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La testa girata all'indietro

30 Settembre 2014 , Scritto da Franco Rizzi Con tag #franco rizzi, #racconto

La testa girata all'indietro

Una domanda a cui non so dare risposta, ovvero tutti gli uomini camminano con la testa girata all’indietro.

Anche all’inizio di questo nuovo anno, il 2014, mi sono sentito rivolgere la solita domanda: <<Perché vai avanti a lavorare?>> In realtà, da alcuni anni, questa domanda me la rivolgono in molti.

Tutte le volte che ho provato a rispondere in modo semplice, magari anche variando gli “ingredienti” del piatto principale, per cercare di essere brillante, mi sono sempre accorto che, ben presto, il mio interlocutore aveva perso interesse alla mia risposta e sviava il discorso su altri argomenti, lo sport, il clima, i viaggi, la politica, le vacanze. Evidentemente questa risposta non la so proprio dare.

Quindi ho sempre finito per restare miseramente in silenzio, mentre altri temi invadevano l’arena dei dialoghi.

Senza volerlo, mi sono ritrovato a guardare indietro, a rivedere la mia vita. Ho cominciato la mia attività lavorativa come ingegnere progettista nell’azienda creata da mio padre. Mi ero appena laureato al Politecnico di Milano e mi sentivo forte come un leone. Erano gli anni dello sviluppo, del miracolo economico italiano e la competizione nazionale era molto dura: per sostenerla bisognava continuare ad acculturarsi, innovare i prodotti e correre veloci. Poi è arrivato il 1969, gli anni della contestazione, una lunga crisi economica e, prima che ce ne rendessimo conto, erano arrivati gli anni di piombo, che sono durati molto a lungo, ben oltre l’uccisione di Aldo Moro. Per sopravvivere bisognava anzitutto rinnovare il modo di approcciare il mondo del lavoro, bisognava cambiare il modo di produrre, aggiornare i prodotti ed allargarsi su nuovi mercati internazionali. La competizione cresceva. Per i “piccoli” la vita era dura: vorrei ricordare una cosa per tutte. Per viaggiare all’estero, a caccia di lavoro, serviva valuta estera e bisognava chiederne un’assegnazione alla propria banca, che veniva poi autorizzata dalla Banca d’Italia. Funzionava più o meno così. Domanda: <<Perché richiedete valuta estera?>> Risposta: <<Per promuovere con viaggi all’estero le nostre esportazioni!>>

Spiegazione del funzionario: <<L’assegnazione di valuta viene concessa solo in proporzione a quanto già esportate.>>

Timida replica: <<In verità esportiamo poco ed è proprio per questo che ne abbiamo bisogno...>> Insomma dialoghi alla “Fantozzi”, cui seguivano erogazioni di valuta con il contagocce. “Quindi se quest’anno andiamo in sud America, in India andremo solo l’anno prossimo.”

Oggi esportiamo il 99% della nostra produzione, come ci siamo riusciti, ancora non so bene come spiegarlo. In quei terribili anni, molte aziende nazionali morivano, ma intanto molti competitori internazionali erano nati e crescevano.

A metà degli anni 70 il mercato era diventato globale. Quando stavo finendo il liceo, la popolazione mondiale era circa 1,8 miliardi di persone, ma al tavolo dell’economia ne erano seduti meno di un terzo. Nel 1976 la popolazione aveva superato i 4 miliardi, ma il numero dei commensali era aumentato in modo più che proporzionale.

Per sopravvivere bisognava innovare e correre veloci. Un’azienda è un corpo vivo: vive dei suoi uomini, del suo know-how e delle sue attrezzature. I dipendenti vanno in pensione e devono essere sostituiti in corsa, perché le nuove leve devono essere preparate ed istruite. Innovare i prodotti ed il modo di produrre sono due facce della stessa medaglia, quindi i reparti di produzione, con il passare del tempo, devono mutare e trasformarsi, ma il tutto deve avvenire mentre si continua a produrre, mese dopo mese, perché mese dopo mese bisogna continuare a fatturare, a pagare i dipendenti e le materie prime. Solo pochi “unti del signore” sono in grado di farlo mettendo uno stabilimento in stand-by e gli operai in cassa integrazione per quanto tempo basta. I “piccoli” no, questo non possono proprio farlo.

Poi gli anni di piombo erano finiti: adesso era il periodo di Vodka Cola, USA ed URSS amoreggiavano, ma dopo un’altra crisi economica, rapidamente era arrivato il crollo del “muro di Berlino” con un nuovo giro di walzer. Ora sì che il mercato era veramente globale!

Forse finalmente si poteva esportare in ogni paese senza restrizioni, ma ben più rapidamente di quanto riuscivamo a farlo noi, erano i paesi emergenti che lo facevano. Altri nostri competitori europei soccombevano, ma alcuni prima di cessare l’attività avevano stretto rapporti di join venture con aziende cinesi che presto sarebbero diventati i nuovi competitori globali. Poi sono arrivati gli anni 2000 e la moneta unica: niente più “lirette” adatte per la ciclica svalutazione competitiva, ma una moneta solida, l’euro. Tanto solida che ormai vale il trenta per cento in più del dollaro.

Come si può ancora esportare? Di nuovo per sopravvivere bisogna innovare, acculturarsi, migliorare il prodotto ed il modo di produrre, in una parola essere migliori dei nostri competitori. In conclusione mi sembra che la ricetta non sia mai cambiata, forse non è cambiata da quando mio padre, per sopravvivere alla guerra, invece di produrre apparecchi di risparmio energetico, era costretto a produrre stufe a segatura e riparare carri ferroviari mitragliati, cannibalizzandone altri: mediamente ogni tre se ne ricostruiva uno. In quel tempo ormai lontano, l’acciaio era contingentato e per ottenerlo bisognava farne richiesta scritta al ministero dell’industria, ma anche firmando con la parola “vincere”, invece di usare la dicitura borghese, “distinti saluti”, a quel tempo bandita, i “piccoli” non ottenevano mai nulla.

Forse la spiegazione del disinteresse di chi mi aveva posto la domanda, stava proprio nel fatto che tutti hanno la testa girata all’indietro, ma nessuno vuole ammetterlo. Ricordarsi come eravamo, forse, non piace neppure troppo. Meglio limitarsi al lamento, invocare i propri diritti, fare una vacanza, magari a Sharm-El-Sheik, senza pensare a cosa accade al Cairo.

Guardare in avanti, comporterebbe vedere uno stuolo di giovani senza lavoro, un’Europa Unita che stenta a decollare e le mille altre cose che tutti dovremmo fare, partendo dal basso, ognuno nel proprio ruolo.

<<Tu invece guardi in avanti?>> mi chiederebbe, a questo punto con una punta di astio nella voce, un lettore che avesse pazientemente letto queste righe. Ecco in verità, nel buio della notte, mi capita abbastanza spesso di guardare in avanti, ma finisco sempre per vedere qualcuno che mi attende in fondo alla strada, là dove la strada finisce.

Ma che vita sarebbe arrendersi a quest’attesa? Cerco di riprendere sonno, magari scrivo qualcosa e poi, la mattina successiva, cerco di ricominciare il combattimento, ma per trovare le armi adatte a farlo, cammino anch’io con la testa girata all’indietro.

Forse è per questo che non riesco a dare la risposta giusta: anch’io, come tutti gli altri uomini, cammino con la testa rivolta all’indietro.

Franco Rizzi. 01-03-2014

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LA GUERRA DEL ’15 di Giani Stuparich

29 Settembre 2014 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #storia

LA GUERRA DEL ’15 di Giani Stuparich

Giani Stuparich (1891-1961), triestino, fu combattente nella Grande Guerra nell’esercito italiano col fratello Carlo, destinato a una tragica fine nel 1916 sul Monte Cengio. Giani verrà invece fatto prigioniero. Nel dopoguerra sarà attivo come scrittore e curatore delle opere del congiunto e degli scritti dell’amico Scipio Slataper. A Carlo dedicò “Colloqui con mio fratello”. Durante l’occupazione tedesca della sua città nella Seconda Guerra Mondiale, venne rinchiuso nella Risiera di San Sabba.

“Al Portonaccio! Al Portonaccio!”: si apre così il diario di Stuparich che parte con i commilitoni dall’omonima stazione di Roma per raggiungere il fronte. Ex-studente a Praga e Firenze e cittadino dell’Austria-Ungheria, si è arruolato nell’esercito italiano. Aveva da poco scritto un saggio sulla nazione ceca, auspicando l’approdo a un assetto federale della compagine asburgica. Ma dopo i fatti di Sarajevo la penna ha lasciato posto alla spada.

All’inizio c’è un certo entusiasmo, sommato alla consapevolezza dell’aver scelto volontariamente l’arruolamento; per Giani (con lui ci sono il fratello Carlo e per qualche tempo anche Scipio Slataper) si tratta di adempiere una missione “sacra”, quella della liberazione delle terre care all’Irredentismo. I soldati avanzano (nella zona di Monfalcone) come “guerrieri e martiri della croce”, con decisione ma anche con levità, complice un nemico che stenta ad apparire. Alla stazione di Mestre si erano visti parecchi feriti, muti, rassegnati, senza più nulla da dire. Eppure pochi giorni dopo, si parla invece di un facile attraversamento dell’Isonzo da parte delle avanguardie e questo lascia sperare in una guerra rapida. Il pensiero di Giani va sempre alla città natale e alla madre; a mano a mano che ci si addentra nel Carso cresce il flusso dei ricordi legati all’infanzia. All’arrivo nelle zone di combattimento i due giovani triestini ricevono la buona accoglienza degli ufficiali che in generale appaiono vicini alle sofferenze dei loro uomini (il colonnello Coppi in un’occasione delicata riuscirà a far sospendere un attacco che sarebbe sfociato in una probabile strage). Essi stessi, consci della differenza tra volontari e coscritti, fanno un passo avanti se c’è qualche missione pericolosa da compiere (si può leggere un interessante resoconto dell’addestramento per i soldati che di notte andavano a far saltare i reticolati nemici con i tubi esplosivi). Non manca però la diffidenza del loro capitano in una specifica circostanza e ciò crea amarezza; chi ha tradito, potrebbe farlo di nuovo, sembrano pensare alcuni commilitoni.

A tratti il diario si fa cronaca minuta dei movimenti delle truppe, degli attacchi, del correre a perdifiato da una postazione all’altra sotto i colpi dell’artiglieria che diventa la voce principale della guerra: “Ad ogni nuovo sibilo che si avvicina, i corpi si raggricciano ancora di più, le teste si ritirano dentro le spalle, sotto lo zaino, cercano riparo tra i corpi dei compagni, frugano nel terreno come per entrarvi”. Siamo sempre a Monfalcone, quando, durante gli assalti, una bomba fa strage di fanti e allora l’incantesimo della guerra rapida e poco cruenta si rompe di netto: “La grande pianura verdeggiante che abbiamo attraversato baldanzosi, in un’aureola di gloria, si restringe in quella buca terrosa di cadaveri”.

Si muore con facilità e senza vedere il nemico. Stuparich nota significativamente che prima di ogni azione ci si deve “ripreparare alla morte”; non ci si è mai preparati definitivamente. Grande è la severità dell’autore verso se stesso; si critica e mette il dito nella piaga delle proprie umane debolezze. Ha voluto la guerra, ma teme di essere ucciso o ferito; quando è di sentinella ha paura di dover fronteggiare e uccidere in una lotta corpo a corpo un singolo nemico, perché nel confronto diretto a quel punto lo vedrebbe innanzitutto come un uomo, spogliato della divisa. All’inizio Giani riceveva volentieri La Voce, con cui aveva collaborato, ma dopo poche settimane il suo umore è cambiato: “Un nuovo numero de La Voce: un mese fa l’arrivo delle Voci mi faceva ancora piacere, sentivo in questa rivista come l’espressione di qualche cosa che m’era vicina, ora invece la sento estranea, una rivista letteraria d’una città lontana”.

Gli attacchi sono inconcludenti e la città natale resta lontana. Anche i compagni sono mutati; la guerra sarà lunga e soprattutto è doloroso avere la sensazione di morire per niente, dato che non si avanza e si fa da quasi inerte bersaglio ai cannoneggiamenti nemici. Tante sono le immagini vive di una scrittura sempre efficace nell’esprimere la vivacità degli scontri: “Il cielo è una lastra sonora”, annota il diarista durante alcuni duelli di artiglieria.

Dopo due mesi gli Stuparich sono già logori come veterani e hanno visto immagini crude come questa: “Vengono giù i feriti, molte barelle. Interrogherei tutti quelli che possono ancora camminare, reggersi da sé, ma basta guardare le loro facce: non una che mostri coscienza di quel che succede; esprimono, ugualmente, una stanchezza cieca, una fatale passività; sono come delle bestie sfinite, vicine a morire, che non desiderano altro che un angolo appartato, per finir tranquille”. A Giani è capitato anche di individuare due uomini che si erano nascosti sotto sacchi di terra in una trincea, sperando infantilmente di non essere scovati; il disgusto in quel caso si è mescolato alla pietà. Subito dopo questo episodio il fratello gli mostra un portafoglio sporco e alcune cartoline quasi illeggibili; forse è quanto resta di un caduto di cui si riesce solo, nella poca luce, a conoscere il nome di battesimo. C’è quindi chi per paura si nasconde e chi muore lasciando di sé solo alcuni laceri e anonimi oggetti. Per quanto diversi, sono aspetti dello stesso dramma.

Proprio in questo contesto cupo arriva improvvisa la nomina a ufficiali per i due volontari; devono raggiungere le retrovie per svolgere dei corsi. Considerano anche la possibilità di rifiutare, per solidarietà verso i commilitoni che resteranno in trincea. Ma alla fine accettano; hanno dato molto, sono stanchi e hanno la percezione che in quel tratto del fronte (le trincee del Lisert) si muoia inutilmente. Il diario si chiude l’8 agosto 1915 con la parola “irraggiungibile”, riferita alla madre del diarista. Già il 18 luglio il giovane aveva scritto: “Non spero più, come nei primi giorni, di poter arrivare d’un balzo a Trieste: quelle erano illusioni che abbiamo scontate”. Il pensiero va fino all’ultimo ai propri affetti e alla propria città. Lasciano il fronte. Durante il viaggio, trovano cordiale ospitalità presso la casa di alcuni amici, lontano dai pericoli della guerra, in un’atmosfera distesa; ma è proprio questo clima familiare a dare una nota di mestizia ai due soldati. In fondo Carlo e Giani scoprono di avere un’identità “sospesa”; il loro travaglio potrebbe concludersi solo con il ritorno a Trieste che per ora resta appunto “irraggiungibile”.

Il diario termina qui, mentre la guerra continuerà, riservando ai due fratelli i fatti terribili del Monte Cengio nel 1916.

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L’altra faccia di Konrad Lorenz

28 Settembre 2014 , Scritto da Lorenzo Campanella Con tag #lorenzo campanella

L’altra faccia di Konrad Lorenz

Konrad Lorenz, una delle personalità più importanti nella storia della Scienza e fondatore dell’etologia, lui il protagonista di questo intervento. Vinse il Nobel per la Medicina, ma l’ambiguità della sua figura riguarda il suo modo di pensare (almeno fin quando non venne catturato e spedito presso un campo di concentramento sovietico Armeno). Ricoprì l’incarico di Psicologo e di Dottore in neurologia presso un ospedale. Lavorava per l’esercito nazista durante la seconda guerra mondiale.

La citazione aberrante in questione è la seguente:

<< Dovere dell'eugenetica, dovere dell'igiene razziale dev'essere quello di occuparsi con sollecitudine di un'eliminazione di esseri umani moralmente inferiori più severa di quella che è praticata oggi. Noi dovremmo letteralmente sostituire tutti i fattori che determinano la selezione in una vita naturale e libera.>>

Sembra una sentenza e per ogni sentenza è prevista un’esecuzione. Lorenz, dopo essersi iscritto al Partito Nazionalsocialista di Hitler, insegnava Psicologia a Konigsberg, emblematica città natale di Immanuel Kant. In effetti non c’è nulla da biasimare o da indignarsi, poiché l’effetto di una ideologia è una sorta d’inglobamento in certi modelli di pensiero, di simbolizzazioni (il più delle volte ricollegabili alle idee di potenza, virilità, purezza), di rappresentazioni fisiche e mentali. In fondo lo diceva anche lui: << Nessuno di noi sospettava che la parola "selezione", nell'accezione data ad essa da questi governanti, significasse assassinio.>> Il sospetto segna un interessamento ma al tempo stesso aziona un meccanismo di disvelamento, di caoticità. C’è un rapporto conflittuale con il padre che lui considera però al tempo stesso “umano”.

Hitler, durante il periodo di carcere, scriveva:

<< Ci si deve render conto di questo: Quando un popolo presenta una determinata somma di altissima energia appuntata ad uno scopo ed è sfuggito definitivamente all'ignavia delle vaste masse, i pochi diventano padroni del gran numero. La storia del mondo è fatta da minoranze, se nelle minoranze numeriche si incorpora la maggioranza della volontà e della forza di decisione. Quindi, ciò che oggi può a molti apparire molesto, è in realtà la premessa della nostra vittoria. Appunto nella grandezza e nelle difficoltà del nostro compito è riposta la probabilità che solo i migliori combattenti si accingano a lottare per esso. E in questa selezione sta la garanzia del successo. In generale, già la Natura prende certe decisioni ed apporta certi emendamenti nel problema della purezza di razza di creature terrestri. Essa ama poco i bastardi. Soprattutto i primi prodotti di incroci, per esempio nella terza, quarta, quinta generazione, debbono soffrire amaramente: non solo sono privi del valore proprio del più nobile fra i primitivi elementi dell'incrocio, ma, mancando loro l'unità del sangue, manca pure l'unità del volere e della forza di decisione, necessaria alla vita. In tutti i momenti critici, in cui l'essere di razza pura prende decisioni giuste ed unitarie, l'essere di razza mista diventa esitante e prende mezze misure. >>

Affermazioni tristemente note che marchiano a fuoco le sorti della vita di Governo, l’inscindibilità tra frenesia ed approvazione popolare, il tema sempre presente del consenso, la tragedia dell’olocausto. Un pensiero simile a quello di Lorenz, esplicitato ancora da Hitler: << Se, per esempio, un individuo d'una razza si unisse ad uno di razza inferiore, ne risulterebbe in primo luogo l'abbassamento del livello in sé, e, in secondo luogo, un indebolimento dei discendenti di fronte agli altri individui rimasti puri di razza.>>

Questo intervento non ha lo scopo di attaccare, di mettere in uno stato soggezione il lettore, ma soltanto di farlo pensare, renderlo più o meno consapevole di una parte di realtà. Dobbiamo essere consapevoli che Lorenz nutriva dentro sé una “bipolarità”, forse scaturita dall’eterno ed insanabile conflitto col padre, sosteneva dei paradigmi (modelli) basati sulla Dottrina nazista, razzisti, pericolosi. È la solita storia dell’esecutore di totalitarismo. È sorprendente rievocare nel 2014 la strategia del nazismo. Per far si che non si ripeta abbiamo il dovere di resistere alle spinte autoritarie di talune forze. Non possiamo permetterci di rimanere in letargo, vivendo un distacco. Kant, fedele sostenitore del Re di Prussia, scriveva: “[…] delle cose noi non conosciamo a priori, se non quello che noi stessi vi mettiamo.”. Si tratta di un monito, di un ragguaglio, al quale bisogna prestare particolare attenzione. R. Michels, in un saggio di sociologia, già nel 1910 avvertiva: “Chi dice Organizzazione dice tendenza all’oligarchia.”.

Documento d'identità di Konrad Lorenz

Documento d'identità di Konrad Lorenz

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LA CASA DI MATRJONA di Aleksandr Solženicyn (1918 – 2008)

27 Settembre 2014 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto

LA CASA DI MATRJONA di Aleksandr Solženicyn (1918 – 2008)

Matrjona è una signora ormai anziana che vive da sola in un piccolo villaggio, durante il periodo staliniano. La sua vicenda è narrata da un ex-soldato che trova ospitalità presso di lei e che viene impressionato dalla sua bonomia e dalla sua umiltà. La donna possiede poco; avrebbe diritto a una pensione, ma nessuno la aiuta a procurarsi la documentazione per fare domanda nel lontano ufficio. Nel villaggio è oggetto di commenti negativi e di maldicenze gratuite. Eppure è sempre pronta a prestarsi per gli altri. Chi le chiede una mano ha sempre una risposa positiva; anche l’arrogante moglie del presidente del Kolchoz ricorre a lei. Matrjona non sta mai in ozio. Accorre e aiuta anche chi la critica alle spalle. Nessuno la paga per il suo lavoro; peraltro è lei che non vuole ricevere denaro. Passano gli anni e alla fine riesce a ottenere la pensione. Potrebbe addirittura considerarsi quasi agiata, visti i tempi di magra. Ora sono i parenti a farsi avanti; divisi in due fazioni, s’insinuano nella sua casa e mettono gli occhi sui suoi beni. Matrjona sopporta e continua a essere attiva e generosa. Capita però un grave incidente ferroviario in cui sono coinvolti alcuni dei parenti e la stessa anziana donna, intervenuta come sempre solo per dare una mano. Matrjona muore e ancora c’è chi si permette di dire che si è andata a cercare quella fine. Poteva non fare nulla e restare a casa, dicono alcuni. I parenti, poco rattristati, si dividono i suoi beni.

Di primo acchito, si potrebbe dire che la donna è solo una persona inerme e sciocca, sfruttata e manipolata dagli altri. Il narratore stesso dice che la donna era “pronta a lavorare stupidamente per gli altri senza compenso”.

Non è la prima volta che la letteratura russa ci presenta figure assolutamente buone; pensiamo a L’idiota di Dostoevskij e al suo protagonista, il Principe Myskin che per l’autore doveva essere un uomo del tutto buono, calato in quella foresta piena di lupi che a volte è la vita. Anche In Delitto e Castigo è una persona umile, la prostituta Sonja, a indicare all’assassino la via del pentimento e della penitenza per salvarsi.

Tornando al racconto, il paese dove vive la protagonista è un piccolo universo in cui grettezza e avidità dominano. Il terribile disastro ferroviario sta a indicare l’inefficienza dei pubblici poteri. Nessuno crede che nel miglioramento della comunità ci sia anche la propria crescita personale. Anche questo è il segno del fallimento dei piani di costruzione di una nuova società armoniosa, nella quale ciascuno avrebbe dovuto trovare nelle occupazioni collettive la realizzazione di sé. La meschinità e l’avarizia di epoca zarista sopravvivono ancora; molti passi ricordano da vicino il nostro Giovanni Verga e le sue novelle in cui è la roba il fulcro di ogni aspirazione e di ogni azione.

In realtà Matrjona rappresenta una figura astorica che va oltre ogni specifica società, visto che applica un codice di principi assurdo e irragionevole in pressoché qualsiasi contesto; infatti mostra generosità verso chi sembra non meritarla, non si fa pagare, lavora più per gli altri che non per sé. Si tratta di un’icona di virtù che pratica il bene in ogni circostanza, con zelo ma senza fatica perché non le costa nulla seguire la sua natura. La protagonista è una riserva di valori etici che in fasi di sbandamento offrono ancora una speranza di salvezza per tutti: “Le eravamo vissuti accanto, ma non avevamo capito che lei era il Giusto senza il quale, come dice il proverbio, non esiste il villaggio. Né la città. Né tutta la terra nostra”. La società si può risollevare grazie a risorse morali interiori e non tramite una nuova organizzazione calata artificialmente dall’alto sulle comunità.

Il suo sacrificio è quindi fecondo di conseguenze positive; assistiamo quasi a una Passione, visto che sopporta e soffre fino a morire per gli altri e solo dopo la sua morte, come sul Golgota, le persone aprono gli occhi, iniziano a capire e scoprono che l’infinito può essere molto vicino.

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I promessi sposi al tempo di Whatsapp

26 Settembre 2014 , Scritto da Mari Nerocumi Con tag #mari nerocumi, #erotismo

I promessi sposi al tempo di Whatsapp

Una delle più gran consolazioni di questa vita è l’amicizia; e una delle consolazioni dell’amicizia è quell’avere a cui confidare un segreto. Ora, gli amici non sono a due a due, come gli sposi; ognuno, generalmente parlando, ne ha più d’uno: il che forma una catena, di cui nessuno potrebbe trovar la fine. Quando dunque un amico si procura quella consolazione di deporre un segreto nel seno d’un atro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione anche lui. Lo prega, è vero, di non dir nulla a nessuno; e una tal condizione, chi la prendesse nel senso rigoroso delle parole, troncherebbe immediatamente il corso delle consolazioni. Ma la pratica generale ha voluto che obblighi soltanto a non confidare il segreto, se non a chi sia un amico ugualmente fidato, e imponendogli la stessa condizione. Così, d’amico fidato in amico fidato, il segreto gira e gira per quell’immensa catena, tanto che arriva all’orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato intendeva appunto di non lasciarlo arrivar mai. Avrebbe però ordinariamente a stare un gran pezzo in cammino, se ognuno non avesse che due amici: quello che gli dice, e quello a cui ridice la cosa da tacersi. Ma ci son degli uomini privilegiati che li contano a centinaia; e quando il segreto è venuto a uno di questi uomini, i giri divengon sì rapidi e sì moltiplici, che non è più possibile di seguirne la traccia.

Vi ricordate il brano che vi ho citato a quale romanzo appartiene? Non è un’interrogazione a scuola, se non lo sapete pazienza… ve lo dico io:

I promessi sposi” di Alessandro Manzoni.

Ebbene a me è successo esattamente quello che spiega con dovizia di particolari la voce fuori campo del romanzo ma non con due promessi sposi, bensì con due in via di separazione.

Il fatto inizia così: mia mamma mi racconta che “lei” (una che conosco ma non approfonditamente) da un po’ di anni capisce di trovarsi sull’orlo di una crisi matrimoniale e non sa a chi dare la colpa e i resti.

Non va da un medico perché lei non è “pazza”… e dopo tre anni, quando decide finalmente di farlo, addirittura si ricovera una settimana… (o fai 1 o fai 90 si dice dalle mie parti).

Ora durante questo ricovero auto-coatto “lei” trova spazio per leggere un romanzo osé che le ha prestato una mia amica e per farsi una sveltina in ospedale con un infermiere di turno.

Nel raccontare questa cosa a mia mamma (sempre per dare la colpa a qualcuno o qualcosa) “lei” cerca di giustificarsi per l’atto commesso (senza che nessuno glielo avesse chiesto) dicendo che si trovava sotto l’effetto di farmaci e in preda ad allucinazioni causate dal libro osé.

Naturalmente mia mamma mi raccomanda di non far trapelare un fiato… di questa confessione… “è un segreto tra me e te” mi dice.

Ed io: “certo mamma ma che so’ scema io…”

Al ché una sera che cazzeggiavo su Whatsapp mi scrive la mia amica (quella che ha prestato il libro osé) per sapere quando ci saremmo riviste quest’estate…

Io non sapevo se lei sapeva della storia raccontatami da mia madre (ma immaginavo che lei sapesse perché abita nello stesso palazzo della fantomatica depressa) perciò tra una battuta e l’altra, conoscendola come una casta e giudiziosa (tipo Agnese, la mamma di Lucia nel romanzo, così tanto per attenerci allo spirito letterario), per sfotterla un pochino le chiedo: Ahò ma che libro hai dato a “cosa” per indurla in tentazione?

Segue una lunga pausa… (per la precisione dieci minuti… con ‘ste app ormai il Grande Fratello siamo noi stessi e poi pretendiamo pure la privacy…)

A un certo punto visualizzo un “Cheeeee?”

In preda al raptus che ti prende quando puoi spifferare qualcosa che credi che il tuo interlocutore non sappia, le scrivo un papiello con dovizia di particolari e le racconto tutto quello che mi aveva confessato in segreto mia mamma…

E lei come l’Agnese del romanzo mi risponde: “ ma dai… mica bisogna mettere in atto ciò che uno legge!!! Se poi lei confonde la fantasia con la realtà… fatti suoi…”

E poi cambia argomento tanto da farmi dimenticare di chiederle il titolo del libro “galeotto”…

A questo punto signore mie, sembra che il romanzo sia finito… inenarrabili invece sono i risvolti che il segreto svelato prende…

Col telefonino della mia amica ci gioca spesso la figlia che è amica del figlio della fedifraga dal segreto spifferato.

Una sera che questa ragazzina si trovava a casa sua, avendo con sé il cellulare della mamma, ha aperto Whatsapp e la fedifraga ha letto per intero davanti al marito (cornuto e mazziato, poraccio!!!) udite-udite la conversazione mia e dell’Agnese…

Vi lascio immaginare il putiferio che ne è conseguito…

1-“Lei” chiama mia mamma per telefono e la cazzea in malo modo senza spiegare come era venuta a saperlo…

2-Mia mamma chiama me e mi cazzea in malo modo senza spiegarmi come la fedifraga fosse venuto a saperlo …

3-Io in preda alla monta dell’incazzatura al cubo mi precipito a chiamare l’Agnese e a cazziarla in malo modo per essersi lasciata sfuggire queste piccole e insignificanti informazioni…

4-L’Agnese (che poi tanto Agnese non è) decide di non cazziare in malo modo la figlia (e meno male) ma di non affidarle più il cellulare con tanta non chalance…

Almeno io la traccia l’ho tenuta

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Hyperion Cantos parte 1

25 Settembre 2014 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #saggi, #fantascienza

Hyperion Cantos parte 1

Premessa:

Questo è il primo di due articoli piuttosto lunghi e la logica suggerisce di ridurre al minimo interventi inutili, in particolare quando si affronta un argomento tanto delicato, John Keats, sul quale il lettore non ha alcuna ragione di prendermi sul serio. Il motivo è semplice: a me la poesia non piace. Meglio eliminare ogni dubbio fin da queste prime righe. Escluso pochissime eccezioni, e Keats non è fra queste, fra noi non è mai scoccata la scintilla.

Se state ancora leggendo, vi starete forse chiedendo perché intendo parlarvi di qualcosa a cui non mi sono mai veramente avvicinato. Per la risposta bisogna tornare indietro di oltre vent'anni: è il 1989 quando Dan Simmons pubblica il primo romanzo della saga I canti di Hyperion. Definirlo un successo è riduttivo: Hugo e Locus Award come miglior romanzo, finalista al Arthur C. Clarke e British Science Fiction Association Award e altro ancora. Al primo romanzo, Hyperion, seguirono La caduta di Hyperion, Endymion e Il risveglio di Endymion. Qui, nel viaggio di sette pellegrini, nella nascita di Aenea, Colei Che Insegna, nel suo viaggio in giro per l'universo con Raul, è racchiuso tutto Keats.

Si potrebbe obiettare che la fantascienza, e di tutte le sue incarnazioni la space opera è la più pulp, non ha alcun collegamento con il pensiero di uno dei massimi poeti della storia. Eppure. Eppure il viaggio epico tra empatia, morte e sofferenza, un viaggio verso l'ignoto in cerca della verità è Keats. Il viaggio di Aenea e Raul, amici, amanti, ribelli, reciproci protettori di una identità fatta di mente e cuore e carne e sangue è ancora Keats.

Troverete molte imprecisioni. È impossibile parlare di Keats in modo esaustivo in due articoli. È impossibile parlare in modo esaustivo in due articoli di una saga lunga diverse migliaia di pagine. Combinare i due argomenti è un incubo di scelte e di revisioni.

Infine, un ringraziamento a tutti i siti da cui ho attinto informazioni e mi hanno dato accesso ai testi originali di Keats, poetryfoundation.org e john-keats.com su tutti.

Hyperion

Hyperion è la prima delle opere mature di Keats, iniziata nel 1818 e mai conclusa. Il poema racconta la caduta dei Titani e l'ascesa degli Dei dell'Olimpo, in particolare la caduta di Iperione, l'ultimo dei Titani e Dio del sole, in favore di Apollo, anch'egli Dio del sole ma anche della musica e della poesia.

La storia inizia dopo la battaglia tra i due schieramenti, quando fra i Titani regna lo sconforto: immobili, disorientati, riescono solo a piangere la sconfitta. L'ambiente è specchio dei personaggi, raccolti in un luogo lontano dalla luce e dal calore, silenzioso, dove persino il tempo sembra fermarsi. La loro sofferenza emotiva si traduce in una incapacità di agire, in un rifiuto stesso dell'azione che amplifica il senso di stasi. L'ultima speranza è rappresentata da Iperione, l'unico a non essere stato sconfitto ma che già pre-sente il suo destino.

Il consiglio dei Titani rappresentato nella seconda parte del poema, nato come un tentativo di proseguire la battaglia, diventa un'ammissione di fallimento. Il momento chiave è il discorso di Oceano, che esorta i propri compagni a riconoscere il cambiamento come parte dell'ordine naturale, e conclude lodando la bellezza del nuovo Dio del mare, Nettuno.

La terza e ultima parte narra l'ascesa a divinità di Apollo in una cerimonia presieduta da Mnemosine, Dea della memoria e membro dei Titani. Durante la cerimonia vengono “riversate nei grandi spazi della memoria” (libro III, verso 117) di Apollo una lunga serie di conoscenze (“Nomi, fatti, oscure leggende, disastrosi eventi, ribellioni,/Glorie, voci regali, agonie,/Creazione e distruzione...”, Libro III versi 114-116). L'effetto di queste conoscenze è di trasformarlo in divinità immortale.

Gli dei dell'Olimpo riescono nell'impresa di prendere il posto dei Titani perché la loro superiore conoscenza permette una migliore comprensione della sofferenza umana. Per Keats è un elemento fondamentale: il poeta deve aver provato dolore e perdita per poterli trascendere al momento dell'atto creativo e creare così bellezza attraverso la poesia. Per questo motivo la cerimonia in cui Apollo, rappresentato con una lira per ricordare il suo legame con la poesia, ascende a divinità immortale è una rappresentazione del poeta stesso che, attraverso la conoscenza, riesce a elevarsi a uno stato superiore.

Importante anche sottolineare come il poema porti avanti due temi, uno legato al futuro e ai nuovi dei, ricco di connotazioni positive, e uno legato al passato dei Titani, statico e perso in una disperazione fine a sé stessa.

I Canti di Hyperion

Glossario:

Le Tombe del Tempo sono edifici in grado di trasportare chi vi entra nel passato o nel futuro. Il loro funzionamento non è chiaro, fino al momento del pellegrinaggio finale al quale il lettore assiste, le Tombe non sono mai state attive, ma la loro presenza causa tempeste temporali dovute all'anomalia che rappresentano.

Lo Shrike è una creatura metallica alta circa tre metri, dotata di quattro braccia e un corpo ricoperto di spine particolarmente lunghe e acuminate, in grado di muoversi a velocità sovrumana e uccidere con facilità impressionante. La sua figura è diventato oggetto di culto da parte di un'organizzazione, la Chiesa della Redenzione Finale, che si riferisce alla creatura con l'appellativo di ‘Signore delle Sofferenze’ o ‘Avatar’. La Chiesa è anche responsabile del pellegrinaggio alle Tombe del Tempo, residenza dello Shrike.

L'Egemonia è la grande confederazione di pianeti che raccoglie la maggior parte degli esseri umani dell'universo. Nel suo insieme conta alcune migliaia di pianeti e rappresenta il governo centrale di un intero braccio della Via Lattea.

Gli Ouster sono un gruppo di esseri viventi di aspetto umanoide che vivono al di fuori dello spazio civilizzato dell'Egemonia e si sono adattati all'ambiente esterno attraverso numerosi esperimenti di ingegneria genetica e ibridazione del proprio corpo con nanotecnologie. Queste modifiche, rese necessarie dall'ambiente in cui vivono, hanno trasformato i loro corpi, rendendoli grotteschi rispetto agli altri esseri umani che hanno mantenuto il loro aspetto originale. La grande differenza tra i gruppi Ouster e gli abitanti dell'Egemonia nasce dall'approccio all'ambiente circostante: quando un nuovo pianeta viene colonizzato dall'Egemonia viene terraformato, ovvero il suo ecosistema viene distrutto e sostituito con un altro simile a quello terrestre. Gli Ouster, al contrario, si adattano alle condizioni di vita esistenti senza alterare il nuovo ecosistema.

Il TecnoNucleo, o semplicemente Nucleo, è un insieme di Intelligenze Artificiali (IA) senzienti prive di forma fisica il cui ruolo principale è quello di aiutare gli umani in molti aspetti della loro vita quotidiana. È di competenza del Nucleo la gestione della sfera-dati (simile alla nostra rete internet, ma su scala spaziale), accessibile da qualunque pianeta dell'Egemonia, le comunicazioni via Astrotel, istantanee perché gli impulsi viaggiano a velocità superiori a quelle della luce, i portali Teleporter, un sistema di teletrasporto tra tutti i mondi dell'Egemonia. Al Nucleo è anche da attribuire la creazione del motore Hawking, tecnologia che sfrutta le teorie di uno scienziato terrestre del XX secolo per permettere alle astronavi di spostarsi a velocità superiori a quelle della luce.

Inoltre, il Nucleo ha anche altri obiettivi da perseguire. In particolare la sua attenzione è rivolta alla realizzazione dell'Intelligenza Finale (IF), una divinità artificiale in grado di suddividere qualsiasi possibilità in variabili, analizzarle e prevedere con esattezza il futuro. Il Nucleo sa che il suo progetto IF avrà successo perché, potendo l'IF superare i limiti temporali, riceve un messaggio da parte del Dio-Macchina, in cui si rivela l'esistenza di una seconda IF di creazione umana, un paradosso logico, e di una guerra in atto tra le due Intelligenze. L'IF umana è composta di tre parti, ma una di queste rifiuta di proseguire la battaglia e si separa, ponendovi termine, e viaggia indietro nel tempo. Questo è l'obiettivo delle IA del Nucleo: recuperare la parte dell'IF umana in fuga, ricongiungerla alle altre due e far riprendere la battaglia.

Parte I

Se si potesse riassumere il lavoro di Simmons in una frase, si direbbe che racconta la caduta di un ordine sociale e la nascita di uno nuovo, superiore al precedente perché basato su una conoscenza superiore della natura e della vita. Non a caso, questa frase è anche una buona spiegazione degli avvenimenti del poema Hyperion. Il primo libro dei Canti, intitolato proprio Hyperion, è stato modellato secondo alcune delle caratteristiche del poema, a cominciare dalla sua natura epica. Sette pellegrini vengono selezionati tra milioni di candidati per recarsi alle Tombe del Tempo sul pianeta Hyperion. Una volta a destinazione, il loro compito è aspettare la loro imminente apertura e presentare allo Shrike le loro richieste. Secondo la leggenda, solo una delle richieste verrà esaudita. Il destino dei pellegrini dopo l'incontro con lo Shrike, che il loro desiderio venga soddisfatto o meno, è ignoto. Il viaggio si svolge sotto la costante minaccia di un attacco Ouster verso il pianeta e il generale pericolo di una guerra imminente capace di impegnare l'Egemonia per molto tempo.

Le basi e i simboli per un racconto epico sono tutte presenti: la profezia, il viaggio, il coinvolgimento di un'entità sovrannaturale (Shrike), il destino del mondo (Egemonia) messo a rischio da una forza esterna e malvagia (Ouster), la scelta del numero dei pellegrini, sette, numero sacro in ogni religione, e molte altre ancora, su tutti i progetti del Nucleo, centrali in ogni passaggio ma ancora sconosciuti al lettore in questa fase del racconto.

Poiché Simmons ricalca e rivisita i contenuti di Keats, il suo Hyperion inizia da una situazione statica, per quanto paradossale. Se il pellegrinaggio dà un senso di movimento e propone un obiettivo, il raggiungimento delle Tombe, i pellegrini sono confusi dalla situazione e tutti legati a situazioni emotivamente dolorose nel recente passato. A peggiorare questa situazione, questi eventi sono le ragioni per cui sono stati scelti, nonostante nessuno di loro si riconosca nella Chiesa della Redenzione Finale. La decisione da parte dei protagonisti di raccontare come siano stati scelti per il viaggio rafforza la sensazione di stasi: per quanto l'azione si svolga in avanti e in molti casi sia ricca di tensione e colpi di scena, gli eventi sono passati, mentre il viaggio procede lentamente. Proprio come i Titani si domandano cosa li ha fatti cadere, i pellegrini si domandano qual è il loro ruolo, cosa li rende i candidati giusti per un viaggio da cui potrebbero dipendere i destini dell'umanità.

Interludio:

Lenar Hoyt è il sacerdote incaricato di scortare padre Durè, archeologo, etnologo e teologo gesuita vicino alle posizioni di San Pierre Teilhard de Chardin, su Hyperion per poi tornare in Vaticano, su Pacem. Padre Durè perse credito per aver mentito sui risultati di alcuni scavi archeologici sul pianeta Armaghast ma, prima di essere colpito da scomunica, chiese di essere inviato su Hyperion. Qui padre Durè incontrò una tribù primitiva portatrice del crucimorfo: simile a un parassita, si installa sul petto della creatura ospite e permette la resurrezione fisica del corpo, causando allo stesso tempo il degrado delle capacità mentali e sessuali. Anni dopo padre Lenar Hoyt viene inviato su Hyperion per avere notizie di padre Durè. Sul pianeta trova il diario dell'archeologo in cui narra la sua scoperta del crucimorfo, e poi padre Durè stesso, in fin di vita. Quando partecipa al pellegrinaggio, Lenar Hoyt è portatore di due crucimorfi, il proprio e quello appartenuto a padre Durè.

Fedmahn Kassad è un ex colonnello della FORCE, le forze speciali dell'esercito dell'Egemonia. Durante il suo addestramento con i simulatori virtuali conosce e si innamora di una donna misteriosa, Moneta. Per tutta la vita cerca di incontrare nuovamente la ragazza, certo che sia reale, nonostante l'abbia conosciuta nelle realtà simulate dei programmi di addestramento. In carriera prende parte ad alcuni degli eventi più importanti e sanguinosi della storia dell'Egemonia, in particolare l'invasione Ouster di Bressia Sud. Proprio Kassad viene incaricato di riconquistare il pianeta e riportarlo sotto il controllo dell'Egemonia.

Martin Sileno è l'unico essere vivente a essere nato sulla Terra, si mantiene in vita con i trattamenti Poulsen, in grado ringiovanire chi vi si sottopone, e con periodi di crio-fuga, in cui il corpo invecchia di pochi mesi quando il resto dell'universo invecchia di anni. Parla sempre in modo volgare, è spesso ubriaco, ha usato la chirurgia estetica per modellare il proprio corpo a quello di un satiro ed è il più grande poeta dell'Egemonia. Dopo un periodo in cui la sua fama è andata scemando si è trasferito su Hyperion insieme ai primi coloni, qui ha eletto lo Shrike a propria Musa e ha cominciato a scrivere un poema ancora incompleto intitolato I Canti di Hyperion.

Sol Weintraub, è ricercatore e insegnante presso il Nightenhelser College sul Mondo di Barnard, si occupa di storia e cultura classica e di ricerche sull'evoluzione etica. Sua figlia Rachel, archeologa, ha fatto parte di un'equipe di ricerca su Hyperion il cui obiettivo era studiare le Tombe del Tempo, in particolare l'edificio noto come Sfinge, nella speranza di capire la loro origine. Mentre si trovava sola all'interno dell'edificio venne colpita da un'anomalia temporale che ha provocato una strana malattia, il Morbo di Merlino: Rachel, giovane donna di ventisette anni al momento dell'incidente, comincia a invecchiare al contrario, regredendo un giorno alla volta. Al momento del pellegrinaggio è una bambina di pochi mesi trasportata dal padre verso Hyperion e le Tombe del Tempo.

Brawne Lamia, unica donna fra i sette pellegrini, è originaria del pianeta Lusus e lavora come investigatrice privata. Un giorno riceve la visita di un cliente che si presenta come Johnny. Il cliente rivela subito di essere un cìbrido, ovvero un tipo di androide in cui è stata impiantata una personalità umana. Gli esperimenti con questo tipo di androidi avevano portato a vari incidenti e si pensava fossero stati tutti eliminati. In Johnny è stata impiantata la personalità di un poeta del XIX secolo, John Keats. Johnny chiede a Lamia di indagare su un omicidio di cui lui stesso è la vittima, e si dice convinto che gli autori del primo delitto abbiano intenzione di ripetersi. Nel corso dell'indagine Lamia e il cìbrido Keats si spostano tra i bassifondi di Lusus, zone commerciali e turistiche di vari pianeti e, con l'aiuto di un hacker lusiano, a viaggiare fisicamente nel TecnoNucleo. Nella girandola di rivelazioni e colpi di scena c'è spazio anche per l'inizio di una relazione tra Lamia e il suo cliente, le cui conseguenze costringeranno la donna ad affrontare il pellegrinaggio incinta. Prima di mettersi in viaggio il cìbrido rimane ucciso e la sua personalità si trasferisce nell'unità di memoria impiantata sulla tempia di Lamia.

La caduta di Hyperion

Questo secondo poema è una revisione di Hyperion cominciata da Keats nel 1819. La voce narrante è quella del poeta che dapprima spiega come tutti possano sognare, poi come i sogni del poeta siano superiori ai sogni altrui e infine, trovandosi all'interno di un sogno in una foresta lussureggiante, scopre i resti di un banchetto. Bevendo il vino il poeta raggiunge un altro mondo, grigio e freddo, davanti a una scala che conduce a un tempio. Qui risiede Moneta, nome romano della Mnemosine di Hyperion, e attraverso le sue memorie il poeta, e quindi il lettore, conosce la storia della caduta dei Titani.

Questa revisione sposta l'attenzione del poema verso tre particolari temi: la natura del vero poeta, la capacità di sognare e la sofferenza umana, mentre viene eliminata la componente di speranza presente nella prima versione. Di particolare rilevanza per comprendere il legame con la saga di Simmons sono il primo e il terzo punto.

In una lettera del 1818 indirizzata a John Hamilton Reynolds, Keats paragona la vita umana a un palazzo dalle molte stanze, delle quali il poeta sostiene di poterne descrivere solo due:

La prima in cui entriamo la chiameremo la Camera Senza Coscienza o dell'Infanzia, nella quale rimaniamo fino a quando non siamo in grado di pensare. Restiamo in questa camera per molto tempo, malgrado le porte della seconda camera rimangano aperte, mostrino una luce brillante, non siamo interessati a dirigerci verso di essa; ma alla fine siamo spinti in modo impercettibile dal risveglio di questo principio di pensiero dentro di noi – nel momento in cui entriamo nella seconda camera, che chiamerò la Camera dei Pensieri Primi, allora rimaniamo intossicati dalla luce e dall'atmosfera. Non vediamo altro che meraviglie, e pensiamo di lasciarci andare al piacere di quel luogo per l'eternità. Ad ogni modo, tra i vari effetti di di questa atmosfera, c'è anche quello, tremendo, di mettere a fuoco la vera natura dell'uomo, del convincere [la persona che si trova in questa stanza] che il mondo è pieno di infelicità, dolore, malvagità, malattia e oppressione; in quel momento la Camera dei Pensieri Primi si scurisce e su ogni suo lato molte porte si aprono – ma tutte scure – tutte verso passaggi oscuri. Non vediamo l'equilibrio tra bene e male, siamo circondati da una nebbia.

Una volta raggiunta la seconda stanza, il vero poeta sa che il mondo è lontano dall'essere un luogo felice e inizia a esplorare quei passaggi oscuri. Questa è la posizione del poeta-narratore nella revisione di Keats: nel sentire il dolore di Moneta per la caduta dei Titani suoi compagni, nel partecipare al suo dolore, il narratore è obbligato a conoscere la sofferenza della Dea ma anche a comprendere come la sua infelicità sia anche una premonizione dell'infelicità del mondo.

I Canti di Hyperion (parte 2)

Il secondo volume della saga, La Caduta di Hyperion, inizia con i pellegrini fermi alle Tombe del Tempo in attesa della loro apertura. L'aggravarsi della tensione tra Ouster e Egemonia porterà a un conflitto aperto nel quale rimarranno coinvolte anche le Tombe. Una serie di interferenze dello Shrike conducono i pellegrini nelle più svariate direzioni, a volte attraverso impossibili viaggi dall'aspetto onirico, altre volte limitandosi a spaventare e costringere a spostarsi i pellegrini da un'area all'altra, altre volte attaccandoli in modo diretto. Inoltre le particolari condizioni della zona, afflitta da maree temporali generate dal paradosso delle Tombe, complicano ulteriormente la situazione.

Mentre le speranze per l'Egemonia vanno scemando e il conflitto sembra trasformarsi in un massacro su entrambi i fronti, alcune componenti del Nucleo rivelano al Primo Funzionario Esecutivo (PFE) dell'Egemonia Meina Gladstone i progetti di alcune IA facenti parte di una fazione nota come Volatili. Questi hanno sfruttato per anni le capacità cerebrali degli esseri umani, di fatto rubandole per un certo periodo, furto reso possibile dalla tecnologia teleporter: ogni utilizzo permette alle IA dei Volatili di sfruttare gli umani come parte di un immenso computer biologico. La reazione è violentissima: un attacco con le bombe a raggi della morte viene orchestrato, gli ordigni vengono indirizzati verso i teleporter e fatti esplodere prima che ne escano. L'attacco provoca la morte di miliardi di IA, la distruzione del sistema teleporter e la fine dell'Egemonia.

I pellegrini riescono a sopravvivere fino all'apertura delle Tombe fra mille pericoli e problemi, non ultimo un nuovo viaggio all'interno della sfera-dati, reso possibile dalle Tombe e dalla personalità Keats salvata nella memoria di Brawne Lamia. All'apertura delle porte compare una ragazza, Rachel Weintraub, alla stessa età del momento in cui è stata affetta dal Morbo di Merlino, già incontrata da altri con il nome di Moneta e di cui tutti hanno sentito parlare dal Colonello Kassad. Al momento dell'incontro tra Moneta, Brawne e Sileno, ore prima rispetto al momento dell'apertura, la ragazza partecipava al corteo funebre in onore del Colonnello, che verrà seppellito all'interno delle Tombe dopo la sua battaglia contro le IF del futuro. Rachel si avvicina al padre e a sé stessa bambina e li conduce nel futuro, dove la piccola crescerà e, tra i vari ruoli e volti che assumerà nel corso della storia, diventerà Moneta.

Durante il secondo viaggio all'interno della sfera-dati Brawne e la personalità Keats incontrano una IA, Ummon, e il dialogo fra i tre è fondamentale per comprendere la portata del conflitto, lo stesso che è destinato a combattere Kassad. In particolare, Ummon parla delle differenze tra le due IF:

La nostra IF abita gli interstizi

della realtà /

eredita questa casa da noi

suoi creatori come l'umanità ha ereditato

amore per gli alberi \\

...

La vostra accidentale Intelligenza

sembra essere non solo il gluone

ma la colla \\

Non un orologiaio

ma una sorta di giardiniere Feynman

che rassetta un universo illimitato

con il rozzo rastrello ricapitolatore di storie /

pigramente annota ogni caduta di passero

e ogni giro di elettrone

pur consentendo a ogni particella di seguire qualsiasi possibile

pista

nello spazio-tempo

e a ogni particella di umanità

d'esplorare ogni possibile

fessura

d'ironia cosmica”

Secondo Ummon, e per estensione le IA del Nucleo,

“...

non c'è bisogno di un tale giardiniere

poiché tutto ciò che è

o fu

o sarà

inizia e termina dalle anomalie

che rendono la nostra rete teleporter

simile a punture di spillo

e che spezzano le leggi della scienza

e dell'umanità

e del silicio /

legando tempo e storia e ogni cosa che è

in un nodo autocontenuto senza

limite né orlo \\”

L'Intelligenza Finale vuole regolare queste anomalie generate dai

“...capricci

della passione

e dell'accidentalità

e dell'evoluzione umana

L'IF umana è composta da tre elementi – anche questa è una definizione di Ummon, parte dello stesso monologo qui parzialmente riportato – Intelligenza, Empatia e Vuoto Legante. Se i primi sono concetti noti a tutti, il Vuoto Legante è diverso e allo stesso tempo inscindibile dagli altri. È Sol Weintraub, novello Abramo costretto a sacrificare la sua unica figlia allo Shrike, il primo a intuire cosa sia il Vuoto Legante. Ossessionato per tutta la sua vita dal rapporto tra uomo e Dio, Sol pensa allo Shrike come fonte di dolore. Venuto a conoscenza della conversazione fra Lamia e Ummon, ritiene lo Shrike un'esca per stanare la parte di Empatia dell'IF umana che rifiuta la battaglia. Secondo Sol, la macchina non può capire che empatia non è solo reazione al dolore altrui, che empatia e amore sono inseparabili, e che se Dio si evolve, allora si evolve verso l'empatia. Ne consegue che “l'amore, questa cosa fra le più banali, il cliché più usato nelle motivazioni religiose, aveva maggior potere della forza di coesione nucleare o dell'elettromagnetismo o della gravità. L'amore era queste forze. Il Vuoto Legante, l'impossibile cosa sub-quantica che trasportava dati da fotone a fotone, era, né più né meno, amore”. Il Vuoto Legante è amore, ed è alla base dell'universo stesso, fa parte del tessuto della materia, è la sua forza d'unione.

Sol è l'unico a esprimere questi concetti – il ruolo di studioso rappresenta un ottimo espediente narrativo per permettere a Simmons di sceglierlo come portavoce – e si può intuire come il pellegrino sia nella stessa situazione del poeta-narratore del poema: sa cos'è la sofferenza umana, sa cos'è il dolore, rappresentato dallo Shrike, ed è costretto non solo ad accettarlo, ma ad abbracciarlo, a diventarne parte. In questo momento di satori, un termine usato nei volumi successivi che indica nella tradizione buddhista l'esperienza di osservare la vera natura delle cose, è in grado di esplorare i corridoi bui ai lati della Camera dei Pensieri Primi e capire qual è la natura del mondo, capirne la bellezza. Sol non conosce la verità, ne vede una parte (e infatti la sua definizione non è precisa, come si scopre nel quarto volume) nel momento in cui trascende il proprio dolore e osserva il mondo con gli occhi del poeta.

Si può notare un altro parallelismo tra i due poemi e i due libri: il tema della speranza. Il pellegrinaggio è la possibilità di cambiare la propria condizione infelice, per quanto bassa sia la probabilità o scettico il pellegrino, è una presenza costante durante il viaggio narrato nel primo volume. Anche per questo motivo i sette protagonisti condividono le loro storie: solo raccontandole possono mettere a fuoco i loro desideri e, allo stesso tempo, trovare altre persone con cui condividere la loro sofferenza. Il secondo volume è concentrato solo sulla sofferenza umana, quella dei pellegrini e quella dei cittadini dell'Egemonia, messi in pericolo dalla guerra e le cui vite vengono sconvolte oltre l'immaginabile dalla distruzione della rete teleporter e dalla fine dell'Egemonia.

Il secondo volume si conclude con la nascita della figlia di Brawne, Aenea. Rimarrà con la madre e Martin Sileno su Hyperion fino all'età di dodici anni, poi entrerà a sua volta nelle Tombe del Tempo per uscirne tre secoli più tardi.

Deep in the shady sadness of a vale	 Far sunken from the healthy breath of morn,	 Far from the fiery noon, and eve’s one star,	 Sat gray-hair’d Saturn, quiet as a stone,	 Still as the silence round about his lair;	 Forest on forest hung about his head	 Like cloud on cloud. No stir of air was there,	 Not so much life as on a summer’s day	 Robs not one light seed from the feather’d grass,	 But where the dead leaf fell, there did it rest.	     A stream went voiceless by, still deadened more	 By reason of his fallen divinity	 Spreading a shade: the Naiad ’mid her reeds	 Press’d her cold finger closer to her lips.

Deep in the shady sadness of a vale Far sunken from the healthy breath of morn, Far from the fiery noon, and eve’s one star, Sat gray-hair’d Saturn, quiet as a stone, Still as the silence round about his lair; Forest on forest hung about his head Like cloud on cloud. No stir of air was there, Not so much life as on a summer’s day Robs not one light seed from the feather’d grass, But where the dead leaf fell, there did it rest. A stream went voiceless by, still deadened more By reason of his fallen divinity Spreading a shade: the Naiad ’mid her reeds Press’d her cold finger closer to her lips.

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Anche gli uomini fingono (a letto)!!!

24 Settembre 2014 , Scritto da Mari Nerocumi Con tag #mari nerocumi, #erotismo

Anche gli uomini fingono (a letto)!!!

Oggi vi scrivo perché ho fatto una scoperta a dir poco sconvolgente e che alla mia veneranda età grida vergogna!!!

Vi ricordate il post scritto qualche tempo fa che si intitolava “Quando gli uomini dicono di No al sesso”?

Vi ricordate che vi elencavo le prime tre scuse che gli uomini usano puntualmente per declinare un assatanato invito A LETTO da parte nostra?

E vi ricordate che il post si concludeva con l’assunto da parte di noi pollastre che siccome abbiamo voluto la bicicletta dell’emancipazione ora ci tocca pedalare da qualche altra parte quando riceviamo un NO alla richiesta di mettere in pratica una nostra fantasia XXX rated?

Ebbene, signore mie, ho scoperto da una recente ricerca che ci sono uomini che non solo non dicono di NO ma che addirittura fingono per accontentare la propria donna a letto. Tutti sanno che le donne sono in grado di fingere a letto, ma che esistano uomini che, non solo accettano (col rischio di fare cilecca, perché parliamoci chiaro, gli uomini che accampano scuse lo fanno solo per questa paura) ma che addirittura si prendono la briga di FINGERE il coinvolgimento, il desiderio e nel momento clou anche l’orgasmo… mi lascia davvero sconcertata…

Molti credono che sia più difficile per un maschio fingere l’orgasmo rispetto ad una donna perché è visibile e tangibile la produzione della “gioia”, in realtà questo non è del tutto vero soprattutto quando l’uomo indossa il preservativo e anche quando se ne fa a meno e non si pratica il coitus interruptus.

Può darsi che questa notizia fosse già di ampio dominio pubblico ma avete presente il modo di dire “rimanere a bocca aperta”?

Mi hanno fatto una statua dopo che ho letto la notizia!!!

Questo sì che è un comportamento tipico degli uomini di una volta mi sono detta e a dirla tutta lo trovo davvero spiazzante.

Ora sta di fatto che la ricerca americana pubblicata sui media internazionali, racconta di uomini che fingono perché vogliono mettere fine a un rapporto sessuale di cui non avevano voglia. Infatti il 25% degli intervistati dichiara di aver finto l’orgasmo per terminare al più presto il rapporto.

Ho pensato che forse qualcuna di noi potrebbe sentire odore di presa per il culo da un atteggiamento simile (perché anche noi donne ne sappiamo qualcosa… sulla mancata lealtà nei confronti del partner in tali circostanze…) ma non dimentichiamo care amiche che ci sono uomini oggi che pretendono di essere corteggiati come le donne, che si piacciono talmente tanto che si fanno le sopracciglia… che a un certo punto li vedo e mi chiedo se portano la gonna di jeans o a fiori…

Ed è per questo motivo che questa ricerca mi sconvolge tanto, la realtà è che mi risulta davvero difficile pensare che un uomo oggi possa adottare un atteggiamento così genersoso diciamo soprattutto tra le lenzuola.

Secondo la ricerca infatti, “il pensiero comune che gli uomini vogliono sempre fare sesso fa sentire i maschi sotto pressione. Un uomo in un rapporto si preoccupa della sua compagna a differenza di quello che tutti credono. Nella testa del maschio fingere un orgasmo è una forma di gentilezza”.

A dire la verità anche a me sembra un gesto davvero carino tra la moltitudine di egoismi che lasciamo a briglie sciolte nei nostri rapporti di coppia e soprattutto un gesto da non sottovalutare. Il fatto che almeno tre uomini su dieci fingano l’orgasmo per evitare di lasciare scontenta la propria compagna… è roba degna della nostra chicklit e che scrittori/scrittrici del genere non abbiano ancora pensato di inserire una scena di tale portata in un prorpio romanzo, è davvero inconcepibile…

O sono troppo Harmony-addicted?

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LA GROTTA di Giani Stuparich

23 Settembre 2014 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto

LA GROTTA di Giani Stuparich

Giani Stuparich (1891 – 1961) scrittore triestino, ci ha lasciato un’ampia produzione legata in buona parte alla sua città, al Carso (in cui combatté nella Grande Guerra), all’Istria. Con il racconto La grotta vinse nel 1948 il primo premio per l’Epica alle Olimpiadi di Londra.

“Andavano con passo gagliardo, con la sicurezza d’animo di quelli che si sentono in pochi ma uniti. Il ritmo delle sei scarpe ferrate faceva echeggiare le strade deserte”. Inizia così il racconto La grotta, letto nell’edizione Einaudi.

Delio, Renzo e Lucio progettavano da tempo di scendere lungo una grotta da loro scoperta. Si sono attrezzati per esplorarla. Ci vuole coraggio, ma anche preparazione. Ci troviamo nel Carso, quindi “a casa” dello scrittore Stuparich. Tra i tre giovani c’è affiatamento, ma anche una certa competizione. Lucio è piuttosto timido; i suoi amici invece appaiono più risoluti e determinati. Ma l’avventura diventa presto una tragedia; Delio e Renzo precipitano nel buio della grotta. Lucio è l’unico a salvarsi; sconvolto dal dramma, deve cercare aiuto. Il villaggio più vicino è molto lontano e il ragazzo è a piedi. Da qui in avanti il giovane è travolto dall’indifferenza delle persone che incontra. Il campionario di reazioni che trova è simile a quanto a volte si sente anche oggigiorno quando capita una disgrazia. Non c’è nessuna mobilitazione per cercare i due sfortunati ragazzi. Si decide che fino all’intervento dei pompieri non si potrà fare nulla. Questa scelta procura sollievo a tutti perché “salva” la domenica e giustifica l’inerzia e il disinteresse. La società distratta dagli impegni del giorno di festa trova in questo comodo atteggiamento una forte unione che mette insieme giovani e anziani. Meschinità ed egoismo dominano. D’altronde è domenica e nessuno ha voglia di occuparsi di cose tragiche. Solo un’insegnante permette al ragazzo di telefonare ai pompieri. Il resto della giornata il superstite lo passa in una piazza, in attesa; ha corso, ha brigato, ha lottato duramente per scuotere la gente. Ora non può più fare nulla. Resta in disparte, mentre dalle case proviene il rumore delle posate e delle chiacchiere del pranzo.

Diversi sono gli spunti di questo racconto. Davanti a un evento luttuoso che riguarda gli altri e che richiede un’impegnativa mobilitazione, è facile celarsi dietro frasi di rito come “Se la sono cercata”, oppure dietro il paravento dell’autorità cui si demanda l’effettivo intervento, in attesa del quale non si fa niente. Solo la maestra è solidale col ragazzo che in quella domenica rappresenta “il portatore di tragedia” con cui non si vuole avere a che fare, anteponendo la propria tranquillità a tutto. L’unico risvolto positivo è che Lucio in quella giornata è cresciuto; ora ha perfino una ciocca bianca, è maturato, è un adulto, ha abbandonato la timidezza e si è battuto strenuamente da solo per cercare aiuto. Ha manifestato un carattere determinato che prima non aveva. Il dolore porta conoscenza, come dicevano gli Antichi Greci.

La sua iniziazione alla vita è stata triste e dura: “Il cuore gli picchiava alle pareti del petto come il pendolo in una cassa vuota”. Nei suoi pensieri, mentre in piazza attende l’arrivo dei pompieri, c’è la riflessione sul suo futuro. Dovrà in un certo senso spiegare perché lui è ancora vivo a differenza dei compagni e per quali ragioni oscure il destino lo ha salvato. Questo aspetto si lega alla vita di Giani Stuparich, volontario nella Grande Guerra in cui perse l’amico Scipio Slataper e l’amato fratello Carlo, suicidatosi nel 1916 sul Monte Cengio per non essere catturato dagli Austriaci. Dei tre giovani triestini, volontari di guerra e collaboratori della Voce di Prezzolini, rimase solo Giani; come Lucio nel racconto, sentì probabilmente anche lui l’esigenza di dover giustificare, dopo il conflitto, il fatto di essere tornato a casa da solo, provando il fardello del sopravvissuto che può essere alleggerito, forse, soltanto dal tempo. Lo scrittore farà ricorso anche alle armi del pensiero e della letteratura, scrivendo in ricordo di Carlo, I Colloqui con mio fratello.

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Marco Milone, "Le stagioni della memoria"

22 Settembre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #poesia, #recensioni

Marco Milone, &quot;Le stagioni della memoria&quot;

Le stagioni della memoria

Marco Milone

Narcissus, 2014

Sembrano trascorsi secoli da “Dove va il mondo” e “Anime nude” a “Le stagioni della memoria”, terza silloge di poesie di Marco Milone, non perché ci sia un cambio di rotta stilistico o contenutistico, ma per come, non conoscendo l’età dell’autore, si potrebbe qui pensare ad un artista anziano. Milone, invece, è un trentenne senza speranze, senza illusioni leopardiane: “giammai vedrò sorgere il sole”, “di speranze irrealizzabili m’illudo, “e non ci rimane altro” .

Difficile smettere di illudersi, attendere, sperare, anche quando la vita passa davanti e non siamo in grado di saltarci dentro, anche quando essa sembra appartenere agli altri, scorrere di là da un vetro, anche quando soggiaciamo alla regola di un “si passivante” che ci rende non autentici; è difficile perché, nonostante l’atteggiamento stanco e demotivato, giovani lo si è davvero e la speranza non vuol morire: “So che non arriverai eppure son qui e aspetto”, “illusione di un futuro, di qualcosa che non giunge.”

Se tutto il meglio pare ormai alle spalle, pure la memoria non è dolce, non è consolatoria, ha stanze oscure, ancora da svelare, e noi vorremmo essere come bruti per non avvertire il peso dell’esistenza. Il futuro non c’è, è come se fosse già stato esperito, lasciato indietro: “rievoco il futuro”, e rievocarlo vuol dire farne memoria e non aspettativa, trasformarlo in qualcosa che non ci sarà mai perché c’è già stato, perché sarà uguale al presente, e così le “luminose strade” del possibile saranno cancellate dagli “oscuri labirinti” di una memoria congelata.

Ricorrono le parole “sommerso”, nel senso di avviluppato, appesantito, e “oscuro”, inteso come inconoscibile ma anche doloroso, ansiogeno. I riferimenti leopardiani sono tanti, fra stelle, ginestre, dolore senza uscita, caduta delle illusioni. I temi sono i soliti in Milone: solitudine, morte, incomunicabilità ma anche, soprattutto, memoria.

Si spargono i semi

della polvere

Nei tempi che furono

Rivedo la vita, rievoco

Il futuro. Una branda,

un giaciglio da cui percorrere

ancora ancora

le strade del passato

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#lapostadisibilla

21 Settembre 2014 , Scritto da Mari Nerocumi Con tag #Mari Nerocumi, #lapostadisibilla

#lapostadisibilla

Grazie all’arrivo in redazione di diverse lettere e richieste di lettori con problemi d’amore nasce questa nuova rubrica dedicata a chi osa mettere a nudo i propri sentimenti…

Stai parlando della Posta del cuore mi direte… ma da Sibilla cumana dei giorni nostri decido di slegare la matassa dei sentimenti che si affollano nei nostri animi e di non ricucire solo cuore affranti, da Sibilla Cumana dei giorni nostri, incapace di pronunciare oracoli tipo Ibis redibis non peribis in bello (le famose tavolette sibilline il cui ordine decretava il futuro) preferisco avere l’ultima parola sulla vastità di emozioni che ci assale ogni giorno e che nonostante l’intuizione ci avvisi della loro presenza non riusciamo a riconoscere.

In fondo il mondo che ci circonda è come le quattro tavolette sibilline su cui vita e amore si intersecano e per trionfare devono passare attraverso la risoluzione di strani enigmi.

Affidate quindi i vostri cuori alla voce di una Sibilla che, né vecchia né decrepita, né giovane né inesperta, ma intrisa di esperienze legate a feelings’ affair, attraverso questa rubrica cercherà di infondere coraggio in chi ha paura di parlare dell’amore senza cedere alle mode, di ricordare che incontrarsi è divino e non perdersi è umano e che per non perdersi basta imparare a mettere nel giusto ordine le tavolette della vita.

Se siete persone desiderose di ricomporre il puzzle dei vostri sentimenti e della vostra storia d’amore potete scrivere a sibillarispondea@gmail.com

Per chi non fosse a conoscenza del mito, secondo la leggenda, Apollo aveva promesso alla Sibilla cumana, una donna in grado di predire il futuro secondo la tradizione attraverso un foro praticato in una grotta, di esaudire qualunque suo desiderio in cambio del suo amore, ella gli chiese di poter vivere altrettanti anni quanti erano i granelli di sabbia che poteva tenere nella sua mano. Trascurò, tuttavia, di domandare al dio anche l'eterna giovinezza, che Apollo le offrì in cambio della sua verginità. In seguito al suo rifiuto la Sibilla Cumana iniziò ad invecchiare e a rinsecchire fino ad assomigliare ad una cicala e a essere appesa in una gabbia del tempio di Apollo, a Cuma e di cui sopravviverà solo la voce. Alla Sibilla viene attribuito un modo di parlare... detto sibillino attraverso cui è possibile dare una duplice interpretazione ai fatti.... così da non aver mai torto....

La prima lettera, o meglio il primo enigma della tavola dei sentimenti, ce la invia un anonimo che si chiede se sia possibile che una donna si possa innamorare del proprio capo. Purtroppo il nostro amico non specifica se il capo è lui o se sua moglie l’ha cornificato col suo capufficio. Nel primo caso, se si tratta di lui, oserei dire che il nostro amico è un tantino ingenuotto a non sapere il fascino che può esercitare il proprio superiore su una donna. A tal proposito mi è venuto in mente un film che ho visto qualche tempo fa “Secretary” di Steven Shainberg che racconta le varie fantasie sessuali che ruoli quali capo e segretaria possono suscitare sia nell’uomo che nella donna soprattutto per il divertimento erotico che può venirne fuori. E a questo proposito data la tua ingenuità ti consiglio di vederlo senza nemmeno scomodare le tavole per un responso. La commedia finisce anche con un happy end ma in the real life non è sempre così.

Infatti caro amico se appartieni alla schiera dei cornuti cornificati dalla moglie col capo, non ti stai divertendo, anzi ti stai chiedendo come sia potuto succedere a te, proprio a te e ti chiedi se una donna possa innamorarsi del proprio capo perché vuoi ingoiare a tutti i costi questo rospone che tua moglie ti ha rifilato per cena.

In questo caso le tavole le scomodo ma la risposta non è così allegra…

Che tu scelga di perdonare o di buttarti alle spalle la storia con tua moglie, ti aspetta una lunga salita e solo se riuscirai ad arrivare in cima potrai ficcare la tua bandierina sul terreno…

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