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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

marco fiorletta

Margaret Atwood, "L'assassino cieco", un esercizio di bella scrittura

3 Gennaio 2015 , Scritto da Marco Fiorletta Con tag #marco fiorletta, #recensioni

Margaret Atwood, "L'assassino cieco", un esercizio di bella scrittura

Amori rubati, mancati, violenti, guerre, rivoluzioni, lotte operaie, capitalismo, povertà, un accenno di anarchismo, un po’ di proto-femminismo, bugie, saga familiare, un pizzico di fantascienza, un po’ di giallo e di noir e tanto altro ancora li possiamo trovare nel libro di Margaret Atwood L’assassino cieco, letto nell’edizione Tea e disponibile in diversi formati e prezzo. Dell’autrice è anche superfluo parlare, conosciutissima, candidata più volte al premio Nobel, Il fatto che non l’abbia mai avuto la rende migliore?, vincitrice di diversi premi di un certo rilievo e questo romanzo appare nella classifica di un noto settimanale americano tra i migliori cento libri in lingua inglese del secolo. Ora chi sono io per parlare di cotanto libro e autrice? Un lettore, la seconda faccia della moneta che permette agli scrittori di esistere. Non esisteremmo gli uni senza gli altri. Dopo questa cazzatella pseudo filosofica-letteraria andiamo avanti.

La storia è ambientata in un ipotetico paese canadese ed inizia con una morte e il libro è tutto teso a svolgere la matassa che spiegherà la morte con la storia della famiglia Chase narrata dalla vecchia Iris e dal libro scritto dalla sorella Laura che è parte integrante della narrazione. Nessuno degli avvenimenti principali della prima metà del 900 è stato tralasciato, dalla industrializzazione alla depressione, dalle lotte operaie al capitalismo, dalla guerra di Spagna al fascismo alla seconda guerra mondiale, ecc. Il tutto narrato con una vena di giallo che dovrebbe rendere appassionante la vicenda ma che non coglie il segno in quanto la trama si svela da sola mano a mano che si legge e manca anche il classico colpo di scena degno del genere. Non affonda in nessuno degli argomenti trattati, un immenso ricamo bello ma non compiuto, l’autrice si è fermata all’imbastitura senza essere in grado di dare al ricamo quei colori che servono a farlo risaltare sulla stoffa del fondo.

Di materiale c’è ne è tanto, come detto, e il libro è scritto bene e altrettanto tradotto ma, a differenza del giudizio di un noto inserto settimanale di un noto quotidiano nazionale, non travolge, non coinvolge. Sembra di essere immersi in uno stagno di vocali e consonanti dove ogni tanto cade qualche parola che provoca piccoli cerchi concentrici che subito svaniscono. In alcuni punti penso sia più avvincente un mattinale della Questura che il libro della Atwood. Una scrittura ferma, piatta, verrebbe da dire priva delle emozioni che gli argomenti trattati provocano nella penna di altri autori.

Un esercizio di bella scrittura lungo 552 pagine.

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La parola al pastore di Natale

30 Dicembre 2014 , Scritto da Marco Fiorletta Con tag #marco fiorletta, #unasettimanamagica

La parola al pastore di Natale

Sentiamo che ha da dire il Pastore che da duemila e passa anni sta fermo, immobile, davanti alla capanna, grotta, stalla, tugurio dove sarebbe nato il Salvatore. C'è sempre spazio per gli ultimi, anche perché i primi ci stanno un po' sull'anima (è Natale e se si può si evitano brutte parole, altrimenti che Natale sarebbe senza un po' d'ipocrisia?). Di seguito ciò che ci ha dichiarato.

Me ne stavo ben bello, è un modo di dire, a pascolare le pecore nei prati della Palestina quando ho visto una scia luminosa in cielo, poi ho saputo, nei 2014 anni passati davanti 'sta capanna mi sono imparato qualcosa, insomma mi sono acculturato un pochino, che era una cometa e sembrava fosse caduta a poche centinaia di metri dal gregge che custodivo. Essendo un tipo curioso e non avendo nulla da fare che non seguire 'sti stupidi animali sono andato a vedere. Mi sono messo al collo un agnello e mi sono incamminato. Chiariamo subito un equivoco, l'agnello non l'ho portato in dono a nessuno anche perché non sapevo che ci sarebbe stato qualcuno da omaggiare, me lo sono messo al collo per riscaldarmi perché la notte d'inverno è notte d'inverno anche in Palestina. E se qualcuno non lo sa anche qui da noi l'inverno nevica. Adesso, spesso, non cade la neve ma cadono le bombe ma sempre dal cielo arrivano. E poi se proprio potessi permettermi di regalare un agnello lo regalerei alla mia famiglia che fa la fame e non a un neonato che non saprebbe che farsene. E poi perché dovrei regalare il mio cucciolo di pecora a uno sconosciuto?

Insomma mi sono trovato lì per caso e sono più di duemila anni che non riesco ad andarmene, meglio, me ne vado ma dall'otto dicembre, o giù di li, mi ritrovo sempre allo stesso posto a perpetuare questa farsa di cui non frega nulla a nessuno. Una farsa alimentata dalla pubblicità, dagli interessi e non più mantenuta in vita da uno spirito di bontà, di speranza. Ma se volete continuate anche a credere che il mondo domani sarà migliore.

Prendete la mia situazione, ero pastore e sono rimasto tale dopo due millenni. A piedi andavo a pascolare le greggi e a piedi conduco al pascolo le mie pecore ancora oggi. Di cambiato sicuramente c'è, come dicevo prima, che una volta cadevano comete e neve ora cadono sempre più spesso bombe. Prima andavo avanti per chilometri con lo sguardo che spaziava sulle colline, gli ulivi, le palme ora mi bastano pochi chilometri e mi trovo davanti un muro grigio che non mi fa vedere e andare oltre. Prima c'erano i romani, quando nacque Gesù, ora ci sono gli israeliani e non nasce nessuno che ci dia una speranza di un mondo migliore, di pace e benessere. Oddio, il benessere c'è chi lo ha, ma oggi come ieri e l'altro ieri non riguarda quelli come me. Pascolavo ieri e pascolo oggi. E immagino che sia la stessa cosa per i pastori di tutto il mondo.

Mi è giunta voce, tempi moderni, da altri pastori, che in Italia ormai le greggi e le mandrie sono affidate ad immigrati provenienti da diversi paesi dell'Est o dell'Africa. Se potessi ci andrei anche io in Italia a fare il pastore, almeno non correrei il rischio di essere bombardato. Ma prima dovrei attraversare il Mediterraneo su un barcone e cercare di non affogare e poi, con una botta di culo, scusatemi ma quando ce vo' ce vo', dovrei sperare di trovare un padrone che non sia malaccio perché mi è giunta voce che so' padroni come quelli dei tempi miei. Insomma non mi sembra che sia cambiato nulla da quando m'hanno inchiodato in questo ruolo di pastorello. Poraccio ero e poraccio so' rimasto.

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Anche San Giuseppe è incazzato

29 Dicembre 2014 , Scritto da Marco Fiorletta Con tag #marco fiorletta, #unasettimanamagica

Anche San Giuseppe è incazzato

San Giuseppe mi ha detto che non vuole parlare, è troppo incazzato come marito, come padre, come falegname e, infine, come protettore dei lavoratori.
E la sua è una incazzatura cosmica, di quelle che se solo ti avvicini corri il rischio che ti tiri dietro una pialla, che se solo ti azzardi a dirgli di stare calmo prende un pezzo di legno d'ulivo e te lo spacca sul cranio. Fortunatamente ero a distanza quando gli ho chiesto come stava. Una sequela di imprecazioni che nemmeno i portuali di Livorno del secolo scorso (quelli di adesso sono troppo educati). Ho tentato di farlo parlare ma è stato inutile, ha bofonchiato qualcosa sull'essere cornuto senza che nessuno si preoccupasse di dargli merito di aver preso con sé una ragazza madre e suo figlio. Ha continuato borbottando contro i romani che l'hanno fatto mettere in viaggio in pieno inverno per un censimento del cazzo di cui non fregava niente a nessuno. Come se all'imperatore gliene importasse qualcosa di sapere quanti poveri c'erano in Galilea. E' ancora imbestialito contro i suoi connazionali che non gli hanno dato ospitalità nemmeno vedendo che quella povera donna-bambina stava per partorire. Era ed è incazzato per il passato che si ripete sempre uguale da migliaia di anni.
Ancor di più ce l'aveva con suo figlio. Vittima di una megalomania che l'ha portato a farsi crocifiggere invece di dargli una mano e guadagnarsi da vivere onestamente facendo il falegname. E poi ha continuato, con parole censurabili, con quella massa di ipocriti che hanno creduto a suo figlio e sulle sue idee, distorte e piegate agli interessi propri, ci hanno fatto non una, ma tre religioni senza contare tutte le sette e le chiese e chiesette che crescono come funghi in un bosco di castagni. Però, alla fine, ha concluso, con il sorriso sulle labbra, che gli voleva bene, alla Madonna, una santa donna, e a Gesù che si è fatto ammazzare per difendere le sue idee.
Approfittando di una colonna, dietro la quale mi sono nascosto, gli ho chiesto cosa pensasse della situazione attuale, mi sono tanto sentito giornalista. Non l'avessi mai fatto! Come un ninja impazzito ha iniziato un lancio di lime, raspe, martelli, scalpelli, chiodi, sembrava che piovesse. Intanto urlava contro i cinesi, gli indiani, gli italiani, gli americani, i russi, insomma lanciava bestemmie contro tutti, di tutti i colori e di tutti i posti. Parlava di diritti, di salari, di riposi, di pensioni che ai suoi tempi nemmeno sapevano cosa erano, di ricchi e di poveri, sembrava un sindacalista della Fiom di Pomigliano. Sono rimasto zitto e immobile dietro la colonna finché non è terminato il lancio di oggetti, poi mi sono timidamente affacciato. Si era seduto su uno sgabello e mi guardava.
"Vieni qui", mi ha detto. Mi sono avvicinato e San Giuseppe mi ha abbracciato stretto stretto.
"Tieni, tenete, duro. Arriveranno tempi migliori".

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Esegesi del pensiero recondito della Madonna

26 Dicembre 2014 , Scritto da Marco Fiorletta Con tag #marco fiorletta, #unasettimanamagica

Esegesi del pensiero recondito della Madonna

Che dire che non sia stato detto? Sì, qualcosa c'è, il mio punto di vista. Di donna e di Madonna, che non avevo chiesto di essere.

Ero piccola quando mi hanno dato in sposa ad un uomo più vecchio di me che faceva il falegname, allora si andava a nozze appena giovinette e senza che potessimo dire nulla, come spesso succede ancora. Hanno tanto scritto sulla vita di mio figlio ma poco sulla mia e di quel povero marito mio. Mi hanno usato, cosa che si fa ancora ai vostri giorni, per mettere al mondo un bambinello a cui hanno affibbiato un compito sovrumano. E per giustificare hanno detto che era figlio di Dio, ma quale? Tanti dei aveva questo mondo nell'antichità, tanti quanti ce ne sono ancora oggi. Ma nessuno che sia un Dio d'amore. Oh quanto mi costa dire queste parole, ma non posso farne a meno. Come posso parlare di un Dio d'amore se ancora oggi le donne vengono trattate come ai miei tempi? Usate, abusate, sacrificate, schiave e infine anche uccise. Senza distinzione d'età, di cultura, di classe, di bellezza. Basta essere donne per essere inferiori. A un certo punto ho pensato che le cose potessero cambiare in meglio, mi sono illusa come tutte le donne che hanno lottato per distinguersi dai maschi. D'altronde contiamo così poco che anche nei Vangeli le parole a me dedicate sono poche. Si parla di me per gli sguardi e i silenzi. In una delle traduzioni del Vangelo, quando Gesù dice dalla croce a cui è inchiodato, rivolto a Giovanni: "Questa è tua madre", l'evangelista di turno (non mi chiedete chi è, non lo ricordo) dice: "Giovanni la prese tra le sue cose". Tra le sue cose, manco fossi una sedia o una tovaglia! In fin dei conti, a sentir loro, sarei la madre di Gesù, un minimo di rispetto in più non sarebbe stato male. Qualcuno poi si deve essere reso conto che la frase era un po' pesante e ha tentato di porre rimedio sostituendo "le sue cose" con "nella propria casa". Cambia il senso ma non la sostanza. Povere donne, di allora e di adesso.
Tra poco è Natale e festeggerete, ipocritamente, la nascita di mio Figlio, non ho nulla da aggiungere a quanto vi ha già detto Lui. Ma, ripensandoci, sono più di duemila anni che lo faccio, se dovevo mettere al mondo il Figlio di Dio non si poteva fare in modo di avere un po' più di riguardo? Forse se lo avessi fatto nascere in condizioni più umane sarebbe servito da esempio per il futuro. Con un buon esempio forse anche le donne che sono nate e hanno partorito dopo di me sarebbero state più fortunate e rispettate. Ma ero e siete donne, quindi non potete sperare nulla di più. Se tutti quelli che mi invocano a ogni piè sospinto fossero più seri forse avremmo un mondo migliore, ma tanto c'è chi ha detto che la felicità non è di questo mondo e allora vi sentite autorizzati a fare di tutto e di peggio.

Perché ogni tanto sentite il bisogno di farmi apparire nei posti più impensabili e assurdi? Se davvero credete che sia la Madre del Figlio di Dio, e per estensione, vostra Madre, che bisogno avete avete di pregarmi e adorarmi in pubblico? Di portarmi fiori e corone per ricordarmi sempre che sono morta? E perché mettere a repentaglio la vita a un povero vigile del fuoco per mettere una corona di fiori così in alto? Non basta che rischi la vita tutti i giorni? Se volete pregarmi, fatelo nelle vostre case portando rispetto alle vostre donne, siano esse madri, figlie, nipoti. Portate rispetto alle donne tutte, in esse vive la mia essenza. Capisco che per gli italiani, in questo momento, è difficile pensare che in molte donne ci sia il mio spirito, ma non posso mettermi a fare l'appello dei buoni e dei cattivi su questo blog. A proposito di Internet. Ma vi pare giusto che su Google, se digitate Madonna, appare per prima quella cantantucola scosciata che si è appropriata anche del mio nome? Vabbè il mondo è cambiato, me ne sono accorta, e spesso non in meglio.
Io non posso dirvi altro che vi amo come se foste figli partoriti da me, ma voi amatemi nelle figure di donna che vi accompagnano ogni giorno della vostra vita.

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Regali di Natale

18 Dicembre 2014 , Scritto da Marco Fiorletta Con tag #marco fiorletta, #unasettimanamagica, #racconto

Regali di Natale


I resti di vernice testimoniano un passato ormai lontano di beltà, forse, ma anche no. Sono lì solo a dire sono stata nuova anche io. Poggia su quattro blocchi di cemento irregolari come se fosse stata divelta da un luogo e portata in un altro, come è in realtà accaduto. E' lì su quel ciglio di strada a sostituire la sua collega che vi stazionava precedentemente. Sotto di lei crescono sparuti fili d'erba sofferenti, ai lati ciò che resta di una delimitazione di aiuola ora deposito di cicche di sigaretta, pacchetti di sigarette più o meno appallottolati che stanno per essere scalzati dalla classifica dei rifiuti dalle confezioni di tabacco, gomme masticate, carta da panini, bottiglie d'acqua, birra, vino e altre bevande, giornali di tutti i tipi, quotidiani, settimanali, inserti pubblicitari, volantini di supermarket che magnificano sconti ed occasioni irripetibili. Solo una cosa stona nel panorama, che comprende automobili che sfrecciano sulla vicinissima arteria stradale a scorrimento veloce, insomma, una strada statale per chiamare le cose con il loro vero nome, che porta verso il centro di una grande città.

Se non fosse tristemente vero sarebbe potuta essere scambiata per una installazione artistica del degrado urbano, della solitudine, dell'inciviltà e altro ancora. Una installazione che con la pretesa di dire tante cose alla fine lascia del tutto indifferente chi la guarda lasciando solo ai dotti critici l'esegesi del pensiero dell'autore.

Su quella solitaria panchina è seduta una donna. I lunghi capelli striati di grigio raccolti in una crocchia, gli occhiali leggermente calati sulla punta del naso. Indossa un cappotto, pantaloni e stivaletti alla caviglia tutto di colore nero, un abbigliamento che, se pur dignitoso, lascia capire che ha visto tempi migliori. Ha la gamba sinistra accavallata sulla sua gemella e in mano tiene un settimanale. Non è uno di quelli che vengono chiamati femminili, no è un inserto settimanale di un quotidiano, è aperto sulle pagine centrali che danno consigli su cosa regalare, d'altronde siamo prossimi al Natale e il regalo è l'argomento principe delle discussioni.

No, quest'anno di regali non se ne faranno tanti o sì, i regali si faranno ma saranno pochi e al risparmio. Le chiacchiere sull'economia ci ammorbano, ci annoiano, ci deprimono, ci danno qualche speranza, a molti non interessano più qualsiasi cosa dicano. La donna solitaria gira le pagine con lentezza, dopo attenta lettura dei preziosi suggerimenti su vestiti, profumi, articoli per la casa, apparecchi elettronici di vario tipo e anche libri e musica. Dagli occhi non sembra che ciò che ha letto e continua a leggere suscitino in lei un grande interesse.

Ogni tanto alza e gira la testa verso sinistra, come se attendesse qualcuno o qualcosa. Li riabbassa sulle pagine patinate con un velo di delusione. Ora chiude il giornale, lo poggia sulla panchina, si alza e si avvia alla fermata del bus che si avvicina veloce.

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Mi piace

17 Dicembre 2014 , Scritto da Marco Fiorletta Con tag #marco fiorletta, #racconto

Mi piace

Perché gli archivi sono sempre in posti bui, freddi e umidi? Sempre nei piani bassi e se possibile anche di più, nei sotterranei? Tutte le mattine Fausto si poneva le stesse domande, ormai da anni, e non riusciva a trovare una risposta soddisfacente. Gli archivi vanno tenuti alla luce, all'aria perché quel che c'è dentro va reso noto altrimenti sono solo carte senza valore. Perso nei suoi pensieri si aggirava per l'enorme stanzone ad accendere le luci perché lì il sole del buon Dio non dava i suoi raggi. Anche essi si rifiutavano di passare attraverso le finestrelle a piano stradale coperte di polvere e schizzi di fango. Anche il sole ha una sua dignità.

La vita di Fausto trascorreva normale, tutti i giorni uguale a se stessa. Catalogava i documenti che gli arrivavano, qualcuno lo mostrava agli interni e ciò lo teneva occupato tutta la giornata, sempre con il sottofondo musicale. Una vita tranquilla, dalle nove alle tredici, dalle quattordici alle diciotto con il sabato libero, sarebbe rimasto tutto così se un giorno non fosse stato chiamato in direzione. Senza giri di parole gli comunicarono che l'archivio occupava troppo spazio, che così era dispendioso e che si sarebbe passati ad una ristrutturazione per informatizzare l'ufficio. Il povero Fausto non poté dire nulla se non va bene. Non poté replicare nemmeno all'ordine di mettersi a disposizione del giovanotto in completo e cravatta che gli era seduto vicino e che non lo aveva degnato che di uno sguardo al momento delle presentazioni, per il resto non aveva fatto altro che assentire alle parole del capo.
E così una mattina trovò due altre scrivanie, uno scanner, scoprì poi cos'era, e tanti scatoloni, montati e da montare. E, ultimo affronto, dalla fila di raccoglitori più lontani a sinistra venne fuori un giovane con una pila di fascicoli che impilava su uno dei due tavoli. Fausto lo avrebbe voluto fermare, gli avrebbe voluto gridare "Tu non sai cosa hai per le mani", ma non poteva, non aveva più alcun potere, dopo tanti anni, sul suo luogo di lavoro, sul suo regno. Non aveva nemmeno bisogno di leggere le schede per trovare ciò che gli serviva, tutto era su pc ma lui aveva tutto nella testa.
Il giovane azzimato prendeva le cartellette o le buste, tirava fuori il contenuto e lo distribuiva, secondo segreti, almeno per Fausto, a lui solo noti in tre altri mucchi contraddistinti dalle lettere F, B, S. Notò che tutto quello che veniva messo nel mucchio F, l'operaio lo spostava poi nei cartoni senza troppo riguardo e su cui, al momento della chiusura, scriveva Fuoco. E il fuoco ardeva nel cuore e nella testa di Fausto che non sapeva che cosa avrebbero bruciato, una fattura del 1946? Una nota del 1924? Una lettera di un mese prima? Si rodeva ma non poteva fare nulla se non guardare, soddisfare qualche richiesta e aprire e chiudere l'archivio. Almeno questo potere non glielo avevano tolto. Dopo la selezione, quasi a fine giornata, Azzimato prendeva il materiale del mucchio B e lo imbustava dopo aver scritto qualcosa, mai che gli chiedesse un parere, un consiglio, nemmeno per finta cortesia. Al settimo giorno arrivò una signorina, bassa, cicciottella, con una cresta di gallina in testa, e con dei vestitini che le strizzavano tutte le cicce. Si posizionò allo scanner e iniziò il suo lavoro canticchiando sotto voce. Poche parole e nessuna al povero Fausto, al massimo buongiorno e buonasera.

Subiva, non poteva far altro. Mano a mano gli cambiavano le cose attorno senza nemmeno essere avvertito, finché non arrivò il giorno che venne di nuovo convocato dal capo che, senza tanti giri di parole gli comunicò che dal mese successivo sarebbe andato in pensione. Non pensate che per Fausto fosse un dispiacere, anzi, sentiva quella decisione come una liberazione. Quello non era più il suo lavoro, la sua seconda casa, era qualcosa che non riconosceva. Pulito, anche le finestrelle a piano stradale che lui riusciva a far pulire solo due volte l'anno, luminoso, grazie a potenti lampade ma a risparmio energetico, pochi scaffali e molti armadi che racchiudevano anni di storia che non sarebbe stata più completa e con un impiegato in camice bianco. Gli ultimi giorni era stato, di fatto, degradato a portantino dopo essere stato primario. E così lasciò il palazzo con una fredda festa d'addio condita da pizzette e rustici freddi e di scarsa qualità, da dolcetti ormai rinsecchiti e spumante di seconda categoria salutato da "colleghi" deportati in sala riunioni per ordini superiori. Anche il capo parlò, ne lodò la dedizione, l'accuratezza, la sapienza e tutte le altre corbellerie che si dicono in simili occasioni. Poi venne l'immancabile regalo d'addio. L'orologio che avrebbe dovuto battere il tempo dell'addio alla vita. Si grattò, quasi platealmente davanti a tutti, lui così misurato, educato, rispettoso da sembrare quasi succube. Tutti risero e tornarono ai loro posti di lavoro, ai loro cubicoli ricavati da quelle che una volta erano decine di stanze. Solo una persona rimase nella grande sala vuota, il vecchio portiere tenuto ancora lì non si sa per quale motivo. Peppe mise una mano in tasca e tirò fuori il suo regalo personale, una macchina fotografica digitale. Allungò la mano verso Fausto accompagnandola con "Fuori c'è la vita". Si alzò lo abbracciò e si diresse verso la porta, Fausto notò che si portava la mano destra al viso come per raccogliere una furtiva lacrima. Attese qualche minuto e andò via anche lui, dall'ingresso secondario in modo da non dover salutare nessuno.
Era vero. Fuori c'era la vita. C'erano la luce, i colori, la gente, le cose e le idee.
Dalla sua casetta ai margini della città, circondata ancora dagli alberi e dall'erba, partiva ogni mattina alla scoperta del mondo armato della macchina di Peppe. Scattava foto in continuazione, un gatto, un fiore, una chiesa, i turisti, le formiche, le nutrie sulla sponda del fiume, le oche del laghetto della villa comunale, le donne, gli uomini, tutto ciò che si muoveva e che era immobile. Una scoperta continua. Il suo pc ormai conteneva migliaia di foto che si godeva da solo. E si sentiva egoista. Doveva, lo sentiva come un imperativo categorico, dividere le sue scoperte con qualcuno non avendo nessuno vicino. La sua casetta, ereditata e mai abbandonata, non aveva mai visto entrare uno sconosciuto. Se qualche breve fugace storia c'era stata era stata consumata altrove, il posto più comodo che ci sia. Altrove dove tutto accade senza che nulla accada.
Con riluttanza decise di condividere il suo bene più grande, la scoperta del mondo, sul social network più alla moda, dove tutti avevano centinaia, migliaia di amici anche senza conoscere nessuno.
Si fece il suo account e la sua paginetta, entrambi si chiamavano "Mi piace", ed iniziò a pubblicare le sue foto. Chissà perché e percome iniziarono ad arrivare richieste di amicizia e ogni foto faceva il pieno di mi piace. E lui si sentiva realizzato come non mai. La scoperta del mondo, il suo, alla portata di tutti. E pubblicava, pubblicava, centinaia di foto di tutti i generi e tutte riscuotevano il plauso di sconosciuti che sembrava scoprissero, grazie alle sue foto, un mondo che vivevano senza conoscere.

Il citofono della caserma suonò nel gabbiotto del piantone.
Buongiorno, vorrei fare una segnalazione
Di che genere
una probabile scomparsa
Il click del cancello le diede via libera.
Mentre spiegava al giovane carabiniere ciò che temeva, la signora vide il Tenente entrare, un po' per galanteria e un po' per dovere, questi si fermò e chiese cosa accadeva. Dopo una sommaria spiegazione disse alla donna di accomodarsi nel suo ufficio. Mi dica tutto di nuovo dall'inizio.
Sul mio profilo Fb sono amica di qualcuno che non conosco che pubblica foto, frasi tratte da libri, pensieri propri e con cui in tanti manteniamo contatti. Una persona più che corretta. Ieri ha pubblicato una foto, se ha un profilo Fb lo apra e cerchi la pagina "Mi piace", mentre la donna parlava il pur giovane tenente digitava in fretta. Dopo aver pubblicato la foto che vede, che non è della solita qualità, sembra fatta in fretta e senza passione, non ha più dato segni di vita, non ha nemmeno commentato o risposto ai commenti, ed è una cosa mai accaduta.
Il tenente alzò gli occhi e li piantò nel viso della donna come per sincerarsi della veridicità delle sua parole. Alzò la cornetta del telefono e chiamò un numero: Buongiorno sono il tenente Cardillo, ho bisogno che mi diciate in tempi brevi se il pc da cui viene gestita la pagina .... e continuava a spiegare con un tono che scivolava verso la concitazione e senza togliere gli occhi di dosso alla signora seduta davanti la scrivania. Mise giù la cornetta e rimasero in silenzio, per pochi minuti. Lo squillo li fece quasi sobbalzare:
Tenente Cardillo
Il computer risulta acceso ma senza nessuna attività nelle ultime ore. Dovrebbe appartenere a Fausto Campanello, abitante in via Baciona 58.
Grazie e tolse bruscamente la comunicazione. Fece il numero della centrale operativa:
Sono il Tenente Cardillo, ho bisogno di un intervento discreto ma urgentissimo in via Baciona 58, una pattuglia, un'ambulanza e i Vigili del Fuoco. Potrebbe esserci una persona in difficoltà.
La discrezione non è di questo mondo, ci dobbiamo rassegnare. Arrivarono a sirene spiegate, sgommando e frenando alzando un nugolo di polvere. I due militi corsero uno alla porta e una alla finestra.

Fausto aveva pubblicato la sua ultima foto, è vero non gli era venuta bene ma decise che comunque poteva andare, per una volta lo standard di qualità poteva scendere. Si accese una sigaretta seduto sulla sua poltroncina girevole da ufficio e guardava il video dove già si materializzavano i Mi piace e i primi commenti. Il micio dalla cucina si fece sentire per ricordare che anche lui aveva dei bisogni primari come mangiare. Spense la sigaretta, lasciò la camera piena di libri, riviste giornali ordinati in un disordine organizzato e si recò nella cucina linda e pinta che divideva con la bestiola come il resto della casa. Cambiò l'acqua al micio, gli mise i croccantini e una bustina di umido, gli fece due coccole e tornò al computer. Si accese una nuova sigaretta, odiava riaccendere quelle spente, e guardò lo schermo dove si cumulavano gli apprezzamenti, neanche fosse un esperimento di pavloviana memoria. Io metto una foto e voi, topi di laboratorio, cliccate mi piace. Era soddisfatto del risultato anche se qualcuno segnalava la scarsa qualità dell'opera. Gli avrebbe risposto con calma.

Il milite suonò il campanello di Fausto dando il via a una dolce melodia, il viso del carabiniere si contrasse in una smorfia come una specie di sorriso. Contemporaneamente l'urlo del suo collega, buttate giù la porta, diede il via libera ai Vigili del Fuoco. Pochi attimi e dentro la casa c'erano il dottore e gli infermieri. Fausto era seduto sulla sedia, il braccio sinistro abbandonato lungo il corpo, a terra la sigaretta che si era consumata sui mattoni, come aveva notato il capo dei vigili, non c'erano segni di violenza, come aveva notato il maresciallo, probabilmente era stato un infarto, come aveva notato il medico. La mano destra stringeva il bracciolo come in un ultimo tentativo di restare in equilibrio.
Nella caserma attendevano notizie guardandosi negli occhi, anche con preoccupazione. Lo squillo li riscosse. Anche se non era corretto il tenente mise il viva voce:
Tenente Cardillo?
Sono io
L'intervento si è concluso, gli infermieri lo hanno raccolto che ancora respirava.

La signora, Antonella Cucciolina, si lasciò andare ad un sommesso pianto.

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José Saramago, "Le intermittenze della morte"

13 Dicembre 2014 , Scritto da Marco Fiorletta Con tag #marco fiorletta, #recensioni

José Saramago, "Le intermittenze della morte"

Nella perenne opera di trovare spazio nella libreria mi è capitato tra le mani un libro di José Saramago, forse l’unico ancora non letto, che giaceva in attesa della maturazione del tempo adatto. A parte che per Saramago è sempre il tempo giusto, ma è anche una questione di gusti.

Come per le altre opere dell’autore portoghese è difficile dare un consiglio di lettura, specialmente se è la prima volta che ci si avvicina a questo scrittore. Innanzitutto lo stile, spiazzante, con una punteggiatura basata sulla lingua parlata e che richiede una concentrazione particolare per entrare nel ritmo della narrazione. Ma questi sono aspetti, come già detto, che lascio ai professionisti della recensione. I miei sono solo piccoli, brevi, consigli di lettura.

Le intermittenze della morte, letto in edizione Einaudi e reperibile anche Feltrinelli e in diversi formati, ci mette di fronte all’ipotesi che la signora dalla falce decida che in un tal paese non si muoia più. Chi era sul punto di esalare l’ultimo respiro rimane lì, sulla soglia, senza peggiorare ma nemmeno migliorare. Una sorta di cristallizzazione del tempo. Nessuno muore più. Quale miglior notizia ci potrebbe essere per l’uomo che ha due certezze, la nascita e appunto la morte? Saramago ci conduce, con ironia, nei meandri di ciò che si potrebbe scatenare se l’assurda ipotesi divenisse realtà. E se poi ci fosse un ripensamento della morte? Se invece si tornasse a morire non all’improvviso ma con un preavviso di sette giorni? E se il preavviso non dovesse giungere in tempo e qualcuno non morisse nonostante fosse giunta l’ora?

Come reagirebbe a questi cambiamenti il singolo? E lo Stato, la Chiesa, la maphia (sì, scritto proprio così)? Per non parlare delle agenzie funebri, gli ospizi, gli ospedali e la morte stessa? Ecco una ridda di situazioni sviluppate con logicità, ironia come già detto, e un’immensa fantasia a cui Saramago ci ha abituati. Basti pensare a Cecità.

La grandezza del Nobel portoghese è partire da una situazione assurda, impossibile, e sviluppare poi un ragionamento logico che alla fine ci porta a considerare sotto una luce diversa l’assurdità stessa del ragionamento. In ultima analisi non ci resta che dire che la morte non è utile, è necessaria e fondamentale per la vita degli umani. Triste doverlo dire ma è così.

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Masha Ronlnikaite, "Devo Raccontare": l'esigenza di raccontare e il dovere di leggere.

8 Dicembre 2014 , Scritto da Marco Fiorletta Con tag #marco fiorletta, #recensioni, #storia

Masha Ronlnikaite, "Devo Raccontare": l'esigenza di raccontare e il dovere di leggere.

E quando ti fucilano fa male?

Immaginate sentirvi fare questa domanda da vostro figlio, da vostro fratello, da un bambino qualsiasi.

Questo è cosa ha sentito chiedere Masha Rolnikaite dal proprio fratellino negli anni lontani della Seconda Guerra mondiale. Ma perché un bimbetto si pone un’angosciosa domanda del genere? Perché è un lituano di religione ebraica e già conosce la durezza e la crudeltà delle persecuzioni ebraiche in quel di Vilnius, conosciuta anche come la Gerusalemme del nord, dove inizia e si svolge la triste e tragica storia di Devo raccontare, Adelphi 2005, 284 p. 18€ la versione cartacea.

Il libro di Masha Ronlnikaite è il diario dal 1941 al 1945 di una ragazzina tredicenne che si ritrova calata suo malgrado nella disgraziata vicenda di odio razziale, smania di potere, delirio d’onnipotenza che tanti lutti ha inflitto al mondo. Una Storia vissuta sulla propria pelle e raccontata grazie alla tenacia dell’autrice che quando non ha più potuto scrivere su fogli volanti e con mozziconi di matite ha mandato a memoria ciò che era andato perduto e ciò che non poteva scrivere riuscendo solo a fine guerra a ricostruire, grazie alla memoria, le disgrazie di quattro anni. Un diario sconvolgente nonostante siano cose già trattate, lette e mai metabolizzate.

E’ la discesa dalla vita normale di una famiglia normale verso l’abisso della crudeltà, della cattiveria verso un proprio simile colpevole solo di professare una religione diversa e di far parte di genti vittime di luoghi comuni e usati da capri espiatori dal potere, a ovest come a est, da sovrani, illuminati o meno, e papi per finire alle varie ideologie del novecento. Certo non sfugge, fatte salve le diversità, che l’abitudine a vedere il diverso come fonte del male purtroppo non morirà mai. Lo stiamo sperimentando anche in questi anni di crisi. Anzi, non abbiamo mai smesso, in ogni dove, di mettere in pratica certe perverse abitudini.

La vita della famiglia Rolnikaite si spezza tutta insieme senza gradualità, subito il padre perde contatto con la moglie e i quattro figli, lui a combattere e la mamma con i figli chiusi nel ghetto creato dai nazisti e affidato alla custodia di ebrei forse convinti che l’assoggettarsi passivamente li porti almeno a salvare il maggior numero di correligionari. Ma non sarà così e nemmeno l’assecondare i nazisti nelle loro folli richieste porterà a guadagnare una sola vita. Li porterà invece ad essere accusati di connivenza e collaborazionismo. In un crescendo di vessazioni, atrocità, sadico divertimento dei sodati tedeschi cui non sembra mai venir meno la fantasia per seviziare i loro prigionieri, seguiremo la piccola Masha dal ghetto al campo di concentramento fino alla soglia della morte e al ricongiungimento con ciò che resta della sua famiglia. Un’analisi per forza di cose spietata, dalla carenza di spazi vitali alla carenza di cibo, dalla speranza in una rapida fine della sofferenza dovuta alle scarne notizie di sconfitte dei tedeschi a un’Armata Rossa sempre troppo distante e con i tedeschi sempre presenti fino all’amara considerazione che “… L'insetto sarà vivo anche domani, ma noi non ci saremo...”

C’è una grande differenza fra me e Anna Frank. Io sono sopravvissuta

A Ponar, vicino a Vilnius, vennero uccise più di 100.000 persone la cui maggioranza di religione ebraica. E' un posto che ricorre con frequenza nella narrazione di Masha Ronlnikaite.

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Raphael Jerusalmy, "I cacciatori di libri": un'occasione mancata

6 Dicembre 2014 , Scritto da Marco Fiorletta Con tag #marco fiorletta, #recensioni, #personaggi da conoscere

Raphael Jerusalmy, "I cacciatori di libri": un'occasione mancata

ll poeta francese François Villon principalmente, e poi cardinali, rabbini, principi e re come Luigi XI e Cosimo dei Medici, papi, l'Inquisizione, mamelucchi, esseni, Parigi, Gerusalemme, l’immancabile donna che non si comprende con chi sta e perché, un complotto che ha come arma principale la conoscenza e tante altre cose si possono trovare nel libro di Raphael Jerusalmy I cacciatori di libri, edizioni e/o 266 p. 16,50 €.

L’autore è un ex agente del servizio segreto militare israeliano passato poi a promuovere missioni umanitarie, verrebbe da dire che i rimorsi sono tanti, e ora anche commerciante di libri antichi e romanziere. Il libro è incentrato sulla figura di François de Montcorbier meglio conosciuto come François Villon autore de Il lascito e Il grande testamento, forse uno dei primi poeti maledetti con una vita macchiata da furti, ruberie e anche sospetti di omicidio. Condannato a morte per una seconda volta la pena gli fu commutata e a 31 anni Villon scomparve e non se ne seppe più nulla. Da qui si dipana la narrazione di Jerusalmy in un crescendo (?) di coinvolgimenti a partire dall’incontro con il cardinale di Parigi che appunto gli garantisce la libertà se accetta una missione in Terrasanta. A un certo punto ci si ritrova immersi in libri, papiri, rotoli, pergamene contenenti lo scibile umano e che vanno non solo salvati ma diffusi per portare la conoscenza a tutti e combattere l’oscurantismo dominante. Un passaggio dal Medioevo verso orizzonti più aperti, più ampi verso il Rinascimento.

L’idea è buona ma la messa in pratica un po’ meno. Il libro soffre di una congenita lentezza, l’autore ha mancato l’obiettivo di rendere frizzante la narrazione. Sarebbe comunque ingeneroso fare paragoni con altri autori. Purtroppo il crescendo è lento, la carne al fuoco molta ma non sufficientemente condita e rivoltata a dovere per raggiungere una buona cottura. Debole come thriller e anche come romanzo picaresco. Comunque scritto bene e ricco di citazioni. A merito dell’autore va l’aver riportato alla memoria François Villon e le sue ballate. Comunque un’occasione mancata.

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Irma la maestra

4 Dicembre 2014 , Scritto da Marco Fiorletta Con tag #marco fiorletta, #racconto

Irma la maestra

La signora Irma si muoveva nel suo piccolo appartamento con agilità nonostante l'età avanzata. Certo, dire che si muoveva è un'esagerazione per i 50 metri quadrati scarsi di casa in cui si era ridotta. La vecchia bella grande casa l'aveva venduta tanti anni fa per aiutare l'unico nipote che aveva, rimasto solo al mondo, una tragedia che ancora non aveva superato. Per lei, sola, fu un sacrificio neanche troppo grande, per il nipote lontano fu una salvezza, per fortuna Giuseppe non si era dimenticato di lei. Sempre una telefonata e, nonostante la distanza, una visita al mese. La portava fuori a pranzo dopo aver visitato un museo, una mostra. E in quelle poche ore che passava da lei riusciva anche a sistemare i piccoli danni dell'appartamento.
Giuseppe le aveva cambiato le lampadine vecchie con quelle nuove che consumavano di meno, le aveva fatto un nuovo abbonamento al telefono per farla risparmiare, insomma faceva di tutto per facilitarle la vita che con la crisi diventava sempre più difficile da vivere con la sua pensione di statale. Irma era stata maestra, Irma la maestra, come la conoscevano tutti nel suo vecchio quartiere. In quello nuovo era una delle tante pensionate deportate per lasciare le case ai figli o ai nipoti. Ma Irma non si lamentava, le andava bene così, aveva i suoi libri, la sua musica e il suo gatto.
Le difficoltà economiche, che nascondeva al nipote, l'avevano portata ad aprire la porta di casa al gatto in modo che anche lui si desse da fare, che cercasse un po' di cibo al di fuori delle mura domestiche, scatolette e croccantini, per quel mangione, non bastavano mai. Aveva dovuto scegliere se mantenere il gatto o mantenere se stessa. Giuseppe ogni tanto le lasciava un po' di soldi, mai tanti perché anche lui se la passava mica tanto bene con la cassa integrazione a singhiozzo come la moglie e poi aveva due figli da mantenere agli studi. Irma riusciva a nascondere le sue difficoltà alla famiglia di Giuseppe, non voleva caricarlo di altri pensieri.
L'anziana maestra girava per casa, spostava una sedia, metteva a posto un libro, perdeva tempo, in parole povere. Ogni tanto un'occhiata all'orologio in attesa che arrivassero le tredici. A quell'ora scendeva in strada e si avviava alla fermata dell'autobus che l'avrebbe portata, in poche fermate, in un quartiere vicino dove c'era il mercato rionale. Era diventata un'occupazione che ripeteva tre volte a settimana dopo il quindici del mese, quando i soldini iniziavano a scarseggiare. Arrivava al mercato e si posizionava in uno degli angoli della piazza rettangolare lasciata in eredità alla città dal Duce. Da quella posizione attendeva che i banchi iniziassero a chiudere e verso le quattordici, con la sporta al gomito come si usava un tempo, iniziava il suo percorso. Non rovistava, questo no, ancora non c'era arrivata, ma sapeva dove gli operatori del mercato lasciavano le cassette con la verdura e la frutta non più vendibili e lì si serviva, sceglieva anche con cura. Velocemente faceva il suo giro e velocemente spariva dal mercato senza mai prendere più di quello che le sarebbe potuto servire. Sapeva che dopo di lei sicuramente sarebbero passate altre persone bisognose.
Nonostante ripetesse questa operazione in un mercato di un quartiere a lei sconosciuto e dove lei stessa sarebbe dovuta essere una sconosciuta, non sapeva che era stata notata, casualmente, proprio da uno dei proprietari dei banchi di frutta e verdura. L'uomo aveva visto questa signora vestita dignitosamente, pettinata e pulita e all'inizio si era stupito che prendesse le cose che lui scartava ma che non buttava nei secchioni perché sapeva del "mercato" non ufficiale che si apriva quando loro chiudevano. Gli dispiaceva vedere che la crisi non risparmiava nessuno e che, anzi, sempre più pensionati riducevano le quantità di merce acquistata.
Irma, dopo la sua spesa, tornava a casa e pranzava, con calma, senza preoccupazioni di orario, in fin dei conti era l'ora in cui mangiava anche quando insegnava. Appena finito, puliva la frutta, la metteva nei contenitori e la riponeva in frigorifero. Puliva la verdura, la lavava, la cuoceva e la divideva in due come per la frutta e anche la verdura andava in frigo. Ogni tanto rifletteva sul come si era ridotta, sul perché la sua pensione non le bastasse più dopo tutti i sacrifici che aveva fatto e faceva. Aveva anche messo da parte il cellulare che il nipote le aveva regalato, o meglio, lo aveva sempre con sé ma non lo usava mai per chiamare ma solo per ricevere. Per risparmiare telefonava solo dal fisso a costo zero. Aveva anche preso l'abitudine di prendere i libri in biblioteca, anche se le costava un lungo viaggio in autobus. E proprio leggendo attendeva che arrivasse la sera. Alle diciannove apriva il frigo, prendeva metà della frutta e della verdura, metà del pane comperato la mattina e scendeva di un piano, tirava fuori le chiavi ed apriva la porta del pianterreno. Andava in cucina e metteva frutta e verdura nel frigorifero della vicina. Poi andava nella camera, l'unica a parte la cucina, da letto, prendeva il libro sul comodino e, dopo aver salutato con un bacio l'uomo sdraiato sul letto, iniziava a leggere riprendendo dal punto dove l'aveva lasciato il giorno prima e leggeva fino al ritorno della moglie dell'uomo.
Il fruttivendolo ormai aveva memorizzato i giorni e l'orario della spesa della signora Irma e non sapendo come fare per aiutarla senza recarle offesa, aveva iniziato a lasciare un sacchetto con frutta e verdura buona. Sapeva che lei sarebbe stata la prima visitatrice e che non correva il rischio che altri la prendessero al suo posto. L'uomo aveva l'idea di conoscere la signora delle due, come la chiamava parlando con la moglie. Era convinto che avesse avuto una parte nella sua vita ma non riusciva a focalizzare il dove e il quando. Forte di questa convinzione aveva deciso di scoprire chi fosse e quel giorno, chiuso il banco, si mise in macchina ad attenderla. La segui nel suo percorso verso casa e vide dove abitava. Attese qualche minuto e poi andò a controllare i nomi sui citofoni. Irma C. lesse e gli si affollarono nella mente molti ricordi. La Maestra Irma, ecco chi è, quella che mi diceva sempre che ero uno zuccone perché studiavo poco, che mi arruffava i capelli la mattina quando entravo e all'uscita. La Maestra Irma che mi ha insegnato a leggere e scrivere e far di conto. La Maestra Irma che non ha mai urlato con nessun bambino, nemmeno i più agitati. Con gli occhi lacrimosi, risalì in macchina e tornò a casa.

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