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Basilea: città culturale per eccellenza

6 Gennaio 2014 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

Basilea: città culturale per eccellenza

Musei, Fondazioni, Gallerie d’Arte, Monumenti, Feste tradizionali rendono la città un vero e proprio gioiello dove l’antico e il moderno si fondono armoniosamente.

Basilea, città abitata da 200 mila persone, può essere definita “città culturale” per eccellenza. In soli 37 Km quadrati, infatti, si contano ben 40 musei, cosa impensabile nella nostra Italia. Ci sono Musei di ogni genere che spaziano da quello della cultura a quello della Storia della Farmacia; dal Museo della Caricatura e dei Cartoni Animati al Museo della Musica; dalle Antichità (con la Collezione Ludwig) al Museo delle Bambole; dal Museo Storico al Vitra Design Museum, dal Museo Svizzero di Architettura allo Steinenberg; dalla Fondazione Beyeler al Museo Tinguely, tanto per citarne alcuni.

Ma oltre ai Musei esistono numerose gallerie d’arte, Teatri e locali dove si può assistere a session di Jazz o Concerti dal vivo. Basilea è anche una città industriale di rilevanza mondiale grazie alle case farmaceutiche che vi sono ma, nel contempo, è una città di rilevanza storica e ricca di antichi monumenti.

Qui, infatti, sorse nel 1460 la prima Università svizzera, vi fu lo sviluppo della stampa e della produzione della carta all’epoca di Erasmo da Rotterdam; vi si svolse, il 23 luglio del 1431, il concilio convocato da Martino V.

Nella città si svolgono numerosi eventi legati alle tradizioni e allo sport. I primi di novembre, ad esempio, si svolge la Fiera del vino che dura 15 giorni, che richiama tanti turisti.

La Fiera si svolge in cinque zone della città, che si trasformano in un enorme luna park, con giochi per bambini, e si riempie di bancarelle dove trovare ogni genere di merce o prodotti gastronomici.

Sono ancora visibili monumenti storici quali la Casa Blu, che era una fabbrica di passamaneria e nastrini di seta, trasformata in seguito in fabbrica chimica e, infine in farmacia.

Una leggenda narra che nella Casa Blu, di proprietà di Jakob Sarasin, fu ospitato il conte Cagliostro che ne avrebbe guarito in modo misterioso la moglie, all’epoca in fin di vita. C’è poi la Casa Bianca, che si trova a fianco della Blu e che apparteneva ai due fratelli francesi, Sarazine, che erano proprietari di fabbriche e palazzi.

Basilea si presenta come una città molto ordinata, con palazzi, case basse, ville a schiera, negozi eleganti, ristoranti e numerosi parchi che, in autunno, sono molto spettacolari per gli alberi dai colori rossi e gialli che sono un vero godimento per gli occhi.

Il centro, soprattutto, è costituito da molti vicoli caratteristici con le tipiche case dai tetti spioventi o dai palazzi di epoca

Non esiste una metropolitana, non ce n’è bisogno. Un eccezionale sistema di tram e autobus, ne rendono inutile la costruzione così come il prendere l’automobile per gli spostamenti.

La città è divisa in due parti: la grande Basilea e la piccola Basilea ed è famosa per il Carnevale, che dura 3 giorni, ma la popolazione si prepara all’evento per tutto il resto dell’anno.

Incomincia il lunedì successivo al mercoledì delle Ceneri e, come da leggenda, la mattina del lunedì la gente si sveglia quando dai campanili rintoccano le quattro.

Tutte le luci della città vengono spente e la Regina Fasnacht (Carnevale) prende il comando della città e…la gioia e un po’ di follia s’impossessano degli abitanti.

Nei vicoli e nelle strade risuona la melodia tradizionale e arcaica del “Morgenstraich”, proveniente dal suono di migliaia di pifferi e tamburi.

Le sole luci sono quelle delle grandiose lanterne trascinate dal corteo indossate dalle maschere sulle quali viene rappresentato, in chiave ironica, un evento dell’anno precedente.

Nei pomeriggi di lunedì e mercoledì, i gruppi partecipanti, denominati “clique”, seguono un percorso fisso lungo le strade cittadine, il “Cortege”.

Durante la serata i partecipanti si muovono da un locale all’altro per commentare l’anno passato cantando versetti e caricature.

Il martedì, invece, è il carnevale dei bambini, che dividendosi in vari gruppi, ripropongono la tradizione cittadina. La sera, invece, numerosi gruppi musicali, detti “Guggenmusik”, diventano i ‘padroni ‘ della città, trasformando in luoghi di allegria ogni angolo della città.

Ci sono alcune leggende legate ad alcuni luoghi o monumenti cittadini. E’ interessante quella che riguarda la Spesshof, che si trova al numero 7 di via Heuberg. Sembra che la casa sia infestata dal fantasma di David Joris, nel 1500 un capo della setta degli anabattisti, all’epoca proibita.

Solo quando morì, la popolazione di Basilea venne a conoscenza delle sue origini e della sua religione.

Riesumarono la salma, la decapitarono e bruciarono i suoi resti assieme ai suoi libri.

Si dice che ancora oggi il suo fantasma – che tiene la testa fra le braccia ed è accompagnato da due cani di razza alana – vaghi nei dintorni della sua ultima casa. Un po’ macabra la leggenda, ma molto affascinante come tutto ciò che riguarda il mistero e l’occulto.

Alla Fontana del Basilisco, risalente al Rinascimento, è invece legata un’altra storia. La Fontana raffigura la storia del basilisco, che tiene lo stemma della città: una pastorale stilizzata di colore nero su fondo bianco.

Il basilisco, che è un animale leggendario composto da un gallo, un drago e un serpente, nasce da un uovo che viene deposto sul letame e viene covato da un rospo.

Chiunque viene colpito dal suo sguardo cattivo rimane pietrificato.

La “favola” racconta che l’unico modo per salvarsi è utilizzare uno specchio che riflette il suo sguardo.

Perché è importante questa leggenda? Perché il basilisco è la creatura che sta a guardia della città di Basilea!

C’è ancora un ultimo racconto fantastico che riguarda un Albergo molto noto in città “Les Trois Rois”.

Si narra che le reliquie dei tre re magi si siano fermate a Basilea durante un pellegrinaggio da Milano a Colonia e poi nel 1026, in questo hotel si sono fermati l’Imperatore Conrad II, suo figlio Heinrich III e l’ultimo re dei Burgundi, Rudolf III. Il re non aveva eredi, così decise di lasciare all’Imperatore e a suo figlio la città di Basilea.

Lasciamo le storie fantastiche, ma fascinose che riguardano il passato di questa città, e torniamo ai giorni nostri.

Basilea, è il centro congressuale e fieristico più importante della Svizzera ed ospita due Fiere Internazionali: Baselworld, fiera di orologeria e gioielleria, e quella d’arte “Art Basel”.

Entrambe richiamano numerosi appassionati e acquirenti da ogni parte del mondo.

La sera, infine, la città diventa un enorme “palcoscenico” brulicante di vita dove giovani e meno giovani “vivono” Basilea stando per la strada, nei locali dove si balla o si beve, nei ristoranti adatti ad ogni tipo di esigenza.

E allora, come si può definire questa bella città svizzera?

Sicuramente come una metropoli ricca di fascino che non deluderà, di certo, i turisti in cerca di mete culturali ma anche di divertimento.

E’ una città di frontiera, sdraiata su un’ansa del Reno, vicina alla Francia e alla Germania. Il centro storico, conservato magnificamente e fra i più belli d’Europa, fra palazzi del XV° secolo e moderni, regala fascino ai visitatori.

E’ come tornare al passato per riscoprire la genuinità, i colori, l’incantesimo d’altri tempi.

Basilea è una città che fa sognare, dimenticare lo stress e vivere in una dimensione diversa, sicuramente più a misura d’uomo.

La visita è facile e piacevole, tanto da consentire al forestiero di sentirsi a proprio agio, grazie all’organizzazione turistica che ha “disegnato” cinque itinerari, ciascuno con il proprio fascino, grazie al riferimento a personaggi legati alla storia ed all’arte.

I supporti audovisivi che descrivono questi itinerari possono essere prenotati presso gli sportelli Tourist Information di Basilea Turismo che si trovano allo Stadt-Casino e presso la stazione Bahnhof SBB. Il noleggio è di 15 CHF per 4 ore e 22 CHF per tutto il giorno.a v

Completano l’assistenza ai turisti gli uffici di Informazioni turistiche e alberghiere presso lo Stadt-Casino a Barfüsserplatz, Steinenberg 14 CH-4010 Basilea info@basel.com, www.basel.com Tel. +41 (0)61 268 68 68, Fax +41 (0)61 268 68 70. Orario: Lunedì-venerdì 8.00-18.30 Sabato, 9.00-17.00 Domenica/festivi 10.00-16.00

I cinque itinerari partono da Marktplatz (piazza del Mercato) per terminare tutti nello stesso punto, all’angolo di Sattelgasse (grande vicolo). I percorsi organizzati per assicurare la massima semplicità al turista nuovo della città.

Sono cinque itinerari, ciascuno dedicato ad un famoso personaggio della città. Basta seguire i cartelli segnaletici su cui è raffigurata l’immagine della personalità alla quale è dedicata la passeggiata prescelta.

Per facilitare il turista , ogni percorso è distinto da un colore diverso.

Il primo “Itinerario Erasmo – il cuore storico della città” è dedicato a Erasmo da Rotterdam (1469-1536). Umanista che visse e insegnò a Basilea dal 1521 al 1535. L’itinerario (durata circa 30 minuti), percorribile con passeggini e sedie a rotelle, è contrassegnato da cartelli segnaletici color rosso su sfondo blu.

Si passeggia per il Rheinsprung , via che costeggia il corso del Reno e porta alMünsterhügel (piazza della Cattedrale), scenario degli avvenimenti principali della storia basilese.

Qui Celti e Romani costruirono gli insediamenti, dei quali sono visibili interessanti reperti archeologici. Sempre qui dimorò papa Felice V, fu eletto nel Concilio di Basilea del 1440.

Anche il principe Vescovo dimorò sul colle della Cattedrale fino alla Grande Riforma del 1529. La zona, quartiere residenziale e centro amministrativo, ospita interessanti musei.

La piazza della Cattedrale, tra le più belle d’Europa, è sede ideale di numerose manifestazioni: dal cinema alla fiera d’autunno e ai concerti. Dalla vicina terrazza dello Pfalz (Palatinato), è possibile godere di un magico panorama sulla città, l’ansa del Reno e i monti della Foresta Nera e dei Vosgi. E’ sempre stata

meta di turisti di ogni tempo, compresi autorevoli personaggi, quali re e papi.

La Cattedrale merita certamente una visita. L’architettura romanica è ben conservata. Nelle navate sono sepolti Erasmo da Rotterdam e personaggi famosi. Affascinante anche il chiostro dove si trovano le tombe di rinomate famiglie basilesi. Sulla strada del ritorno verso la vivaceMarktplatz (piazza del Mercato) si passeggia sulla Freie Strasse, la più famosa arteria commerciale della città.

Il secondo itinerario , contrassegnato da cartelli celeste su sfondo blu è dedicato a Jacob Burckhardt (1818-1897) “Un ponte tra passato e presente”. Professore a Basilea, storico della civiltà e storico d’arte. Cartelli segnaletici: celeste. Durata: 45 minuti circa.

Accessibile a passeggini e sedie a rotelle. Si parte dalla Marktplatz in direzione della Freie Strasse, una delle arterie principali e più famose della città. Passando per il retro della Barfüsserkirche (chiesa degli Scalzi) si arriva alla Theaterplatz (piazza del Teatro). Questo posto è caratterizzato dal forte contrasto tra l’edificio moderno che ospita il teatro e l’Elisabethenkirche (chiesa di Santa

Opera di Tinguely

Elisabetta) in stile neogotico.

La fontana dell’artista Tinguely affascina per i suoi giochi d’acqua ed è un punto di ritrovo in ogni stagione per i giovani di Basilea. A pochi passi di distanza c’è il giardino del ristorante della Kunsthalle (galleria d’arte) di Basilea. La Barfüsserplatz (piazza degli Scalzi) è uno dei centri della vita cittadina.

La piazza antistante la chiesa medievale è anche sede di manifestazioni e mercatini. All’interno della chiesa c’è un museo storico molto interessante. Dalla piazza, chiamata anche «Barfi» si prosegue lungo le stradine medievali dell’Heuberge dello Spalenberg che ospitano eleganti alberghi e tanti piccoli negozietti e boutique esclusive

Opera di Tinguely e d Eva Aeppli

C’è, poi, l’Itinerario dedicato a Thomas Platter (1499-1582) “Artigianato e Università”, studioso basilese e direttore della Münsterschule (scuola della Cattedrale). I cartelli segnaletici sono di colore giallo su sfondo blu e il giro dura 45 minuti circa. Anche questo itinerario è accessibile a passeggini e sedie a rotelle.

Dopo aver lasciato la parte bassa della città, si sale sulla sinistra lungo lo Spalenberg. Arrivati in alto, abbandonato il centro storico e superato il Petersgraben, l’antico fossato delle fortificazioni si raggiunge lo Spalentor, porta monumentale della città risalente al secolo XIV e tra le più belle della Svizzera.

L’antico fossato esterno conduce all’Università più antica della Svizzera (fondata nel 1460) in cui anche Thomas Platter studiò e insegnò. Accanto all’università c’è la Petersplatz(piazza di San Pietro). Qui, ogni sabato, si tiene

Foto di Tinguely

un colorito e interessante “mercatino delle pulci”.

Passando per la Peterskirche (chiesa di San Pietro) in stile gotico, la passeggiata riporta alla vivace piazza del Mercato, dove, nei giorni feriali, trionfano coloratissimi banchi di vendita di frutta e verdura fresca.

Antica medicina? Basta percorrere l’Itinerario dedicato a Paracelso (Vero nome Theophrastus da Hohenheim; 1493-1541) “Vie Medievali”. Dal 1527 al 1528 esercitò la scienza della medicina e del guaritore a Basilea. I cartelli segnaletici sono in grigio su sfondo blu. La durata del percorso, tra scalinate e strade ripide, è di circa un’ora

Roland Wetzel direttore Museo Tinguely

La passeggiata si snoda tra le due sponde del fiume Birsig conducendo dapprima verso la Martins- Kirchplatz (piazza della chiesa di San Martino), scenario di molte manifestazioni.

La Martins- kirche (chiesa di San Martino) dove si svolgono frequentemente manifestazioni ufficiali. Le facciate del grande municipio sono una testimonianza della ricchezza della Basilea antica. Lo splendido edificio è in arenaria rossa ed è arricchito da affreschi, trompe-l’oeil e dalla maestosa torre.

Dopo aver sceso i gradini «Stapfle» nel dialetto basilese), camminando per i vicoli stretti, ci si ritrova a valle.

Percorrendo la Falknerstrasse si attraversa senza accorgersene il fiume Birsig, che da oltre cento anni scorre sotterraneo da Heuwaage a Schifflände fino a terminare il suo percorso nel Reno.

A questo punto incomincia la salita dall’altra parte del fondovalle e si passa per

Paolo Lunardi, Marketing Services di Svizzera Turismo - Roma

le vecchie vie dedicate all’artigianato. Si arriva, così, a la Leonhardskirche (chiesa di San Leonardo) e al Lohnhof.

Quest’ultimo fu la sede dell’amministrazione dei lavori pubblici e delle finanze e poi trasformato in carcere preventivo.

Oggi, invece, ospita appartamenti privati, il museo della musica ed un piccolo albergo con ristorante.

Si prosegue per le vie medievali e, ritornando verso la Markplatz, si passa davanti al Pharmaziehistorisches Museum (museo della Storia della Farmacia) nel quale è possibile osservare gli strumenti utilizzati ai tempi di Paracelso.

L’ultimo itinerario, “Sulle due sponde del Reno”, è dedicato ad Hans Holbein il Giovane (1497-1543 circa), maestro dell’arte figurativa. Cartelli segnaletici verde su sfondo blu ha una durata di circa un’ora e mezza. Può essere percorso con passeggini e sedie a rotelle.

Questo itinerario attraversa i quartieri nobili del centro storico fino alla piazza della Cattedrale.

Qui si possono rimirare le abitazioni dove hanno vissuto, in passato, celebrità religiose e personaggi di fama mondiale.

E’ possibile ammirare l’esposizione delle lanterne artisticamente dipinte in occasione del Carnevale di Basilea e alcune attrazioni legate alla tradizionale “Fiera d’autunno”.

Le dimore patrizie della Rittergasse (via dei Cavalieri) indicano il tracciato verso l’antico fossato interno della città e al raffinato ed artistico quartiere residenziale della zona.

Lungo il percorso è possibile ammirare il Museo d’arte che ospita una collezione di opere di grandi artisti, tra cui molti dipinti di Hans Holbein.

Passando per il Karikatur & Cartoon Museum (museo della caricatura e dei fumetti) si arriva alla chiesa di Sant’Albano, antico convento medievale il cui cortile ha una parte delle mura esterne ancora perfettamente conservata.

La St. Alban-Tal (valle di Sant’Albano) ospita il Museum für Gegenwartskunst (museo d’arte contemporanea) e il Papier- mühle (museo della carta). Vale la pena visitarli. Da qui è possibile imbarcarsi sul traghetto per attraversare il Reno passando dalla Grande Basilea alla Piccola Basilea.

Tutt’intorno e dentro le case del Medioevo c’è un quartiere multiculturale che rappresenta l’anima della città.

Attraversando il ponte Mittlere Brücke il percorso prevede il passaggio davanti al “Lallekonig”, il re che tira fuori la lingua (in poche parole, fa la linguaccia) alla Piccola Basilea.

Come per tutti gli altri itinerari, alla fine si fa ritorno alla Markplatz (la piazza del Mercato).

Questi sono gli itinerari che permettono di avere una visione a 360 gradi della città, ma non dobbiamo dimenticare le visite agli interessanti Musei che sono a Basilea.

Di certo sarà impossibile visitarli tutti e 40, però ce ne sono alcuni che non possono non essere visitati.

Uno dei più interessanti è l’armonioso è il Museo Tinguely, costruito a ridosso del fiume Reno dal noto architetto ticinese Mario Botta e dedicato ad uno degli artisti più geniali della Svizzera “Jean Tinguely”, un estroso artista, nato a Friburgo, vissuto dal 1925 al 1991, che ha introdotto il movimento e le macchine nelle sperimentazioni artistiche.

Il Museo è stato inaugurato nel 1996. L’esposizione è permanente e conserva

René Magritte "L'Empire des Lumiers"

quadri, sculture e macchinari che risalgono a tutti i suoi periodi di creatività, oltre a documenti, fotografie, lettere e disegni.

Artista dalla vita piuttosto “movimentata” e irrequieta, Tinguely visse tra Parigi e la Svizzera.

Nel 1960 fece parte del gruppo “Manifesto del nuovo realismo” che, nato a Parigi si prefiggeva di trovare nuovi approcci percettivi al reale.

La sua fama si consolida nel 1961 e continuerà ad aumentare con il passare degli anni (e varcherà anche l’Oceano) attraverso mostre e opere che “lasciano il segno”. Il nuovo realismo di Tinguely si esprimerà soprattutto in opere anche dalle grandissime dimensioni ma sempre con il concetto del movimento.

Lavori tridimensionali, oggetti in ferro, parti di giocattoli, di automobili,teschi di animali, materiali corrosi dal fuoco sono la sua materia “principe” per la

Salvador Dalì " L'enigme du desire"

creazione di opere incentrate sul sogno, sul fantastico, sul misterioso, sul drammatico o sul giocoso.

I visitatori del Museo sono circa 120 mila l’anno e il 25 per cento sono bambini, attratti da quei macchinari strani ma che possono essere anche “vissuti” dai piccoli, che riescono ad interagire con alcune delle opere esposte.

E’ il magico mondo di Tinguely, fatto di suoni, composizioni che si muovono, ruote, oggetti d’uso quotidiano, strumenti musicali, tamburi, macchine che fanno arte perché dipingono.

Tinguely amava molto le auto da corsa e le gare di formula 1. Le collezionava,

Scultura "Il ragno" di Louise Bourgeois

aveva anche una Ferrari, ed era amico di molti piloti, alcuni dei quali erano morti. Amava tenere nella sua camera da letto l’auto – che aveva acquistato – di suo amico pilota deceduto, Jean Clark. Mi piace ricordare nel Museo un’opera molto particolare e che riguarda questa storia.

C’è quest’auto da corsa e dietro ci sono le figure di donne, a grandezza naturale e vestite a lutto, che rappresentano le mogli dei piloti morti. L’opera è della prima moglie dell’artista, Eva Maria Aeppli e mostra la visione diversa che hanno gli uomini e le donne su questo tipo “sport”. Per uno è la vita, per la donna è la morte.

Ogni oggetto può “rivivere”, avere una vita nuova, può avere un suo movimento, non è statico, ha una sua “anima”, una sua “voce” gioiosa o tragica. Ogni cosa, insomma, non può morire. Questo è il mio pensiero sulle opere di Tinguely, opere da “toccare”, da ammirare e restarne affascinati per la grande fantasia e bellezza creativa.

Nel Museo vengono organizzate delle mostre temporanee di artisti moderni e contemporanei di Tinguely. Fino al 29 gennaio 2012 è possibile ammirare le opere di Robert Breer.

Altro museo da non perdere è la Fondazione Beyeler, casa d’arte progettata dall’architetto italiano Renzo Piano e inaugurata nel 1997. Un’estensione del Museo è stata creata nel 2000. La struttura, creata da Renzo Piano “per servire l’arte e non il contrario”, è moderna, funzionale e, finalmente, con le luci ‘giuste’ per poter ammirare appieno le opere esposte che sono 230 suddivise fra quadri e sculture.

La Fondazione prende il nome dai proprietari della collezione, Hildy ed Ernst Beyeler, ed è caratterizzata dall’arte del ventesimo secolo. Ci sono opere di grandi artisti quali Picasso, Dalì, Cezanne, Rousseau, Klee, Mondrian, Ernst, Matisse, Newman, Bacon, Dubuffet, Baselitz, Picabia, De Chirico, Magritte, Mirò, Tanguy e sculture di Alberto Giacometti, oltre ad oggetti provenienti da Africa, Alaska e Oceania.

Fino al 29 gennaio 2012 è possibile visitare l’importante mostra “Dalì, Magritte, Mirò -Surrealismo a Parigi e fino all’8 gennaio 2012 “A l’infini” con le opere di Louise Bourgeois, famosa scultrice francese che, nel 1938 si trasferì a New York e iniziò il suo percorso artistico influenzato dal surrealismo e poi alla lavorazione del metallo.

Una delle sue opere più famose, e che è situata al pian terreno della Mori Tower, a Tokyo, è un’enorme scultura a forma di ragno gigante, esposta in questo momento al Beyeler.

Basilea elegante e colta, quindi, ma che si fa apprezzare anche per la sua cucina e per i prodotti enogastronomici. Se si vuole fare una bella figura e si vuole mangiare bene e in maniera diversa dal solito, è da consigliare l’elegante e

I cuochi del Ristorante Teufelhof: Holland Ingo, Baader Michael, Jojo Hachimure

raffinato ristorante “Teufelhof Bel Etage”, che è anche un centro culturale, ed è stato insignito di 16 punti GaultMillau (tipo le stelle Michelin).

Per i golosi di dolci, non si può rientrare in Italia senza aver acquistato la celebre cioccolata svizzera dai mille gusti (stracciatella, arancia, caramello ecc…, oltre alla classica “Toblerone”, e i ghiotti biscotti “Basler Lackertli”.

Per dormire, l’hotel Victoria, un quattro stelle situato vicino alla stazione centrale, è l’ideale per il comfort che offre, per l’abbondante colazione e per la vicinanza al centro storico, dove si può arrivare a piedi con molta tranquillità.

Ma ci sono molte altre strutture ricettive che vanno dagli hotel a 2 stelle fino a quelli di lusso.

Come arrivarci? Naturalmente da Roma con Swiss Airlines, dove c’è 1 collegamento al giorno. Oppure da Milano, Venezia e Firenze passando via Zurigo.

Basilea, dunque, è la città ideale per un long week-end, o per una settimana, se si vuole fare un tuffo un po’ più completo nella cultura e per apprezzarne meglio la storia, l’enogastronomia e le bellezze che sa offrire ai visitatori, anche i più esigenti.

Liliana Comandè

Basilea: città culturale per eccellenza
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Arte al bar: Pablo Picasso

9 Aprile 2020 , Scritto da Walter Fest Con tag #walter fest, #arte al bar, #arte, #pittura, #le interviste pazze di walter fest

Disegno di Walter Fest

Disegno di Walter Fest

 

 

 
Gentilissimi amici lettori della signoradeifiltri, oggi avremo un'edizione primaverile, sono le 8,30, sto aspettando un artista che devo intervistare, andremo al solito bar per fare colazione e poi con la mia Vespa lo porterò a fare un giro per Roma. La mia Vespa verde pistacchio è pronta, il mio amico Mario ha avvisato il barista che arriveremo con un ospite illustre, prima gli offrirò un caffè caldo e poi già so che l'intervista non sarà noiosa, statica e formale. Vedo l’artista che arriva è lui Pablo Picasso.
 
- Ciao Pablo.
 
- Ciao Walter.

- Dai, mettiti il casco che andiamo a prendere il caffè.
 
- Sì, ma guido io.
 
Ho paura, ha lo sguardo arcigno, è meglio assecondarlo e non dirgli di no.
 
- Va bene, ma vai piano, puoi metterti questo casco?
 
- Ehi, Walter, ma questo è un elmo da centurione!
 
- Pablo, non andare per il sottile, siamo a Roma.
 
- Eh già, se eravamo a Venezia che facevi, mi mettevi in testa una gondola?
 
- Ma ti dona, sembri Giulio Cesare.
 
- Non se ne parla nemmeno!
 
Dopo una accesa disputa Pablo Picasso accetta di mettere in testa l’elmo da centurione, in cambio di andare a fare il bagno a fontana di Trevi come Marcello Mastroianni,  partiamo… broooommmm!
Per fortuna tutto fila liscio, ma la prossima volta prendo la 500, Pablo Picasso guida come un torero, ci sediamo al tavolo.

- Pablo, se tu non avessi fatto l'artista, che cosa avresti fatto nella tua vita?
 
- Bueno, bella domanda, sarei stato indeciso fra il poliziotto e il barman, due occupazioni per stare a contatto con la gente. Logicamente ho lasciato fare al destino, non possiamo ostacolare il fato, ognuno di noi ha un compito, il mio era quello di fare l’artista.
 
Passano due belle ragazze e Pablo le guarda.
 
- Pablo, le cose belle sono migliori di quelle brutte.
 
- Claro, è questione di sensibilità. Quella formidabile capacità che abbiamo di essere attratti da tutto quello che emana armonia e poesia. La vita è affascinante, spettacolare, e l'umanità ha la fortuna di vivere circondata e immersa nella meraviglia della natura. L’arte ha il dovere e l’obbligo di manifestare tutto quello che ci circonda attraverso la fantasia e la tecnica, ognuno deve fare il proprio per rendere poetica questa nostra esistenza.
 
 - Pablo tocchiamo un tasto dolente, non tutti hanno questa sensibilità e, comunque, qualcosa di meno bello è sempre presente.
 
- Diablo! E noi artisti dobbiamo separare le cattive immagini, costruite egoisticamente dalle mani dell'uomo, da quello che è il linguaggio universale, indirizzato verso un buon saper vivere che renda l’umanità felice. E' pur vero che dobbiamo anche mettere in evidenza la brutalità e la misera debolezza umana, come se fossimo un libro aperto a tutti, noi artisti messaggeri e apostoli del creato.
 
- Quando hai realizzato Guernica eri molto infuriato?
 
- No, di più, guardami bene in faccia, tocca qui, stringi senza paura di farmi male.
 
Mi prende la mano con decisione e mi fa toccare il bicipite sinistro. Pablo Picasso ha una muscolatura eccezionale.
 
- Ero una furia, realizzai quel dipinto mosso da una forza interiore bestiale, ogni tocco di pennello un fendente contro l'assurdità della disumanità. Era come girare un film contro la guerra, un drammatico film in bianco e nero senza altri colori, era inutile mostrare sangue e colori fiammanti, hai mai visto un film in bianco e nero?
 
-Sì
 
- Nel contrasto fra quei due toni c’era il massimo dell’espressività, se avessi utilizzato i colori sarebbe stata un'opera come tutte le altre e, invece, dovevo impressionare la gente, gli stessi che comandano il mondo senza pensare alle sofferenze del popolo innocente. Purtroppo alcuni, troppo legati a interessi di pochi, non hanno capito la lezione e gli eserciti giocano ancora alla guerra. Cabrones!... Barman mi porti una gazzosa... cabrones tutti!
 
- Ma proprio tutti?
 
- Sì, tutti cabrones!
 
Pablo sorseggia la gazzosa e lascia sfogare la sua ira, provo a fargli vuotare il sacco su questioni personali e romantiche.
 
- Hai avuto un sacco di storie amorose?
 
La risposta è un chiaro gesto affermativo, socchiude gli occhi come un cerbiatto innamorato.
 
- Piacevo mucho alle donne, le fulminavo con lo sguardo!
 
- E con la musica come la mettiamo?
 
- Lavoravo troppo, non avevo tempo per la musica, però mi piaceva, oh sì, se mi piaceva. Fossi stato di quest'epoca avrei amato i Beatles, un po’ rock, un po’ romantici, anche se non lo davano a vedere. Erano muy loco come me, e poi, con tutti quei capelli erano anche simpatici, però ti confesso che anch’io senza i loro caschetti da baronetti avevo un certo fascino.
 
- Hai girato il mondo.
 
- Oh sì, ma potevo fare di più, è stata una lunga strada. Sai, a volte mi sono sentito padrone del mondo ma, alla fine, ti rendi conto che sei stato solo di passaggio e questa cosa mi metteva un po’ di tristezza. Per fortuna ho sempre lavorato molto e cancellavo i pensieri negativi con la mia creatività, ma non ho rimpianti. La mia arte è stato un fantastico linguaggio personale e universale, ho fatto quello che desideravo da bambino, mi sono divertito e, anche se lotti per assaporare i piaceri della vita, poi godi della poesia e ti senti in pace con te stesso, peccato che rimani solo una pedina nella scacchiera, ma con il cuore gonfio di passione. Certo che  vale la pena di vivere! El corazòn, quando è forte e sincero, ti fa vedere senza limiti la luce dell'esistenza!
 
- Pablo, a quale opera sei più affezionato?
 
- Walter, ma che domanda è? E’ come chiedere se vuoi più bene a mamma o a papà, io ho amato tutte le mie opere. E' stata una continua ricerca e scambio di amore con loro, in ognuna di esse ho lasciato una parte di me, non posso dire di aver amato una più di un'altra e sai perché?
 
- Già, perché?
 
- Perché le mie opere erano me e io ero loro, quindi è come dire che vivevamo in simbiosi e io ero un po’ egoista, eh! Volevo molto bene a me stesso!
 
- Ti sarebbe piaciuto essere un futurista?
 
- No amigo, un movimento di colori confusionari, geniali ma confusionari, e poi questi futuristi troppo sognatori, spericolati, ossessionati dai miti. La velocità? La modernità? Il super ego dell'uomo dominatore della terra, dei mari, del cielo? No amigo, mi tengo stretta la poesia, non vedi intorno quanta poesia ci inebria della sua vista e del suo profumo?
 
- Periodo rosa?
 
- Eh già, io ho visto quello che gli altri non potevano vedere e sono stato contento di averlo dipinto, ragazzo chiedimi di Dalì.
 
- Pablo, che ne pensi di Dalì?
 
- Ahahahah... Sono contento che gli ho fregato un sacco di donne, lo battevo sempre sul tempo, ma lo stimavo e lui stimava me. Gran furbacchione, con un opera di piccolo formato ha oltrepassato la barriera del tempo ed è diventato celebre e immortale.
 
 
- Eh già, un piccolo quadro enigmatico e visionario, solo un grande artista come lui poteva realizzarlo... Ragazzo, ora dobbiamo andare, hai portato i soldi per pagare il conto qui al bar?
 
Apro il portafoglio, ho cinque euro, qualche santino e fra le ragnatele un biglietto del bus scaduto. Non ve lo avevamo detto ma, mentre parlavamo, abbiamo consumato sei caffè, cinque ciambelle zuccherate, una scatola di sigari toscani, una sambuca, una gazzosa e un whisky.
 
- Ahahah… Ragazzo, credo che adesso siamo nei guai, forza, andiamo via.
 
- Senza pagare?
 
- E' claro, metti in moto la Vespa, io salto al volo e via, andiamo a vedere la cappella Sistina e, dopo, a fontana di Trevi per fare il bagno.
 
Vroooommm!!
 
Amici lettori del blog baciato dai raggi di sole della cultura, ebbene sì, io e Pablo Picasso siamo fuggiti in Vespa e non abbiamo pagato il conto al bar. Non è stata colpa nostra ma bensì della nostra immaginazione, la prossima volta il conto lo faremo pagare a lei… Dimenticavo... Il bagno nella fontana di Trevi lo possiamo fare solo io e Picasso, voi, se volete, seguiteci con la fantasia.
 
 
 

Dear reader of signoradeifiltri, today we will have a spring edition, it is 8.30 am, I am waiting for an artist that I have to interview, we will go to the usual bar to have breakfast and then with my Vespa I will take him for a ride around Rome. My pistachio green Vespa is ready, my friend Mario has informed the bar tender that we will arrive with an illustrious guest, first I will offer him a hot coffee. I know that the interview will not be boring, static and formal. I see the artist who arrives:  Pablo Picasso.

 

- Hi Pablo.

 

- Hi Walter.

 

- Come on, put on the helmet, we're going to have coffee.

 

- Yes, but I'll drive.

 

I'm afraid, he has a grim look, it's better to go along with him and not say no to him.

 

- Okay, but go slowly, can you put this helmet on?

 

- Hey, Walter, but this is a centurion helmet!

 

- Pablo, we are in Rome.

 

- Yeah, if we were in Venice, would you put a gondola on my head?

 

- But you look like Julius Caesar.

 

- We don't even talk about it!

 

After a heated dispute, Pablo Picasso agrees to put the centurion helmet on his head, in exchange for going to the Trevi fountain like Marcello Mastroianni, let's go ... broooommmm!

Fortunately everything goes smoothly, but next time I’ll take the 500, Pablo Picasso drives like a bullfighter, we sit down at the table.

 

- Pablo, if you hadn't been an artist, what would you have done in your life?

 

- Bueno, good question, I would have been undecided between the policeman and the barman, two occupations to be in contact with people. Logically, I left it to fate, we cannot hinder fate, each of us has a task, mine was to be an artist.

 

Two beautiful girls go by and Pablo looks at them.

 

- Pablo, good things are better than bad things.

 

- Claro, it's a question of sensitivity. That formidable ability we have to be attracted by everything that emanates harmony and poetry. Life is fascinating, spectacular, and humanity has the good fortune to live surrounded and immersed in the wonder of nature. Art has the duty and obligation to manifest everything that surrounds us through fantasy and technique, everyone must do their own to make our existence poetic.

 

- Pablo, not everyone has this sensitivity and, in any case, something less beautiful is always present.

 

- Diablo! And we artists must separate the bad images, selfishly built from the hands of man, from what is the universal language, directed towards a good way of life that makes humanity happy. It is true that we must also highlight brutality and miserable human weakness, as if we were a book open to all, we artists, messengers and apostles of creation.

 

- When you made Guernica were you very angry?

 

- No, more than angry, look me in the face, touch here, squeeze without fear of hurting me.

 

He takes my hand firmly and makes me touch his left biceps. Pablo Picasso has exceptional musculature.

 

- I was a fury, I made that painting moved by a beastly inner strength, each touch of brush a blow against the absurdity of inhumanity. It was like shooting an anti-war film, a dramatic black and white film with no other colours, it was useless to show blood and flaming colours, have you ever seen a black and white film?

 

-Yup

 

- In the contrast between those two tones there was the maximum of expressiveness, if I had used the colours it would have been a work like all the others and, instead, I had to impress the people, the same ones who rule the world without thinking about the sufferings of the innocent people. Unfortunately, some, too tied to the interests of a few, have not understood the lesson and armies are still playing war.

Cabrones! ... Barman bring me a gazzosa ... cabrones all!

 

- But everyone?

 

- Yes, all cabrones!

 

Pablo sips the gazzosa and lets out his anger, I try to make him talk of personal and romantic matters.

 

- Have you had a lot of love affairs?

 

The answer is a clear affirmative gesture, narrowing his eyes like a fawn in love.

 

- I liked women a lot, I looked at them!

 

- And music?

 

- I worked too hard, I didn't have time for music, but I liked it, oh yes, if I liked it. If I had been from this era, I would have liked the Beatles, a little rock, a little romantic, even if they didn't show it. They were muy loco like me, and besides, with all that hair, they were also nice, but I confess that even without their baronet helmets I had a certain charm.

 

- You traveled the world.

 

- Oh yes, but I could do more, it was a long way. You know, sometimes I felt master of the world but, in the end, you realize that you were just passing through and this thing made me a little sad. Luckily I have always worked a lot and canceled negative thoughts with my creativity, but I have no regrets. My art was a fantastic personal language and universal language, I did what I wanted as a child, I had fun and, even if you struggle to savor the pleasures of life, then you enjoy poetry and you feel at peace with yourself. Too bad that you remain only a pawn on the board, but with a heart swollen with passion. Of course it's worth living! When he is strong and sincere, El corazòn makes you see the light of existence without limits!

 

- Pablo, which work are you most fond of?

 

- Walter, what question is it? It's like asking if you love mom or dad more, I loved all my works. It was a continuous search and exchange of love with them, in each of them I left a part of me, I can't say that I loved one more than another and do you know why?

 

- Yeah, why?

 

- Because my works were me and I was them, so it's like saying that we lived in symbiosis and I was a little selfish, huh! I loved myself very much!

 

- Would you have liked to be a futurist?

 

- No amigo, a movement of confusing colours, brilliant but confusing, and then these futurists were too dreamy, reckless, obsessed with myths. The speed? Modernity? The super ego of the man who rules the earth, the seas, the sky? No amigo, I hold poetry tightly, don't you see how much poetry inebriates us with its sight and its perfume?

 

- Pink period?

 

- Yeah, I saw what the others couldn't see and I was happy to have painted it. Ask me about Dali.

 

- Pablo, what do you think of Dali?

 

- Ahahahah ... I'm glad that I stole him a lot of women, I always beat him on time, but I valued him and he esteemed me. Great scoundrel, with a small format work he has crossed the barrier of time and has become famous and immortal.

 

- The persistence of memory.

 

- Yeah, a small enigmatic and visionary picture, only a great artist like him could make it ... Now we have to go, did you bring the money to pay the bill here at the bar?

 

I open my wallet, I have five euros, a few saints and an expired bus ticket between the cobwebs. We hadn't told you but while we were talking, we had six coffees, five sugary donuts, a box of Tuscan cigars, a sambuca, a soda and a whiskey.

 

- Ahahah ... I think we're in trouble now, come on, let's go.

 

- Without paying?

 

- It is claro, start the Vespa, I jump on and off we go to see the Sistine chapel and, later, the Trevi fountain, for swimming.

 

Vroooommm !!

 

Readers of the blog kissed by the rays of the sun of culture, yes, Pablo Picasso and I fled with the Vespa and did not pay the bill at the bar. It was not our fault... I forgot ... The bath in the Trevi fountain can only be done by Picasso and I, if you want, follow us with your imagination.

 
 
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L'estetismo di Oscar Wilde, prima parte

25 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi

L'estetismo di Oscar Wilde, prima parte

Oscar Wilde fece confusione fra vita e opera, tentando di gestire artisticamente la propria esistenza. Fu un personaggio molto in vista, l’esponente principale del Decadentismo inglese, come Baudelaire lo fu per la Francia e d’Annunzio per l’Italia; anzi, possiamo dire che Wilde fu l’estetismo inglese.

Con Decadentismo intendiamo un genere letterario e un atteggiamento che impregna di sé tutta la fine del secolo. Il termine fu usato per la prima volta da Verlaine, riferito alla pittura impressionista. In Inghilterra il romanticismo è messo in crisi dal compromesso vittoriano che si basa sulla grandezza inglese, sul filantropismo, sulla fiducia nella scienza. Gli ideali di uguaglianza e libertà sono accantonati, impera il romanzo di Dickens e Thackeray, incentrato sullo step up e sempre a lieto fine. La spina dorsale dell’Inghilterra economica è la classe mercantile che fa suo il moralismo calvinista e puritano. Il giudizio della società diventa più importante di quello divino, il sesso è un tabù. È promulgata una legge contro gli omosessuali maschi (non contro le femmine perché nessuno ha il coraggio di spiegare alla regina che esistono anche donne omosessuali) Wilde finirà in galera, a Reading Gaol proprio perché ammetterà di essere omosessuale. Wilde non si cura di nascondere le proprie tendenze, convinto della necessità di abbattere le convenzioni moralistiche in favore delle esperienze. Ostenta l’amicizia con il suo Basil, cioè Lord Alfred Douglas, la grande passione della sua vita. Il processo che deriverà da quest’amicizia, significherà la sua fine come scrittore e come uomo. È una tragedia della cui portata Wilde sarà consapevole fin dall’inizio e che sembra da lui quasi cercata. Al processo non si discolperà in nome della legittimità del suo essere gay. Pagherà di persona le proprie idee e darà l’ultima, definitiva, pennellata ad una vita artistica, non scevra, però, dal senso di colpa, che si ritrova in tutti i poeti decadenti, compreso d’Annunzio.

Poiché, dunque, tutti gli ideali romantici sono in crisi, si tenta di sostituire a essi le sensazioni, nasce così l’estetismo. Le sensazioni non sono più intese come la parte più bassa dell’uomo ma sono rivalutate in una prospettiva gnoseologica come forma di conoscenza. Il decadentismo inglese è una nuova fiammata romantica che brucia di sensazioni. Wilde, nato nel 1854, è culturalmente anglo-irlandese, influenzato dalla cultura dublinese della metà dell’Ottocento, dai movimenti estetizzanti di Oxford e dalla Francia. In lui manca completamente la componente puritana, il suo approccio alla vita è nel senso del godimento.

Wilde fa passare in secondo piano pittori e poeti importanti come i Preraffaelliti, Ruskin, Pater, Swinburne, con i quali l’estetismo ha una vita più sotterranea, mentre lui lo pubblicizza e porta nei salotti, dove fa presa con la sua vita, la conversazione, gli atteggiamenti. Ma tutti gli artisti suoi contemporanei entrano nella sua cerchia e lo influenzano. Morris incarna un estetismo pratico che vorrebbe cambiare la vita e legarla all’arte. Ruskin propugna il ritorno alla bellezza individuale, ai modelli ellenici, al gotico nordico. Pater vuole la liberazione dal cristianesimo, che impedisce all’uomo di godere sensualmente della vita terrena. Egli tende “all’arte per l’arte”, intesa come ricerca estetica e non più spirituale. Dante Gabriel Rossetti auspica il ripristino della pittura preraffaellita, essenziale e non di maniera. In realtà il suo tratto sarà botticelliano, languido, raffinato, di un sensualismo torbido e malinconico che riflette la spossatezza, il disagio, la mancanza d’ideali dell’epoca. L’amore stilnovistico è sensualizzato e la Beatrice di Rossetti ha proprio quel misto d’innocenza e perversità che tanto piace a Wilde. Swinburne è il maggiore poeta del decadentismo inglese, ripropone il ritorno alla paganità, alla pienezza della vita goduta e vissuta in tutte le sue esperienze.

Caratteristica delle prime opere di Wilde è l’ammirazione decadente del rinascimento e di Shakespeare, cui s’ispirano le sue prime poesie.

O listen ere the searching sun

Show to the world my sin and shame

(San Miniato)

To drift with every passion till my soul

Is a stringed lute on which all winds can play

(Helas!)

Requiescat, scritta in memoria di una sorellina morta a sedici anni, è una tipica espressione preraffaellita, con qualcosa di gotico.

Tread lightly, she is near

Under the snow

Speak gently, she can hear

The daisies grow

All her bright golden hair

Tarnished with rust,

She that was young and fair

Fallen to dust.

Lily-like, white as snow,

She hardly knew

She was a woman, so

Sweetly she grew.

Coffin board, heavy stone,

Lie on her breast,

I vex my heart alone,

She is at rest.

Peace, peace, she cannot hear

Lyre or sonnet,

All my life buried here,

Heap earth upon it.

Il giglio è ambiguo, è un fiore innocente ma dal profumo intenso, diventa qui simbolo di sessualità, come il “gelsomino notturno” del Pascoli. Nella poesia Madonna mia, dove ritroviamo l’immagine del giglio (come anche in Ave Maria Gratia Plena) abbiamo un chiaro esempio di stilnovismo preraffaellita.

And longing eyes half veiled by slumberous tears

Like bluest waters seen through mists of rain [...]

And white Throat, whiter than the silvered dove,

Through whose wan marble creeps one purple vein.

In Ave Maria Gratia Plena l’immagine della Madonna inginocchiata, “a kneeling girl with passionless pale face” ci rimanda a un concetto estetico, grazioso, della religione. Tutta la scena è senza passione, un atto di pura bellezza. Wilde tende a confondere l’etica con l’estetica e la Chiesa cattolica attira l’estetismo inglese perché fa appello ai sensi, fra paramenti, icone, inni e snervanti odori d’incenso.

Si richiama a Shelley, a D’Annunzio e ai quadri di Whistler, il quadretto in giallo In the gold room, con immagini impressioniste e corrispondenza fra suoni e colori.

Her ivory hands on the ivory keys

Strayed in a fitful fantasy,

Like the silver gleam when the poplar trees

Rustle their pale leaves listlessly,

Or the drifting foam of a restless sea

When the waves show their teeth in the flying breeze

Her gold hair fell on the wall of gold

Like the delicate gossamer tangles spun

On the burnished disk of the marigold

Or the sunflower turning to meet the sun

When the gloom of the jealous night is done

And the spear of the lily is aureoled.

And her sweet red lips on these lips of mine

Burned like the ruby fire set

In the swinging lamp of a crimson shrine,

Or the bleeding wounds of the pomegranate,

Or the heart of the lotus drenched and wet

With the spilt out blood of the rose-red wine.

Anche in Le Panneau c’è una descrizione, appunto, da pannello decorativo:

Under the rose tree’s dancing shade

There stands a little ivory girl,

Pulling the leaves of pink and pearl

With pale green nails of polished jade.

Con The harlots house, del 1885, Wilde supera il mero decorativismo dei suoi inizi, convogliando un messaggio di disgusto e stanchezza per la “deboscery”:

Love passed into the house of lust.

Lo fa con parole come harlot, cigarette e automatons, che sono nuove per la poesia dell’epoca. La sarabanda di automi ci ricorda Mary Shelley, Poe e Baudelaire. Molto più riuscita e malinconica è To L.L., dedicata alla moglie e al senso di colpa che aleggia nell’animo del poeta dopo la fine della famiglia e dell’amore. Non è più lo stile preraffaellita a saturare la poesia di odori e colori, bensì un’atmosfera triste e crepuscolare, che ci ricorda La pioggia nel pineto di d’Annunzio.

Could we dig up this long-buried treasure,

Were it worth the pleasure,

We never could learn love's song,

We are parted too long.

Could the passionate past that is fled

Call back its dead,

Could we live it all over again,

Were it worth the pain!

I remember we used to meet

By an ivied seat,And you warbled each pretty word

With the air of a bird;

And your voice had a quaver in it,

Just like a linnet,

And shook, as the blackbird's throat

With its last big note;

And your eyes, they were green and grey

Like an April day,

But lit into amethyst

When I stooped and kissed;

And your mouth, it would never smile

For a long, long while,

Then it rippled all over with laughter

Five minutes after.

You were always afraid of a shower,

Just like a flower:

I remember you started and ran

When the rain began.

I remember I never could catch you,

For no one could match you,

You had wonderful, luminous, fleet,

Little wings to your feet.

I remember your hair - did I tie it?

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Edipo nella tomba di Biagio Osvaldo Severini

10 Marzo 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #saggi, #biagio osvaldo severini

Ospitiamo un secondo intervento del prof. B.O.Severini. Stimato docente di Storia, Filosofia e Pedagogia, per lunghi decenni nei licei di Benevento, è un appassionato e studioso di Storia e di problemi connessi con la formazione individuale e collettiva, familiare e sociale. Si è interessato a lungo anche di politica. Attualmente è impegnato nella rivisitazione di tematiche sociali. L'ultimo articolo "Edipo nella tomba" prelude a un percorso di approfondimento in collaborazione con la prof. Adriana Pedicini, per quanto riguarda l'aspetto mitologico della figura di Edipo, e del dott. Marcello Di Pinto, psicanalista, per quanto riguarda il complesso psicanalitico, mentre lo stesso Prof. Severini illustrerà la "morte" di Edipo.

 

 

 

                                              EDIPO NELLA TOMBA

Il problema del funzionamento della libido, della sessualità,  della psicanalisi, della psichiatria, dei manicomi,dell’università, della società. Il principio di piacere contro il principio di realtà.  La Liberazione contro la Legge. Il pericolo di un  fascismo nuovo tipo.

                                         Biagio Osvaldo Severini

Ma guarda che sorpresa! Ritornano “una tomba per edipo”( “Psychanalyse e Trasnsversalitè – Essais d’analyse institutionnelle” ), e “Anti-Oedipe” ( “Capitalismo et Schizophrénie”) opere pubblicate nel 1972 in Francia (in Italia nel 1974) da Félix Guattari (psicanalista, allievo di Lacan e direttore del manicomio “aperto” di La Borde, morto nel 1992) e Gilles Deleuze (docente di filosofia a Vincennes e sociologo). Sono passati ben quaranta anni! Perché questo ritorno?

Allora, le opere furono rivoluzionarie per la psicanalisi e per la politica.

La psicanalisi classica fu investita da numerosi rilievi critici, con cui dovette fare i conti.

La politica fu sconvolta da quelle idee nuove, alla cui luce si mosse la generazione del ’77.

Oggi, alcune tesi ci sembrano ancora attuali.

Abbiamo realizzato una intervista “in-diretta” con i due autori, per verificare, insieme con i lettori, questa nostra ipotesi interpretativa.

Qual è il punto di partenza dei vostri lavori?

Deleuze. L’idea fondamentale è forse questa: l’inconscio “produce”. Dire che produce significa che bisogna smettere di trattarlo, come si è fatto finora, come una specie di teatro in cui verrebbe rappresentato un dramma privilegiato, il dramma di Edipo. Noi pensiamo che l’inconscio non sia un teatro, pensiamo piuttosto che sia un’officina… Dire che l’inconscio “produce” significa che è una specie di meccanismo che produce altri meccanismi. Vale a dire che secondo noi l’inconscio non ha niente a che fare con una rappresentazione teatrale, ma con qualcosa che potremmo definire “macchine desideranti”…. Quando noi parliamo di macchine desideranti, dell’inconscio come un meccanismo di desiderio, intendiamo dire un’altra cosa.

Che cosa intendete dire, quando parlate di desiderio?

Deleuze. Il desiderio si può comprendere soltanto a partire dalla categoria di “produzione”. Il desiderio non dipende da una mancanza, desiderare non è mancare di qualcosa, il desiderio non rinvia ad alcuna legge, il desiderio produce. Dunque, è il contrario di un teatro.

E la teoria  di Edipo che significato assume nella vostra riflessione?

Deleuze. Un’idea come quella di Edipo, della rappresentazione teatrale di Edipo, sfigura l’inconscio, non esprime nulla del desiderio. Edipo è l’effetto della repressione sociale sulla produzione desiderante. Anche a livello del bambino il desiderio non è edipico, funziona come un meccanismo, produce delle piccole macchine, stabilisce collegamenti tra le cose (es.: la produzione del latte dal seno e la bocca che interrompe tale flusso).

Possiamo affermare che nella vostra concezione il desiderio è rivoluzionario?

Il desiderio è rivoluzionario per natura, perché costruisce delle macchine capaci, inserendosi nel campo sociale, di far saltare qualcosa, di smuovere il tessuto sociale. Al contrario, la psicoanalisi tradizionale ha rovesciato tutto su una specie di teatro.. Esattamente come se si traducesse in una rappresentazione alla “Comédie francaise” qualcosa che appartiene all’uomo, all’officina, alla produzione.

E la interpretazione dei sogni e dei significati dei simboli onirici?

Deleuze. Il sistema dell’inconscio, contrariamente a quello che pensa la psicanalisi tradizionale, non significa niente. Non c’è senso, non c’è alcuna interpretazione da dare, non vuol dire niente. Il problema è di sapere come funziona l’inconscio. E’ un problema di uso delle macchine, del funzionamento delle “macchine desideranti”.

Ma che cosa sono queste “macchine desideranti”?

Deleuze. Nell’organismo ci sono diverse “macchine desideranti”: una macchina per mangiare, una macchina per respirare, una per parlare, una per defecare, una per fare l’amore, una macchina per vedere, per sentire, e così via; ognuna dà inizio ad un flusso. Questi flussi si accoppiano, si connettono, si tagliano in maniera trasversale.

Come nell’esempio del flusso del latte della mammella che viene interrotto dalla bocca del bambino che succhia?

Deleuze. Esattamente.

Ma che cosa non va nella psicoanalisi classica di Freud?

Deleuze. Partendo dallo studio delle psicosi, la nostra impressione è che la psicanalisi girava su stessa in un cerchio per così dire familiarista rappresentato da Edipo… Per quanto la psicanalisi abbia cambiato i metodi, essa finisce pur sempre per ritrovarsi sulla linea della psichiatria più classica, che ha legato fondamentalmente la follia alla famiglia… Perfino l’anti-psichiatria conserva questo riferimento follia-famiglia.

Mentre per voi?

Deleuze. Noi annotiamo che  non abbiamo mai visto un delirio schizofrenico che non sia prima di tutto razziale, razzista, politico, che non parta in tutti i sensi nella storia, che non investa le culture, che non parli di continenti, di regni, ecc. Noi diciamo che il problema del delirio non è familiare, non concerne il padre e la madre che molto secondariamente… Non ci sono deliri che non investano la storia prima di investire una specie di mamma-papà ridicoli.

Voi affermate che le persone che operano nel campo delle scienze umane e nel campo politico dovrebbero “schizofrenizzarsi”, dovrebbero mettere in discussione la cultura tradizionale.

In che senso?

Guattari. Di fronte ai problemi della società odierna bisogna porsi in una situazione di rimessa in causa della cultura tradizionale divisa, diciamo, tra le scienze umane, la scienza, lo scientismo e la responsabilità politica…Finora, ci si è accontentati di una specie di autonomismo delle diverse discipline. Gli psicanalisti hanno la loro batteria da cucina, i politici la loro, e via dicendo… Dopo il maggio ’68 è importante e necessaria una revisione di questa separazione… Se si resta all’idea che le cose sono separate, che ciascuno è uno specialista e deve portare avanti i suoi studi rimanendo nel suo angolo, si verificheranno delle esplosioni nel mondo che sfuggiranno completamente alla comprensione sia dei politici sia delle descrizioni antropologiche. Bisogna rimettere in causa la divisione dei campi e l’auto-soddisfazione degli specialisti isolati.

Quale potrebbe essere la scienza dell’uomo per eccellenza?

Deleuze. Il fatto è che troppe scienze vorrebbero avere questo ruolo.. Il problema non è di sapere quale sarà la scienza dell’uomo per eccellenza. Il problema è di sapere in che modo si raggrupperanno un certo numero di “macchine” dotate di una possibilità rivoluzionaria.. Per esempio, la macchina letteraria, la macchina psicanalitica, le macchine politiche. O troveranno un punto di congiungimento, come hanno già fatto fino ad ora in un certo sistema di adattamento ai regimi capitalistici, o troveranno una unità dirompente in un uso rivoluzionario. Non bisogna, dunque, porre il problema in termini di primato, ma in termini di uso, di utilizzazione.

Perché mettete in rapporto il capitalismo con la schizofrenia?

Guattari. Per sottolineare gli estremi… Il capitale e poi, all’altro estremo, o meglio, a un altro polo di non senso, la follia e nella follia precisamente la schizofrenia. Ci è sembrato che questi due poli nella loro comune tangente di non senso abbiano un rapporto. Non soltanto un rapporto contingente per cui si può affermare che la società moderna rende la gente pazza. Ma assai più di questo: per rendere conto dell’alienazione, della repressione subita dall’individuo preso nel sistema capitalista, e per intendere il vero significato della politica di appropriazione del plus-valore, dobbiamo mettere in gioco dei concetti che sono gli stessi cui si deve ricorrere per interpretare la schizofrenia.

Ma perché la psicanalisi tradizionale non è utile a capire la schizofrenia?

Guattari. Il movimento psicanalitico si è organizzato sulla base di una rottura completa tra le formazioni sociali e le formazioni inconsce, ha operato una separazione radicale tra ciò che avviene nella lotta politica e sociale e ciò che avviene nella “vita privata”, nella coppia, nel bambino, ecc… Gli psicanalisti hanno considerato che il sociale non è il loro problema e i politici che l’economia del desiderio non era il loro. Finalmente sono diventati complici gli uni degli altri.

 

 

Voi accusate anche il movimento operaio?

Guattari. Certo! I tenutari del movimento operaio sono d’accordo ora di occuparsi della famiglia e del desiderio, nella misura in cui non si tratta che di oggetti istituzionali sterilizzati: la qualità della vita e altre fesserie. Ma quando di tratta di occuparsi di altri oggetti portatori di dinamite – l’omosessualità, la delinquenza, l’aborto – ci si affida ai poliziotti. Va bene occuparsi dei problemi della coppia, della donna, degli alloggi, degli inquilini, ma non proprio dei problemi libido-rivoluzionari. Da parte loro gli psicanalisti vogliono occuparsi delle formazioni sociali ma alla condizione dichiarata che non si metteranno assolutamente in causa lo statuto della famiglia, della scuola, ecc.

Che cosa bisogna fare, dunque?

Guattari. Non si tratta di fare una lotta particolare nelle fabbriche con gli operai, un’altra negli ospedali con i malati, un’altra nelle università con gli studenti, ecc…Bisogna mettere in discussione questa concezione. La questione non è di sapere come, attualmente, si potrebbe modificare della psichiatria, della psicanalisi, l’atteggiamento dei gruppi di malati, o dei professori e degli studenti, ma più fondamentalmente come funziona la società per la quale si arriva ad una situazione come questa. E’ esattamente come per il nazismo: la questione non è di sapere come si sarebbero potuti migliorare i campi di concentramento, ma cosa aveva portato alla loro esistenza.

Ma, distruggendo l’Edipo, il Super-io, il triangolo edipico, non rischiate di non capire la formazione delle nevrosi, delle psicosi, della schizofrenia, della teoria e della pratica di Freud?

Guattari. Bisogna dire che Freud non ha capito molto della schizofrenia… Egli era fondamentalmente ostile alla psicosi. La psicosi e la rivoluzione sono stati due oggetti tabù. La normalità era identificata alla accettazione di vivere in famiglia. Il freudismo si è costruito fin dalle origini sulla visione dell’uomo in famiglia. Freud disprezzava il delirio e anche le donne. La sua rappresentazione della sessualità e della società è completamente fallocentrica, come direbbero le femministe.

Eppure, la psicanalisi funziona bene nell’attuale società!

Guattari. Certo che funziona bene, ed è ciò che la rende così pericolosa. E’ per eccellenza la droga capitalistica… Per il capitalismo ha la funzione di religione di ricambio. La sua funzione è di adattare la repressione, di personalizzarla, come si dice delle auto. Il peccato e la confessione non funzionano più come una volta… non basta più denunciare la psicanalisi, bisogna sostituirla.

Il complesso di Edipo è lo stesso in tutte le situazioni e in ogni tipo di struttura sociale?

Guattari. Per gli psicanalisti tradizionali è sempre lo stesso padre e sempre la stessa madre, sempre lo stesso triangolo… Ma non esiste una struttura universale nello spirito umano!

Voi opponete alla psicanalisi tradizionale la schizo-analisi. Che cosa è questa schizo-analisi?

Guattari. La schizo-analisi si congiunge alla lotta rivoluzionaria in quanto si sforza di liberare i flussi, di far saltare i catenacci, le assiomatiche del capitalismo, le sovra codificazioni del Super-io, ecc…

Avete fiducia in un riformismo graduale della psicanalisi o in che altro?

Sono tanto contro l’illusione di una trasformazione a poco a poco della società, quanto credo che i tentativi microscopici di comunità, di gruppo analitico tra militanti, organizzazione di un nido in una facoltà, ecc… siano fondamentalmente necessari. E’ facendo dei piccoli tentativi come questo che un bel giorno si scatenerà un’esperienza come quella del maggio ’68!

Poi, però, nel 1972 confessate di aver provato un certo smarrimento davanti alla svolta che avevano preso gli avvenimenti del maggio ’68. Perché?

Guattari. Noi facciamo parte di una generazione la cui coscienza politica è nata nell’entusiasmo e dall’ingenuità della Liberazione, con la sua mitologia che scongiurava il fascismo. E le questioni lasciate in sospeso da quell’altra rivoluzione abortita che fu il maggio ’68 si sono sviluppate per noi secondo un contrappunto che diventa tanto più angoscioso in quanto noi ci preoccupiamo, come molti altri, del futuro che ci si prepara e che potrebbe cantare gli inni di un fascismo nuovo tipo da far rimpiangere quello del tempo antico.

 

La psicanalisi ha, in certo qual modo, tentato di spiegare il fascismo. Che ne pensate?

Deleuze. La psicanalisi, è vero, ha sfiorato per un attimo questo campo, ma le sue spiegazioni del fascismo sono ridicole, in quanto fa derivare tutto dalle immagini del padre e della madre, o dai significati familiaristi e pii come il nome del Padre. E’ certo che la psicanalisi tranquillizza, consola, ci insegna le rassegnazioni, con cui noi possiamo vivere. Ma noi diciamo che ha usurpato la sua reputazione di promuovere o anche di partecipare ad una effettiva liberazione. Essa ha schiacciato ogni dimensione politica ed economica della libido in un codice conformista… Ciò che noi tentiamo è mettere la libido in relazione con un “fuori”… noi proponiamo una concezione positiva del desiderio come desiderio che produce, non desiderio che manca.

   

Nell’opera “Millepiani” (pubblicata dieci anni dopo l’”Anti-Edipo”) i due autori ritornano sull’opposizione tra Desiderio e Legge con una precisazione che avrebbe dovuto essere presa più sul serio, sottolinea Massimo Recalcati nella sua riflessione sull’argomento ( “ la Repubblica”, novembre 2012). Il quale fa notare che gli stessi Deleuze e Guattari mettono in guardia contro il pericolo insidioso che permea la stessa teoria del desiderio come flusso infinito, come “linea di fuga”che oltrepassa costantemente il limite. Il pericolo è questo: la “linea di fuga” potrebbe convertirsi in “distruzione, abolizione pura e semplice, passione d’abolizione”. Attenzione, quindi, che questa “linea di fuga”, che rigetta il limite, non si trasformi in “linea di Morte”!

Si può riflettere su questi argomenti? O si deve rigettare in blocco il tutto come un corpo estraneo alla cultura?

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Pia Deidda

22 Luglio 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #poli patrizia, #ida verrei, #racconto

Abbiamo deciso di riproporre in questa sede i migliori racconti di tre anni di attività del Laboratorio di Narrativa

Cominciamo con Pia Deidda e il suo "Di queste notti insonni"

In “Di queste notti insonni” Pia Deidda ricostruisce in modo magistrale un ambiente arcano e rurale. Una piccola, minuscola, donna è la protagonista di questo racconto delicato, incentrato su un “femminile” d’altri tempi e altri luoghi, ma ancora vivo nella memoria di società patriarcali.

In una camera, in uno spazio notturno illuminato solo dalla luce fioca di un lume a olio e dal rosseggiare delle carbonelle di un braciere, si consuma un’esistenza grama, un’inconsapevole rassegnazione, simbolo di un’antica rinuncia al riscatto. Nastassia e Bartulu, una donna e un uomo: lui, solo una massa umidiccia e maleodorante sotto la trapunta, sui tre materassi del letto a baldacchino… un russare, un gorgoglio, uno sbuffo, un grosso naso rosso solcato da capillari… Lei, quasi evanescente, con i piccoli piedi freddi, raggomitolata tra la preziosa biancheria profumata di lavanda, unica consolazione in quel suo povero mondo fatto di coercizione e di dominio. Ed un pensiero… quasi un ambito sogno, in quel presente oscuro e senza prospettive: la morte come soluzione, come cambiamento. Ma è solo una fugace idea, un balenio nella mente… “Per tutto c’è tempo”.

Il lettore sente il freddo dello stanzone, delle lenzuola ghiacce, dei piedi illividiti, la ruvidezza della camicia da notte, l’umidità delle calzette di lana appese ad asciugare.

Al centro del racconto, troneggia la descrizione del letto a baldacchino, “alto e regale”, simbolo di un amore gelido e mancato, di “incolori e ghiacce notti”. La protagonista, tuttavia, lo riveste di “pizzo e frangette a pippiolini”, di ricami e racemi, seguendo il volo della sua fantasia, della sua arte, della sua vitalità tarpata.

Il braciere, che compare all’inizio del racconto, torna nella chiusa, a completare un cerchio che tiene in sé tutta la vita della protagonista, fino a un desiderio di morte che non è neanche un vero impulso a farla finita, ma è solo un’assenza di azione, di slancio, è un vuoto totale per il quale, ahimè, c’è sempre “tempo”.

Il linguaggio mescola parole semplici, ripetute a rafforzare la concretezza di oggetti comuni, come il legno, la tela, la brace, ad altre più desuete e scelte.

Patrizia Poli e Ida Verrei

DI QUESTE NOTTI INSONNI

Nastassìa si china e, sollevando la lunga camicia da notte di pesante tela, osserva i piccoli piedi scalzi poggiati sull'impiantito di legno. Sono violacei e freddi, tanto freddi. Punta il peso sui talloni e inarca le lunghe dita, qualche gelone già s'intravvede.

Davanti al camino della grande cucina sono stese, su un filo legato teso fra due sedie, ben quattro paia di calzette di lana ruvida. Ma sono ancora umide e Nastassìa ha i piedi nudi.

Non riesce ancora ad organizzarsi nel bucato; fa difficoltà a calcolare la quantità di panni da lavare ogni volta e i tempi fra lavaggio, asciugatura e stiratura.

Ė per questo che i suoi piedi quella sera sono freddi. Anzi gelidi. Bisogna considerare anche che il suo Bartùlu, dopo il tramonto del sole, non mette più ceppi di legna nel camino, che piano piano si spegne lasciando poche braci rossastre e polvere fine grigia ormai fredda.

Lei raccoglie, prima che si spenga tutto il fuoco, quei tizzoni di brace ardente e li mette nel braciere di rame collocandolo al centro della stanza da letto.

Nastassìa si strofina le braccia cercando un po' di calore e guarda in alto sul letto. Gli arriva il suono grasso, cadenzato da un sibilo intermittente più acuto, del russare del suo Bartùlu.

Si prospetta un'altra notte quasi insonne, pensa, mentre mette il piede sul primo gradino della scaletta. Guarda in alto e si tiene ben salda con le mani. Quell'operazione le mette sempre apprensione ogni notte. Anzi, due volte al giorno. Al mattino quando deve rigovernare il letto e alla sera quando si appresta a dormire.

Soffre di vertigini Nastassìa da quando è piccola. Ricorda ancora molto bene di quando con i bambini del paese, eludendo la sorveglianza del vecchio sacrestano Peppineddu, si saliva furtivi sulla torre campanaria. Lei arrivava solo alla prima rampa e, mentre una strana ansia la prendeva, non riusciva ad andare oltre il primo pianerottolo. Era sempre la prima ad essere presa da Peppineddu mentre gli altri più svelti già suonavano la campana con rintocchi stonati.

Il suo è un letto da veri signori; fatto costruire dal suo Bartùlu su modello di uno continentale visto in una vecchia stampa arrivata fino a Ittiri da chissà dove e appesa da chissà chi su un vecchio muro scrostato della taverna del cambio postale.

Ė un alto letto a baldacchino di legno che sfiora il basso soffitto di travi di legno. Bartùlu ha voluto che il ripiano che accoglie i tre alti materassi fosse sollevato da terra per proteggere la sua sposina dal freddo che proviene dal pavimento e dai topi che vi scorrazzano indisturbati durante la notte.

Non sa Bartùlu che Nastassìa sa, perché glielo ha detto la vecchia Mariedda, la paura che aveva provato da bambino quando era rimasto rinchiuso per sbaglio tutta la notte dentro il grande magazzino dietro il mulino. L'avevano trovato all'alba che ancora saltava da una gamba ad un'altra pallido come un cencio.

La scaletta l'ha voluta lei perché quel letto gli è sembrato, già dalla prima volta, invalicabile. Minuta, senza forza nelle magre braccia, non aveva avuto l'agilità per saltarci sopra la prima notte che da sposina entrò in quella grande camera. Bartùlu capì da subito che forse sarebbe stato il caso di far costruire una piccola scaletta per la sua piccola sposa.

Nastassìa sale lentamente gli stretti scalini e i piedi freddi e magri dolgono un po' ad ogni passo. Insomma è una impresa titanica arrampicarsi lassù ogni notte. Poi a lei duole la schiena la sera perché non è ancora abituata a fare i lavori di casa. Bartùlu le aveva promesso prima delle nozze l'aiuto di una serva, ma, ad un anno dal matrimonio, non ne aveva visto nemmeno l'ombra.

Ogni notte salendo la scaletta ammira i tessuti che ricoprono gli alti materassi e il baldacchino. E' il suo orgoglio di sposa quel tripudio di filati e ricami. Quando arrivano le comari o le amiche per farle visita lascia sempre la porta semi aperta affinché s'intravveda il suo capolavoro.

Ha lavorato alacremente per mesi per poter trasformare quello spoglio legno e quella scheletrica impalcatura in una alcova calda e accogliente. Se deve esistere che sia almeno bello, aveva detto timida sposina a capo chino e ad occhi semichiusi appena l'aveva intravisto mentre Bartùlu si stava spogliando dagli abiti nuziali.

Aveva subito pensato ai grandi teli che avrebbero coperto il baldacchino. Sarebbero stati cuciti insieme pezzi di leggero tulle rosato che lei nel frattempo aveva ricamato a punto pieno nei risvolti in vista e rifinito con un pizzo a frangette e pippiolini fatto all'uncinetto. Non aveva copiato un disegno preciso, a lei piaceva anche improvvisare. Erano motivi geometrici che seguivano un ordine sparso un po' casuale. Alla fine era risultata un'opera che aveva una sua caotica armonia.

Per coprire il ripiano di legno aveva invece usato una tela grossa di canapa anch'essa rosata tessuta con motivi in rialzo di asfodeli e pavoni affrontati di un rosa intenso. Il primo materasso l'aveva rivestito di un tessuto bianco di lino a motivi tono su tono a nodini che seguivano un disegno a rombi alternati convessi e concavi. Era stato un lavoro molto impegnativo riuscire a contare al telaio trama per trama, ordito per ordito, e non sbagliare nemmeno un passaggio.

Il secondo materasso l'aveva ricoperto con un tappeto di lana dai colori rosso, giallo e blu squillanti su fondo chiaro. Uomini e donne si tenevano per mano in un ballo tondo che non sarebbe finito mai. E qui sospirò Nastassìa pensando che il suo Bartùlu l'unico ballo che aveva fatto in vita sua era stato il giorno del loro matrimonio quando era stato preso con la forza dai compari di anello. Non avrebbe ballato mai più Bartùlu. Ma neanche Natassìa.

Il terzo e ultimo materasso era ancora coperto da una nera coltre pesante di orbace. La bella coperta all'uncinetto filè era ancora dentro la cassapanca e non era stata ancora completata. Nastassìa riusciva però a ricavarsi molte ore di lavoro per ultimare la sua opera rubandole al governo della casa e alla cucina. Bartùlu più volte se ne era lamentato, specialmente quando tornava dal mulino alla sera stanco e affamato e trovava il desco vuoto ma la giovane mogliettina al telaio.

A completare l'opera c'era la finissima biancheria del suo ricco corredo. Le lenzuola e le quattro federe le aveva riccamente ricamate con orli a giorno e punti pieni e a catenella. Fiori, fogliette e racemi giravano leggeri lungo i contorni per dirigersi verso il mezzo, mentre pizzi sottili e delicati realizzati al tombolo ne ornavano i bordi.

Bartùlu dorme alla grande. La bocca aperta ora emana un gorgoglio come l'acqua che passa nelle condutture che azionano la macina del mulino. No, non si è proprio abituata a quei suoni mutevoli che accompagnano il trascorrere delle sue notti. S'infila piano piano dentro le lenzuola fredde, anzi gelide. Si raggomitola per riscaldarsi con quel poco calore che emana il suo corpo. Bartùlu no, non lo tocca; il suo corpo è caldo ma lo trova umidiccio ed emana un odore che sa di farina e fuliggine; neanche la lavanda che mette dentro le federe lo riesce a mitigare.

E, mentre pensa questo, le arriva una zaffata del suo alito pesante. Lo osserva alla luce tremula della lampada ad olio. Riuscirà con il tempo ad accettare questo uomo che le è stato imposto come marito? Pensa che sarà difficile riconoscere quest'uomo di vent'anni più grande di lei come l'uomo della sua vita. Si gira dall'altra parte e si copre le orecchie con il cuscino e sprofonda il naso nelle federe profumate.

Oh, no! Ha lasciato la lampada ad olio accesa sul tavolino. Se Bartùlu si svegliasse in questo momento sarebbe un rimbrotto che durerebbe per giorni. Deve ridiscendere, rifare il percorso intrapreso. Si dà della stolta, si scopre e mette i piedini sugli stretti gradini della scaletta. Si avvicina al tavolino e guardando la fiamma soffia sullo stoppino. La lampada si spegne di colpo. E adesso? Ripercorre la strada a tentoni, urta la sedia che cade. Bartùlu manda uno sbuffo come la pentola quando bolle con la carne di pecora dentro. Sbatte più volte sui gradini; sa che al mattino si ritroverà con lividi violacei sulle gambe. Salita si risistema nelle ghiacce lenzuola, si accovaccia stretta stretta abbracciandosi le ginocchia. Quanto è stupida; povero Bartùlu ad avere una moglie così incapace. Poverino.

Adesso il russare di Bartùlu è diventato un miagolio. E no, non riuscirà mai ad abituarsi. Come sarebbe stato bello sposare Gavino, il giovane servo pastore della sua famiglia. Ma i suoi genitori appena subodorato l'idillio si erano premurati di combinare in tutta fretta quel matrimonio che avrebbe dato lustro e dignità alla loro adorata bambina. Ed eccola qui con il suo Bartùlu a fianco in questo alto e regale letto; concepito più per appassionati e amorevoli incontri d'amore piuttosto che queste incolori e ghiacce notti, pensa Nastassìa vergognandosi delle sue fantasie nel momento in cui il suo cuore le formula. E si scopre a guardare il suo Bartùlu: naso grosso e rosso solcato da una miriade di piccoli capillari, la barba irta e sempre incolta, i denti giallognoli e marci.

Ma come fa a vederlo? Oh no! Ha dimenticato il braciere ancora acceso in mezzo alla stanza! Ma che stolta che è! Che donna fatua! Ecco cosa succede a perdersi in simili peccaminose fantasie!

Scende veloce e prende il braciere. Mai lasciarlo nella stanza per tutta la notte. L'aria diventerebbe mefitica e pericolosa. Potrebbero anche morire.

Già morire. Ma è solo un breve pensiero. Fugace, leggero, passa così come è arrivato. Tarlo invisibile che ogni tanto s'insinua nei suoi pensieri. Lei o lui non importa, sarebbe comunque un cambiamento.

Si dirige in cucina e posa il braciere dentro il camino, lo svuoterà al mattino. C'è tempo. Per tutto, c'è tempo.

© Pia Deidda 2010

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L'amore di Doris Duranti e Alessandro Pavolini

27 Gennaio 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #cinema

L'amore di Doris Duranti e Alessandro Pavolini

Nel cinema italiano degli anni Quaranta incontriamo storie che fanno grande scalpore come quella relativa all'amore che lega Doris Duranti al gerarca fascista Alessandro Pavolini. Un amore vero, che nasce nel 1942 sotto il fuoco dei bombardamenti e va avanti sino alla fine del fascismo e alla morte del gerarca. Doris Duranti, "l'orchidea nera" del cinema fascista, sta girando Carmela di Flavio Calzavara quando si innamora di Alessandro Pavolini, un fedelissimo di Mussolini. Lei non si interessa di politica, ma è affascinata dal potere di quell'uomo deciso e determinato che è ministro della cultura del fascismo.

Doris Duranti nasce a Livorno nel 1917 in una famiglia benestante composta da un padre anarchico e antifascista e una madre bigotta che insiste per farla studiare dalle suore. Doris ha un fratello più grande di vent'anni che alla morte del padre si occupa della sua educazione e la fa iscrivere a Magistero. Lei è una bella ragazza bruna e sensuale, per i tempi una vera rivoluzionaria, visto che ama il cinema e il teatro, cose per donne perdute e non per ragazze di buona famiglia. Doris odia il mondo borghese e le sue convenzioni ed è per questo che scappa di casa, come lei stessa afferma in un'intervista "per non essere costretta a sposare il solito ufficiale di marina" (1). Doris sogna una vita da modella e da attrice e, quando Josephine Baker si esibisce in teatro a Livorno, ruba i soldi alla madre per assistere al suo spettacolo. Prende un sacco di botte ma esce da teatro convinta che quella del palcoscenico sarà la sua vita, pure se il genere musicale della Baker non la affascina più di tanto. La strada della Duranti è il cinema che incontra per caso grazie all'agente Besozzi che la invita a mandare alcune foto a Cinecittà. Doris non passa inosservata e viene chiamata a Roma per un provino, occasione che non può certo lasciarsi sfuggire. Doris scappa di casa, dopo aver rubato i soldi alla vecchia zia aprendo un cassetto con un ferro da calza e aver detto alla madre che deve andare in chiesa a fare la comunione.

Doris si dirige alla stazione ferroviaria e sale sul primo treno per Roma dove un cugino le dà una mano per trovare una sistemazione. Il giorno dopo si presenta da Besozzi a Cinecittà e comincia la sua avventura di attrice. Doris si specializza in ruoli di donna fatale come la Lola di Cavalleria rusticana di Palermi (1939) ma raggiunge la notorietà con Sentinelle in bronzo di Marcellini (1937). I suoi primi film sono Amazzoni bianche con Ezio D'Errico e Aldebaran con Blasetti che provocano la reazione scandalizzata di casa Duranti. La famiglia si vergogna di avere una figlia attrice e il fratello le manda un telegramma dove le impone di cambiare nome. "Mio padre me l'ha dato e io me lo tengo", risponde decisa e per niente intimorita la bella attrice (2).

Doris Duranti non è la sola attrice ad avere rapporti con i gerarchi fascisti. Basti pensare a Claretta Petacci, la donna di Mussolini, pure se lei - a differenza della sorella Miryam - non fa seriamente cinema ma si limita a poche apparizioni. Le tre attrici simbolo del'epoca sono la Duranti, la Ferida e la Calamai, perché Alida Valli verrà solo in un periodo successivo, e le prime due hanno rapporti tormentati con personaggi legati al fascismo. Doris non ha molti amici nel mondo del cinema, guadagna due milioni a film ma spende molto perché fa una vita da aristocratica a contatto con il bel mondo di Roma. Doris è un'aristocratica che non ama il popolo e i borghesi, per lei l'apparenza è tutto ed è bene tenere le distanza con gli inferiori e con la servitù. "Meglio bere acqua in un bicchiere dorato che champagne in un boccale di stagno", sostiene (3). Doris pensa solo al cinema, non ha un'idea politica ben definita, ma accetta il fascismo come avrebbe accettato qualsiasi altro regime e conosce tra i fascisti persone che frequenta volentieri. Pavolini è un intellettuale, un uomo che lei definisce "intelligente, dolce e disinteressato" (4) che conosce a Livorno durante la lavorazione de Il re si diverte. Doris in quel film gira la famosa scena della danza dei sette veli, per i tempi molto spinta, forse proprio una delle cose che fa innamorare Pavolini. Alessandro e Doris cominciano a frequentare il salotto di casa Ciano, che lei definisce "un uomo raffinato quando dimentica di essere stato un pescivendolo livornese" (5), poi rientrano a Roma e consolidano il loro rapporto. I due innamorati si incontrano tutte le sere a casa di Doris, sul Lungotevere Flaminio, e passano ogni notte insieme. Mussolini è preoccupato di questo amore proibito del gerarca responsabile della cultura e vorrebbe troncare la loro relazione.

"Farei qualsiasi cosa per non rinunciare a lei", risponde Pavolini. E il duce non insiste, pure perché anche lui ha il suo bravo scheletro femminile nell'armadio. Mussolini resta affascinato dalla bellezza di Doris Duranti dopo aver visto la famosa scena dei sette veli e comprende il gerarca. Fatto sta che questo amore tra Doris Duranti e Alessandro Pavolini aiuta a far passare in censura certi film un po' troppo spinti interpretati dalla bella attrice. La Duranti però non sta con Pavolini per interesse, secondo quello che l'attrice sostiene in periodi non sospetti, lui non fa regali perché non è ricco, il solo dono ricorrente sono le orchidee bianche per Natale. Doris è affascinata dalla cultura di Pavolini, che ritiene uomo raffinato e interessante, resta al suo fianco fino in fondo, pure quando sarebbe più comodo mollare tutto e scappare. L'amore tra Doris e Alessandro giunge a un bivio importante alla caduta del fascismo, il 25 luglio del 1943. La sera stessa il compagno telefona: "È tutto finito. Ti chiamerò quando posso. Addio", sono le parole preoccupate. Pavolini è in fuga, la Duranti resta sola in balia di chi non le perdona l'amore per un fascista e la polizia perquisisce la sua casa romana. Per giorni i due innamorati non si vedono, poi una signora telefona a Doris per chiedere denaro utile a far espatriare Pavolini in Germania.

L'attrice, per salvare il suo uomo, cede un braccialetto composto da trentadue sterline d'oro e lo fa consegnare a un incaricato che attende presso l'Hotel Ambasciatori. Pavolini parte per la Germania e si mette in salvo solo grazie a lei che un bel giorno sente la sua voce alla radio affermare: "Torneremo presto". A Doris non interessa la sorte del fascismo, tiene solo al suo uomo che ama come il primo giorno. Una mattina in casa sua squilla il telefono e all'altro capo del filo c'è proprio lui, l'amore della sua vita che è tornato a Roma. Pavolini è arrivato nella capitale dopo l'8 settembre grazie all'aiuto dei tedeschi e, come segretario del partito, riprende possesso di Roma a nome della Repubblica Sociale. Pavolini diventa l'uomo più odiato da antifascisti e partigiani, il simbolo del regime che non vuol cadere e che si appoggia sull'invasore tedesco.

Il gerarca va al nord dove il fronte della guerra è più caldo e Doris lo segue prima a Lucca, poi a Firenze infine a Milano dove passa con lui i suoi ultimi giorni. Per la Duranti questo periodo di un anno e mezzo trascorso al nord con Pavolini rappresenta un momento di grandi problemi. Il cognome Duranti è ebreo, pure se l'unico antenato di quella razza risale a molte generazioni prima, ma le SS la arrestano e la fanno spogliare. I tedeschi scambiano tre nei sulla spalla per i segni inequivocabili della sua appartenenza alla religione ebraica. Doris nega e chiede di chiamare Pavolini, ma finisce lo stesso in cella a Santa Verdiana insieme a venti ebrei che piangono come disperati. Per fortuna il suo uomo interviene, risolve l'equivoco e la fa liberare. Successivamente le SS la scortano a Venezia, dove si tenta di far rinascere il cinema fascista, per interpretare una pellicola che non verrà mai ultimata. Doris si sposta da Venezia a Milano, sotto i bombardamenti inclementi, vive uno dei periodi più neri della storia italiana. Pavolini viene ferito a Maderno e lei vuole starle accanto anche durante la fuga in Valtellina. Doris si ritrova a Como con un fucile in braccio che non sa usare e vicino a lei ci sono anche la Ferida e Osvaldo Valenti, due persone che hanno poco a che vedere con il fascismo. Valenti è un drogato, un mitomane avventuriero che fa innamorare la Ferida e si getta in una sconsiderata avventura finale che coinvolge la bella attrice. La droga in quel periodo circola molto a Cinecittà, la Ferida è un'ingenua ragazza di campagna che si fa irretire da Valenti e si perde nei giri di cocaina che consuma in grande quantità. La Duranti invece è un'aristocratica e non cede mai alle lusinghe della droga. Doris si trova a Como quando viene a sapere di essere nella lista nera dei comunisti e che i partigiani la stanno cercando per eliminarla. La bella attrice allora prende contatto con un uomo di cinema svizzero che le organizza la fuga quattro giorni prima della cattura di Mussolini e della sua fucilazione. Pavolini e Mussolini vengono catturati dai partigiani mentre tentano anche loro di fuggire verso la Svizzera, quindi sono fucilati e appesi per i piedi a piazzale Loreto. Doris Duranti vede il suo amante pochi giorni prima che accada l'irreparabile e ottiene un passaporto falso con il nome di Dora Pratesi. Il merito è dello svizzero che per diecimila dollari la fa espatriare e ricoverare in una clinica del suo paese. Sono diciotto ore di marcia per passare il confine insieme a uno zio che subisce pure un attacco di cuore, ma alla fine ce la fanno e alle tre del mattino si trovano a Lugano. La bella orchidea nera viene ricoverata nella clinica Moncucco dove un infermiere la riconosce come la famosa attrice amante del gerarca. La polizia svizzera arresta sia lei che lo zio e per la bella Doris è ancora una volta galera, mentre dall'Italia giungono le notizie delle terribili fucilazioni. La polizia svizzera si prepara a far espatriare l'attrice e allora lei si taglia le vene, non sappiamo se per la disperazione quando apprende della morte di Alessandro oppure per un freddo calcolo. Doris viene internata in manicomio e ha la fortuna che il capitano della polizia svizzera, Luciano Pagani, si innamora di lei.

Insieme organizzano una vera e propria messinscena con una finta estradizione in Italia, ma alla fine la Duranti viene di nuovo accolta in territorio svizzero. Pochi giorni dopo l'attrice si unisce in matrimonio con il capitano Pagani, solo per diventare cittadina svizzera e non avere più fastidi dal nuovo governo italiano. I due si sposano in gran segreto, a Campione d'Italia, con le pubblicazioni affisse solo per poco tempo e la Duranti si presenta in chiesa dopo essersi nascosta nel bagagliaio di un auto e avvolta nei tappeti come Cleopatra. Doris non ama né quel noioso marito svizzero, né quella terra troppo ordinata e precisa che definisce "tutta formaggi e orologi", si diverte a contraddire il marito preciso e conformista persino sull'ora che segna il suo orologio (6). Il matrimonio d'interesse dura solo un anno, pure se lei serba eterna riconoscenza a quell'uomo. Luciano Pagani non vorrebbe concedere il divorzio ma alla fine si piega al volere della bella attrice che gli dice: "Tu nel 1945 mi hai salvato la vita, ma io ho pagato la mia testa con un'altra cosa. Uno come te non avrebbe mai potuto sperare di portare a letto Doris Duranti". L'orchidea nera fugge in America, ha una breve relazione con Mario Ferretti, poi la troviamo in Argentina, Venezuela, Cuba e infine Santo Domingo, dove si lascia andare ai malinconici ricordi di una vita da star. Nel dopoguerra torna sporadicamente sul grande schermo ma non ottiene il successo di un tempo, sostiene di vivere bene ai tropici, pure se di tanto in tanto torna a Roma dove c'è sempre qualcuno che si ricorda di lei. Doris Duranti in una delle sue ultime interviste rilasciate alla stampa italiana sostiene che Roma è troppo cambiata e che lei non ce la farebbe più a vivere in una città così diversa da come l'ha lasciata. Le sue idee politiche sono sempre confuse, giustifica il sanguinario dittatore dominicano Trujillo e sostiene che "la democrazia non esiste perché chi comanda fa fuori i suoi nemici, basta guardare Fidel Castro cosa ha fatto a Cuba". Nel 1995 l'ex orchidea nera si spegne per sempre a Santo Domingo (7).

Note

(1) Intervista di Enzo Magrì a Doris Duranti - "Doris Duranti - il primo seno nudo del cinema italiano" da "L'Europeo" del 22 novembre 1973

(2) Ibidem - intervista citata

(3) Ibidem - intervista citata

(4) Ibidem - intervista citata

(5) Ibidem - intervista citata

(6) Ibidem - intervista citata

(7) Ibidem - intervista citata

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Ardengo Soffici

3 Settembre 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #personaggi da conoscere, #pittura

Ardengo Soffici



ARDENGO SOFFICI (1879-1964), fiorentino di Rignano sull'Arno, ad un certo punto della sua vita, come moltissimi altri giovani fiorentini dell'epoca, venne affascinato dalla figura carismatica di quell'istrione che rispondeva al nome di Filippo Tommaso Marinetti, il quale giunse in Italia dalla vicina Francia, con in tasca il suo Manifesto del Movimento Futurista, che, nel 1909, aveva pubblicato oltralpe, e che, di lì a poco, avrebbe abbacinato le menti e i cuori di tanti artisti italiani prima ed europei dopo.

Quando il buon Filippo cominciò la sua avventura in Italia, Ardengo, già pittore di buon nome, aveva poco più di trent'anni. Ma fu folgorato, come tanti altri, anche lui. E divenne un futurista, ma, come si definiva lui: un futurista oltre il futurismo.
Ardengo Soffici fu un pittore di vaglia e un valido scrittore, nonché critico apprezzato.
Il periodo che lo vide rivoluzionario durò lo spazio di un mattino, ché presto "tornò all'ordine" come amava dire, cioè a quella pittura personale intimistica, e talvolta paesaggistica, nata nel ritiro del suo Poggio a Caiano. Dove visse a lungo e dove è stato sepolto.

In una intervista del 1957 alla RAI affermò: "Anche oggi dopo 55 anni di pittura, il mio lavoro è una specie di identificazione tra me e il paese in cui vivo…
Fu una vita piena, la sua, (quando morì aveva 85 anni) e fu grazie a lui che l'Italia conobbe i pittori e gli artisti d'oltralpe, gli impressionisti (Medardo Rosso) e i cubisti (Picasso).
Soffici conobbe e frequentò tutti gli artisti di quella Firenze del primo novecento, ma fu assiduo di uno solo, Giovanni Papini, col quale fondò la rivista letteraria Lacerba, che vide la luce nel 1913, per permettere agli artisti che lo desideravano di dar voce alle loro aspirazioni futuriste (e non).
Uno di questi che nulla aveva a che vedere coi futuristi era Dino Campana, da Marradi.

Ricordo che la rivista era appena nata, quando si presentò a Firenze alla redazione del giornale, un tale che si dichiarò mio lontanissimo parente, ma che io non conoscevo affatto; si presentò come Dino Campana, disse che scendeva da Marradi e trasse di tasca una sua operetta, dal titolo "Il più lungo giorno" che voleva sottoporre a un giudizio nostro, perché esaminassimo la possibilità di pubblicare qualche parte di essa su Lacerba, appunto.
Debbo dire che là per là non presi in considerazione né quel signore, era sporco e malmesso, né la sua opera; ma mi sembra di ricordare addirittura che io non fossi in sede, però potrei sbagliarmi. Insomma, questo strano personaggio lascia un manoscritto ancora più strano di lui, scritto su carta comune, con molte correzioni.
Avevamo molto da fare io e Papini, con i nuovi scrittori francesi; ero appena tornato da Parigi, dove avevo visitato l'Esposizione Universale, e avevo esposto là le mie opere, ricevendo favorevoli consensi, e poi amicizia, dei e coi vari Braque, Picasso, Matisse, tra i pittori, ed Apollinaire tra i poeti; per dire dei già celebri colleghi francesi.
E il caso volle che quel manoscritto andasse smarrito.
Quello che accade poi ha dell'inverosimile, ma voglio raccon
tarvelo.
Dopo qualche tempo quel tale, Dino Campana appunto, torna da Marradi, in ancora più cattivo stato d'animo della prima volta e con un aspetto da paura (pareva che ce l'avesse col mondo intero, e non si sa per cosa), e a Papini richiese indietro il manoscritto. Ma il buon Giovanni non ce l'aveva, e lo mandò da me.
Stessa richiesta fece a me, ma io, in tutta onestà, non ricordavo di averlo avuto, nonostante lui insistesse che l'aveva messo proprio "nelle mie mani". E a malincuore lo licenziai, ma quel signore dette in escandescenze, e inveiva contro i letterati fiorentin
i.

E forse aveva proprio ragione, Campana, ad avercela col Soffici, perché il manoscritto della sua opera, "Il più lungo giorno" che prima di essere stampato cambiò titolo in Canti orfici, opera che improntò di sé quella prima parte del novecento letterario italiano, fu ritrovata dopo circa sessant' anni, precisamente nell'anno 1971, tra le carte del pittore nella sua casa di Poggio a Caiano; e per puro caso, dalla vedova di lui, che stava spostando carte e documenti da una stanza all'altra (manoscritto importantissimo che attualmente si trova nel Gabinetto Viesseux di Firenze).

Insomma, il fatto è che io non ce l'avevo e glielo dissi; e glielo ripetei alla noia. Ma lui continuò a dare in escandescenze, e nulla potei contro quella sua rabbia incontrollata. Gridava che aveva solo quella copia, e che se non l'avesse avuta indietro sarebbe tornato con un coltellaccio e ce l'avrebbe fatta vedere!
Mi sembra che in seguito ci inviasse anche lettere di minaccia, ma ciò non fece altro che acuire la nostra indifferenza e quella di tutto il mondo letterario di Firenze, che aveva cominciato a conoscerlo da questo increscioso episodio, che noi raccontavamo; e non solo indifferenza, ma da parte di qualcuno anche disprezzo.
Insomma, venimmo a sapere poi che era un labile di mente… Ricordo, ci definì "sciac
alli".
In una delle tante lettere che giunsero in redazione quel signore si definiva "di una intelligenza superiore alla media (Sapete, - scrisse a Papini - essendo voi filosofo sono in diritto di dire tutto: del resto vi sarete accorto che sono un'intelligenza superiore alla media…). E ci definiva, noi letterati fiorentini e in particolare noi della redazione di Lacerba: … una massa di lecchini, finocchi, camerieri, cantastorie, saltimbanchi, giornalisti e filosofi come siete a Firenze…

Poi Campana nel giro di pochi giorni fu costretto a riscrivere la sua opera a memoria, (secondo la critica successiva, anche servendosi di appunti che aveva conservato) ma insomma fu così. E fu così che si accentuò la sua instabilità mentale, tanto che qualche anno dopo finì in una casa di cura vicino a Firenze, dove stette quattordici lunghissimi anni senza scrivere più una riga, cucinando per gli altri reclusi, malati di mente come e più di lui, che apprezzavano le sue polpette…

Abbiamo detto che Ardengo Soffici fu un pittore di vaglia. La sua pittura risentì delle esperienze francesi, (molto influì su di lui Cezanne). Ma a questa sua principale attività si affiancò come abbiamo detto anche quella di scrittore e critico, nonché redattore prima ne La Voce (1908), poi in Lacerba.

Il lavoro alla rivista Lacerba mi dava molto da fare, e io cercavo e trovavo però il modo e il tempo di coltivare la pittura che era la mia principale occupazione. Si avvicinavano tempi bui per l'Italia, tirava una brutta aria, ed io ero allineato con le idee del fascio, lo ammetto, che tendeva a rigenerare un po' tutto di questa nostra terra di poeti e artisti, non tollerando l'arte e tutto ciò che veniva da fuori, respingeva l'esotismo in ogni maniera si presentasse. Insomma, era un movimento politico rivoluzionario, sotto questo aspetto, e io ne ero un seguace attento e scrupoloso. Ma non ero rigido come richiedeva il partito, ma ero piuttosto aperto elle nuove indicazioni e proposte che venivano dalla Francia, tanto che tornato da Parigi, vi avevo vissuto e studiato, e lavorato, per alcuni anni, per l'esattezza dal 1900 al 1907, come ho detto, importai artisti come Degas e Cezanne. Fui proprio io a scoprire e far conoscere agli italiani il genio di Cézanne, fui io a organizzare nel 1910 a Firenze, la prima grande mostra degli impressionisti.

Le opere di Soffici, ormai artista tra i più importanti d'Italia, vengono esposte in una mostra a Londra, insieme ai grandi di quel 900 italiano molto prolifico sotto l'aspetto dell'arte pittorica; come De Chirico, Boccioni, Carrà, Modigliani e Morandi; e Rosai, e molti altri.

A Parigi collaborai a diverse riviste, e per un lungo periodo non me la passai bene, feci, come si dice, la fame, ma tiravo avanti, ne andava della mia carriera. Là conobbi anche artisti e letterati come Guillaume Apollinaire, Max Jacob, e altri. E anche scrittori italiani, come Vailati e Papini.

Scriverà poi nel suo libro Giornale di Bordo, di cui più sotto parleremo: A Parigi, in una camera oscura del Boulevard Saint Michel, ho sofferto il freddo e la fame. Ho passato una notte di pioggia su una panchina del Quai Voltaire. Una donna straniera ha calpestato il mio cuore dalle parti di Vaugirard: altre donne l’han calpestato un po’ dappertutto. Un amico, due amici, tre amici mi hanno fatto soffrire. Ho pensato seriamente alla morte nella foresta di Saint Germain, a Basilea sul ponte del Reno, in riva al mare nel golfo di Genova; più d’una volta in questa vecchia casa campagnola. Sono stato infelice sotto tutti i cieli. Sia benedetta la vita.

Con Giovanni Papini la simpatia e la condivisione di idee fu immediata, … pur se i nostri caratteri erano agli antipodi. Anche il caro Giovanni ha sofferto molto l'indifferenza nei suoi confronti da parte dei letterati italiani; non ne hanno grande stima, ma sbagliano, e di grosso, Papini è un grande, e il futuro lo dirà. Tornati a Firenze abbiamo creato, come ho detto, la rivista Lacerba, dopo che avevo militato per qualche tempo con la Voce.
Ma quello della Voce era un periodo ormai superato; io là facevo i disegni per la testata della rivista. Era il 1908, e scrivevo ogni tanto qualche articolo di critica letteraria o saggio.

Va a Milano richiamato colà da una mostra di pittori futuristi; ma ne rimane deluso, e si arrabbia molto a vedere "i suoi canoni" gettati la vento. Ne scrive (male) su La Voce, e ne subisce subito le conseguenze: i pittori della mostra, tra i quali c'era lo stesso Marinetti, il giovanissimo Umberto Boccioni, e altri, risposero per le rime, e decisero di andare a Firenze per incontrare quel signore, che non conoscevano. Con loro c'era anche il buon Palazzeschi, che tutto aveva fuorché il carattere combattivo proprio dei suoi compagni. Obiettivo: il caffè delle Giubbe Rosse ove era solito stazionare il gruppo de La Voce.

Ricordo, adesso con simpatia, che Boccioni, cui fui indicato da qualcuno, mi affrontò a brutto muso, e volarono dei ceffoni, tra noi due, si scatenò una rissa non da poco tra me e i vociani che vennero in mio soccorso, e quegli scatenati di futuristi. Ma finì lì, poi simpatizzammo, ascoltammo le loro idee rivoluzionarie e fu così che sia io che Papini lasciammo La Voce e fondammo Lacerba per accogliere tutte le voci letterarie, anche quelle futuriste. Instaurando rapporti e discussioni costruttive intorno alla letteratura.

Come letterato Ardengo Soffici fu uno scrittore di buon livello, e il Giornale di Bordo, che vide la luce a Firenze nell'anno 1915 per le edizioni della Libreria della Voce, per la quale rivista letteraria egli lavorava come vignettista, ne è la dimostrazione più efficace.
Un eminente saggista italiano, nel 1987, definisce il libro come prosa antinarrativa di derivazione impressionistica, e non poteva essere altrimenti, se consideriamo lo stile pittorico dell'artista fiorentino. Del resto era quello il periodo in cui molti poeti e scrittori d'avanguardia usano per esprimersi il frammento lirico, di cui anche il nostro fa largo uso, per mezzo dei quali frammenti Il Soffici fa un'opera in parte biografica, in parte di vita corrente, ritraendo gli artisti che lo circondavano nella Firenze di allora.
Lo diceva lui stesso: voglio una letteratura breve, efficace, essenziale, che giunga al sodo senza giri di parole inutili, e perifrasi intellettuali superflue.
Va da sé che in un'opera con questi scopi, indagatori e descrittivi di una realtà reale, non può non parlare, oltre che dei poeti, pittori e scrittori a lui vicini, anche dei colleghi della Voce, che non apprezzano i suoi giudizi, né tanto meno dagli amici/nemici del futurismo milanese.
Che lo ritengono fin troppo ironico.
Conseguenza di questo suo modo di giudicare: futurismo: l'unico movimento cui possiamo associarci. Per poi aggiungere, quasi a rinnegare quanto detto: «Siamo per l’eleganza, la raffinatezza e lo spirito, contro la violenza il virtuosismo e la serietà».) è l'isolamento in cui venne a trovarsi di lì a poco.
Scrisse: Malinconia di non somigliare a nessuno, d’essere in disaccordo con tutti! Orgoglio immenso di sentirsi soli, tremendamente…
Io cercavo altro, nella pittura. Ho combattuto per le idee futuriste, non lo nego. Ma io cercavo sì di ricostruire, come affermavano loro, ma vedevo una ricostruzione che tenesse conto delle basi dei grandi pittori del passato.
Ardengo Soffici morì a Vittoria Apuana, nei pressi di Forte dei Marmi, nel 1964

marcello de santis

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Arte al bar: MARINA ABRAMOVIC The artist is present

21 Agosto 2018 , Scritto da Walter Fest Con tag #walter fest, #arte, #arte al bar

"The artist is present" di Marina Abramovic e l'omaggio di Walter Fest"The artist is present" di Marina Abramovic e l'omaggio di Walter Fest

"The artist is present" di Marina Abramovic e l'omaggio di Walter Fest

 

 

 

Amici lettori della signoardeifiltri, è mattina presto, al bar solita gente che distrattamente va e viene. E' Estate e noi cerchiamo, attraverso l'arte, di far sorridere un po' di gente perché, mentre aspetto Dalia, leggo le ultime consuete e immancabili brutte notizie sul giornale. Purtroppo così è la vita ma, di controparte, tutte le arti, ad ogni latitudine, hanno il pregio di colorarvela e di alleggerirvela in certi momenti difficili. Per oggi abbiamo concordato che andremo a parlare di arte presso il negozio di Monica la parrucchiera, vi descriveremo un ricordo, coinvolgendovi, attraverso la cronaca di una nostra spedizione a New York, in una fantasiosa esperienza fatta nella Primavera del 2010, per raccontarvi, amici del blog che sta all'arte come CR7 sta al calcio, la cronaca della performance dell'artista Marina Abramovic. 

Ecco arrivare Dalia.
 

- Dalia, buongiorno, sei pronta?


- Sì, lasciami prendere un caffè alla parmigiana e andiamo... senti, ma di chi hai detto che parliamo oggi?
 

- Marina Abramovic.
 

- Sarà dura, vero?
 

- Uelà, se serve di menare le mani io ci sono, eh!
 

Ecco a voi Giovanna la Milanese, con la sua proverbiale carica agonistica, anche se dell'arte non gliene frega niente, rimane sempre con le orecchie ben drizzate.
 

- Vengo anch'io, la partita al biliardo la finisco dopo!
 

- Veramente, andiamo a parlare di arte al negozio di Monica, se ti fa piacere, vieni anche te.
 

- Ma sì, mentre voi raccontate le vostre cose, io mi farò una ritoccatina all'acconciatura e magari anche al resto.
 

Marina Abramovic è un artista nata a Belgrado (30 Novembre 1946), dopo gli studi all'accademia di belle arti è nel cuore degli anni '70 che inizia la sua ricerca verso nuove forme espressive. La sua carriera avrebbe dell'incredibile, in realtà è quasi ossessiva sperimentazione, attraverso un nuovo linguaggio che vada al di là della staticità di una tradizionale opera d'arte.

Se, da un lato, è stata coraggiosa a rischiare feroci critiche, da un altro punto di vista è stata geniale nel trovare sempre l'approccio ideale con il pubblico, senza la paura di venire messa in discussione. A livello mondiale è considerata una vera e grande artista, sicuramente non è facile per tutti poterla identificare come tale, ma è innegabile che Marina Abramovic ha permesso alla gente di avvicinarsi al mondo dell'arte, di toccarla con mano, con tutta la propria anima, provando una serie di emozioni contrastanti ma in ogni caso vive. Altra sua prerogativa è che è volutamente uscita dallo schema artista = artigiano. Piuttosto artista che lavora in squadra, coadiuvata da diversi collaboratori che utilizzano strumenti audiovisivi. Marina Abramovic non è l'artista chiusa in uno studio, solitaria, concentrata sulla sua singola opera ma è al lavoro in una continua e dinamica costruzione di un'opera alla quale può partecipare chiunque.

- Dai, incamminiamoci, il negozio di Monica è dietro l'angolo, entriamo.
 

- Buongiorno a tutti, state pure comodi, sono qui per raccontarvi come è andata quella faccenda artistica. Monica, tu lavora tranquillamente.
 

- Ciao, Walter, ciao Dalia, ciao Giovanna.


La gente nel negozio sembra non essere interessata a noi, la musica nel locale è soft, devo solo iniziare.

Questa è una storia di qualche anno fa, insieme a me c'erano Mario il benzinaio, abituale consulente artistico, e Franco il gelataio, in qualità di testimonial. Eravamo partiti per gli Usa per andare ad assistere alla performance The artist is present, messa in mostra dall'artista Marina Abramovic, nella Primavera del 2010, al Moma di New York, performance durata tre mesi nella quale i visitatori avevano la possibilità di sedersi di fronte all'artista e guardarla in silenzio per pochi minuti. Durante il mese di Marzo l'artista aveva indossato un abito blu, nel mese di Aprile un abito rosso e in Maggio un abito bianco, era una performance intensa, lenta nell'azione ma vissuta con grande emotività, tutto si svolgeva in un grande ambiente vuoto, presente solo l'artista, seduta impassibile su una semplice sedia razionale di legno chiaro, al centro un tavolo, sul lato opposto il visitatore di turno, anch'egli seduto su una sedia uguale a quella dell'artista. 

L'atmosfera che si respirava era una miscellanea di calore bollente diffuso in un assoluto silenzioso immobilismo, i visitatori, come un mantra, aspettavano il contatto con l'artista e ogni loro pensiero era una moltiplicazione di energia. Potevamo leggere nei loro volti il punto interrogativo del vedere, sapere e cercare dove era l'arte, si chiedevano inconsciamente perché si trovavano lì, qualcuno rinunciava, qualcuno voleva a tutti i costi affrontare la prova, nella quale nessuno sarebbe stato vinto o vincitore.

L'artista, protagonista della scena insieme al suo spettatore di turno, era decisa a dare tutta se stessa in pasto al mondo, consapevole che alla fine tutti saranno uniti in un grande abbraccio. Ma in tutto questo l'arte dov'è? Dov'è la bellezza, la costruzione, la visione, la materia, dov'è l'arte da vedere con gli occhi per assaporarne i colori, dov'è la fantasia, dov'è il talento dell'artista, volendo anche la visione tradizionale del vocabolo "Arte"? Che sia tutta da trovare nella semplicità di un incontro? Nell'incrocio fra due sguardi? In verità qui tutti erano protagonisti e l'essenza dell'arte era il momento stesso, questo fantastico abracadabra dell'evento, l'emozione che scuote la nostra vita, il visitatore non è più fruitore passivo ma può scambiare il fluido di energia con l'artista Marina Abramovic, in un breve e intenso tempo da apparire eterno.

Il solo limite, anch'esso pura essenza artistica, è il silenzio, e il tempo che viene fermato. Entrambi i performer, l'artista e lo spettatore, devono lottare con se stessi, vincere quella forza magnetica che li vorrebbe attrarsi, toccarsi, parlarsi, forse anche respingersi... no, tutto deve essere energia invisibile e, quando si alzeranno dalla sedia razionale di legno, saranno più forti, anche se sfiniti nel cuore e nelle membra. Questa è arte per la vita, in questo caso bisogna scegliere fra questo misterioso anelito vitale oppure la materia, quella tradizionale da vedere e da toccare di fronte alla parete di un museo. Alla fine della giostra noi umani, che vorremmo essere dominatori, in conclusione siamo solo una piccola parte di una cosa più grande di noi, la terra viva, l'aria, l'acqua, il fuoco e ogni altro elemento naturale in un continuo interscambio di fluido spirituale. Al confronto non siamo nulla, lo dobbiamo ammettere, e forse solo unendo le nostre paure e le nostre virtù diventeremo migliori, questo è quello che, secondo me, ho trovato nella ricerca di Marina Abramovic. 
A questo punto io, Mario e Franco, abbiamo fatto un po' i furbastri, c'era una bella attesa per il nostro turno, serviva un escamotage, avevo con me la tessera giallorossa dell'AS Roma, lo so, ora direte che è una cosa vecchia, che lo fece pure Alberto Sordi in una scena di un film, sì, ma che ci posso fare, a ognuno la sua arte, sta di fatto che, mentre stavamo in fila ad aspettare, ho mostrato il documento, giustificandomi che Franco zoppicava in quanto infortunato, ed io e Mario, in quanto Assistenti Romani addetti al suo sostegno fisico, non avremmo potuto sostare a lungo in piedi, quindi, maramaldi noi birbanti, abbiamo eluso la fila e preso il posto davanti all'artista, sedendoci non sulla sedia razionale ma su una panchina fattaci portare dal personale Americano.

A questo punto l'artista ci guardava, noi la guardavamo come da copione, fermi e muti, ma c'era un problema, come la mettiamo con la libertà di espressione? In teoria non ci doveva essere contatto di nessun tipo, ma noi volevamo uscire dagli schemi e dire liberamente la nostra opinione, e così abbiamo tirato fuori dei fogli, dove avevamo fatto un disegno esplicativo, in quanto non potevamo usare le parole, quindi io avevo disegnato un piatto di spaghetti e, con mimica teatrale, muovendo a rotazione indice e medio della mano destra, volevo fare intendere all'artista "Dopo ci andiamo a far due spaghetti?
Franco, invece, che durante la trasferta era sempre stato molto scettico, aveva disegnato una tazzina di caffè fumante e così, guardando Marina negli occhi, indicando il caffè con il pollice destro, la invitava ad andare a prenderlo insieme perché voleva dirle due parole a quattrocchi. Mario ha semplicemente disegnato un punto interrogativo,  alzando gli occhi al cielo come a dire "E adesso che facciamo?" Avevamo superato la barriera, infranto un muro invisibile, Marina Abramovic rimase prima logicamente sorpresa poi iniziò a ridere, a ridere, e tutti i visitatori intorno iniziarono a loro volta a ridere, era un colpo di scena, è la vita che va così, noi siamo piccoli attori sul palcoscenico di fronte all'universo, e così ci siamo alzati e diretti fra la gente intorno, che ci guardava e ancora rideva. Forse un giorno l'umorismo potrà salvare il mondo.

 

- Ma non vi hanno messo in prigione?
 

- Dalia, con la fantasia tutto è permesso, e poi l'arte è bella proprio nello squilibrio, anche la nostra in fondo era una performance.
 

- Una che?
 

- Giovanna, la performance è un'azione artistica, un nuovo modo espressivo.
 

- Uè, fessacchiotto, ma questa roba qua mica si incornicia e si appende al muro.
 

- A parte il fatto che dopo vengono realizzati libri, manifesti, fotografie e video che verranno distribuiti, l'arte è un qualcosa a 360°.
 

- Ah, ho capito, beh, almeno non bisogna spolverarle queste opere d'arte.
 

- Dalia, le emozioni trasmesse dall'arte si possono vivere in tanti modi.
 

Non ci eravamo accorti che ne frattempo tutti avevano smesso di lavorare per ascoltare noi, beh, possiamo dirlo senza ombra di dubbio che il nostro racconto era stata una bella performance artistica e tutte le donne presenti in quel momento nel negozio stavano a coppie provando la stessa opera di Marina Abramovic. 

C'era in quel negozio una bella energia diffusa, diciamo che dalle nostre parti questo tipo di fare arte si stava realizzando in maniera un po' più spiritosa e allegra. Bice e Alice si guardavano e si davano i pizzicotti sulle guance, Adele e Francesca facevano le facce buffe, Pina e Tatiana si tenevano per mano, Monica e Beatrice si grattavano entrambe la testa, perfino Giovanna, con in bocca il suo sigaro spento, davanti a Dalia era molto interessata, in sintesi avevano tutte stravolto il messaggio originario, si era creata l'evoluzione dell'arte.
Amici lettori della signoradeifiltri, io alla chetichella lascio tutte le ragazze nel negozio di Monica la parrucchiera a proseguire la loro performance artistica, forse senza volerlo è quello che fanno tutti i giorni senza accorgersene, la vita è senza sosta una reale e continuativa incredibile opera d'arte. Ci rivediamo al prossimo artista sempre su questo blog che parla umano con parole colorate.
Intanto qui al bar stiamo organizzando con la fantasia una comitiva che partirà con il nostro celeberrimo bus a tre piani, alimentato ad energia solare, perché dal 21 Settembre 2018 al 20 gennaio 2019 l'artista Marina Abramovic sarà protagonista dello speciale appuntamento Marina Abramović Speaks, organizzato dalla Fondazione Palazzo Strozzi, presso il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. L'artista, in conversazione con Arturo Galansino, curatore della mostra e direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi, affronterà alcuni temi del suo percorso esistenziale e creativo, ripercorrendo le tappe della sua carriera, dagli esordi in Serbia alle ultime grandi performance in tutto il mondo. La mostra racconterà il percorso creativo dell'artista Montenegrina, si tratta di una mostra itinerante già inaugurata lo scorso 20 aprile presso la Bundeskunsthalle di Bonn.
"The Cleaner”, questo il titolo dell’esposizione, nasce in collaborazione diretta con l’artista e riunisce oltre 100 opere, offrendo una panoramica sui lavori più famosi della sua carriera, dagli anni Settanta agli anni Duemila, attraverso video, fotografie, dipinti, oggetti, installazioni e la riesecuzione dal vivo di sue celebri performance, che si terranno nel corso delle giornate di apertura, attraverso un gruppo di performer, specificatamente formati e selezionati in occasione della mostra. Marina Abramović, che si è autodefinita "nonna della performance", si confronterà per la prima volta con un'architettura rinascimentale, sottolineando lo stretto rapporto che ha avuto e continua ad avere con l'Italia. 
La mostra è organizzata da Fondazione Palazzo Strozzi, prodotta da Moderna Museet, Stoccolma in collaborazione con Louisiana Museum of Modern Art, Humlebæk e Bundeskunsthalle, Bonn. L'evento è già sold out pertanto scaldate la fantasia e preparatevi a seguirci.

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LA MAGICA AVVENTURA DELLA LETTURA DI Biagio Osvaldo Severini

19 Luglio 2014 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #biagio osvaldo severini, #recensioni

LA MAGICA AVVENTURA DELLA LETTURA DI Biagio Osvaldo Severini

La magica avventura della lettura

B.O. Severini

Pubblicazione Pensiero Critico

Titolo suggestivo e ambivalente quello del libro di B. O. Severini che, soffermandosi sul piacere della lettura nella virtuale intervista a Giuseppe Pontiggia con cui ha inizio il libro, coglie e ci trasmette il senso più vero dello scrivere e del leggere, che consiste nel modo più alto di far letteratura. Cioè, cogliere il nesso con le cose essenziali che ci riguardano. “Lo scrittore autentico non sia mai distaccato dallo sfondo collettivo e nello stesso tempo cerchi in una terra incognita il punto d’incontro con se stesso e con gli altri”. Con gli altri il punto d’incontro avviene proprio attraverso la lettura. “Leggere nel presente come ascolto dell’interiorità, come dialogo con l’autore e con se stessi”. “Leggere è un viaggio di scoperta, oltre che un piacere, una felicità che è legata a quell’incontro tra conoscenza e linguaggio, che io chiamo stile”.

Dunque già questo aiuta a tracciare un profilo dell’uomo, del professionista, dello scrittore Severini, e del tenore del suo libro.

Immagino di entrare in una sua piccola biblioteca per trovarvi il lettore serio e appassionato ma anche per scoprirvi l’uomo, anzi l’uomo che legge perché io, come tutti voi, possiamo guadagnare le conquiste a cui approdano le sue letture.

Questa piccola biblioteca è formata da ben 12 “affondi” in altrettante opere letterarie che costituiscono la seconda sezione del volume, intitolata Letteratura e società, opere che, come si diceva poco fa, hanno come sfondo la collettività come occasione di analisi di situazioni apparentemente autobiografiche, e hanno come riflesso lo spessore del ricercatore, di colui che compie il viaggio di scoperta attraverso la lettura.

Partiamo con l’analizzare alcune recensioni di Severini.

“Il dolore perfetto” è il titolo del romanzo di Ugo Riccarelli vincitore del Premio Strega 2004.

Perfetto, aggettivo dal lat. perfĕctu(m), part. pass. di perficĕre ‘compiere’, comp. di pĕr, indicante compimento, e facĕre ‘fare’, significa: completo, compiuto in tutte le sue parti: un lavoro p.; totale, assoluto: un silenzio p., che non presenta imperfezioni, che è esente da mancanze, un compito perfetto.

Dolore perfetto è allora un dolore totalizzante che investe tutto l’essere che è presente quando su scenari di guerra e di morte scompare perfino la pietà, la compassione. Così scrive lo scrittore Riccarelli a proposito delle atrocità dei fascisti della repubblica sociale di Salò (1943-45) “se ne stavano chiusi in casa a lasciar morire libertà e compassione che ormai nessuno più conosceva”. Risuonano nell’animo le tremende parole di Ecuba nelle Troiane di Euripide, quando grida ai Greci che stavano per compiere l’eccidio di Troia e l’infanticidio del piccolo nipote Astianatte: “Ma voi, Achei, il cui vanto sono più le armi che il cervello, perché vi siete macchiati di un delitto tanto mostruoso? Per paura di un bambino? Cosa potrebbe scrivere un poeta sulla tua tomba? Qui giace un bambino, ucciso un giorno dagli Achei, per paura. Che vergognoso epitafio per l'Ellade!”

Lo scenario dei focolai attuali di guerra dichiarano proprio questo: perfino le guerre si sono disumanizzate, visto che la furia devastatrice non tiene conto più né della popolazione civile né dei bambini, né delle donne. Tutti sono inorriditi per le atrocità commesse nella ex Yugoslavia, in Iraq, in Afganistan, in Siria, in Palestina. Un destino senza scampo, un mondo senza scampo. Eppure in Riccarelli, sostiene Severini, è presente l’utopia nella metafora del moto perpetuo che egli si trova ad osservare in una macchina ingegnosa tesa a dimostrare che una volta dato l’avvio a una ruota questa poi continua a muoversi autonomamente, senza bisogno di motore. Come a dimostrare che, nonostante tutto, la speranza è che la vita prevalga sempre e comunque. Non dello stesso parere il nostro Severini che -racconta- dinanzi a un marchingegno rudimentale osservato nella sua infanzia, una ruota che vagamente riproduceva il fenomeno del moto perpetuo, rimase semplicemente “sorpreso”. Come a voler sottolineare che la sorpresa non contiene necessariamente la speranza. Secondo me no, la sorpresa può non contenere la consapevolezza di una realtà (difatti si rimane sorpresi), ma non è detto che tale realtà non possa esistere.

“L’ultima estate”. Sinteticamente Severini annota di questo libro: è la narrazione di una vita mentre sta per svanire. Egli ha letto per noi e ci trasmette come in una serie di diapositive la scoperta del male, la SLA, sclerosi laterale amiotrofica, la coscienza della progressione della malattia, l’onda dei ricordi che assale l’autrice, Cesarina Vighy, il tutto sopportato dalla donna con grande equilibrio, garbo, perfino ironia che non riescono tuttavia ad eliminare i sensi di colpa per il non fatto, per gli errori compiuti e infine per non aver saputo resistere alla tentazione di scrivere un “romanzetto” della propria vita. Il nostro autore nota che l’ironia non abbandona mai la protagonista e insieme autrice del romanzo mentre percorre i labirinti delle sue cure “fantasma”. Neppure alla fine, quando tenta di dare risposte plausibili a domande impossibili. Anzi l’autrice conclude proprio con il consiglio di farsi venire o coltivare il senso dell'ironia anche in situazioni estreme, l’unico antidoto alla disperazione. Ma il nostro lettore illustre si chiede se sia possibile ciò e se sia valido per tutti questo rimedio e con una partecipazione emotiva commovente si chiede: che ne sarà in questo momento della narratrice? (morta nel maggio 2010 a Roma)

“I frutti dimenticati” di Cristiano Cavina

Una metafora che utilizza i frutti dimenticati o trascurati nell’orto, frutti spontanei, di forme diverse e colori diversi, dolci o asprigni che si accompagnavano alla fanciullezza dei nostri paesi e delle nostre campagne. Come loro si sente il bambino Cristiano, abbandonato dal padre, mentre cerca di ricostruire la sua identità osservando la somiglianza delle fattezze nei visi di quattro bisnonni di cui ha trovato le fotografie per caso, frugando nel cassetto delle cianfrusaglie. Poi la sua infanzia, la sua giovinezza fino al giorno in cui una misteriosa voce si fa viva, la voce del padre morente in ospedale. Il primo contatto è di rifiuto, di ribellione di accusa: dove sei stato finora? Ma insieme all’odio monta anche la compassione per quell’uomo che sta per abbandonare la vita che si condensa nell’esplosione della parola Papà. Poi l’autore del romanzo traccia quasi un elenco di tutte le pratiche e i sussidi farmacologici a sostegno di un malato terminale di tumore. A questo punto l’autore del nostro libro si chiede se sia utile infliggere a un malato così grave tante afflizioni e umiliazioni in un ambiente estraneo o se invece i frutti dimenticati non siano tutti quei valori che venivano coltivati nelle famiglie di un tempo, innanzitutto il sostegno famigliare, non ancora schiavizzate dalla frenesia moderna e dalle sue tristi conseguenze. Tuttavia il protagonista del romanzo sostiene che rimpiangere il passato non serva e quindi decide di colmare la mancanza della figura paterna con la totale dedizione al figlioletto grazie al quale scopre il dono della paternità. La suggestiva e realistica tesi del bambino padre dell’uomo?, ci chiede Severini. E incalza con altre domande.

Ma è possibile nella società moderna che questo avvenga sempre o basta un’adeguata surrogazione, in contrasto con la tesi di Cavina che ritiene sia indispensabile il padre biologico, con funzioni anche psicologiche, nella formazione del figlio? Con una punta di polemica, Severini fa notare che il nostro narratore è venuto su proprio bene nonostante l’assenza del padre biologico.

Seconda osservazione di Severini: la difesa del paese natio da parte dell’autore sta ad indicare il rifiuto della globalizzazione che depersonalizza e la difesa della diversità come fonte di arricchimento culturale? In ogni caso il romanzo gode di un giudizio più che positivo anche per la prosa controllata e avvincente, a tratti poetica.

Per ragioni di tempo sono costretta a tralasciare gli altri titoli della sezione e a lanciarmi con volo neppure troppo pindarico su un articolo della parte terza Cultura ed educazione dal titolo Difesa del somaro a scuola.

Perchè abbia scelto proprio questo vi chiederete. Ebbene innanzitutto sorpresa dalla gustosa discettazione di Biagio Severini sui motivi che spingono a donare libri in occasioni “festose”, poi per l’importanza rivoluzionaria direi del contenuto.

Una pagella scolastica disastrata appare sulla copertina di Diario di scuola dello scrittore francese Daniel Pennac ricevuto in dono dal nostro amico Severini. La prima curiosità è subito soddisfatta. Si tratta proprio della pagella scolastica dell’autore del saggio in questione. Nato nel 1944 in una famiglia di militari, Pennac passa la sua infanzia in Africa, nel sud-est asiatico, in Europa e nella Francia meridionale. Pessimo allievo, solo verso la fine del liceo ottiene buoni voti, quando un suo insegnante comprende la sua passione per la scrittura e, al posto dei temi tradizionali, gli chiede di scrivere un romanzo a puntate, con cadenza settimanale.

Ottiene la laurea in lettere, all'Università di Nizza, nel 1968 diventando contemporaneamente insegnante e scrittore.

Man mano che Severini procede nella lettura sentimenti dirompenti gli agitano l’animo. Finalmente la liberazione da tante sovrastrutture, finalmente lo sguardo può vagare sui patemi d’animo degli alunni asini, e dei loro insegnanti e genitori. Ma perché questa difesa a oltranza dei somari: vuoi vedere - si chiede - che si tratta di un’autodifesa? E così inizia una conversazione immaginaria tra il giornalista improvvisato e lo scrittore francese che confessa di essere stato come scolaro un somaro perfetto, quello che chiameremmo matricolato, senza via d’uscita, senza rimedio e soprattutto senza motivazioni altre che non fossero quelle proprie della sua somaraggine. Nulla da eccepire invece sul fatto che fosse portatore sano di allegria di socialità di amore per il gioco. Nell’età adolescenziale però la sensazione di estraneità assoluta all’universo scolastico si tramutano in bisogno di vendetta, di ribellione, di disubbidienza che lo conducono a compiere delle simpatiche malefatte nei confronti degli adulti del collegio. Di esse non si pentirà mai, anzi presagisce lo sbocco finale della sua capacità di impiegare per fini altri il complesso delle sue facoltà intellettive: la delinquenza. Affermazione che “piace” a Severini, per la portata eversiva della frase, su cui dovrebbero riflettere molto insegnanti e adulti. Anche perché il protagonista e autore del saggio sostiene che era ben disposto a qualunque compromesso quando ravvisava nell’adulto uno sguardo benevolo o comunque un po’ d’affetto. Ma soprattutto è importante sottolineare che l’affermazione negli studi e poi quella professionale avvenute successivamente stanno ad indicare che il futuro non è una conseguenza automatica del presente, esso è imprevedibile e spesso piacevolmente sorprendente. Ora l’errore di molti insegnanti è bocciare un alunno somaro non in questa o quella disciplina, ma bocciarlo per la vita futura addossandogli il senso di una frustrazione e di un fallimento perenni. Ma, rievocando una frase che soleva dire un nostro illustre concittadino professore di liceo e mio professore: un insegnante che boccia, boccia innanzitutto se stesso, dichiarando involontariamente il suo fallimento nel recuperare allo studio un allievo. Dunque la responsabilità di un insegnante è massima. Ha il potere di creare una personalità positiva o di distruggerla. Per fortuna al protagonista del nostro libro capitò l’avventura di incontrare degli insegnanti, pochi, al di fuori dello standard consueto, capaci di amare e farsi amare e di innescare quel processo di autostima e di sollecitazione degli interessi anche in deroga al consueto trantran scolastico che rappresentò il primo passo verso la crescita personale. Con il bisturi del chirurgo Severini indaga, chiede, sceglie le domande: che avevano di speciale i professori che determinarono la svolta e l’abbandono della somaraggine. La risposta è semplice, lo “stato” è complesso: la passione per la materia di cui erano “impastati”. Insegnando comunicavano il loro stesso desiderio di sapere, insegnando creavano l’avvenimento. E poi la comunicazione, il sapersi mettere in sintonia con qualunque discepolo, in modo che ognuno sviluppasse le proprie potenzialità, grandi o piccole che fossero. Invece spesso accade che gli insegnanti godano nell’umiliare gli alunni con giudizi o voti scarsi, l’unico modo per sentirsi importanti e seri. Questa la provocazione di Severini, e Pennac definisce questo stato una sorta di accomodamento generale per non operare sulle situazioni particolari, - conformismo - lo chiama Severini. Ma veniamo agli alunni. Sono differenti da quelli di ieri, chiede Severini. Per età ovviamente no, per il colore della pelle sì, ma la differenza maggiore sta nel fatto che sono in tutto e per tutto conformati dal marketing in ogni aspetto della loro vita. Mentre invece bisognerebbe svuotare di tutte queste sovrastrutture la testa dei ragazzi e insegnare loro l’amore per lo studio, per il sapere acquisito tramite la riflessione la ricerca, stimolare le capacità e le competenze e favorire la conoscenza, secondo gli insegnamenti di Gramsci e di Don Milani. Compito difficile nei tempi odierni dove la società dei consumi vuole studenti semianalfabeti, perché essi sono più plasmabili dalla pubblicità.

Non è finita, perché il nostro Severini lancia l’ultima provocazione: come invogliare i meno volenterosi ad amare la scuola? Anche qui la risposta è semplice: con l’amore, cosa che scarseggia nella scuola, come sostiene Pennac.

Si tratta della capacità di empatia, di saper entrare nella condizione di chi ignora tutto quello che il docente sa. E di saper donare fiducia, altrimenti un adolescente relegato al ruolo di ultimo e convinto di ciò diventerà facilmente una preda di situazioni borderline o schiavo del potere consumistico.

In conclusione sottolineiamo il trasporto del Prof. Severini verso i temi della pedagogia e della psicologia, che sono il riflesso della responsabilità dell’educatore e dello studioso della difficile e delicata opera della formazione dei giovani, a cui si associa l’influenza delle famiglie e della società intera, nel bene e nel male, che è anche la sintesi di questa intervista immaginaria.

Adriana Pedicini

LA MAGICA AVVENTURA DELLA LETTURA DI Biagio Osvaldo Severini
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17 Dicembre 2014 , Scritto da Marco Fiorletta Con tag #marco fiorletta, #racconto

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Perché gli archivi sono sempre in posti bui, freddi e umidi? Sempre nei piani bassi e se possibile anche di più, nei sotterranei? Tutte le mattine Fausto si poneva le stesse domande, ormai da anni, e non riusciva a trovare una risposta soddisfacente. Gli archivi vanno tenuti alla luce, all'aria perché quel che c'è dentro va reso noto altrimenti sono solo carte senza valore. Perso nei suoi pensieri si aggirava per l'enorme stanzone ad accendere le luci perché lì il sole del buon Dio non dava i suoi raggi. Anche essi si rifiutavano di passare attraverso le finestrelle a piano stradale coperte di polvere e schizzi di fango. Anche il sole ha una sua dignità.

La vita di Fausto trascorreva normale, tutti i giorni uguale a se stessa. Catalogava i documenti che gli arrivavano, qualcuno lo mostrava agli interni e ciò lo teneva occupato tutta la giornata, sempre con il sottofondo musicale. Una vita tranquilla, dalle nove alle tredici, dalle quattordici alle diciotto con il sabato libero, sarebbe rimasto tutto così se un giorno non fosse stato chiamato in direzione. Senza giri di parole gli comunicarono che l'archivio occupava troppo spazio, che così era dispendioso e che si sarebbe passati ad una ristrutturazione per informatizzare l'ufficio. Il povero Fausto non poté dire nulla se non va bene. Non poté replicare nemmeno all'ordine di mettersi a disposizione del giovanotto in completo e cravatta che gli era seduto vicino e che non lo aveva degnato che di uno sguardo al momento delle presentazioni, per il resto non aveva fatto altro che assentire alle parole del capo.
E così una mattina trovò due altre scrivanie, uno scanner, scoprì poi cos'era, e tanti scatoloni, montati e da montare. E, ultimo affronto, dalla fila di raccoglitori più lontani a sinistra venne fuori un giovane con una pila di fascicoli che impilava su uno dei due tavoli. Fausto lo avrebbe voluto fermare, gli avrebbe voluto gridare "Tu non sai cosa hai per le mani", ma non poteva, non aveva più alcun potere, dopo tanti anni, sul suo luogo di lavoro, sul suo regno. Non aveva nemmeno bisogno di leggere le schede per trovare ciò che gli serviva, tutto era su pc ma lui aveva tutto nella testa.
Il giovane azzimato prendeva le cartellette o le buste, tirava fuori il contenuto e lo distribuiva, secondo segreti, almeno per Fausto, a lui solo noti in tre altri mucchi contraddistinti dalle lettere F, B, S. Notò che tutto quello che veniva messo nel mucchio F, l'operaio lo spostava poi nei cartoni senza troppo riguardo e su cui, al momento della chiusura, scriveva Fuoco. E il fuoco ardeva nel cuore e nella testa di Fausto che non sapeva che cosa avrebbero bruciato, una fattura del 1946? Una nota del 1924? Una lettera di un mese prima? Si rodeva ma non poteva fare nulla se non guardare, soddisfare qualche richiesta e aprire e chiudere l'archivio. Almeno questo potere non glielo avevano tolto. Dopo la selezione, quasi a fine giornata, Azzimato prendeva il materiale del mucchio B e lo imbustava dopo aver scritto qualcosa, mai che gli chiedesse un parere, un consiglio, nemmeno per finta cortesia. Al settimo giorno arrivò una signorina, bassa, cicciottella, con una cresta di gallina in testa, e con dei vestitini che le strizzavano tutte le cicce. Si posizionò allo scanner e iniziò il suo lavoro canticchiando sotto voce. Poche parole e nessuna al povero Fausto, al massimo buongiorno e buonasera.

Subiva, non poteva far altro. Mano a mano gli cambiavano le cose attorno senza nemmeno essere avvertito, finché non arrivò il giorno che venne di nuovo convocato dal capo che, senza tanti giri di parole gli comunicò che dal mese successivo sarebbe andato in pensione. Non pensate che per Fausto fosse un dispiacere, anzi, sentiva quella decisione come una liberazione. Quello non era più il suo lavoro, la sua seconda casa, era qualcosa che non riconosceva. Pulito, anche le finestrelle a piano stradale che lui riusciva a far pulire solo due volte l'anno, luminoso, grazie a potenti lampade ma a risparmio energetico, pochi scaffali e molti armadi che racchiudevano anni di storia che non sarebbe stata più completa e con un impiegato in camice bianco. Gli ultimi giorni era stato, di fatto, degradato a portantino dopo essere stato primario. E così lasciò il palazzo con una fredda festa d'addio condita da pizzette e rustici freddi e di scarsa qualità, da dolcetti ormai rinsecchiti e spumante di seconda categoria salutato da "colleghi" deportati in sala riunioni per ordini superiori. Anche il capo parlò, ne lodò la dedizione, l'accuratezza, la sapienza e tutte le altre corbellerie che si dicono in simili occasioni. Poi venne l'immancabile regalo d'addio. L'orologio che avrebbe dovuto battere il tempo dell'addio alla vita. Si grattò, quasi platealmente davanti a tutti, lui così misurato, educato, rispettoso da sembrare quasi succube. Tutti risero e tornarono ai loro posti di lavoro, ai loro cubicoli ricavati da quelle che una volta erano decine di stanze. Solo una persona rimase nella grande sala vuota, il vecchio portiere tenuto ancora lì non si sa per quale motivo. Peppe mise una mano in tasca e tirò fuori il suo regalo personale, una macchina fotografica digitale. Allungò la mano verso Fausto accompagnandola con "Fuori c'è la vita". Si alzò lo abbracciò e si diresse verso la porta, Fausto notò che si portava la mano destra al viso come per raccogliere una furtiva lacrima. Attese qualche minuto e andò via anche lui, dall'ingresso secondario in modo da non dover salutare nessuno.
Era vero. Fuori c'era la vita. C'erano la luce, i colori, la gente, le cose e le idee.
Dalla sua casetta ai margini della città, circondata ancora dagli alberi e dall'erba, partiva ogni mattina alla scoperta del mondo armato della macchina di Peppe. Scattava foto in continuazione, un gatto, un fiore, una chiesa, i turisti, le formiche, le nutrie sulla sponda del fiume, le oche del laghetto della villa comunale, le donne, gli uomini, tutto ciò che si muoveva e che era immobile. Una scoperta continua. Il suo pc ormai conteneva migliaia di foto che si godeva da solo. E si sentiva egoista. Doveva, lo sentiva come un imperativo categorico, dividere le sue scoperte con qualcuno non avendo nessuno vicino. La sua casetta, ereditata e mai abbandonata, non aveva mai visto entrare uno sconosciuto. Se qualche breve fugace storia c'era stata era stata consumata altrove, il posto più comodo che ci sia. Altrove dove tutto accade senza che nulla accada.
Con riluttanza decise di condividere il suo bene più grande, la scoperta del mondo, sul social network più alla moda, dove tutti avevano centinaia, migliaia di amici anche senza conoscere nessuno.
Si fece il suo account e la sua paginetta, entrambi si chiamavano "Mi piace", ed iniziò a pubblicare le sue foto. Chissà perché e percome iniziarono ad arrivare richieste di amicizia e ogni foto faceva il pieno di mi piace. E lui si sentiva realizzato come non mai. La scoperta del mondo, il suo, alla portata di tutti. E pubblicava, pubblicava, centinaia di foto di tutti i generi e tutte riscuotevano il plauso di sconosciuti che sembrava scoprissero, grazie alle sue foto, un mondo che vivevano senza conoscere.

Il citofono della caserma suonò nel gabbiotto del piantone.
Buongiorno, vorrei fare una segnalazione
Di che genere
una probabile scomparsa
Il click del cancello le diede via libera.
Mentre spiegava al giovane carabiniere ciò che temeva, la signora vide il Tenente entrare, un po' per galanteria e un po' per dovere, questi si fermò e chiese cosa accadeva. Dopo una sommaria spiegazione disse alla donna di accomodarsi nel suo ufficio. Mi dica tutto di nuovo dall'inizio.
Sul mio profilo Fb sono amica di qualcuno che non conosco che pubblica foto, frasi tratte da libri, pensieri propri e con cui in tanti manteniamo contatti. Una persona più che corretta. Ieri ha pubblicato una foto, se ha un profilo Fb lo apra e cerchi la pagina "Mi piace", mentre la donna parlava il pur giovane tenente digitava in fretta. Dopo aver pubblicato la foto che vede, che non è della solita qualità, sembra fatta in fretta e senza passione, non ha più dato segni di vita, non ha nemmeno commentato o risposto ai commenti, ed è una cosa mai accaduta.
Il tenente alzò gli occhi e li piantò nel viso della donna come per sincerarsi della veridicità delle sua parole. Alzò la cornetta del telefono e chiamò un numero: Buongiorno sono il tenente Cardillo, ho bisogno che mi diciate in tempi brevi se il pc da cui viene gestita la pagina .... e continuava a spiegare con un tono che scivolava verso la concitazione e senza togliere gli occhi di dosso alla signora seduta davanti la scrivania. Mise giù la cornetta e rimasero in silenzio, per pochi minuti. Lo squillo li fece quasi sobbalzare:
Tenente Cardillo
Il computer risulta acceso ma senza nessuna attività nelle ultime ore. Dovrebbe appartenere a Fausto Campanello, abitante in via Baciona 58.
Grazie e tolse bruscamente la comunicazione. Fece il numero della centrale operativa:
Sono il Tenente Cardillo, ho bisogno di un intervento discreto ma urgentissimo in via Baciona 58, una pattuglia, un'ambulanza e i Vigili del Fuoco. Potrebbe esserci una persona in difficoltà.
La discrezione non è di questo mondo, ci dobbiamo rassegnare. Arrivarono a sirene spiegate, sgommando e frenando alzando un nugolo di polvere. I due militi corsero uno alla porta e una alla finestra.

Fausto aveva pubblicato la sua ultima foto, è vero non gli era venuta bene ma decise che comunque poteva andare, per una volta lo standard di qualità poteva scendere. Si accese una sigaretta seduto sulla sua poltroncina girevole da ufficio e guardava il video dove già si materializzavano i Mi piace e i primi commenti. Il micio dalla cucina si fece sentire per ricordare che anche lui aveva dei bisogni primari come mangiare. Spense la sigaretta, lasciò la camera piena di libri, riviste giornali ordinati in un disordine organizzato e si recò nella cucina linda e pinta che divideva con la bestiola come il resto della casa. Cambiò l'acqua al micio, gli mise i croccantini e una bustina di umido, gli fece due coccole e tornò al computer. Si accese una nuova sigaretta, odiava riaccendere quelle spente, e guardò lo schermo dove si cumulavano gli apprezzamenti, neanche fosse un esperimento di pavloviana memoria. Io metto una foto e voi, topi di laboratorio, cliccate mi piace. Era soddisfatto del risultato anche se qualcuno segnalava la scarsa qualità dell'opera. Gli avrebbe risposto con calma.

Il milite suonò il campanello di Fausto dando il via a una dolce melodia, il viso del carabiniere si contrasse in una smorfia come una specie di sorriso. Contemporaneamente l'urlo del suo collega, buttate giù la porta, diede il via libera ai Vigili del Fuoco. Pochi attimi e dentro la casa c'erano il dottore e gli infermieri. Fausto era seduto sulla sedia, il braccio sinistro abbandonato lungo il corpo, a terra la sigaretta che si era consumata sui mattoni, come aveva notato il capo dei vigili, non c'erano segni di violenza, come aveva notato il maresciallo, probabilmente era stato un infarto, come aveva notato il medico. La mano destra stringeva il bracciolo come in un ultimo tentativo di restare in equilibrio.
Nella caserma attendevano notizie guardandosi negli occhi, anche con preoccupazione. Lo squillo li riscosse. Anche se non era corretto il tenente mise il viva voce:
Tenente Cardillo?
Sono io
L'intervento si è concluso, gli infermieri lo hanno raccolto che ancora respirava.

La signora, Antonella Cucciolina, si lasciò andare ad un sommesso pianto.

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