood might be just some hack ripping off Jack London. I stand corrected: an ante litteram advocate of environmentalism, he was one the best-selling authors of the 1920s, and at least eighteen films have been based on his stories. Back to God’s Country (1919) was the most successful silent film in Canadian history. It features, incidentally, one of the first nude scenes in cinema history. The protagonist of the film was oddly changed: from the Great Dane to Dolores, a human female lead—much to Curwood’s chagrin.

 

Forgotten Civilizations, by Robert. M. Schoch.

Whenever I find myself in Sedona, Arizona, I drive twenty miles south to Cottonwood, where David Hatcher Childress, the real-life Indiana Jones, has one of his Adventures Unlimited bookstores. During my latest visit I nearly sacked the place. Among many pearls is Schoch’s Forgotten Civilizations. Changing our understanding on the origins of civilization is no small achievement, but Schoch gradually builds up a convincing case. “Blasphemy!” mainstream archeologists scream in unison; what further irritates academe is that this is not the work of a charlatan, but of a fellow academician, from Boston University, with a Ph.D. from Yale University. “He ought to know better!” is a frequent criticism moved to him by less outraged but equally disapproving colleagues. The same, if in other branches of knowledge, happens to Rupert Sheldrake, James Stevens Curl, Joscelyn Godwin and others. Such scholars are all perceived as renegades. But, since the truth does not care about affiliations, cliques, preconceived notions and assumptions, such attacks by academe are only to be interpreted as a good sign.

 

La gran aventura del reino de Asturias: Asì empezò la Reconquista, by José Javier Esparza.

In Cangas de Onís, in Asturias, Northern Spain, I bought this book by the one-eyed essayist and cultural critic Esparza, who is making a career out of historical revisionism. This particular book proudly announces on its cover to have reached the eight edition, and probably more since then (September 2016). Like other former colonial empires, Spain, after the end of Francoism in 1975, has gone through a period of acute guilt feelings about its past. Unlike the United Kingdom, however, a countertrend has come into being, thanks to which Spain’s complex and rich history is being reevaluated; some Spaniards are beginning to find pride once more in their heritage. Asturias is the only region in Spain that was never captured by the Moors; the Re-conquest, which culminated eight centuries later with the expulsion of the Moors from the Iberian Peninsula, began in that remote and mountainous kingdom, led by Visigothic royalty. We have all been told that the Moors from Spain kept culture alive during the Dark Ages, when the rest of Europe was asleep at best. Actually, culture was revived by the Carolingian Renaissance (after Charles Martel defeated the Saracen army) and kept alive by thousands of monks and friars in monasteries all over the continent who transcribed ancient manuscripts, until the latter were restored to prominence in the High Middle Ages in Italy, and then elsewhere. The Moors produced numerous second-rate dabblers in Aristotelian philosophy, and not much else; never any music or figurative art, of course, as they were both forbidden by the Koran. Some will say that the architectural heritage the Moors left behind in Spain is noteworthy, but the pre-Romanesque miniature churches that the early kings of the Asturias managed to build around Oviedo as the first statements of undying Christianity are touching, while so many of the squares and public spaces, religious and university buildings, palaces and palatial houses that Spain created down the centuries as the Re-conquest moved from north to south are utterly stunning. What La gran aventura del reino de Asturias explains in detail is how the Moors behaved, in fact, as all invading barbarians do, by sacking, plundering, raping, murdering, and burning to the ground everything in their path.

 

The Spear of Destiny, by Trevor Ravenscroft.

First published in 1973, The Spear of Destiny refers to the spear of the Roman centurion Longinus that pierced the side of Christ on the cross. Young and penniless Hitler could admire such a spear in the Hapsburg Treasure House at the Hofburg Palace, in Vienna, Austria (there are other such lances, on display in Rome, Echmiadzin, Antioch, and who knows which is the authentic one, if any? Such a quibble did not seem to concern young Hitler). The Spear of Destiny is the first very extensive study of the occult origins of Nazism. The modus operandi in producing the book would seem spurious: Ravenscroft, a follower of Rudolf Steiner, claimed that he conducted his research through mystical meditation and by resorting to the writings of the Austrian anthroposophist Walter Stein, whose widow had entrusted them to Ravenscroft. The original claim by the writer to have met with Stein was later changed: he had had contacts with Stein’s spirit through a medium. But, dear reader, like me do suspend disbelief: what I think matters most is the picture that emerges from the book, one in which the advent of Nazism seems inevitable: Wagner, Nietzsche, Houston Stewart Chamberlain, Karl Haushofer and other prominent thinkers all deeply influenced the German Weltanschauung. The advent and rise of Hitler, put in historical context, seems, at least in hindsight, foreseeable. In addition to that, there is the whole occult aspect of the macro-phenomenon, dissected in great detail, that is equally disturbing. Considering that the other great calamity, Communism, was not invented by Marx and Engels out of the blue, but had its foundations in the work of Hegel and, before him, in that of Kant, and that is, it was rooted in the most canonical German philosophical tradition, one comes to the conclusion that German culture as a whole, be it from the extreme Right and/or from the extreme Left, has given the world its two most toxic and deadly ideologies.

 

Pedro de Alvarado: Conquistador de México y Guatemala, by Adrian Recinos.

Bought years ago in Guatemala City, this book, published in 1952, slumbered on a shelf until I recently read Graham Hancock’s riveting trilogy War God about the Spanish conquest of Aztec Mexico. While Hernán Cortés comes off as a reincarnation of Ulysses, his right arm Pedro de Alvarado was the most badass among the major conquistadores: handsome, flamboyant, but fearsome, with blond hair down to his waist and an arsenal of blades and pistols always on him, he was as ruthless as he was unstoppable. After participating in the conquest of Cuba and of Mexico, he ventured into what today is Central America, conquered most of that region, too, and founded Guatemala, of which he became governor. Restored to my attention from oblivion, I found Recinos’s biography of de Alvarado enlightening. Recinos was a politician, historian, essayist, diplomat, scholar and translator of pre-Columbian works. He was a great student of the national history of Guatemala, not only of the Maya civilization, but also of the K’iche’ and Kaqchikel people. His was the first edition in Castilian of the Popol Vuh, based on his own translation. Although he was a criollo, and that is, of pure Spanish descent, he had a great affinity for the indigenous people of Central America. His biography, therefore, does not read like a hagiography. One can tell that he is torn: Pedro de Alvarado is the founder of Guatemala, but...

 

Making Dystopia: The Strange Rise and Survival of Architectural Barbarism, by James Stevens Curl.

This recent book was brought to my attention by the essay Modern Architecture’s Disastrous Legacy, penned by Stevens Curl himself, and published in the January issue of NER. His 551-page tome should stand proudly beside De architectura (On architecture, or Ten Books on Architecture) by the ancient Roman architect and military engineer Marcus Vitruvius Pollio, dedicated to his patron the emperor Caesar Augustus, and I quattro libri dell’architettura (The Four Books of Architecture) by Andrea Palladio (1508–1580). Stevens Curl’s Making Dystopia adeptly answers the question, What the hell happened since? When one travels to Estonia, among other countries, guides are quick to point out various architectural monstrosities and blame them on the Soviets. Fair enough, but in, say, New Jersey, where were the Soviets? Despite their absence, there are plenty of brutalist horrors there, too. Some reviewers of Stevens Curl’s book have produced fiery hatchet jobs: coming from the mainstream, from (indoctrinated) representatives of the élites who have festooned the world with such aberrant architecture, these confirm how great and valuable, not to mention profoundly informed, this book is.

 

Tahiti-Nui: By raft from Tahiti to Chile, by Eric de Bisschop.

I found this book, published in 1959, a few years ago in the delightful Scarthin Books, in Cromford, Derbyshire, in England. Excerpting from its flap: “When Heyerdahl and his companions made the famous voyage in the Kon-Tiki to support their theory that Polynesia had been discovered and colonised from South America, de Bisschop determined to refute this claim by making a raft voyage in the opposite direction. With four younger companions he built Tahiti Nui [hyphen omitted, G.M.d.S] in Papeete and at the age of sixty-five, and against the advice of all the experts, set forth on the hazardous voyage to Chile.” A publicity stunt? Envy over the worldwide success won by the Kon-Tiki voyage? It is hard to tell by reading this book. De Bisschop was a committed and vastly experienced seafarer, thoroughly French, and a Jesuit to boot. The cocktail of French/Jesuitical hubris is an unannounced delight of sorts, especially in the early chapters, which are more theoretical, before the actual crossing. And how did that go? Not to spoil anything, I’ll just add that a second Tahiti-Nui would eventually be built...

 

And then there is the other pile of books on my overloaded nightstand. Borges had it right when he stated, “I cannot sleep unless I am surrounded by books.”

 

 

 

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Tunisia: i tanti volti del presente, del passato, le meraviglie del deserto e delle oasi.

16 Dicembre 2013 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

Tunisia: i tanti volti del presente, del passato, le meraviglie del deserto e delle oasi.

Paese dalla spiccata vocazione balneare, permette di compiere escursioni ai margini del deserto o l’opportunità di avere una lettura più articolata della realtà ambientale, della vicenda storica e artistico-culturale che vi si è sviluppata nell’arco di almeno tremila anni.

L’Airbus 320 della Tunis Air si fa spazio agevolmente fra le fitte nuvole che coprono il cielo di Roma e di Fiumicino. E’ bello vedere il sole dopo aver attraversato lo strato di nubi che lo coprivano ai miei occhi. Parto nuovamente, ma questa volta il volo sarà breve. Non avrò neppure il tempo di allacciarmi le cinture che dopo meno di un’ora sarò già a destinazione. La mia meta di arrivo è Tunisi, tanto vicina a Roma da avere lo stesso tempo di volo che separa Roma a Milano. Ancora un viaggio stampa, ma questa volta non andrò a visitare un paese sconosciuto. Torno ancora una volta in Tunisia, un paese che conosco bene e che ha il potere di affascinarmi sempre. L’esotico a due passi da casa, si è sempre detto così ogni qualvolta si parlava del paese del nord Africa. Ed è proprio vero, Tunisi, infatti, dista soltanto 50 minuti di volo dalla capitale italiana e l’esotico è visibile ovunque. Dalla città di Tunisi alle rinomate zone costiere; dal magnifico deserto dalla sabbia color oro e dalle dune che il vento trasforma ogni volta che soffia, alle oasi, meravigliose macchie ricche di verde e di vita, che appaiono all’improvviso come miraggi in mezzo al nulla.
Torno volentieri in questo paese coraggioso che ha dato il via alla cosiddetta “primavera araba”, e che ha cambiato il vecchio regime con un altro eletto democraticamente.

Ecco, sarà interessante osservare la “nuova Tunisia” con gli occhi da turista e notare se, in questo frattempo, ci sono stati dei cambiamenti.
Il bel paese, proprio per la vicinanza con l’Italia, è sempre stato una delle mete predilette dei turisti italiani, ma non solo per questo.

In Tunisia sono in molti a parlare italiano, e non soltanto gli addetti al turismo, ma anche i normali cittadini o negozianti hanno amato parlare la nostra lingua, e così, ai nostri connazionali è sempre sembrato di trovarsi “a casa propria”.

Infine, il rapporto qualità-prezzo è sempre stato ottimo e le strutture alberghiere sempre di un livello elevato, a parità di categoria, rispetto a tante altre destinazioni.

E proprio il grande sviluppo alberghiero, avvenuto negli ultimi anni, era la dimostrazione di quanto la Tunisia fosse apprezzata, non solo dai nostri connazionali, ma anche dagli stranieri che, anche in inverno, venivano – e continuano a venire – per trascorrere le vacanze, grazie al clima mite, agli alberghi dotati di centri benessere, beauty farm e thalassoterapia.

Ma oltre a tutto ciò, anche in inverno si possono ammirare le bellezze naturalistiche, artistiche, storiche e monumentali di tutta la regione.
L’immagine più accreditata della Tunisia corrisponde spesso, agli occhi del turista italiano, a quella di Paese dalla spiccata vocazione balneare, con spiagge contornate di palme e di moderne strutture ricettive.

Più raramente è anche il paese dove è possibile compiere escursioni ai margini del deserto o avere l’opportunità di avere una lettura più articolata sia della realtà ambientale della Tunisia, sia della vicenda storica e artistico-culturale che vi si è sviluppata nell’arco di almeno tremila anni.
Il succedersi di tante dominazioni ha determinato non una semplice sovrapposizione rispetto alle civiltà preesistenti, ma l’assimilazione e la rivisitazione delle diverse espressioni artistiche e culturali: come accadde per Roma nei confronti di Cartagine e per la civiltà cristiana, che s’innestò sulla precedente tradizione imperiale cercando autonomia creativa ad esempio nell’arte del mosaico.
Un altro evidente e significativo fenomeno di sedimentazione è rappresentato dall’elemento berbero, precedente all’arabizzazione della regione, che esprime la matrice comune delle più interessanti manifestazioni della cultura tradizionale tunisina.
Ogni viaggio, offrendo conoscenze nuove, di arte e natura, di storia e ambiente, rappresenta un’incomparabile occasione di arricchimento personale. Un viaggio in Tunisia può essere anche la scoperta dei caratteri socioculturali di un popolo che negli ultimi cinquant’anni ha vissuto profonde trasformazioni, sospeso fra la riproposizione dei modelli propri dell’Islam e le spinte ad una incongruente modernizzazione di stampo occidentale.
La Tunisia consente di vivere un’esperienza intensa che porta a scoprire le sue bellezze.

Anche in pochi giorni si può passare da spiagge di sabbia finissima contornate da vegetazione tipicamente mediterranea a distese desertiche di rara bellezza e dall’aria misteriosamente magica, attraversando aride regioni semi-desertiche ravvivate sporadicamente da verdi palmeti.
Le importanti testimonianze artistiche e culturali delle città visitate e le affascinanti immagini, i colori, le sensazioni provate ammirando anche il nulla così straordinariamente pregnante delle regioni desertiche hanno il potere di riempire gli occhi e il cuore e stentano ad affievolirsi al ricordo.
La luce è molto più intensa e ogni cosa riverbera in maniera insolita per il nostro sguardo impigrito dai grigiori monocromatici delle città.

I nostri occhi sembrano liberarsi improvvisamente dalle cortine di smog che abitualmente li offuscano e correre finalmente verso orizzonti sconfinati.

La mente spazia, il cuore si allarga a comprendere il tutto e l’anima si ritempra in un tripudio di emozioni che coinvolge tutti i nostri sensi, avvicinandoci sempre più ad una dimensione spirituale.
E’ una sensazione di estrema calma e pace con sé stessi quella che si prova trovandosi nel deserto ed immergendosi in una magica atmosfera che finalmente appaga il nostro spirito quasi sempre inquieto.

Ma vediamo di conoscere un po’ più da vicino la meta del nostro viaggio.

Spesso un attento esame delle caratteristiche geografiche di un territorio può fornire la chiave per comprendere le vicissitudini storiche di cui è stato teatro e il susseguirsi delle diverse civiltà e culture che lo hanno caratterizzato nel tempo.

Non fa eccezione la Tunisia che, pur essendo parte integrante del Nord-Africa, si protende con le sue coste verso l’Europa, dalla quale la separa un braccio di mare che nel tratto Capo Bon-Marsala non raggiunge i 140 km.

Per la sua posizione la Tunisia può quindi essere considerata il più europeo degli stati africani, anche se la metà meridionale del Paese si estende in territorio sahariano.

Se da un lato la particolare posizione ha reso quest’area una tappa obbligata per le popolazioni interessate a spingersi nel bacino occidentale del Mediterraneo, provocandone il coinvolgimento nelle lotte per la supremazia nella navigazione e nei commerci del mondo antico, dall’altro le caratteristiche orografiche hanno determinato una certa vulnerabilità del Paese ad Oriente, direzione dalla quale provennero prima gli Arabi e poi i Turchi Ottomani.

Secondo quanto riportato da Virgilio nell’Eneide Cartagine fu fondata nell’814 a.C. da Didone, sorella di Pigmalione, che tentava di sottrarsi alla tirannia del fratello. I Fenici del Libano, diventati qui i Punici, inventori di una delle più antiche scritture alfabetiche, diedero vita ad un’economia basata su fini commerciali.

Le prime presenze dei Romani sono datate al 264 a.C.; Cartagine è sempre stata strutturalmente molto legata alla storia dell’Urbe, del resto la Sicilia è in posizione strategica e gli antichi toponimi presenti sulla costa tunisina rappresentano le tracce nettissime della colonizzazione romana in quest’area.

Profondamente romanizzato e cristianizzato, il territorio tunisino ha costituito la porta di ingresso e la terra di passaggio ideale per conquistatori e invasori fino alla sua completa arabizzazione, rimanendo comunque, anche dopo la recente occupazione coloniale europea, una delle strade preferenziali non solo verso l’Africa ma anche verso lo stesso Oriente.

L’arabizzazione della Tunisia, che già i Romani indicavano con il nome di Africa e gli Arabi con quello di Ifriqiya, ebbe inizio con la seconda metà del VII secolo; sviluppatasi con ritmi piuttosto lenti, influenzò la nuova civiltà e la nuova lingua, che risentirono se non in minima parte della successiva dominazione turca.

Hammamet

La nostra avventura ha inizio dalla penisola del Capo Bon: un territorio molto fertile quasi interamente favorito da microclimi ideali per le coltivazioni.

Nel tratto iniziale, il litorale presenta un susseguirsi di brevi pianure costiere che si alternano a tratti dominati da scoscese falesie; poi, dopo Hammamet, la fascia costiera va gradualmente allargandosi in un’estesa pianura, al cui interno permangono ancora zone incolte o adibite a pascolo.

Lo sviluppo della zona è stato caratterizzato da profonde trasformazioni: un tempo a vocazione essenzialmente agricola (fino al 1930 Nabeul e Hammamet erano i principali centri di produzioni di agrumi di tutto il capo Bon), la penisola è oggi un comprensorio turistico assai attrezzato e frequentato da una clientela internazionale.
Nessuna località della Tunisia interpreta più compiutamente di Hammamet l’immagine turistica del Paese, proponendosi quasi come il simbolo delle vacanze.

Clima dolcissimo (la temperatura in inverno è di 12°, con minime di 3° e massime di 20°), giardini che evocano piantagioni tropicali, numerosi e confortevoli alberghi celati discretamente tra cipressi, aranci e bouganville, oppure allineati lungo bellissime spiagge dalla sabbia fine.

E’ curioso pensare come quella che oggi è diventata la maggiore località turistica della Tunisia, visse pressoché fuori dal tempo fino agli anni ’20 di questo secolo, quando il miliardario rumeno G. Sébastian vi si stabilì facendovi costruire una villa sontuosa, celebrata all’epoca come una delle migliori opere dell’architettura contemporanea.

Così, nel giro di pochi anni, Hammamet si trasformò in un punto di ritrovo per scrittori, pittori ed artisti, tra cui André Gide, Georges Bernanos, Paul Klee, Frank Lloyd Wright.

Dopo la guerra (nel corso della quale la villa e il parco che la circonda furono requisiti e adibiti a quartier generale del maresciallo Rommel), la costruzione dei primi grandi alberghi, ha trasformato Hammamet in una grande stazione balneare.

La città vecchia, con i bastioni e la casbah che la sovrasta dal lato della spiaggia, conserva un aspetto caratteristico e per molti aspetti affascinante, con le stradine tortuose, le bianche case e le piccole corti interne.

Nonostante la posizione settentrionale e un po’ decentrata rispetto al restodella Tunisia, Hammamet costituisce un eccellente punto di partenza per escursioni di uno o più giorni nel resto del Paese.

Sidi Bou-Said

Una piacevole gita da consigliare è senz’altro quella alla scoperta di Sidi Bou-Said, villaggio andaluso di 700 anni fa. Si tratta di un antico insediamento di marabout (gli antichi monaci guerrieri) disposto a dominio del mare sulle pendici del Gebel Manar, sulla cui sommità fu edificato dagli Arabi un ribat, un monastero fortificato a presidio del golfo.

Luogo santo per i Musulmani, il villaggio trae fascino dall’architettura particolare delle sue abitazioni, dalle stradine lastricate, dai giardini appartati e dai patii, dalle case le cui bianche facciate sono impreziosite da stipiti scolpiti, dall’azzurro delle finestre, delle inferriate e delle porte, in un contrasto cromatico che si rinnova nel gioco dei volumi. Bouganville di ogni colore interrompono il bianco e azzurro delle case.

Dall’alto della cittadina si gode di un panorama mozzafiato: il Golfo di Tunisi e il piccolo porto si aprono alla nostra vista come un santuario della bellezza e della calma, che riesce ad infondere.

Il sole si riflette sul mare che sembra senza confini. L’impressione è quella di trovarsi all’alba della vita.

Sembra quasi che il tempo passi nel “dolce far niente”, anche se non è così perché i numerosi negozi, e bancarelle pullulano di turisti che fanno acquisti.

I bar sono il ritrovo preferito per gli incontri, dove gente cordiale ti saluta e ti invita a parlare.
Sidi Bou-Said deve il suo nome all’asceta che al principio del XIII secolo ne fece la base di diffusione del sufismo (nome con il quale viene storicamente definito il misticismo musulmano).
A partire dal XVIII secolo principi, ministri e notabili fecero a loro volta delGebel Manar il luogo prediletto dei loro soggiorni estivi costruendovi palazzi e residenze.

Restaurato secondo un progetto di rivalorizzazione dell’architettura tunisina e rivitalizzato nel tradizionale artigianato locale, in tempi recenti è divenuto un centro molto frequentato da scrittori, artisti, musicisti e poeti.

Tunisi e Cartagine

Trovandosi così vicini a Tunisi e a Cartagine non si potranno certamente tralasciare lo splendido Museo nazionale del Bardo nella capitale, il più importante dei musei archeologici del Maghreb e uno dei più ricchi al mondo per quanto riguarda i mosaici romani, costruito in un’ala di un antico palazzo del Bey e che conserva anche delle antiche statue e oggetti di epoca preistorica, punica e musulmana.

Tunisi è da scoprire come una bella donna perché è una scoperta continua.

Passeggiando nell’elegante e larga Avenue Bourguiba, delimitata da alti alberghi, è interessante osservare i vari stili dei palazzi che la contornano.

Si va dallo stile Liberty allo stile arabo, dall’Art Decò al classico e al moderno.

La strada principale è piena di bei negozi, di caffè, di pasticcerie e di ristoranti, di Chiese e del Teatro Municipale, in tipico stile Art Nouveau.

C’è anche una piazza, una volta Piazza dell’Indipendenza ed oggi dedicata a Mohamed Bouazizi , attivista tunisino, divenuto simbolo delle sommosse popolari in Tunisia, dopo essersi dato fuoco per protestare contro le condizioni economiche del suo paese.

La sua morte ha dato il via a quella che è stata definita la “Primavera Araba”, con la sommossa che ha portato alla fuga il presidente Ben Ali, al potere per 23 anni. In onore di Bouazizi, anche l’aeroporto di Tunisi ha preso il suo nome e in ogni città della Tunisia c’è una piazza che porta il suo nome

Alla fine del lungo viale alberato, ci si immette in quello che è il souk più colorato che si possa immaginare.

Nei vicoli, in entrambi i lati, si trovano piccoli negozi che espongono ogni genere di merce: ceramiche, abbigliamento, spezie, scarpe.

I colori degli oggetti dell’artigianato locale danno un tocco di vivacità e diversità dagli altri souk che si possono trovare nei paesi del nord Africa e del Medio Oriente.

Il souk, molto vasto, circonda la Grande Moschea Ezzitouna, una delle più antiche del Maghreb, le sue cupole sono ricoperte di intarsi di marmo.

A Tunisi c’è da visitare il quartiere della Kasbah, così chiamata perché era l’antica cittadella reale, che oggi non esiste più.

C’è una Moschea almohade, edifici in stile arabizzante e un antico palazzo dei Bey.

Ci sono poi le “Diar”, case antiche, che conservano il fascino speciale delle dimore dallo stile andaluso e italiano, i sobborghi con la caratteristica Piazza Alfaouine e il Museo della Ceramica, situato in una splendida Moschea-mausoleo del XV° secolo, Sidi Qacem El Zelliji. E poi c’è la Moschea di Sidi Mehrez, che ricorda le moschee di Istanbul e le Medersas, antichi collegi musulmani, dotati di eleganti portici e patii.

Non si può mancare di visitare le vestigia dell’antica Carthago, che tanta parte ebbe nelle vicende storiche puniche e romane. Non è rimasto molto della città, purtroppo. Ci sono alcune rovine di case, colonne e statue sopravvissute alla distruzione romana, mentre nel bel Museo sono conservati resti dell’epoca punica, romana e islamica.

Ci sono statue, sarcofagi, manufatti in ceramica, in marmo, mosaici, anfore che conservano ancora i colori originari e i disegni risalenti al 500 a.C., biberon, urne cinerarie, oggetti in vetro soffiato, un frammento in ceramica di epoca romana con scene erotiche e un Tanit, il simbolo di Cartagine, risalente all’800 a.C. con i segni che rappresentano una piramide, il sole e l’orizzonte.

Il Museo è stato costruito sulla collina di Byrsa il cui nome significa “pelle del toro”, e dall’alto è possibile vedere una parte della capitale.

Vicino al Museo di Byrsa si può ammirare un’antica cattedrale francese, dallo stile bizantino-moresco e che oggi è utilizzato come centro culturale.

Fra le rovine è possibile vedere alcuni resti di quelle che erano le Terme di Antonino, le Ville Romane.

Sousse

Costeggiando il mare verso sud si incontrano dapprima la plurimillenaria Sousse e poi Monastir, all’estremità meridionale del golfo di Hammamet, dove l’ampia curva delle spiagge cede il posto a calette scogliose.

La Medina di Sousse spicca con la massa bianca di casette cubiche, isolate e protette da un bastione merlato, sulle quali sembra vegliare la casbah, avvolta in fortificazioni color ocra.

Il dinamismo del moderno abitato che si estende verso il porto, con la zona alberghiera sulla costa e il grande centro di talassoterapia con spiaggia privata, è forse un’eco lontana dell’epoca aghlabide, il periodo di maggior splendore nella storia della Tunisia musulmana, della quale Sousse conserva preziose testimonianze.

La Grande Moschea dell’XI secolo, per le merlature e le massicce torri rotonde sembra somigliare ad una fortezza.

Lo ksar er-Ribat, allestito dai famosi Morabiti, è uno dei più importanti monumenti dell’Islam maghrebino; dall’alto della torre di vedetta si gode di una splendida vista panoramica della città, mentre all’interno la copertura del vestibolo è un autentico prototipo delle volte a crociera ogivali e la sala dipreghiera al piano superiore costituisce la più antica moschea africana tuttora esistente.

All’inizio del IX secolo la costruzione faceva parte di una serie di analoghi edifici costieri cui era affidato il compito di assicurare la difesa dell’Islam contro le incursioni dei Cristiani.

I ribat, erano infatti abitati da una sorta di monaci-guerrieri che dividevano il proprio tempo tra la preghiera e la lotta agli infedeli; impegnati nella guerra santa ma anche guardiani dell’ortodossia, essi propagavano l’Islam ed accoglievano i pellegrini in viaggio verso la Mecca.

Ben presto, tuttavia, la nascita di una potente flotta musulmana e l’erezione di cinte fortificate intorno alle città costiere privarono i ribat della loro funzione militare, favorendo così la tendenza a trasformarsi in centri religiosi.

Vicino a Sousse c’è la bella città di Port El Kantoui, dotata di un porto con 340 posti barca. Le sue abitazioni sono di grande eleganza e in stile arabo-andaluso.

Numerosi ristoranti dove si può mangiare dell’ottimo pesce, alberghi, negozi e luoghi di divertimento, oltre ad un campo da golf, ne fanno una delle località più belle della costa. Il suo nome significa “primo porto-giardino del Mediterraneo”.

Monastir

Le scogliere coralline, le rocce sul mare, i giardini e gli uliveti caratterizzano l’aspetto di questa città, il cui clima particolarmente mite la rende adatta ai soggiorni in qualsiasi periodo dell’anno.

Monastir era il centro economico e politico di tutta la Tunisia e rimane tuttora l’unica zona nel centro del Paese a godere di un aeroporto.

Base d’appoggio nella campagna africana di Giulio Cesare, l’antica Ruspina era difesa da una triplice cinta muraria della quale sono state rinvenute alcune tracce.

La zona assunse nuovamente importanza nell’VIII secolo con la costruzione del ribat: la tradizione secondo la quale chi era di stanza per tre giorni nel ribat di Monastir era certo di andare in Paradiso favorì l’afflusso dei fedeli.

Nell’XI secolo, quando Mahdia sostituì Kairouan nel ruolo di capitale, Monastir divenne la città santa della Tunisia, anche se nei secoli successivi decadde rapidamente, riacquistando importanza solo con i Turchi che, dopo averla contesa agli Spagnoli, ne fecero una loro piazzaforte.

La regione centrale

Per chi arriva dalla circostante regione stepposa, una zona dal clima caldo e molto secco, animata solo da qualche ciuffo di artemisia e dai rami spinosi dei giuggioli, Kairouan appare come un accampamento che spunta improvvisamente in mezzo al deserto, producendo l’effetto di una città del passato.

Ed effettivamente proprio da un accampamento ebbe origine: Uqba ibn Nafi vi fermò la sua carovana (da cui Kairouan) e, dopo aver dato ordine, secondo la leggenda, a serpenti, scorpioni e altri animali ostili di liberare il luogo, vi fondò la città dalla quale sarebbe poi partito alla conquista del Maghreb.

Ancora due secoli fa la regione intorno a Kairouan costituiva un’immensa area a economia quasi esclusivamente pastorale, dove prevaleva una popolazione di beduini nomadi e seminomadi che nei mesi estivi si trasferivano con le proprie greggi di ovini, caprini e dromedari verso il Sahel o i più fertili rilievi del Tell tunisino.

Del campo militare Kairouan conserva ancora oggi l’aspetto, con le alte fortificazioni e le case sorte all’ombra dei santuari.

La città è infatti un luogo santo, che ha nel minareto della Grande Moschea, alto sulla steppa circostante, il punto di riferimento e di adunata dell’Islam maghrebino. Da visitare anche la Medina e monumenti molto belli come la zavia Sidi Saheb. Oggi Kairouan è anche il centro principale dell’artigianato del tappeto.

Il Jerid e le oasi

Attraversando l’importante regione estrattiva del sud-ovest tunisino, in particolare il grande comprensorio minerario di Gafsa e delle zone circostanti, dalle quali proviene oltre il 30 % delle esportazioni del Paese (fosfati e petrolio), si giunge alle oasi del Jerid, il paese delle palme.

Tozeur, Nefta, el-Oudiane ed el-Hamma du Jerid situate lungo la lingua di terra che separa lo chott el-Jerid da quello di el-Gharsa, al limite fra la zona delle steppe e quella più propriamente desertica, sono le oasi di questa regione dal clima tipicamente predesertico (le temperature possono raggiungere punte massime estive oltre i 49° e minime invernali fino a –4°).

Dai palmeti di questa zona provengono i migliori datteri del Paese, appartenenti alla specie universalmente apprezzata deglet en-Nour (dita di luce, per la trasparenza color ambra che acquistano con la maturazione). Le palme da datteri (che possono vivere fino a 100-150 anni e raggiungere anche i 20-25 m. d’altezza, con un tronco di quasi un metro di diametro e foglie lunghe 4-5 m.), producono fra le 25000 e le 30000 tonnellate di frutti, in parte esportati; alla loro ombra crescono inoltre alberi da frutto e ortaggi di ogni genere, coltivati in giardini irrigati accuratamente secondo una normativa stabilita già nel XIII secolo.

Tozeur

L’oasi di Tozeur è una delle più belle di tutta l’Africa nord-orientale: irrigata da 200 sorgenti, con il suo splendido palmeto occupa oltre 1.000 ettari.

Costeggiando il braccio principale dei canali d’irrigazione dell’oasi si raggiunge una delle zone più pittoresche: ai piedi di rocce corrose, in un piccolo spazio circolare ciuffi di palme si specchiano nell’acqua delle sorgenti e, volendo, si può salire sulle colline circostanti da dove il panorama abbraccia le varie diramazioni del fiume, il palmeto, Tozeur e, all’orizzonte, lo chott el-Jerid e il Sahara.
A Tozeur le case del centro, anche quelle più recenti, sono molto caratteristiche con le loro facciate a mosaici decorate a motivi geometrici ottenuti con mattoni sporgenti e rientranti di color ocra: si tratta di un tipo di decorazione, di origine berbera, simile a quella dei tappeti e dei tessuti locali.

È interessante visitare il Museo Etnologico Dar Cherait per avere uno spaccato della vita sociale e domestica locale: al suo interno è possibile ammirare i costumi tipici delle feste e dei matrimoni, i gioielli, l’henné, le ceramiche e le armi. Il giardino botanico e lo zoo offrono poi al visitatore la possibilità di osservare da vicino tutte le specie vegetali e animali di cui è ricca la Tunisia

La medina di Tozeur è un gioiello architettonico del XIV secolo ben conservato che è consigliabile visitare al mattino presto quando la luce già intensa ed il cielo terso donano alle tipiche tonalità ocra dei mattoni dei riflessi decisi.

Aggirarsi fra i vicoli nelle prime ore della giornata consente di apprezzare maggiormente la bellezza del luogo e il silenzio è il complice perfetto. Svoltando un angolo può capitare di sorprendere dei bambini intenti nei loro giochi, di intravedere una donna con l’abito tipico che sta rincasando o un uomo a dorso di un asino.

Chott el-Jerid

Lasciata Tozeur la strada s’inoltra nello Chott el-Jerid, immensa distesa di sale dai riflessi argentei e violacei che appare priva di ogni forma di vita. La strada corre su una lunga penisola di sabbia che attraversa il lago salato e in alcuni punti è viva la sensazione di trovarsi sospesi su una superficie acquea senza fine. I riverberi abbacinanti del sole allo zenit acuiscono l’emozione e il paesaggio assume caratteristiche irreali.

A causa dell’eccessiva luce si prova infatti qualche difficoltà a tenere gli occhi aperti ma ciò che si vede è talmente insolito e bello da valere la pena di sopportare per un po’, anche perché è possibile assistere al fenomeno dei miraggi! I cambiamenti cromatici dello chott el-Jerid nei diversi momenti della giornata sono spettacolari ed occorrerebbe sostarvi a lungo per apprezzarne il fascino, peccato avere troppo poco tempo a disposizione; si possono però raccogliere quante più immagini ed impressioni possibile mentre si è sul posto per serbarle poi tra i ricordi più cari.

Allontanandosi a malincuore, solo dopo diverse decine di km appaiono le prime palme che segnalano la lunga sequenza di oasi distribuite fino a Kebili a “pelle di leopardo” ai lati dell’asfalto: vere oasi di vita nel paesaggio ostile all’insediamento umano formato dagli chott, dalle hammada pietrose e dalle immense distese di sabbia del Grande Erg.

La regione degli chott, che taglia in due la Tunisia all’altezza del golfo di Gabès, è infatti una zona di depressioni che corre da est a ovest per circa 350 km.: queste distese ricoperte da un velo d’acqua (sempre molto salmastra) solo nelle zone più basse e nella stagione delle piogge, risultano in larga parte poco stabili e difficilmente praticabili.

All’apparire delle prime oasi sulla strada per Kebili è molto interessante fermarsi ad ammirare le dune di finissima sabbia bianca pietrificata che, con le loro grotte e concrezioni particolari, incuriosiscono e stimolano la voglia di arrampicata.

Sembrano rocce e invece si tratta di collinette di sabbia (fortunatamente più facili da scalare delle classiche dune), piccoli rilievi che spuntano impertinenti sulla superficie quasi totalmente piatta del territorio circostante.

Douz

Arrivati a Douz si ha l’impressione di trovarsi in un territorio di frontiera; si è effettivamente ai confini del deserto vero e proprio, da qui partono le piste per le escursioni nel Sahara.

L’oasi di Douz ospita ogni settimana un animato mercato frequentato da allevatori nomadi di cammelli ed è proprio a dorso di questi animali e dei loro cugini dromedari che è possibile compiere delle passeggiate nel deserto, particolarmente deliziose al tramonto.

È consigliabile arrivare in tempo per vedere il sole che scompare all’orizzonte proprio dietro le dune e scoprire, dopo una prima fase di sconcerto e di disagio (avvertito maggiormente da chi si trova alla prima esperienza), che l’avventura è, non solo divertente, ma anche estremamente emozionante.

I tramonti nel deserto hanno infatti un fascino particolare, incomparabile, che ammalia. Subito dopo che il disco solare si è dipinto di un intenso color amaranto, i raggi crepuscolari si diffondono nel cielo dispiegando una magica tela rosata che persisterà molto a lungo sospesa sull’orizzonte, finché la prima stella della sera, proprio come uno spillo, giungerà a forare il tessuto ormai blu cobalto della volta celeste.

A Douz, tipico villaggio del deserto che conserva gelosamente i suoi usi e costumi tradizionali, si svolge ogni anno il Festival International du Sahara, una manifestazione culturale particolarmente interessante, nel corso della quale si può assistere a spettacoli di folklore nomade, matrimoni tradizionali, caccia con i levrieri, combattimenti di cammelli, hockey su sabbia, la “fantasia”.

Nel panorama culturale tunisino numerose sono anche le feste regionali, spesso legate o sovrapposte a festività religiose, che si tengono durante tutto l’anno in Tunisia.
Abitanti di queste regioni desertiche sono le popolazioni nomadi maghrebine più o meno sedentarizzate, come i Berberi, il cui complesso di cultura e tradizioni è vivo da secoli. All’interno della composita società tunisina, infatti, dove sono tuttora evidenti inclinazioni profondamente diverse che vedono accostarsi l’aspirazione mercantile delle città costiere, lo spirito intellettuale di Tunisi, il misticismo di Kairouan, l’intraprendenza delle genti della steppa o l’indipendenza dei nomadi costretti a una forzata sedentarizzazione, emerge tuttavia, nonostante le sedimentazioni culturali avvicendatesi nel corso dei secoli, un substrato comune, precedente all’arabizzazione del territorio, che affonda le radici nell’elemento berbero, con la sua particolare organizzazione sociale, i suoi valori, i simboli, le feste, le musiche e i canti.

Non a caso, proprio nelle regioni meridionali, dove la presenza di popolazioni di origine berbera è più massiccia, più autentiche e più gelosamente custodite sono quelle tradizioni culturali che altrove si manifestano in forma più standardizzata quando, addirittura, non sono state adattate a esclusivo uso del turista.

Le più interessanti manifestazioni popolari riguardano la musica e le danze dove, su una base che si rifà molte volte alla tradizione andalusa, si sono sovrapposte influenze provenienti dall’Oriente; ed è in occasione delle principali feste che è possibile vedere, indossati dalle donne, anche costumi e ornamenti tradizionali, tra cui spiccano i gioielli berberi.

Djerba

L’immagine della Tunisia turistica e balneare è indissolubilmente legata a quella di Djerba, l’isola dei Lotofagi che, non a caso, Ulisse e compagni fecero tanta fatica ad abbandonare. Le spiagge che disegnano il profilo dell’isola nell’azzurro del mare, la vegetazione lussureggiante e i tipici menzel (le casette con le cupole bianche) che spuntano tra una palma e l’altra costituiscono il fascino dell’isola.

Nota fin da epoche remote, sembra che i Fenici vi avessero un emporio commerciale, anche se non esiste alcuna prova certa che avvalori quest’ipotesi. Posta sotto il controllo prima di Cartagine e poi di Roma, dopo la decadenza di quest’ultima subisce un lungo periodo di vicissitudini: invasa prima dai Vandali e poi dai Bizantini, viene conquistata dagli Arabi nel 667 e successivamente devastata dall’invasione hilaliana dell’XI secolo.

Alle lotte degli abitanti di Jerba e i Musulmani ortodossi fece seguito una lunga resistenza contro i diversi padroni del Mediterraneo (Normanni di Sicilia, Aragonesi, Spagnoli); a partire dalla seconda metà del XV° secolo l’isola diventò un covo di pirati e per porre fine alle loro incursioni venne organizzata nel 1560 una spedizione, comprendente truppe fornite dalla Spagna, dalla Francia e da Napoli, che nello scontro col corsaro Dragut, appoggiato dalla flotta turca, si trasformò in una clamorosa disfatta per le truppe cristiane.

La maggior parte degli abitanti di Jerba è costituita da Berberi che si stanziarono sull’isola fin da un’epoca anteriore alla conquista araba e che parlano ancora l’omonima lingua. Nell’isola non esistono veri e propri agglomerati urbani se si eccettua Houmt-Souk (da Houmet es-Souk, che significa il quartiere del mercato), capoluogo amministrativo dell’isola; tutti gli altri centri sono insediamenti di mercati, attorno ai quali si raccolgono tutte le abitazioni con i relativi giardini.

Le palme, elemento essenziale del paesaggio di Jerba sono assai numerose soprattutto lungo la costa, dove formano una sorta di anello. Gli olivi, talora antichissimi, occupano tutta la parte interna del perimetro delimitato dalle palme, i fichi danno frutti estremamente saporiti, parte dei quali viene fatta seccare per l’inverno.

I frutteti abbondano: meli, mandorli, albicocchi, aranci, mandarini, limoni e melograni sono così fitti che alla loro ombra è possibile coltivare ogni sorta di verdura, dando quasi l’idea di un lussureggiante giardino.
Il turismo, settore molto importante per l’isola, ha conosciuto uno sviluppo rapidissimo divenendo una delle principali risorse economiche dell’isola; le infrastrutture alberghiere sono in generale di buon livello e distribuite in modo da evitare agli ospiti l’impressione di congestione urbanistica, anche se la continua espansione, dove non regolamentata e rallentata, rischia di portare rapidamente alla diffusione di un’architettura un po’ anonima, con l’abbandono degli edifici antichi e delle coltivazioni tradizionali.

Nonostante la massiccia invasione dei turisti, Houmt-Souk ha saputo conservare l’aspetto di animato emporio commerciale particolarmente attivo. I souk, al centro dell’abitato, ospitano soprattutto sarti e mercanti di tessuti, mentre altre corporazioni di artigiani si raggruppano nelle strade vicine. Tutt’intorno si aprono piazzette collegate fra loro da passaggi a volte e vicoli, gli spaziosi cortili sono circondati da gallerie sulle quali si aprono piccoli ambienti d’abitazione o botteghe artigiane.

Particolarmente interessanti sono i banchi delle spezie dagli odori inebrianti: dal peperoncino al coriandolo, dalla cannella allo zenzero, dallo zafferano al sesamo, all’anice e così via è una girandola di stuzzicanti sapori e colori sfavillanti che è un piacere di rara intensità per la vista e l’odorato.
Vagabondare senza meta e mercanteggiare nei souk è una delle esperienze più interessanti e divertenti di un viaggio in Tunisia.

Il prezzo va sempre contrattato: si tratta di un rituale indispensabile che si svolge secondo regole ben precise, acquisibili solo con la pratica. Il prezzo proposto dal commerciante può essere il doppio, o anche più di quanto egli valuti la sua merce, ma esiste comunque una soglia al di sotto della quale nonscenderà e spetta alla contrattazione individuarla.

Si deve ribattere sempre con prezzi molto inferiori a quelli richiesti senza timore di reazioni verbali, che del resto fanno parte del rito, e prendendo tranquillamente tempo. I prodotti artigianali più convenienti sono i tappeti, le ceramiche, i lavori in rame, i monili in argento, i profumi e le graziosissime gabbie per uccelli di Sidi bou-Said, praticamente dei palazzi in miniatura decorati da balconi, riccioli, cupole, belvedere.

Gabes e Matmata

Gabes è una grande oasi marittima nella quale vale la pena soffermarsi per visitare il suo palmeto e i souk molto colorati, mentre Matmata è qualcosa di incredibile per chiunque abbia la fortuna di poterla visitare

In mezzo ad una zona desertica, dove sorgono alcune sparute case in paesini berberi, tutte rigorosamente di colore bianco in modo da spiccare sul suolo color ocra, in alcune cavità della terra ci sono le cosiddette case dei trogloditi, antiche abitazioni-caverne scavate nella roccia.

Dall’alto si notano soltanto quelle che sono le porte e sono visibili, nel cortile che raccoglie queste abitazioni, alcuni oggetti di uso quotidiano All’interno, le case hanno una temperatura fresca – se si è in estate – e abbastanza calda, nel periodo invernale. Alcune famiglie ancora ci vivono e accolgono i visitatori offrendo loro una tazza di thé e la gentilezza della loro ospitalità. Matmata è veramente un posto unico e impensabile!

El Djem

Appena si arriva a El Djem si ha l’impressione di trovarsi in una città italiana. In questo piccolo centro sorge un Colosseo che è terzo al mondo, per grandezza, dopo quello di Roma e quello di Capua. La città fa parte del Governatorato di Mahdia ed ospita alcune delle più belle, e meglio conservate, rovine romane dell’Africa. La città fu costruita dai romani su un insediamento punico ed era un centro molto importante per la coltivazione dell’olio di oliva.

A El Jem c’era una diocesi romana che esiste tuttora ed è retta da un vescovo cattolico. Il suo Colosseo era in grado di accogliere 35 mila spettatori seduti. Si presume che sia stato utilizzato per spettacoli di gladiatori e corse dei carri. L’anfiteatro nel 1979 è stato dichiarato dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità.

Tabarka

Esiste una parte della Tunisia che si sta facendo conoscere da qualche anno e che è completamente diversa da quella più nota ai turisti. E’ la zona situata a nord del paese, che viene comunemente definita la Tunisia verde. E non a torto. A meno di tre ore di macchina dalla capitale, infatti, il paesaggio ètotalmente differente da quello che si è abituati a vedere nella parte sud-est della regione.

E’ una Tunisia molto mediterranea ma anche un po’ alpina, ricca di foreste e di laghi che mai si immaginerebbe di trovare in quella parte di Africa. E’ un territorio nel quale si alternano lunghe spiagge, scogliere, piccoli porticcioli e paesaggi montani. E’ la parte che unisce in maniera egregia il mare alla montagna e che regala al turista un ambiente ancora naturale, incontaminato, e paesaggi singolarmente opposti.

Chilometri e chilometri di coste si contrappongono ad un entroterra particolarmente ricco di boschi nel quale scene di vita pastorale e campi coltivati si avvicendano a centri abitati, a Fortezze monumentali e a stazioni balneari. E’ una terra che sa di passato, di storia che si incrocia con quella dei romani; di battaglie combattute per la difesa di una regione che faceva gola ai nemici per la ricchezza dei suoi fondali e del suo entroterra.

Fra le città più belle della Costa del Corallo, così viene definito il nord della Tunisia, vi è Tabarka, antico porto fenicio dominato dal monumentale “Forte dei Genovesi”, oggi cittadina balneare apprezzata dai sub per le immersioni nelle sue limpide acque, ricche di fauna ittica e, naturalmente, di banchi di corallo disseminati sui suoi fondali. Lo sviluppo turistico di Tabarka è proprio legato alle attività subacquee, qui si organizzano, infatti, gare internazionali, corsi di sub e di fotografia subacquea.

Luogo ideale per le immersioni, può essere anche il punto di partenza per una escursione ai siti archeologici di Dougga, l’antica Thugga, nella quale sorge il più grande complesso di rovine romane della Tunisia, oppure di Bulla Regia (ricca di splendidi mosaici), di Chemtou e di Utica.

Allontanandosi dalla costa, l’entroterra di Tabarka offre un ambiente naturale costituito dalla foresta della Krumiria nella quale, a 800 metri di altitudine, si trova la stazione termale di Ain Draham (Fonte d’Argento). Tabarka, quindi, si propone come nuova meta di turismo balneare, ma anche culturale e ecologico. Da molti anni, inoltre, vi si svolgono importanti manifestazioni che richiamano un folto numero di turisti provenienti da ogni parte del mondo. Fra questi vanno ricordati la Festa del Corallo e il Festival del Jazz, che si propone come uno dei più importanti eventi di musica internazionale.

Tunisia, terra dai mille volti e dalle innumerevoli bellezze che si svelano pian piano agli occhi dei visitatori. Tunisia, paese che riserva tante sorprese ancora tutte da scoprire. Tunisia, che affascina con i suoi panorami, le sue gole profonde, il suo deserto con le dune dorate, le sue oasi verdi con i palmizi carichi di datteri, le rovine delle città romane, i miraggi nel lago salato, i tramonti caldi e ammalianti, i bazar profumati di spezie, la sua storia che si confonde con le leggende e i suoi miti. Tunisia, una nazione che non stanca mai.

Liliana Comandè

Tunisia: i tanti volti del presente, del passato, le meraviglie del deserto e delle oasi.
Tunisia: i tanti volti del presente, del passato, le meraviglie del deserto e delle oasi.
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Intervista con l'artista: Giacomo Balla

18 Aprile 2020 , Scritto da Walter Fest Con tag #walter fest, #pittura, #arte, #le interviste pazze di Walter Fest, #poesia

"Dinamismo di un cane al guinzaglio" di Giacomo Balla e l'omaggio di Walter Fest"Dinamismo di un cane al guinzaglio" di Giacomo Balla e l'omaggio di Walter Fest

"Dinamismo di un cane al guinzaglio" di Giacomo Balla e l'omaggio di Walter Fest

 
Amici lettori della signoradeifiltri, bentornati al mio appuntamento con l'arte e con il blog sempre in orbita nella galassia della cultura. Questo deve proprio essere un periodo sfortunato. Devo andare a prendere l’artista che oggi intervisterò ma purtroppo i miei mezzi di locomozione sono ancora in panne, abbiamo dovuto riconsegnare il 600 a pulmino alle suore pacifiste, non potevamo approfittare della loro generosità, quindi oggi non mi rimane che prendere la vecchia 500, che si mette in moto solo se viene spinta e, in questi casi, a chi si chiede aiuto? Ma sì, si chiede aiuto a un amico, aspettate un attimo che lo chiamo.
 
- Pronto Laurent.
 
- Ciao Walter.
 
- Ho un problema, mi devi aiutare.
 
- Che dobbiamo fare?
 
- C’è una 500 da mettere in moto a spinta, non va il motorino d’avviamento.
 
- Aspettami che arrivo.
 
Amici lettori, mi dispiace di questo contrattempo, mi rendo conto che siamo nel 2080, in piena fantascienza, in piena era moderna e super evoluta, ma a noi poveri artisti, se vogliamo spostarci, non rimane che spingere miseramente a mano questa piccola automobilina. Per fortuna sta arrivando un mio amico: il poeta Laurent.
 
- Eccomi, sono arrivato, allora, che facciamo?
 
- Spingiamo, forza, io monto in macchina e tu spingi. Accendo il quadro, metto la seconda al volo, il motore parte, con la destra apro lo sportello e tu, con salto, entri.
 
- Comincio a captare la fregatura: è per questo che mi hai chiamato?
 
- Ma dai, si tratta di un piccolo aiutino, tu sei forzuto. E poi, dopo, ti presento un amico artista, intervistiamo Giacomo Balla.
 
- E’ amico tuo?
 
- Laurent, io con la fantasia tengo un sacco di amici altolocati. Dai, sbrighiamoci che ci sta aspettando.
 
E con uno schioccare di dita, i due artisti di @libereria mettono in moto la 500 e vanno ad incontrare Giacomo Balla.
 
- Laurent, con il famoso artista torinese faremo un ritorno al passato, torneremo indietro nel tempo per parlare del presente che poi è il futuro. Lo so che ti appare un concetto confuso ma, attraverso la fantasia, spiegheremo quello che accadrà fra 60 anni. Eccolo là, in compagnia del suo cane al guinzaglio.
 
- Giacomo, benvenuto a bordo, le presento un mio amico scrittore, Laurent Vercken de Vreushmen.
 
- Molto lieto maestro.
 
- Ragazzo, chiamami semplicemente Giacomo. Insomma, Walter, siamo in era post futurista, perché sei venuto con questa auto preistorica?
 
- Giacomo, è quello che passa il convento della fantasia.
 
- Ah, ho capito! Ecco perché sei andato da Dalì con il pulmino delle suore.
 
- Giacomo, quella è un'altra storia. Ma hai ragione, siamo nel 2080 e la tecnologia è parte della nostra vita, ha facilitato  il nostro quotidiano. Quello che il cinema aveva da sempre anticipato come finzione scenica ora è diventato realtà. Fortunatamente, nel 2080, prima che corressimo il rischio di diventarne schiavi, abbiamo fatto in tempo a fare qualche passo indietro. La virtualità, l'automazione non possono sostituirsi a noi, questo pianeta è nato per essere la casa di ogni forma di esistenza naturale a dimensione umana, la tecnologia deve rimanere solo uno strumento. Giacomo, parliamo del movimento Futurista?
 
- Walter, noi eravamo prima di tutto uomini con una testa, un cuore, due braccia e due mani per forgiare e plasmare la materia. Il mito della velocità era l'applicazione delle nostre teorie, l'arte è sempre stata l'apripista dei nuovi linguaggi, rompere gli schemi del passato era la nostra forza, la nostra illusione. Il Futurismo, come tutte le avanguardie artistiche, disponeva di un tempo limitato per lasciare il posto a nuove tendenze. Vedi come tutto gira? Mai permane una situazione inossidabile di staticità, è l'energia dinamica della nostra esistenza che si muove insieme al globo terrestre, in un vortice infinito, ad una tale velocità  da far sembrare ogni cosa invisibile, nella quasi perdita della cognizione del tempo. C'è solo una cosa che ci ricompatta e ci armonizza con la natura: il colore, un'infinita gamma di sfumature, parte intrinseca del nostro dna. Il colore è il cuore di ogni cosa. Sai che l'Italia è il paese più colorato del mondo? Lo è per conformazione naturale, lo è per la sua storia, naturalmente per la sua arte, non esiste paese al mondo più colorato del nostro.
 
 
 
Giacomo Balla, nel 1895, lasciò Torino per Roma e per sperimentare il nuovo Divisionismo italiano del quale, insieme ad un gruppo di giovani artisti suoi allievi, fu un importante promotore.
Gli inizi del '900 furono anni di grande modernizzazione, nonostante il periodo belligerante, l'arte era attivissima.
Giacomo Balla, un'irrefrenabile personalità mai domata, gettò le basi del movimento Futurista. In quegli anni, attraverso una vivacità creativa eccezionale, realizzò, inoltre, scenografie teatrali, arredamenti, accessori vari di uso quotidiano. Tutto questo  con il nuovo linguaggio futurista, un dinamismo sopratutto e maggiormente "colorato", per affermare un universo a 360° proiettato verso il futuro. Giacomo Balla in questo fu uno dei maggiori protagonisti.
Purtroppo, nel corso di quegli anni, se da un lato il vivere sapeva di modernità e di relativo benessere, da un altro stavano rullando tamburi di guerra. L'artista non poté fare a meno di rimanerne coinvolto. Il potere ha sempre usato l'arte e la stampa come strumenti di comunicazione. Nel 1937 G.B. avvertì la sensazione che la società stesse prendendo un'altra rotta e che l'arte non fosse più un sentimento umano, ma un qualcosa di eccessivamente portato alla presunzione, qualcosa che faceva diventare il colore, l'anima della nostra esistenza, una mera patina di facciata. Decise perciò di estraniarsi dal cambiamento dei propri ideali, portò avanti la questione con coraggiosa onestà intellettiva, subendo, da parte della cultura ufficiale, l'allontanamento come figura di spicco dell'arte Italiana.
Dopo gli anni di guerra, l'opera di Giacomo Balla venne meritatamente rivalutata a livello mondiale. Era stato un vero maestro, artefice di una unicità artistica, lasciando un'impronta fondamentale nel panorama culturale internazionale. Negli  anni a seguire continuò la sua produzione artistica, rimanendo un serio e appassionato artigiano dell'arte, scomparve ottantaseienne il 1 Marzo del 1958.
 

- Giacomo, ora vorrei parlare con te di un'opera, un monocolore importante e rivoluzionario per quei tempi, Dinamismo di un cane al guinzaglio.
 
- Cari ragazzi, avevo dentro di me la consapevolezza di provare una forte attrazione per la  fotografia, che ritenevo una grande novità. Sono stato sempre uno sperimentatore, mi sentivo come un navigatore alla scoperta di nuove terre e non potevo rimanere indifferente
 
- Giacomo, perché il formato dell'opera è quasi quadro, con il cane in primo piano e la figura della donna tagliata all'altezza delle gambe?
 
- E' facile, per una questione di libertà. Volevo liberare il cane dal guinzaglio, strappandolo idealmente alla donna, stretta, oppressa nel suo abito di sapore antico lungo fino alle caviglie, che la teneva prigioniera. Un abito che ne accentuava, ma allo stesso tempo ne celava, le belle forme femminili e naturali, mentre l'animale, con la velocità dei suoi passi, librando il guinzaglio voleva velocizzare le gambe e tutta la personalità di donna verso una modernizzazione dei propri usi e costumi.
Come puoi vedere il protagonista è il cane, che ho raffigurato in una linea obliqua verso l'alto, vedendo un orizzonte lontano. La mia stessa firma è posta in basso a destra, come autore e uomo di questa nuova epoca seguo con la mia autenticazione grafica quella direzione. Io, tramutandomi in un essere invisibile, valicando la barriera temporale, mi proietto, come una serie di fotogrammi di una pellicola in uso alla fotocamera insieme alle immagini impresse sulla cellulosa, verso il futuro.
A proposito di futuro. Eh già, ragazzi miei, nel 2080 siamo andati troppo in là, abbiamo portato troppo avanti l'umanità, smorzando un cuore che batte, un universo di sentimenti, la fantasia che ti rende felice delle cose semplici e genuine, la gioia di esistere, e ci siamo invaghiti del progresso, della scienza superiore alla dimensione umana, portando gli uomini, le donne a diventare automi infelici e questo è stato un grave errore.

- Giacomo nel 2080 siamo diventati automi infelici?
 
- Ebbene sì, fortunatamente ci siamo fermati in tempo, eravamo sull'orlo del baratro, poi il potere dell'arte magicamente ha destato, attraverso tutte le espressioni umanistiche, quella forza che ci ha permesso di separare la tecnologia dalla vera essenza dell'umanità, un'essenza fatta dei cinque sensi primordiali che ci rendono unici e felici. Siamo riusciti a ottenere il meglio dagli strumenti della scienza, rimanendo semplicemente umani. Come questa automobile antica di fuori ma moderna e iper accessoriata di dentro, che si alza in volo, non fa fumo e non inquina, bella da viverla umanamente con il più piacevole e spontaneo dei sorrisi.
 
- Laurent, tu che dici?
 
- Questa disquisizione futurista è stata deliziosa, per rimanere in tema posso deliziarvi con una mia poesia?
 
- Laurent, ti ascolterò con piacere
 
 
- Il titolo è Un piccolo genio di sottofondo.
 
Se ne sta immobile,
passeggiando
Tra i discorsi
Con un nubifragio appeso di traverso
Nel nugolo dei pensieri
E delle battute di controcanto
In risposta alle affermazioni forti
Delle affettuose personalità
Inermi eppure gigantesche,
Esse, le compagnie amiche nemiche,
Si stagliano contro un cielo
Di stonati risvolti
Nella vita di Qualcuno
Così che quando si affermano gli scherzi
In compagnia del piccolo genio di sottofondo
Ogni cosa aggiunge il valore
Ch’egli le toglie via
Con un perturbante e deciso gesto
Di chi dagli albori
Si trova a riscoprirsi
I segni delle represse voglie
A mo’ di scusa chiede
Per rubare carezze
Costantemente trasportate al centro
Rivelatore della mancanza di
Un contrappeso alle vertigini
Di fronte la manifestazione del proprio aspetto
Un triste biglietto da visita
Per resistere alla gravità di ogni cosa.
 
 
- Ehi ragazzo, ma questa è una poesia futurista!
 
- La ringrazio, detto da un artista come lei è un gran complimento, anche nel mio libro Qualcuno di inadeguato, sotto una maschera di drammaticità ho costruito un cuore che pulsa di ottimistico entusiasmo, una dinamica azione per svegliare il torpore di una vita ormai spenta, l’energia che nella mente accende la luce, la mia luce che vuole illuminare il percorso di coloro che hanno perso la speranza.
 
- Laurent, tu sei nato nel periodo sbagliato, se fossi stato dei miei tempi avresti avuto un successo straordinario, ma ti auguro di ottenerlo comunque in questa era moderna, sei giovane e il tempo è dalla tua parte.
 
- Giacomo, ti prometto che proverò.
 
- Ma Walter, Jackson Pollock mi ha detto che su questa automobilina futurista tu hai un bell'assortimento di cioccolatini.
 
- Certo Giacomo, puoi trovarli nel cassettino del frigo bar.
 
- Mi sembra di non vederli, ma cos’è questo? Un barattolo? Perché tieni un barattolo?
 
- Un barattolo?
 
- Ma sì, è proprio un barattolo e sopra c’è scritto “Merda d’artista”.
 
- Ah sì, è l’opera di Piero Manzoni.
 
- E la volete mettere con i cioccolatini che avete dato a Pollock? Sapete ora con questo barattolo che ci faccio?
 
- Ma Giacomo non è stata colpa nostra se Pollock si è pappato tutti i cioccolatini. E poi il barattolo è di Piero Manzoni per la prossima intervista.
 
- Anche se di artista sempre di merda si tratta, ora ve la tiro in testa così imparate per la prossima volta.
 
- Giacomo ti prego non lo fare, quel barattolo vale più di duecentomila euro!
 
-Ma Walter non potevi dargli la banana di Cattelan?
 
-La banana? Laurent ma che ci posso fare se gli artisti sono matti?
 
- E allora andiamoci a prendere un caffè che è meglio.
 
- Giacomo, non possiamo, Salvador Dalì ti ha lasciato da pagare il conto dell’ultima intervista.
 
- Ragazzi, tranquilli, consumiamo e poi il conto lo fate pagare a Piero Manzoni. Con quello che vale questa sua opera si può permettere di pagarci un caffè, perbacco!
 
E così, amici lettori, mentre io, Laurent Vercken de Vreushmen, Giacomo Balla e il suo cane al guinzaglio andiamo a prenderci un caffè, che poi faremo pagare a Piero, vi salutiamo e vi aspettiamo al prossimo incontro. Tanto avete capito con chi sarà.

Readers of Signoradeifiltri, welcome back to my appointment with art and with the blog always in orbit in the galaxy of culture. This must be an unfortunate period, because I have to go get the artist I will interview today. Unfortunately my means of locomotion are still broken down, we had to return the 600 bus to the pacifist nuns, we could not take advantage of their generosity, so today I just have to take the old 500, which starts only if it is pushed and, in these cases, who do you ask for help? But yes, you ask for help from a friend, wait a moment for me to call him.

- Hello Laurent.

- Hi Walter.

- I have a problem, you have to help me.

- What should we do?

- There is a 500 to be started, the starter does not go.

- Wait for me, I'm coming.

Dear readers, I am sorry for this setback, I realize that we are in 2080, in full science fiction, in full modern and super evolved era, but to us poor artists, if we want to move, all that remains is to push this small car miserably by hand. Luckily a friend of mine is coming: the poet Laurent.

- Here I am, what do we do?

- We push, come on, I get in the car and you push. I turn on, the engine starts, with the right hand I open the door and you, with a jump, enter.

- I begin to catch the catch: is that why you called me?

- Come on, it's a little help. And then, afterwards, I introduce you to a friend artist, we interview Giacomo Balla.

- Is he your friend?

- Laurent, I have a lot of high-ranking friends with fantasy. Come on, let's hurry up.

And with a snap of your fingers, the two @libereria artists start the 500 and go to meet Giacomo Balla.

- Laurent, with the famous artist from Turin we will make a return to the past, we will go back in time to talk about the present which is then the future. I know that this is a confused concept but, through fantasy, we will explain what will happen in 60 years. Here he is, in the company of his dog on a leash.

- Giacomo, welcome on board, I introduce you to a friend of mine, Laurent Vercken de Vreushmen.

- Hallo!

- Boy, just call me Giacomo. In short, Walter we are in the post futurist era, why did you come with this prehistoric car?

- Giacomo, that's what's available.

- Ah, I understand! That's why you went to Dalì with the nuns' minibus.

- Giacomo, that's another story. But you're right, we are in 2080 and technology is part of our life, it has facilitated our daily lives. What cinema had always anticipated as stage fiction has now become reality. Fortunately, in 2080, before we ran the risk of becoming slaves, we had time to take a few steps back. Virtuality, automation cannot replace us, this planet was born to be the home of every form of natural existence with a human dimension, technology must remain only a tool. Giacomo, are we talking about the Futurist movement?

- Walter, we were first of all men with a head, a heart, two arms and two hands to forge and shape the material. The myth of speed was the application of our theories, art has always been the forerunner of new languages, breaking the patterns of the past was our strength, our illusion. Futurism, like all artistic avant-gardes, had limited time to make way for new trends. See how everything turns? There never remains a situation of stainless static, it is the dynamic energy of our existence that moves together with the terrestrial globe, in an infinite vortex, at such a speed as to make everything seem invisible, in the almost loss of time cognition. There is only one thing that compacts us and harmonizes us with nature: color, an infinite range of shades, an intrinsic part of our DNA. Color is the heart of everything. Do you know that Italy is the most colorful country in the world? It is by its natural conformation, it is by its history, naturally by its art, there is no country in the world more colorful than ours.
 

Giacomo Balla, in 1895, left Turin for Rome and to experience the new Italian Divisionism of which, together with a group of young artists, his students, was an important promoter.
The early 1900s were years of great modernization, despite the belligerent period, art was very active.
Giacomo Balla, an unstoppable personality never tamed, laid the foundations of the Futurist movement. In those years, through an exceptional creative liveliness, he also created theatrical sets, furnishings, various accessories for daily use. All this with the new Futurist language, a dynamism above all, and more "colorful", to affirm a 360 ° universe projected towards the future. Giacomo Balla in this was one of the major protagonists.
Unfortunately, during those years, if on the one hand living tasted of modernity and relative well-being, on the other hand war drums were rolling. The artist could not help but get involved. Power has always used art and printing as communication tools. In 1937 G.B. felt the feeling that society was taking another route and that art was no longer a human feeling, but something excessively led to presumption, something that made color, the soul of our existence, a mere patina facade. He therefore decided to estrange himself from the change of his ideals, he pursued the matter with courageous intellectual honesty, undergoing, on the part of the official culture, the removal as a leading figure of Italian art.
After the war years, Giacomo Balla's work was deservedly re-evaluated worldwide. He had been a true master, creator of an artistic uniqueness, leaving a fundamental mark on the international cultural scene. In the following years he continued his artistic production, remaining a serious and passionate artisan of the art, he disappeared  at eighty-six on March 1, 1958.


- Giacomo, now I would like to talk to you about a work, an important and revolutionary one-color for those times, "Dynamism of a dog on a leash".

- Dear guys, I had the awareness inside me of feeling a strong attraction for photography, which I thought was great news. I have always been an experimenter, I felt like a navigator discovering new lands and I could not remain indifferent.

- Giacomo, why the format of the work is almost square, with the dog in the foreground and the figure of the woman cut at the height of the legs? -

- It's easy, for a matter of freedom. I wanted to free the dog from the leash, ideally snatching it from the woman, tight, oppressed in her ankle-length ancient dress, which held her captive. A dress that accentuated, but at the same time concealed, the beautiful feminine and natural forms, while the animal, with the speed of its steps, hovering the leash wanted to speed up the legs and all the woman's personality towards a modernization of its customs and traditions.
As you can see the protagonist is the dog, which I have depicted in an oblique line upwards, seeing a distant horizon. My own signature is placed in the lower right corner, as author and man of this new epoch I follow with my graphic authentication that direction. I, transforming myself into an invisible being, crossing the time barrier, project myself, like a series of frames of a film in use to the camera together with the images imprinted on the cellulose, towards the future.
About the future. Oh yes, my boys, in 2080 we went too far, we carried humanity too far, dampening a beating heart, a universe of feelings, the fantasy that makes you happy with simple and genuine things, the joy of existing, and we fell in love with progress, with science superior to the human dimension, leading men and women to become unhappy automata and this was a serious mistake.

- Giacomo in 2080 did we become unhappy automata?

- Well yes, luckily we stopped in time, we were on the edge of the abyss, then the power of art magically aroused, through all humanistic expressions, that power that allowed us to separate technology from the true essence of humanity, an essence made of the five primordial senses that make us unique and happy. We managed to get the best out of the tools of science by simply remaining human. Like this car ancient outside but modern and hyper-equipped inside, which rises in flight, does not smoke and does not pollute, beautiful to live it humanly with the most pleasant and spontaneous of smiles.

- Laurent, what do you say?

- This futuristic discussion was delightful, to stay on topic can I delight you with a poem of mine?

- Laurent, I will listen to you with pleasure

 

The title is A little background genius.

 
Se ne sta immobile,
passeggiando Tra i discorsi
Con un nubifragio appeso di traverso
Nel nugolo dei pensieri
E delle battute di controcanto
In risposta alle affermazioni forti
Delle affettuose personalità
Inermi eppure gigantesche,
Esse, le compagnie amiche nemiche,
Si stagliano contro un cielo
Di stonati risvolti
Nella vita di Qualcuno
Così che quando si affermano gli scherzi
In compagnia del piccolo genio di sottofondo
Ogni cosa aggiunge il valore
Ch’egli le toglie via
Con un perturbante e deciso gesto
Di chi dagli albori
Si trova a riscoprirsi
I segni delle represse voglie
A mo’ di scusa chiede
Per rubare carezze
Costantemente trasportate al centro
Rivelatore della mancanza di
Un contrappeso alle vertigini
Di fronte la manifestazione del proprio aspetto
Un triste biglietto da visita
Per resistere alla gravità di ogni cosa.

 

- Hey boy, but this is a futurist poem!

 

- Thank you, said by an artist like you is a great compliment, even in my book Someone inadequate, under a mask of drama I built a heart that pulsates with optimistic enthusiasm, a dynamic action to awaken the torpor of a life now spent, the energy that turns on the light in my mind, my light that wants to illuminate the path of those who have lost hope.

- Laurent, you were born in the wrong period, if you had been in my time you would have had extraordinary success, but I wish you to get it anyway in this modern era, you are young and time is on your side.

 

- Giacomo, I promise you that I will try.

 

- But Walter, Jackson Pollock told me that on this futurist toy car you have a nice assortment of chocolates.

 

- Of course Giacomo, you can find them in the drawer of the mini bar.

 

- I don't seem to see them, but what is this? A jar? Why do you keep a jar?

 

- A jar?

 

- Yes, it is really a jar and above it is written "Artist shit"

 

- Ah, yes it is the work of Piero Manzoni.

 

- And you want to confront it with the chocolates you gave Pollock? Do you now know what I can do with this jar?

 

- But Giacomo it wasn't my fault if Pollock got all the chocolates. And then the jar is by Piero Manzoni for the next interview.

 

- Even if it is artist shit, now I throw it in your head so  you learn for the next time.

 

- Giacomo, please don't, that jar is worth more than two hundred thousand euros!

 

-But Walter couldn't they have given him Cattelan's banana?

 

- Banana? Laurent, but what can I do if the artists are crazy?

 

- So let's go get some coffee, that's better.

 

- Giacomo, we can't, Salvador Dalì left the bill to pay.

 

- Guys, don't worry, we drink and then you have Piero Manzoni pay the bill. With what his work is worth you can afford to pay us a coffee, wow!

 

And so, friends, while I, Laurent Vercken de Vreushmen, Giacomo Balla and his dog on a leash, go and have a coffee, which we will then charge Piero for, we greet you and look forward to seeing you at the next meeting. I think you understand who we will interview.

 

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Lucifer

9 Marzo 2022 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #televisione, #serie tv, #fantasy, #amore

What better modern incarnation of the nineteenth-century Byronic and Satanic hero than the devil himself?
There are products — television, literary, cinematographic — that stand out not for the plot or originality of the idea and setting, but for a single perfect character. This is the case of the urban fantasy and police procedural series Lucifer, developed by Tom Kapinos, produced by anything but rookie Jerry Bruckheimer, based on a comic, aired from 2016 to 2021, and now distributed by Netflix, which impresses in the collective (and erotic) imagination with its protagonist: Lucifer Morningstar, the rejected son of God, the fallen angel Samael who later became Lucifer, that is “bearer of Light”, or of clarity, of knowledge, of truth.
Fed up of administering justice by punishing and torturing the guilty in the bleak hell, the devil Lucifer incarnates, descends to earth and opens the “Lux”, a successful nightclub in Los Angeles, the city “of angels”. Here he becomes a collaborator of an attractive detective, Chloe Decker, a former movie starlet, helping her, with a capacity for psychological penetration that borders on hypnotism, to clarify cases of crime, of which the viewer would not give a damn if it were not that he is the one to solve them.
Handsome, with an innate dandy elegance and feline movements, Lucifer is played by Welsh actor Tom Ellis. To fully appreciate the acting, you need to listen to the original English where Ellis stands out for his marked and sophisticated British accent among the other American actors. Lucifer is intriguing, intelligent, funny, salacious, irreverent, disrespectful, and exudes indisputable manhood from every pore. The actor is exceptional in rendering the devilry of the gaze: his pitch-black eyes become fixed and even slightly cross when he tempts humans, putting them in front of their most hidden desires. No one resists when captured by Lucifer’s magnetic gaze, which searches inside you to grasp the deep core of your ambitions. Lucifer himself is incapable of telling lies. He doesn’t know how to lie, he always tells the truth even when it can hurt.
The story is about love and redemption. Lucifer is never gratuitously evil. Although he is unbelievably self-centered, he is still an angel, and his actions are dictated by justice. “I’m not evil, I’m not a monster” he is keen to repeat. Although he enjoys luring his victims into temptation, even though he drinks like a fish, takes drugs, has wild and orgiastic sex with women and men, as the narrative progresses, his expressions become more and more human. Basically he turns into a good guy — a good devil, if you allow me the pun — honest and nice, that everyone likes, despite his supernatural strength, his power, his subterranean and menacing danger.
Lucifer is in eternal conflict with his father. And who wouldn’t have a problem with God as a parent? The more he humanizes himself, the more emotions overwhelm him. When he kills his brother Uriel to save the people he loves, he experiences pain, guilt, despair. And, with the passing of the episodes, even his body changes: he loses his demonic face — initially hidden under the human one — and his wonderful, feathery, immaculate wings grow back, despite the rebellious angel tries to cut them off every time.
To tempt him and bring him back to the past comes Eve, the first woman, who had already had an affair with him. She is not evil but she is intrinsically sinful, she wants to be free and not just Adam’s rib, she would like Lucifer to go back to incarnate the devil who seduced her in Eden, therefore she pushes him to cultivate the worst part of himself, violence, the pleasure of torturing sinners, Dionysian sex. And so the monstrous face of Lucifer returns to manifest itself again, his wings are no longer white but become similar to those of a demonic bat.
But Lucifer is not doing that, he rebels, eternally divided between the two parts of himself, the dark and the bright, the devil and the angel. He doesn’t love what he was, what he returns to be with Eve, but neither is he comfortable with the sensations that Chloe makes him feel, with that need she has to tame him and make him bourgeois. He ends up hating himself deeply, in a desperation that is both self-harm and the need for redemption. Eventually, however, he regains control of himself, returns for a moment to be the mighty king of the underworld, and drives out the army of darkness unintentionally unleashed on earth by Eve. The final episode of the fourth season, with the victory of the king of the underworld over the demons and the heartfelt farewell from Chloe before Lucifer spreads his wings and flies to sit on his lonely throne, is the most beautiful episode and could have been the worthy conclusion of the whole series.
But Eve is not Lucifer’s true love. Inevitably, he falls in love with the detective Chloe, beautiful in an angelic way, the only one able to resist his charm and not fall into his arms at the first inviting glance. Chloe is good, selfless, serious, professional, empathetic. Lucifer loves her totally, absolutely, spiritually. He who lives immersed in the pleasures of sex has a pure, selfless, disembodied adoration for her. For Chloe he is ready to sacrifice himself, to defend her and protect her, to renounce her in order to see her happy, to oppose anyone who wants to disappoint or hurt her, to close his protective wings around her. Lucifer loves Chloe as any woman would want to be loved: in a complete, supernatural way, even if he can’t tell her because saying the phrase “I love you” would mean admitting that he is not a demon, because his father, that is God, has never said to love his children (read also all of humanity), but, on the contrary, he manipulated and followed them from above with detachment and without apparent empathy.
The love of Lucifer and Chloe is identified with unconditional union and complicity. Chloe is a kindred spirit, she is a gift placed by God on Lucifer’s path to redeem him, she is the only one capable of seeing him for what he really is, not an evil monster but a man in search of moral redemption. Her smug gaze, when Lucifer casts out demons by showing them his monstrous body and, at the same time, his indisputable royalty, indicates acceptance of every part of him, even the most hideous and dark, and the female admiration for the male power used only when needed and against those who really deserve it.
And the two of them, Chloe and Lucifer, are not only lovers, they are also partners — “partners to the end”, “partners for eternity”. They work in pairs to solve cases, they are a perfect team, he magnetic and impulsive, she rational and staid. They are what every couple would like to be, that is, something special, unique, a perfectly fitted mechanism.
With Chloe, Lucifer feels at home. Hell, he explains to us, was never his home and heaven “was hell”. Because his father despised him, because his mother abandoned him, because his brothers were in competition with him. Because hell is gray, boring, gloomy. Los Angeles, on the other hand, is alive, colorful, alluring, full of charming and warm beings, full of naked, inviting bodies. And he, day after day, feels attracted to them, he feels affection and interest, to the point that his innate and “professional” need to punish people turns into a desire for justice, for redemption for the victims of evil. By human beings, for the first time, he is respected, and he understands that he has a role and a family.
Beneath the surface of this funny, ironic, brilliant and glossy series, God and the Devil, good and evil, intertwine, overturn. Some angels are evil, like Uriel and Michael, while demons discover to have a tender heart and even a soul, like Mazekeen. Cain and Abel, in the third series, exchange roles, make peace. And even Lucifer has a twin, the evil angel Michael, blinded by envy. Impersonated by Ellis himself, Michael stands out for his less clear eyes and a slight curve in posture, two imperceptible differences masterfully rendered by the actor.
God’s will remains inscrutable but often his actions appear to everyone, even to his own children, unjust, evil. Why does God allow suffering that even the Devil tries to prevent?
And God himself truly comes, in season five, to settle the conflicts of his highly dysfunctional family. Perhaps this excessive humanization of the divinity, who puts on an apron and cooks the sauté, is criticizable but certainly the scene of the family dinner with God at the table is one of the most hilarious.
Not only that, God is tired of responsibility and thinks of withdrawing, of leaving someone in charge. Lucifer believes he deserves the job, he knows he would be better than his father, because he would eliminate suffering, hunger and war, while his father left the free will to man that created only pain and injustice. He wants to become God, apparently out of ambition, in reality to finally feel worthy and deserving of Chloe, the most important person in the whole universe for him. And for Chloe, he, self-centered, selfish and vain, is willing to sacrifice his own life. “I choose you” he tells her as he risks dying, for having set foot in the paradise from which he was banished, in order to save her from an untimely death.
In the course of this long series, all human feelings are, from time to time, dissected and analyzed, through the discovery that Lucifer and Mazekeen make and through the character of Linda, the psychiatrist who accompanies them. Linda is involved in the diatribes of the celestials, in their divine and human problems. She must mediate conflicts, make Lucifer and others aware of their emotions: jealousy, love, envy, tenderness, loneliness, vulnerability, friendship, mourning. And these feelings are eviscerated and also connected to the investigations in progress, reverberating in the interrogations, on the suspects and on the guilty.
Great space is given, as expected, to the sense of guilt. Eternal damnation is represented as a continuous endless loop in which one relives one’s sins and the worst moments of one’s life. And while many of the characters experience constant evolution, an uninterrupted search for improvement, with frequent relapses into the negative dynamics of the past, it is precisely the sense of guilt for the evil done to damn us to hell. In short, to be forgiven, we must first forgive ourselves.
Much is also based on the acceptance of the shady part of oneself, especially in the character of Ella, on the need to learn to live with the inner darkness. Where there is darkness, God himself affirms in the fifth season, the light is all the more intense. And, if even the devil has redeemed himself, anyone can do it, to the point that, in the end, Lucifer will discover that his mission is not to become God but not even to torment the damned, but to help them find peace as he found it.
I conclude by saying that I have never laughed and cried as much as with this fantastic TV series. I am a writer and if, with one of my novels, I could make the reader feel half of what the “Lucifer” series made me feel, I would have already created something extraordinary.

 
 
 

 

 

 

 

Quale migliore moderna incarnazione dell’ottocentesco eroe byronico e satanico se non il diavolo in persona?

Ci sono prodotti – televisivi, letterari, cinematografici - che spiccano non per trama o originalità dell’idea e dell’ambientazione, bensì per un unico azzeccatissimo personaggio. È questo il caso della serie urban fantasy e police procedural Lucifer, sviluppata da Tom Kapinos, prodotta dal tutt’altro che novellino Jerry Bruckheimer, tratta da un fumetto, andata in onda dal 2016 al 2021, e ora distribuita da Netflix, che s’imprime nell’immaginario collettivo (ed erotico) con il suo protagonista: Lucifer Morningstar, il figlio reietto di Dio, l’angelo caduto Samael poi divenuto Lucifero, cioè “portatore di Luce”, ovvero di chiarezza, di conoscenza, di verità.

Stufo di amministrare la giustizia punendo e torturando i colpevoli nel tetro inferno, il diavolo Lucifero s’incarna, scende sulla terra e apre il “Lux”, un locale notturno di successo a Los Angeles, la città “degli angeli”, appunto. Qui diventa collaboratore di un’avvenente detective, Chloe Decker, ex starlette del cinema, aiutandola, con una capacità di penetrazione psicologica che rasenta l’ipnotismo, a chiarire casi di cronaca nera, di cui allo spettatore non importerebbe un fico secco se non fosse che a risolverli c’è lui.

Bello, aitante, di un’innata eleganza dandy e dalle movenze feline, Lucifer è interpretato dall’attore gallese Tom Ellis. Per apprezzarne a pieno la recitazione bisogna ascoltare l’originale inglese dove Ellis spicca per il suo marcato e sofisticato accento britannico in mezzo agli altri attori americani. Lucifer è intrigante, intelligente, divertente, salace, irriverente, irrispettoso, e trasuda indiscutibile virilità da tutti i pori. L’attore è eccezionale nel rendere la diavoleria dello sguardo: i suoi occhi neri come la pece diventano fissi e persino leggermente strabici quando tenta gli umani, mettendoli di fronte ai loro più reconditi desideri. Nessuno resiste quando viene imprigionato dallo sguardo magnetico di Lucifer, che ti fruga dentro a cogliere il nocciolo profondo delle tue ambizioni. Lucifer stesso è incapace di dire bugie. Non sa mentire, dice sempre la verità anche quando questa può ferire.

La storia parla di amore e redenzione. Lucifer non è mai gratuitamente malvagio. Sebbene sia egocentrico fino all’inverosimile, è pur sempre un angelo, e le sue azioni sono dettate da giustizia. “Non sono malvagio, non sono un mostro” ci tiene a ripetere. Anche se si diverte a indurre le sue vittime in tentazione, anche se beve come una spugna, si droga, fa sesso sfrenato e orgiastico con donne e uomini, man mano che procede la narrazione, le sue espressioni diventano sempre più umane. In pratica si trasforma in un bravo ragazzo – un buon diavolo, se mi concedete il gioco di parole - onesto e simpatico, che piace a tutti, nonostante la sua forza soprannaturale, la sua potenza, la sua sotterranea e minacciosa pericolosità.

Lucifer è in eterno conflitto col padre. E chi non avrebbe problemi con Dio come genitore? Più si umanizza, più le emozioni lo travolgono. Quando uccide il fratello Uriel per salvare le persone che ama, sperimenta dolore, senso di colpa, disperazione. E, col passare degli episodi, persino il suo corpo muta: perde il volto demoniaco – all’inizio celato sotto quello umano - e gli ricrescono delle stupende, piumose, immacolate ali, nonostante l’angelo ribelle cerchi di tagliarsele ogni volta.

A tentarlo e a riportarlo al passato arriva Eve, la prima donna, che aveva già avuto una storia con lui. Non è cattiva ma è intrinsecamente peccaminosa, vuole essere libera e non più solo la costola di Adamo, vorrebbe che Lucifer tornasse a incarnare il diavolo che l’ha sedotta nell’Eden, perciò lo spinge a coltivare la parte peggiore di sé, la violenza, il piacere di torturare i peccatori, il sesso dionisiaco. E così il volto mostruoso di Lucifer torna nuovamente a manifestarsi, le ali non sono più bianche ma diventano simili a quelle di un demoniaco pipistrello.

Lucifer però non ci sta, si ribella, eternamente diviso fra le due parti di sé, quella oscura e quella luminosa, il diavolo e l’angelo. Non ama ciò che era, ciò che torna a essere insieme a Eve, ma nemmeno è suo agio con le sensazioni che gli fa provare Chloe, con quel bisogno che lei ha di addomesticarlo e imborghesirlo. Finisce per odiare se stesso profondamente, in una disperazione che è insieme autolesionismo e bisogno di redenzione. Alla fine, però, torna padrone di sé, torna per un istante a essere il potente re degli inferi, e scaccia l’armata delle tenebre involontariamente scatenata sulla terra da Eve. L’ultima puntata della quarta stagione, con la vittoria del re degli inferi sui demoni e l’accorato commiato da Chloe prima che Lucifer spieghi le ali e voli a sedersi sul suo trono solitario, è la puntata più bella e avrebbe potuto essere la degna conclusione di tutta la serie.   

Ma non è Eve il vero amore di Lucifer. Inevitabilmente, egli s’innamora della detective Chloe, bella in modo angelico, l’unica in grado di resistere al suo fascino e non cadergli fra le braccia alla prima occhiata invitante. Chloe è buona, altruista, seria, professionale, empatica. Lucifer la ama in modo totale, assoluto, spirituale. Lui che vive immerso nei piaceri del sesso ha verso di lei un’adorazione pura, altruista, disincarnata. Per lei è pronto a sacrificarsi, a difenderla e proteggerla da ogni insidia, a rinunciare a lei pur di vederla felice, a opporsi a chiunque voglia deluderla o ferirla, a chiuderla dentro le sue ali protettive. Lucifer ama Chloe come qualunque donna vorrebbe essere amata: in modo completo, sovrannaturale, anche se non riesce a dirglielo perché pronunciare la frase “Io ti amo” vorrebbe dire ammettere di non essere un demonio, perché suo padre, cioè Dio, non ha mai detto di amare i figli (leggi anche tutta l’umanità), ma, anzi, li ha manipolati e seguiti dall’alto con distacco e senza apparente empatia.

L’amore di Lucifer e Chloe s’identifica con l’unione incondizionata e la complicità. Chloe è uno spirito affine, è un dono messo da Dio sulla strada di Lucifer per redimerlo, è l’unica capace di vederlo per quello che realmente è, non un mostro malvagio ma un uomo alla ricerca del riscatto morale. Il suo sguardo compiaciuto, quando Lucifer scaccia i demoni mostrando loro il suo mostruoso corpo e, insieme, la sua indiscutibile regalità, indica l’accettazione di ogni parte di Lucifer, anche la più orrenda e oscura, e l’ammirazione femminile per la maschia potenza usata solo quando serve e contro chi davvero lo merita.

E loro due, Chloe e Lucifer, non sono solo amanti, sono anche partners – “partners fino alla fine”, “partners per l’eternità”. Lavorano in coppia per risolvere i casi, sono una squadra perfetta, lui magnetico e impulsivo, lei razionale e compassata. Sono quello che ogni coppia vorrebbe essere, cioè qualcosa di speciale, di unico, un meccanismo perfettamente incastrato.  

Con Chloe, Lucifer, si sente a casa. L’inferno, ci spiega, non è mai stata casa sua e il paradiso “era l’inferno”. Perché suo padre lo disprezzava, perché sua madre lo ha abbandonato, perché i suoi fratelli erano in competizione con lui. Perché l’inferno è grigio, noioso, cupo. Los Angeles, invece, è viva, colorata, allettante, piena di esseri affascinanti e calorosi, piena di corpi nudi, invitanti. E lui, giorno dopo giorno, si sente attratto da loro, prova affetto e interesse, al punto che il suo bisogno innato e “professionale” di punirli si trasforma in desiderio di giustizia, di riscatto per le vittime del male. Dagli esseri umani, per la prima volta, è rispettato, e capisce di avere un ruolo e una famiglia.

Sotto la superficie di questa serie divertente, ironica, brillante e patinata, Dio e il Diavolo, bene e male, si intrecciano, si ribaltano.  Alcuni angeli sono cattivi, come Uriel e Michael, mentre i demoni scoprono di possedere un cuore tenero e persino un’anima, come Mazekeen. Caino e Abele, nella terza serie, si scambiano di ruolo, si riappacificano. E persino Lucifer ha un gemello, l’angelo cattivo Michael, accecato dall’invidia nei suoi confronti. Impersonato dallo stesso Ellis, Michael si distingue per lo sguardo meno limpido e una leggera curva nella postura, due impercettibili differenze magistralmente rese dall’attore.

La volontà di Dio resta imperscrutabile ma spesso le sue azioni appaiono a tutti, anche ai suoi stessi figli, ingiuste, cattive. Perché Dio permette una sofferenza che persino il Diavolo cerca d’impedire?

E Dio in persona arriva davvero, nella quinta stagione, a dirimere i conflitti della sua famiglia altamente disfunzionale. Scelta forse criticabile degli autori, questa eccessiva umanizzazione della divinità che si mette il grembiule e cucina il soffritto, ma certamente la scena della cena di famiglia con Dio a tavola è una delle più esilaranti.

Non solo, Dio è stanco della responsabilità e pensa di ritirarsi, di lasciare a qualcuno la sua carica. Lucifer crede di meritare il posto, sa che sarebbe migliore di suo padre, perché eliminerebbe la sofferenza, le ingiustizie, la fame e la guerra, mentre il padre ha lasciato all’uomo il libero arbitrio che ha creato solo dolore e ingiustizia. Vuol diventare lui Dio, apparentemente per ambizione, in realtà per sentirsi finalmente degno e meritevole di Chloe, la persona più importante in tutto l’universo per lui. E per Chloe, lui, egocentrico, egoista e vanesio, è disposto a sacrificare la sua stessa vita. “Io scelgo te” le dice mentre rischia di morire, per aver rimesso piede nel paradiso da cui era stato bandito, pur di salvarla da una morte prematura.

Nel corso di questa lunga serie, tutti i sentimenti umani vengono, di volta in volta, sezionati e analizzati, attraverso la scoperta che ne fanno Lucifer, Mazekeen e attraverso il personaggio di Linda, la psichiatra che li accompagna. Linda è suo malgrado coinvolta nelle diatribe dei celesti, nei loro problemi divini e umani insieme. Lei deve mediare i conflitti, rendere consapevoli Lucifer e gli altri delle proprie emozioni: gelosia, amore, invidia, tenerezza, solitudine, vulnerabilità, amicizia, lutto. E questi sentimenti vengono sviscerati e collegati anche alle indagini in corso, riverberandosi negli interrogatori, sugli indiziati e sui colpevoli.

Grande spazio è dato, come prevedibile, al senso di colpa. La dannazione eterna è rappresentata come un continuo loop infinito in cui si rivivono i propri peccati e i momenti peggiori della propria vita. E mentre molti dei personaggi sperimentano una costante evoluzione, una ricerca di perfezionamento ininterrotta, con frequenti ricadute nelle dinamiche negative del passato, è proprio il senso di colpa per il male compiuto a dannarci all’inferno. Per essere perdonati, insomma, bisogna prima perdonare noi stessi.

Molto si basa anche sull’accettazione della parte ombrosa di sé, specialmente nel personaggio di Ella, sulla necessità di imparare a convivere con il buio interiore. Dove c’è oscurità, afferma Dio in persona nella quinta stagione, la luce è tanto più intensa. E, se persino il diavolo si è redento, chiunque può farlo, al punto che, nel finale, Lucifer scoprirà che la sua missione non è diventare Dio ma nemmeno tormentare i dannati, bensì aiutarli a trovare la pace come lui l’ha trovata.

Concludo dicendo che non ho mai riso e pianto tanto come con questa fantastica serie televisiva. Sono una scrittrice e, se riuscissi con uno dei miei romanzi a far provare al lettore la metà di ciò che la serie “Lucifer” ha fatto provare a me, avrei già creato qualcosa di straordinario.

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