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Alessandro Zarlatti, "Le ulime ceneri dell'Avana"

14 Gennaio 2025 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #luoghi da conoscere

 

 

 

 

Un uomo gettato in un anno indescrivibile, il 2020 all’Avana - città che agonizza nel suo eterno tramonto, tra la pandemia e le ceneri dei suoi fuochi ormai spenti - trova il coraggio di narrare una volta ancora una realtà che si presenta come un interminabile giorno prima della fine. Alessandro Zarlatti torna, forse per l’ultima volta, a dialogare con la sua Cuba, con le sue strade senza uscita, con le sue persone, con le sue maschere, con i suoi ricordi. Questa volta lo fa attraverso una raccolta di racconti che sembrano uscire dall’occhio di un ciclone buio e persistente che si abbatte su un paese senza più risposte. Una cronaca, quasi un diario, di un tempo disfatto e terrificante dove diventa impossibile raccontare il presente se non attraverso le lenti deformanti di un monologo interiore. Raccontare ciò che accade fuori, raccontando ciò che accade dentro, in una continua rimonta tra la tragedia privata e quella collettiva che s’impone, quest’ultima, in crescendo, privando ognuno del diritto di cadere in dolori più intimi e smarrirsi. Sono lontani, ad una distanza incolmabile, i tempi e gli scenari delle prime raccolte di Alessandro Zarlatti, lontane e non più percorribili Alcune strade per Cuba che raccontavano un paese pieno di speranze diventate ben presto illusioni, lontani perfino gli echi malinconici e i residui di sogno di Destino Cuba. Appaiono quelli dei libri scritti secoli fa, improvvisamente inattuali. Con Le ultime ceneri dell’Avana sembra approdare tutto, scenari, uomini, sogni, speranze, amori, nelle latitudini agitate della poesia. E’ quello che resta. L’unico bagliore di divinità che ancora ci abita. L’unico gioiello da portare in salvo dalla casa che va in fiamme. E il libro racconta di un incendio che raggiunge dimensioni e paesi che sono ben più vasti dei confini di una città. La pandemia come una tragedia collettiva che ha avvelenato e messo in crisi gli uomini nei luoghi più riparati della propria individualità. Resta la narrazione cruda di un paese e di un uomo che hanno perso tutte le coordinate e a cui sono rimaste solo le parole per non smettere di raccontarsi e, quindi, di esistere. Le ultime ceneri dell’Avana parla di Cuba come potrebbe parlare di ogni parte del mondo perchè si interroga con ferocia, proprio quando sembrano cadere tutte le risposte, sul senso della nostra presenza e sul senso dei nostri amori. Le ultime ceneri dell’Avana è la settima pubblicazione di Alessandro Zarlatti e la prima nelle collane delle Edizioni Il Foglio.

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31esimo Trofeo RiLL per il miglior racconto fantastico

13 Gennaio 2025 , Scritto da Redazione Con tag #concorsi, #racconto


 

 

Sono aperte fino al 20 marzo 2025 le iscrizioni al 31esimo Trofeo RiLL per il miglior racconto fantastico, concorso letterario organizzato dall’associazione RiLL Riflessi di Luce Lunare, col supporto del festival internazionale Lucca Comics & Games e della casa editrice Acheron Books.

 

Possono partecipare al Trofeo RiLL racconti fantasy, horror, di fantascienza e, in generale, ogni storia sia (per trama e/o personaggi) “al di là del reale”.

Ogni autore/autrice può inviare una o più opere, purché inedite, originali e in lingua Italiana.

Da oltre un decennio i racconti ricevuti sono più di 300 a edizione (nel 2024: 412 racconti), scritti da autori/ autrici residenti in Italia e all’estero.

I racconti possono essere spediti, a discrezione di ogni partecipante, in modalità cartacea oppure elettronica. Per chi risiede all’estero è raccomandata la spedizione in formato elettronico.

I dieci racconti finalisti del 31esimo Trofeo RiLL saranno pubblicati (senza alcun costo per i rispettivi autori/autrici) in un e-book della collana “Aspettando Mondi Incantati”, curata da RiLL e in uscita a ottobre 2025. Inoltre, i migliori cinque racconti tra i finalisti saranno pubblicati (sempre gratuitamente) nell’antologia del concorso (collana “Mondi Incantati”, ed. Acheron Books), che sarà presentata al festival internazionale Lucca Comics & Games (novembre 2025).

Infine, il racconto primo classificato sarà tradotto e pubblicato, sempre gratuitamente, all’estero: in Spagna (sull’antologia Visiones, curata da PÓRTICO – Asociación Española de Fantasía, Ciencia Ficción y Terror) e in Sud Africa (su PROBE, il magazine dell’associazione SFFSA – Science Fiction and Fantasy South Africa). Molti racconti premiati/ finalisti di passate edizioni del Trofeo RiLL sono stati recentemente tradotti e pubblicati anche in Germania (dalla casa editrice Barenklau Exklusiv) e in Polonia (dalla rivista Nowa Fantastyka).

L’autore/autrice del racconto primo classificato riceverà un premio di 250 euro.

La selezione dei racconti finalisti sarà curata da RiLL, valutando tutti i testi partecipanti in forma anonima (cioè senza che i lettori-selezionatori conoscano il nome dell’autore/autrice).

La giuria del Trofeo RiLL deciderà poi, fra i racconti finalisti, quelli da premiare e pubblicare nell’antologia “Mondi Incantati”. Fra i giurati dell’edizione 2024 del Trofeo RiLL: gli scrittori Donato Altomare, Mariangela Cerrino, Giulio Leoni, Gordiano Lupi, Massimo Pietroselli, Vanni Santoni, Sergio Valzania; gli accademici Luca Giuliano (Università “La Sapienza”, Roma) e Arielle Saiber (Johns Hopkins University, Baltimora – USA); l’anglista e saggista Cecilia Barella; la traduttrice Natalia Pola Miscioscia (anche collaboratrice della rivista polacca Nowa Fantastyka); la poetessa Alessandra Racca; i giornalisti ed autori di giochi Andrea Angiolino, Renato Genovese e Beniamino Sidoti.

Ogni partecipante al 31esimo Trofeo RiLL riceverà in omaggio una copia dell’antologia “SI RIPARANO MACCHINE DEL TEMPO e altri racconti dal Trofeo RiLL e dintorni” (ed. Acheron Books, 2024, collana Mondi Incantati), che prende il nome dal racconto vincitore del 30esimo Trofeo RiLL, scritto dal messinese (ma residente in Croazia) Mauro Longo.

Il libro propone quattordici storie: i migliori racconti del 30esimo Trofeo RiLL e di SFIDA 2024 (altro concorso bandito da RiLL) e i racconti vincitori di quattro premi letterari per storie fantastiche organizzati all’estero (in Australia, Portogallo, Spagna e Sud Africa) e con cui il Trofeo RiLL è gemellato.

I libri della collana “Mondi Incantati” sono disponibili su Amazon, Unilibro.it, Delos Store, Mare Magnum, Toscana Libri, oltre che (a prezzo speciale) su RiLL.it

Gli e-book “Aspettando Mondi Incantati”, dedicata ai racconti finalisti del Trofeo RiLL, sono disponibili come kindle su Amazon e, come EPUB, su KOBO, La Feltrinelli e Mondadori Store.

La cerimonia di premiazione del 31esimo Trofeo RiLL si svolgerà nell’ambito del festival internazionale Lucca Comics & Games 2025 (29 ottobre / 2 novembre).

Per maggiori informazioni si rimanda al bando di concorso, all’e-mail e al sito di RiLL (che ospita ampie sezioni sul Trofeo RiLL e le connesse collane di antologie/ e-book).

 

 

Associazione RiLL - Riflessi di Luce Lunare

via Roberto Alessandri 10, 00151 Roma

https://www.rill.it/

info@rill.it

 

 

L’associazione RiLL Riflessi di Luce Lunare è attiva dai primi anni ’90.

La principale attività è il Trofeo RiLL per il miglior racconto fantastico, un premio letterario curato dal 1994 e che ha riscosso un interesse crescente fra gli/le appassionati e gli/le scrittori esordienti.

Dal Trofeo RiLL sono nate tre collane: “Mondi Incantati” (antologie con i racconti premiati in ogni annata di concorsi RiLLici), “Memorie dal Futuro” (antologie personali dedicate agli autori/ autrici che più si sono distinti nei premi organizzati da RiLL) e “Aspettando Mondi Incantati” (e-book che pubblicano i racconti finalisti di ogni edizione del Trofeo RiLL). Le antologie/ e-book curati da RiLL sono tutti realizzati senza alcun contributo da parte degli autori/ autrici.

Sul sito di RiLL sono on line molte informazioni sul Trofeo RiLL e le sue diverse edizioni, sugli altri concorsi e iniziative organizzate da RiLL e un vasto archivio di articoli e interviste.

 

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L'assassinio di una patatina

12 Gennaio 2025 , Scritto da Patrizia Poli

 

Immagine generata con Microsoft Designer AI

 

 

 

Premessa: L'assassinio di una patatina è un racconto poliziesco umoristico che prende spunto da un ammiccante spot pubblicitario delle patatine Amica Chips, datato 2006 ed interpretato da Rocco Siffredi. 

Nella lettura sono presenti giochi di parole, parole inventate, nomi di marchi e di prodotti orientati a conferire una narrazione a tema.

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In un vicolo in penombra, nei pressi del Patata Meccanica, uno dei pub di Cipster City, una patatina stava riversa a terra in un mare di ketchup. Una coppia di vigilantes, Crik e Crok, furono i primi a trovare il cadavere e di conseguenza ad avvertire la polizia.

Gli agenti, a sirene spiegate, arrivarono sulla scena del crimine, già circondata da un nugolo di curiosi. Il commissario Crocco Siffreni, incaricato di risolvere il caso, una volta sceso dalla vettura di servizio, si mise al lavoro esaminando la vittima con attenzione.

«Poveretta, era così bella e così novella!» constatò con amarezza.

La scientifica, secondo una sommaria ricostruzione, stabilì che Patasnella Pizzoli (il suo nome completo in base ai documenti recuperati dentro la borsa) era stata uccisa da una moltitudine di fendenti inferti con una lama acuminata.

Siffreni interrogò Fonzies, il buttafuori del locale, un tipo alto, dal look anni '50. «Ehi, io non so niente!» dichiarò questi con disinvoltura, appoggiandosi a un muro con le braccia conserte. 

Il commissario si rivolse quindi a Potato, l'inserviente ispanico che, tra le varie mansioni, si occupava di gettare i rifiuti nei cassonetti, collocati a una ventina di metri dal luogo dell’assassinio. «No señor! No vi nada!» sostenne costui, scrollando le spalle.

La mancanza di telecamere di sorveglianza rese l'indagine complicata, tuttavia il commissario non si perse d'animo e s'incamminò all'interno del Patata Meccanica semivuoto, per investigare. C'erano quattro avventori, la magrissima Sticki e la rotondetta Ring, le due cameriere, Eldorada la cassiera, McCain il barista e Yonkers, il proprietario. Furono tutti e nove ascoltati. Yonkers apparve irrequieto e si lamentò del fatto che i clienti, approfittando dell'omicidio avvenuto, incuriositi erano scappati senza pagare. L'intuito e l'esperienza suggerirono a Siffreni che quel tizio non gliela contava giusta, ragion per cui si prefissò di insistere su di lui.

All'improvviso, attraverso la vetrata, si focalizzò su una prosperosa figura femminile che lo osservava dal marciapiede. Costei emanava un'aura ambigua e maliziosa.

«Hai notato qualcosa?» le domandò il commissario in modo secco, piombando fuori dal locale e prendendola in disparte. 

«Forse!»

«Che intendi con quel “forse?"»

«Che forse posso aiutarti. Dipende da te.»

«Ho capito l'antifona!» esclamò l’investigatore ed estrasse dal portafoglio una banconota da cento Pai.

«No, non mi interessa il denaro!»

«E allora...» 

L'avvenente tuberina lo interruppe, posandogli un dito sulle labbra.

«Non mi sono ancora presentata. Mi chiamo Dixi San Carlo. Se ti do una dritta, ti andrebbe di passare la notte con me?» propose con fare seducente, rifilandogli nella tasca sinistra del soprabito grigio un pezzetto di carta con su scritto l'indirizzo di casa.

«Con piacere e con più gusto!» rispose Siffreni con un' espressione gongolante da casanova.

La gnocca gli raccontò che, nel mentre consumava un drink sul posto, nonostante il pienone si era accorta che il proprietario, da dietro il bancone del bar, aveva nascosto lesto un coltello nella manica della maglia e, con aria guardinga, si era allontanato in direzione dell’uscita. 

«Porca patata! Lo sospettavo!» pensò il commissario. Rientrò di gran carriera nel locale per tentare un bluff finalizzato a inchiodare l'indiziato numero uno.

«Un testimone ha assistito all'accoltellamento di quella sventurata. Sei fritto!»

«Io non c'entro!» gridò il gestore del pub, ingiallendo.

«Le prove risultano a dir poco schiaccianti. A parte che abbiamo scoperto che conoscevi la signorina Pizzoli, per nostra fortuna l'omicidio è stato filmato con un smartphone.»

L'incriminato scoppiò in lacrime, lasciandosi cadere su una sedia come un sacco di patate.

«Patasnella mi ricattava da tempo, se non le davo duemila Pai al mese, avrebbe spifferato a mia moglie che la riempivo di popcorn con alcune clienti.»

Il commissario annuì, e chiese a Yonkers dove aveva abbandonato l'arma del delitto. Quest’ultimo indicò un tombino non molto distante, all'incrocio tra via Cross e via Rode, per poi essere ammanettato e consegnato a due poliziotti che lo caricarono su una volante.

Alla centrale, Siffreni, dopo aver stilato il rapporto riguardo a quell'indagine lampo, smontò dal turno e si avviò verso l'abitazione della San Carlo, per onorare l'impegno che si prospettava in salsa piccante. Appena suonò il campanello di una villetta illuminata da fari e faretti a luci rosse, sentì dei passi su un pavimento di legno, finché la porta si aprì.

La patatina, calda come non mais, salutandolo a malapena, lo trascinò in camera da letto. In un battibaleno gli slacciò i pantaloni e gli fece un bel croccantino da cui ne seguì una scopatata.

«Ops, ti ho inondata di maionese!» disse Siffreni, strabuzzando gli occhi. 

«No, tranquillo, sappi che assumo la Puff pillola. A proposito: ti è piaciuto?» 

«Io di patatine ne ho ingollate tante, gustose, fragranti. Non ce la faccio a stare senza. Ma nessuna è come te. Fidati di uno che le ha provate tutte. Amica mia sei la migliore.» 

E ricominciarono ad amoreggiare, con radio accesa e con sottofondo la canzone Evviva la patata, evviva chi l'ha creata! di Wacko's Santini.

 

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Silvana Ramazzotto Moro, “Van Gogh, l’uomo”

11 Gennaio 2025 , Scritto da Marco Zelioli Con tag #marco zelioli, #recensioni, #arte, #pittura, #personaggi da conoscere

 

 

 

 

Silvana Ramazzotto Moro

 “Van Gogh, l’uomo”

Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

 

Una nuova, interessante opera su Vincent Van Gogh va ad arricchire la schiera degli scritti sul pittore olandese: è Van Gogh, l’uomo di Silvana Ramazzotto Moro, che Guido Miano Editore propone con quattordici riproduzioni di disegni. Come recita il lungo sottotitolo, l’uomo Van Gogh è “raccontato da lui stesso nelle sue lettere: autoritratto, amore, vocazione mistico-religiosa, rapporti con i genitori e con il fratello Theo, arte, soldi, malattia”.

Il libro si dipana in tredici sezioni, ognuna delle quali individua un aspetto peculiare della vita dell’artista, così come appare dalle lettere scelte dall’Autrice. Si parte dalle lettere che riguardano il celeberrimo Autoritratto, a proposito del quale scrive, in una lettera al fratello Theo: “mi muoverò sempre in una sfera diversa da quella della gran parte dei pittori, perché il mio modo di vedere le cose, i soggetti che voglio ritrarre, inesorabilmente lo richiedono”. Nelle seguenti quattro sezioni si spazia dalla vocazione mistico-religiosa giovanile, alle donne amate nella sua vita (parte ponderosa – quasi 100 pagine – e ‘difficile’, dati gli innumerevoli dubbi e problemi manifestati da Vincent), al non facile rapporto coi genitori e ad i piccoli occasionali screzi col fratello Theo. Le altre sezioni sono centrate sul mistero della vita, sull’arte ed il sogno di un cenacolo di artisti, sui paesaggi, sui colori, su questioni ‘pratiche’ legate ai “maledetti soldi” e sui problemi legati alla malattia, per chiudere con l’arte giapponese e con delle “spigolature” (come questa, particolarmente significativa: “mi viene il desiderio di fare tutto daccapo e di cercare di farmi perdonare il fatto che i miei quadri sono quasi un grido d’angoscia, pur esprimendo in simboli la gratitudine con il rustico girasole”). Quasi tutte le lettere sono indirizzate al fratello Theo (un paio sono di Theo a Vincent), poche all’amico Rappard, alla sorella e alla cognata (spesso chiamata anche lei sorella), pochissime ad altri (all’amico Gauguin, ai genitori - specie alla mamma - ed una al signor Isaäcson).

Questa opera non è un’antologia, ma una raccolta meditata fra le numerosissime lettere scritte dal pittore sulle tematiche delle tredici sezioni; la maestria di Silvana Ramazzotto Moro è proprio nella scelta delle lettere, miniera inesauribile di informazioni: ha individuato alcuni temi esistenziali della vita del pittore ed ha ricercato e riportato i relativi brani delle sue lettere, offrendo al lettore il pensiero autentico dell’uomo Van Gogh. Il risultato è come una storia raccontata dall’Autrice ai suoi otto nipoti, cui il libro è dedicato.

Michele Miano nella Prefazione sottolinea che questo libro non è “un erudito trattato di pittura” o “un atlante d’arte”, ma quasi il ritratto di “un’anima sensibilissima e mai compresa in vita”, un libro che “ci apre le porte di un diverso modo di osservare il mondo per scoprire che la simbiosi dell’uomo con la natura può diventare osmosi, se sappiamo leggere nelle cose la profonda essenzialità poetica”. L’Autrice stessa nella sua Introduzione ci avvisa di non aver riportato giudizi suoi o di altri su Van Gogh, per “far sì che ciascun lettore se ne faccia un’idea prettamente personale e soprattutto autentica”; inoltre confessa che, vedendo le opere di Van Gogh, “per la prima volta gli alberi, l’erba, i campi, i prati, i fiori, la natura tutta mi apparvero come esseri viventi”: un’impressione che ha voluto approfondire, fino a regalarci questa mirabile raccolta. Lei ci presenta Van Gogh non per come è diventato per certa critica superficiale (cioè come un ‘genio pazzo’), ma per come è stato: uomo colto, “lettore e collezionista di volumi e di stampe, attento alle nuove tendenze artistiche del suo tempo”, ma spesso certamente infelice nella sua esistenza. Così si può capire come questa lettura di Van Gogh sia estremamente “preziosa per comprendere la sua arte e per conoscere quale uomo assolutamente eccezionale ci fosse dietro al pittore”. Insomma, una ricerca del ‘vero’ Van Gogh, che muove da lui stesso e non dalle opinioni dei suoi, più o meno favorevoli, critici. Ad esempio, nell’Introduzione è opportunamente sottolineato il pensiero del professor Kraus, all’epoca direttore del sanatorio provinciale di Sanpoort, che aveva a lungo osservato Van Gogh dopo le ‘crisi’ che lo avevano fatto ricoverare, escludendone “alterazioni della personalità” e concludendo come “la visione completamente lucida della sua malattia costituiva un ostacolo insormontabile alla diagnosi di schizofrenia”.

È molto interessante la parte dodicesima, sull’amore di Van Gogh per l’arte giapponese: comprò a poco prezzo molte stampe giapponesi e ne tentò anche il commercio (oltre 600 sono oggi raccolte al “Van Gogh Museum” di Amsterdam). Ne ebbe un’ammirazione infinita, tanto che, trasferitosi ad Arles nella “casa gialla” (dove sognava di fondare una comunità di artisti – cui è dedicata parte della settima sezione del libro), nel 1888 scrisse al fratello Theo che gli sembrava di essere in Giappone: la Provenza diventò il suo Giappone, e lo sfondo di alcuni suoi quadri del tempo riproduce elementi di stampe giapponesi. Infine, è bello e molto significativo che l’opera di Silvana Ramazzotto Moro si chiuda riportando una piccola serie di aforismi tratti dalle lettere del pittore.

Insomma, merito dell’Autrice è di aver scelto, nel mare magnum delle lettere scritte da Van Gogh, le più significative e di aver individuato le tematiche più peculiari; e grazie a questo suo lavoro, riesce ad offrire al lettore uno strumento per comprenderne meglio, e in modo diretto, la vita e i segreti. Operazione riuscita.

Marco Zelioli

 

 

 

Silvana Ramazzotto Moro, Van Gogh, l’uomo, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 376, isbn 979-12-81351-51-6, mianoposta@gmail.com.

 

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Don Giovanni Mangiapane, "Poesie del Santo Rosario e della via Crucis"

10 Gennaio 2025 , Scritto da Marco Zelioli Con tag #marco zelioli, #recensioni, #poesia

 

 

 

Poesie del Santo Rosario e della Via Crucis

Don Giovanni Mangiapane

Guido Miano Editore, Milano 2025.

 

Don Giovanni Mangiapane, sacerdote poeta, ci offre queste Poesie ispirate al Santo Rosario e alla Via Crucis scritte in lingua siciliana con traduzione italiana a fronte. È un’opera poetica e nello stesso tempo un esempio di devozione, che ci guida ad una meditazione fresca (come è fresca e genuina la lingua siciliana), ma assolutamente e rigorosamente valida dal punto di vista pastorale. Le due parti della raccolta si possono considerare come un continuum di riflessioni e di stile.

Del Santo Rosario sono illustrati poeticamente dall’Autore tre misteri: i ‘gaudiosi’ (contemplati al lunedì e al giovedì), i ‘dolorosi’ (al martedì e al venerdì) e i ‘gloriosi’ (al mercoledì, al sabato e alla domenica). Non sono proposti i misteri ‘della luce’, introdotti nel 2002 da San Giovanni Paolo II (al giovedì, con modifica della sequenza delle contemplazioni degli altri tre misteri: i ‘gaudiosi’ lunedì e sabato, i ‘gloriosi’ mercoledì e domenica, rimanendo al martedì e al venerdì i ‘dolorosi’). Tutto è trattato nel pieno rispetto della tradizione della preghiera mariana più nota ed usuale, fin da quando i monaci Cistercensi ne ‘fissarono’ la forma nel Medioevo. Ogni mistero si conclude con due versi che si ripetono per salutare Maria: nei misteri gaudiosi come Madre di Dio, per mezzo della quale l’opera del Padre ha il suo compimento («Ti salutu, Maria, Matri di Diu/ cu tia l’opra sua tutta finiu»); nei Misteri dolorosi come «… Madre Addolorata,/ ai piedi della croce sei piantata»; nei Misteri gloriosi con queste parole: «Io ti saluto, del cielo Regina,/ della gloria di Dio sei tutta piena».

I versi di questo Rosario ci offrono una chiave didascalica efficace e piena di acume interpretativo. Tre soli esempi, uno per ogni mistero, valgono a far tesoro di questa preghiera. Nel terzo mistero gaudioso si ‘vive’ la concitazione del momento che precede la nascita di Gesù: «Nun c’è postu, troppa genti,/ vonnu essiri presenti/ e na grutta li ripara,/ pi l’Eventu di la Storia» («Non c’è posto, troppa gente:/ voglion essere presenti/ e una grotta li ripara,/ per l’evento della storia»): niente di più vicino alla comune vita delle donne e degli uomini di tutti i tempi di fronte ad un ‘lieto evento’. Nel quarto mistero doloroso si rivive in una sola quartina tutta l’angoscia di un’ingiusta condanna e nello stesso tempo si raccoglie un segno della permanente presenza di Cristo nel tempo della vita del mondo: «Nciampà cadì si susì/ la matri la binidicì,/ facci cè ncapu linzolu/ donni avvisò pi cunsolu» («Inciampò, cadde, si alzò,/ la madre là lo consolò;/ c’è un volto sul lenzuolo:/ a voi, donne, così vi consolo»). Nel secondo mistero glorioso, al momento dell’ascensione di Gesù, c’è la succinta ed abile descrizione della vita dei discepoli che non si ferma, ma va avanti con un nuovo scopo: la missione verso tutte le genti attraverso il proprio quotidiano vivere: «Mentri parlava acchianava/ di cori binidicia;/ cu acchianà dopu scinni/ ura è: a li facenni» («Mentre parlava se ne saliva/ e di cuore li benediceva./ Chi è salito dopo scende;/ e ora, alle nostre faccende»).

La seconda parte della raccolta è dedicata alla Via Crucis. Le prime quattordici stazioni, nella traduzione italiana, sono introdotte da una breve meditazione in prosa. Le stazioni sono quindici: è compresa quella della Resurrezione, introdotta nel XII secolo dall’Arcivescovo di Colonia, ma percorsa saltuariamente (l’itinerario tradizionale, quello riportato sulle pareti delle chiese cattoliche in tutto il mondo, si ferma alla XIV stazione con la sepoltura di Gesù). Si ripercorre l’ultimo tragitto di Gesù in Gerusalemme: dopo la condanna di Pilato, caricato della croce, incontra la Madre; poi Simone di Cirene è costretto ad aiutarlo; incontra la Veronica, cui ‘regala’ l’immagine del proprio volto impressa su un velo, e le donne di Gerusalemme, cui dice di piangere su loro stesse e i propri figli e non su di lui. Gesù, messo in croce, parla al ‘buon ladrone’ ed infine alla madre e al discepolo prediletto Giovanni, affidando l’una all’altro prima di esalare l’ultimo respiro. E le tre cadute, e la deposizione dalla croce, e la sepoltura di Gesù che conclude provvisoriamente la vicenda – perché la fine vera non c’è, arrivando la Resurrezione che apre mille e mille vie alla testimonianza cristiana.

In tutto questo tragitto, l’Autore si percepisce compartecipe di ogni vicenda ripercorsa, e sentiamo il suo caldo invito a riconoscerla come ‘nostra’, a meditarla con cuore umile e aperto, a lasciarci sconvolgere la vita da un incontro tanto intenso e vero come quello di Gesù – ancora qui con noi. Una compartecipazione che si propone con tanta discrezione quanta decisione, come, ad esempio, nella seconda e terza quartina della IX Stazione: prima Gesù si rivolge al lettore e poi l’Autore richiama l’attenzione sulla vicenda del Cristo («Ce lo hai detto tante volte,/ timorosi per le svolte:/ “State attenti, non sbandati;/ voi con me siete impastati.”// Nella vita lo facesti,/ con coraggio sempre andasti;/ ma quel giorno hai sudato,/ sangue vivo hai versato»). Una compartecipazione ‘richiesta’: infatti, mentre la preghiera del Rosario è sia personale che comunitaria, la Via Crucis è un gesto per sua natura comunitario. In essa si rivivono le ultime ore di vita di Gesù prima della Resurrezione: ore vissute in mezzo alla gente di allora, coi suoi pensieri e pene, indifferenze e passioni. Un gesto che anche oggi coinvolge chi, come il Cireneo della V Stazione, si trova a passare per caso. Un gesto “pubblico”, al quale l’Autore invita a compartecipare, soprattutto, direi, con la giaculatoria ricorrente che (al posto della tradizionale «Santa Madre, deh! Voi fate/ che le piaghe del Signore/ siano impresse nel mio cuore») suona così: «O Gran Virgini Maria,/ vostra pena è curpa mia» («O gran Vergine Maria,/ la vostra pena è colpa mia»). Tanti altri sarebbero gli esempi, ma è meglio che il lettore li scopra da sé.

Lo schema delle poesie è fisso: nel Rosario c’è la sequenza di quattro quartine di quattro versi, più un saluto a Maria nel distico finale, quasi sempre con rima baciata a due a due. Anche nella Via Crucis i versi sono a schema fisso: tre quartine e un distico finale, quasi sempre con rima baciata, più il “ritornello” di chiusura su citato, uguale fino alla quattordicesima stazione. È uno schema utile alla memorizzazione, che nella traduzione italiana inevitabilmente si perde, anche se c’è il tentativo di conservarlo intatto – ove possibile.

Per quanto riguarda l’uso, voluto, della lingua siciliana per i suoi versi, Don Giovanni Mangiapane ‘gioca in casa’. Non è la prima volta, infatti, che pubblica in Siciliano; e la Regione Sicilia, per promuovere l’uso della lingua isolana e farla conoscere a scuola, ha inserito i suoi Versi Siciliani in due volumi di poesie editi dal Liceo Umberto I di Palermo nel 2024. Da tempo si è abbandonato l’uso del termine di “poesia dialettale”, perché con questa espressione solitamente si sottintende l’uso di una lingua morta. Merito di questo sacerdote poeta è di produrre letteratura in ‘viva’ lingua siciliana, affinché la ricchissima cultura isolana venga tramandata così come è nata, senza ‘traduzioni’.

Le poesie proposte nella raccolta sono state pensate e scritte per essere lette e recitate in Siciliano, e il classico problema dei testi poetici è che, quando vengono tradotti da una lingua ad un’altra, inevitabilmente perdono un po’ del loro fascino stilistico. L’aiuto a comprendere la lingua siciliana ci viene qui dallo stesso Autore, che a fianco del testo siciliano propone quello italiano. Così anche i meno avvezzi alla lingua isolana possono avvicinarsi al senso pieno delle parola scritte. In ciò si è abbastanza facilitati, se si conoscono già gli argomenti stessi delle poesie – cosa probabile, perché il Rosario e la Via Crucis sono preghiere e gesti ben noti alla gran maggioranza dei possibili lettori. Però ci sono parole “intraducibili”, e nel tradurre l’Autore fa ricorso a delle parafrasi. Tuttavia, in certi casi bisogna ‘entrare’ nella lingua originaria per comprendere il significato del tutto, perché ci sono modi di dire che, a chi non conosce la lingua originaria, dicono poco. Ad esempio il “mortorio” del quarto verso della XIV Stazione della Via Crucis è il suono di campane a morto, usato anche, per le “chiamate d’emergenza”. Nel nostro caso, dal venerdì della sepoltura di Gesù alla sua Risurrezione all’alba della domenica di Pasqua, il tempo di un “mortorio” significa una brevissima attesa – nella prospettiva dell’Eterno. Devo questa spiegazione alla cortesia dell’Autore, perché io non ci sarei mai arrivato! Ma, per il resto, tutti i versi in Siciliano sono facilmente godibili e fruibili da chiunque, con l’ausilio della ‘traduzione d’autore’.

Diciamolo pure: questa raccolta poetica vale molto per chi conosce già la sequenza dei Misteri della preghiera del Rosario e per chi già pratica il ‘pio esercizio’ della Via crucis; ma vale anche, e forse ancor di più, per chi non li conosce. Sì, perché la forma poetica (tanto in lingua siciliana quanto nella traduzione italiana) è tanto semplice quanto potente, capace di avvicinare anche chi si accosta solo per curiosità a questi testi di Don Giovanni Mangiapane. Che, in tal modo, esercita la sua missione in bellezza.

Marco Zelioli

 

Don Giovanni Mangiapane, Poesie del Santo Rosario e della Via Crucis, testi in lingua siciliana con traduzione italiana a fronte; prefazione di Marco Zelioli, Guido Miano Editore, Milano 2025, pp. 72, isbn 979-12-81351-52-3, mianoposta@gmail.com.

 

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L’AUTORE

Giovanni Mangiapane, nato a Cammarata (AG) il 24 maggio 1944, è stato sacerdote e parroco della diocesi di Agrigento per cinquantaquattro anni, ordinato il 29 maggio 1970 parroco sino ad ottobre 2023. Ha ricoperto l’incarico di Direttore Ufficio Beni Culturali in Diocesi dal 2002 sino al 2009, dopo avere ricostruito la Cattedrale di Caltabellotta, per le grandi celebrazioni del 7° centenario della pace di Caltabellotta del 31 agosto 1302. Ama scrivere, in lingua italiana e in vernacolo, anche versi, con piccoli messaggi augurali, concorsi parrocchiali, epitaffi, ricorrenze di vita. La Regione Siciliana, nel promuovere il Siciliano come lingua da far conoscere a Scuola ha inserito i suoi versi in due volumi di poesie, Versi Siciliani di Giovanni Mangiapane, edizioni Liceo Umberto I di Palermo 2024.

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Leopardi, il poeta dell'infinito

9 Gennaio 2025 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #serie tv, #poesia, #personaggi da conoscere

 

 

 

Se Leopardi il poeta dell’infinito fosse una qualsiasi serie in costume, mi sarebbe piaciuta. Ma è una serie su Leopardi e non va bene.

La prima puntata si salva: Ranieri che si batte per una degna sepoltura al poeta malvisto dall’intellighenzia e dalla chiesa, il conte Monaldo, superbamente interpretato da Alessio Boni (molto migliorato negli anni come attore), la cui tensione morale e affettiva si rivela da ogni tendine e muscolo facciale, l’austera e terribile madre, felice che il figlio sia malato per poterlo immolare al suo Dio corrucciato. Bello, per dirla in breve, l’inizio.

La seconda puntata lunga, tronfia e quasi inguardabile, con l'improbabile carteggio alla Cyrano de Bergerac fra Raneri e l’Aspasia/Targioni Tozzetti. Passano gli anni e questa sorta di gobbo di Notre Dame rimane troppo giovane, troppo bello, troppo dritto e con lo stesso, anonimo filo di voce per tutto lo sceneggiato (sì, io chiamo ancora così le serie tv e me ne vanto).

Non trovo giusto aver puntato tutto sul Leopardi filosofo, sul suo nichilismo, disfattismo e pessimismo, quando, in realtà, questo “giovane favoloso” era innamorato della vita, dalla quale si sentiva escluso. Ebbene sì, avrebbe rinunciato a tutta la sapienza, a tutta la cultura, alla fama e alla gloria pur di essere come qualsiasi altro. Leopardi amava l’amore e s’infatuava, Leopardi gridava alla luna il suo dolore e la sua rabbia per la cattiveria con cui la natura matrigna si era accanita contro di lui. Insomma, non mi è piaciuto l’aver puntato tutto sulle Operette Morali piuttosto che sui grandi e piccoli Idilli.

La figura del Ranieri, poi, è completamente sbagliata. Da Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi si evince la figura di uno sfruttatore, certo non di un grande, sincero e disinteressato amico, come si vuol far credere qui; il quale non si è battuto perché venisse ricordata la grandezza del genio leopardiano, ma piuttosto le bizzose meschinità di un povero malato: nevrastenia, golosità, piccole cattiverie che sicuramente erano presenti in una figura tanto sofferente e delle quali, però, non c’è traccia nella serie di Rubini.

Concludendo, molto meglio Il giovane favoloso di Martone.

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Benedetta Sanna, "Avere la pazienza del pane"

4 Gennaio 2025 , Scritto da Rita Bompadre Con tag #rita bompadre, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Avere la pazienza del pane di Benedetta Sanna (Eretica Edizioni, 2024 pp. 68 € 15.00) discioglie l'origine del fermento esistenziale mescolando gli ingredienti con un espediente indispensabile per far maturare l'amalgama emotivo attraverso la fragranza dei versi e il profumo della memoria. Benedetta Sanna concede il suo tempo interiore nella preparazione di una riflessione umana, lungo il tracciato delle parole, la qualità panteistica delle immagini, immersa tra isola e città, nella reazione alle avversità e alle difficoltà della vita. Se il pane elabora la pazienza, la poetessa raggira l'antico e proverbiale modo di dire per alimentare l'atteggiamento alla comprensione, la disposizione alla fiducia nella natura e nel suo stupore e alla volontà di percorrere l' evoluzione personale, nella stabilità di tracciare su carta la destinazione della propria anima. I versi delineano le reazioni istintive, provocate dalle aspettative sensibili, fondono l'irrequietezza nelle schegge di lucida immediatezza, scuotono l'affanno della coscienza, persistono nella loro urgenza di espressione, nell'esigenza di trovare un'entità autentica, capace di rivelare l'intensità dell'intonazione elegiaca. La poetessa vive la ragione poetica, coniuga l'esperienza della dimensione estetica di ogni visione del reale nella quotidianità con la pratica di una scrittura meditata nell'attenzione intenzionale alle sensazioni, inaugura la stagione di una fusione spirituale, condensa l'indagine negli affetti e salda la qualità dei componimenti appesi nella sospensione dei ricordi. Benedetta Sanna suggerisce, con l'impeto suggestivo delle sue poesie, l'indicazione interpretativa dell'attesa, come indugio silenzioso e minuzioso nei rapporti relazionali, assiste l'asprezza e la severità degli eventi, evidenzia la dolcezza della speranza e la consistenza dell'assenza. Accoglie nel suo cuore l'avidità insaziabile di trasmettere amore, oltre la rabbia e il dolore, aggira la voragine inaccessibile dello sconforto e l'intuizione indefinibile della malinconia con il significato profondo di una schiettezza urlata e decantata nella vicinanza delle superfici animose e solitarie dei pensieri, oltre l'indolenza del distacco e l'accerchiamento della solitudine. Avere la pazienza del pane ricorda di cogliere l'opportunità di sorvegliare, capire e seguire l'estensione della consapevolezza, proietta il valore del presente nella benignità del tempo che sa sempre restituire gli intrecci della vita scandendoli oltre il frammento dei turbamenti. Benedetta Sanna confessa la fragilità dei rimpianti e la ruvidezza delle separazioni, esprime l'energia coraggiosa della parola, dà senso alla voce sfumata e disillusa della nostalgia, pone la quiete all'inquietudine. Manifesta l'intenzione di dare forma e corpo al grumo indistinto e indecifrabile dei sentimenti, confida nella previsione temporale delle esperienze, fa riemergere la riflessione antica e generativa degli intervalli. Dedica alla risorsa preziosa dell'indulgenza la ripartizione della tensione impaziente, interroga l'anima e ne ascolta il principio vitale, identifica l'eco del rimpianto, le occasioni inesorabili di impastare le fascinazioni e i disinganni del proprio cammino. Benedetta Sanna ci insegna a saper prevedere, ad attendere il tempo necessario affinché le prospettive umane migliorino, a nutrire le trasformazioni e ricevere compiutamente le conseguenze della saggezza popolare: “A chi sa attendere, il tempo apre ogni porta”.

 

Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

 

Al mare basterebbe

sapere che torniamo,

che il viaggio non è breve

ma l'orizzonte lo vediamo:

i contorni del suo volto,

l'isola e il suo solco,

uno sbadiglio nel Mediterraneo.

 

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Se la notte porta il sogno

e nel sogno c'è un consiglio

di saper essere anche io notte,

quando voglio:

una penna che non dubita del foglio.

E io che resto serva del tuo giorno

so bene che ti vedo

solamente alla sua fine,

dove il nero è tutt'uno con la stanza.

 

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Sapessi come te dimenticarmi

dell'affanno dei miei anni,

che invece io pronta ricordo

ogni volta

che scordo l'origine dei venti

e cosa scosse il maestrale

nelle radici,

in quegli occhi tuoi sempre spenti

e le tue spalle come colline,

alle mie pendici.

 

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Solamente scrivendo

posso togliere la rabbia.

Evitare di sputare la tovaglia,

aggredire i tuoi costumi ed usi,

così sporchi e truci

di giostre secolari,

violenze e torti.

Di netto poi trafiggo

dal polso fino al torace

lo spettro sudicio e ingombrante

dell'elefante in una stanza.

 

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Distinguere parole

come rose dalle spine,

tra le mani tue supine

in grado di abbracciare

ogni mio indizio alieno.

Su quella spiaggia bianca e dolce,

dove ancora

dormo e tremo.

 

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Sono arrivate molte cose

negli anni

a salvarmi.
Prima dalla provincia,

poi da ogni mia piccola stanza.

Quasi come un passaggio

di mano in mano

di una chiave

o di un segreto,

e quella devozione.

L'occhio aperto

sulla terra stanca.

Il tuo antico rituale.

 

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Gomitolo di niente,

briciola

scarto

e restanza.

Pregarti voglio oggi

per avere un segno,

da un cielo

il cui colore appena distinguo.

Dal tetto del palazzo,

da un urlo sotto casa.

La notte non ha suono.

 

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In banca

3 Gennaio 2025 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto, #immagini AI

 

Immagine generata con Microsoft Designer AI

 

 

 

Era una tranquilla mattina negli uffici della SicilKas, una banca di Palermo. I clienti erano pochi e le mansioni da espletare da parte degli impiegati non risultavano impegnative.

Guido, il dipendente più anziano, fremeva dentro di sé, difatti in qualche modo teneva a bada l'euforia, d'altro canto quel lunedì 23 maggio 2016 lo considerava un giorno speciale.

Intorno alle undici, prese una moneta da un euro dalla tasca sinistra della giacca e si alzò dalla scrivania per piazzarsi davanti al distributore automatico per la pausa caffè. I colleghi a passi lesti si aggregarono a lui, che iniziò così ad attaccare con alcune battute fritte e rifritte.

Tutti i presenti lo ascoltavano con genuina simpatia, tranne uno: Arnoldo Vizzini, il direttore, un uomo rigoroso e serioso che mal sopportava lo spirito scherzoso del signor Guido, tra cui una ricorrente frase umoristica espressa in quel momento che suonva: «I soldini, in soldoni al soldo mio.»

Costui stette a origliare un po' dal corridoio finché sopraggiunse col chiaro scopo di disperdere la combriccola creatasi, nonché far trasparire quanto gli stesse sul cazzo il "clown" della filiale.

«La Spada, è da trent’anni che ci sorbiamo le sue solite minchiate da... quattro soldi!» sbottò. «Sempre pasta e fagioli, pasta e fagioli, pasta e fagioli…»

«È da trent'anni che anche lei è sempre lo stesso. Eppure non mi sono mai lamentato» gli rispose Guido sardonico, approfittando per togliersi un sassolino dalla scarpa.

I colleghi risero in simultanea e ne seguì un caloroso applauso.

«Fino all'ultimo, Cristo!» borbottò il superiore, allontanandosi dal gruppo per avviarsi verso la toilette.

«Sotto sotto l'hai mandato... a cagare» osservò, ammirata, Margherita la ragioniera.

«Eh, da domani sarò in pensione e vaffanculo al direttore!» le rispose il battutaro, tronfio di aver "incassato" una bella soddisfazione.

 

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L'ultimo ballo

2 Gennaio 2025 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #guseppe scilipoti, #racconto, #immagini AI

 

Immagine generata con PicFinder AI

 

 

 

«Sei ebrea?»

Angela non rispose e rimase a fissare un punto indefinito del pavimento di una piccola casa composta da una stanza malmessa e poco arredata che fungeva da rifugio. Uno strano silenzio regnò incontrastato per alcuni istanti che fu poi spezzato dal fracasso di un bombardamento in lontananza.

Horst Kleine, capitano delle SS, e la giovane infermiera erano i soli sopravvissuti del settimo battaglione, spazzato via dalle forze alleate. L'ufficiale prese un profondo respiro ed estrasse la Luger dalla fondina.

«Immagino che tu sia riuscita a nascondere le tue origini grazie a qualche scappatoia.»

Angela trasalì, indietreggiando d'istinto.

«Kommandant, non occorre, tanto siamo entrambi spacciati.»

Horst sorrise e appoggiò la pistola sul tavolo in legno massello, accanto a del pane raffermo e a una brocca piena d'acqua con due bicchieri.

«Desideravo alleggerirmi da questa inutile ferraglia. In verità non ho mai ucciso nessuno, la divisa che indosso è dovuta alla costrizione di mio padre. Prima di entrare tra le file del Reich, ero un bravo ballerino. Pensa che mi esibivo nei teatri più famosi della Germania» le raccontò con una voce calda e gentile, ma intrisa di malinconia.

Angela si riavvicinò, realizzando che in quell'uomo alto dai lineamenti fini e distesi, dai cortissimi capelli biondi e dagli occhi azzurri come il cielo terso, non vi era traccia di ostilità. 

A ridosso del muro scrostato c'era uno sgabello con un grammofono e un disco inserito. Il militare ruotò la manovella e nel giro di mezzo minuto le note del Tannhäuser, di Richard Wagner, sfarfallarono nella casetta.

«Balliamo!» esclamò Horst, mettendo la mano destra sul fianco sinistro di Angela.

«Io non so ballare...» 

«Ti guido io. Lasciati andare.» 

«Non credo che abbiamo abbastanza tempo» disse la ragazza versando lacrime copiose. «Un sibilo… una bomba sta quasi per colpirci.» 

«Ti prego» insistette Horst con dolcezza «Non voglio ballare da solo.»

Fecero una decina passi, accompagnati dalla musica di una delle opere più belle di tutti i tempi, finché si abbracciarono. Il  boato che seguì fu l'ultima cosa che sentirono.

 

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Il fascino e la pena del vivere nell’arte di Daurija Campana

1 Gennaio 2025 , Scritto da Floriano Romboli Con tag #floriano romboli, #recensioni, #poesia, #arte, #pittura

 

 

 

 

Daurija Campana

Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato

Guido Maino Editore, Milano 2024

 

Una caratteristica della ricerca poetica di Daurija Campana  - ora antologizzata nel volume Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato, pubblicato dalla Casa Editrice Miano -  è il ricorso invero frequente a un sistema di rime, talora evidenti nella loro regolarità (“Socchiudi il sole tra le ciglia scure/ e lascia che il tempo i pensieri pasca/ hic et nunc, tra prati, piane e paure/ hai nascosto le cinque lire in tasca…”, Il canto del cuculo), talora più rare e sfumate (“…Ed io restavo a casa a prepararmi/ per la scuola e pensavo/ quanto avrei desiderato destarmi/ una volta col tuo bacio”, Madre) o magari maggiormente elaborate in un sapiente gioco fonico-ritmico di lontana, ma inequivoca ascendenza dannunziana: “Non piace./ La pioggia che dice/ che tace… Che pace!/ Tra gli orti, contorti/ pensieri distorti/ su vivi e su morti/ che pace, che sensi…/ Che pensi? (…) Sembriamo/ uccelli dagli aurei capelli, fringuelli/ leggeri e soavi/ che lievi/ distendono ali/ sul cielo sereno” (Non piace).

Tale particolarità compositiva implica un effetto di stabilità, di equilibrio armonioso, di indubbia scioltezza formale, pur in presenza di procedimenti costruttivi di segno opposto, quali l’enjambement, rivolto a esiti di “spezzatura”, di frangimento disarticolante la compagine strofica: “…Le tue cangianti vesti non ingannino/ il marinaio che il tuo volto ammira/ non si neghino al folto dei cipressi:/ così lui ti vedrà dalla dimora/ eterna…” (Luna); oppure, più specificamente, come le pause indotte dall’inversione dell’ordine sintattico nell’organizzazione del discorso logico, dall’impiego della figura dell’anastrofe: “Ti alzi, soffio di vita nell’aria/ dorato grano tra spighe e respiro,/ sopra la terra leggera che varia,/ sguardo di cielo immenso blu ammiro…” (Il vento); Il cielo è sereno, cade la pioggia,/ oggi il sorriso è turbato dal pianto,/ il viso riga scendendo la goccia,/ l’animo giace perduto ed affranto…” (Cade la pioggia); “Per te io piansi le lacrime in cuore,/ la giovanile età del gioco/ in cui la gioia dimostravo lieta/ e al sorriso spesso ricorrevo.// Ma poi ti vidi e fu in me il dolore/ che mi sussurrava il tuo sguardo fioco/ mancato sorriso lo sguardo vieta/ e nel guardarti, ricordo, piangevo…” (Amore).

Nondimeno una sollecitazione antitetica anima profondamente la struttura dei testi lirici di Campana. Una nota vitale, uno slancio positivo e proiettivo si precisano come attesa di un incontro morale-affettivo, come desiderio di piena intesa sentimentale, bisogno di integrazione con gli altri e di immedesimazione con il respiro pacificante della natura; questa istanza fiduciosa ed espansiva tende successivamente a contrarsi e a cadere, inappagata e respinta, risolvendosi in scacco emotivo, privazione, rimpianto, dolorosa solitudine: “…E spira il silenzio sopra il mio canto,/ la nuvola bella appare più rosea/ sorrisi sul sole e sui solchi scuri/ in petto il cuor mesto ora riposa” (Cade la pioggia, cit.); “…Continuo a bramar, ogni istante, ogni ora/ che il padre mio, che tanto io adoro/ ritorni da me e resti per ore/ per giocare con la sua bimba ancora” (Re Evandro); “…ma il desiderio seguiva il timore.// Giorni lontani, di gaudio e di festa/ giorni di vita, di spensieratezza/ tutto oggi è perso, come la pula/ che porta via il vento, troppo lontano…” (Mietitrebbia).

Anche nella produzione pittorica dell’autrice si alternano colori vivaci, un cromatismo esuberante e tonalità più cupe, dal blu al grigio: quest’ultimo, ad esempio, domina la rappresentazione del padre, ritratto di spalle sul trattore, figura indeterminata poiché ormai remota e perduta.

Il prefatore Michele Miano acutamente pone in risalto il fatto che la poetessa in varî dipinti “sembra prediligere la figura umana femminile”, riprodotta in atto problematico e pensoso. Aggiungerei che detta figura si staglia su un fondale uniforme e spesso nero, e concentra nello sguardo uno spirito suggestivamente enigmatico e interrogativo, pronto a misurarsi con le prove della vita, ma ad aprirsi altresì alla speranza: “Ti prenderei la mano/ tra spighe meste e campi di fieno,/ e assetata di vita/ correrei al lago, mentre i rossi papaveri/ condurrebbero i passi/ alla quiete…” (Vanessa cardui).

Floriano  Romboli

 

 

Daurija Campana, Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 80, isbn 979-12-81351-41-7, mianoposta@gmail.com.

 

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