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storia

Gabriella Frenna, "Regina Nefertiti"

2 Aprile 2024 , Scritto da Tito Cauchi Con tag #tito cauchi, #recensioni, #poesia, #storia, #personaggi da conoscere

 

 

 

 

 

Gabriella Frenna

 

REGINA NEFERTITI

Mosaici di Michele Frenna

 

Sono certo che ai lettori di varie testate culturali e di arte, non passi inosservato il nome di Gabriella Frenna, sia perché è scrittrice e poetessa (o poeta, come si vuole che si dica), sia perché il suo nome è lodevolmente legato a quello del padre, maestro mosaicista Michele Frenna che cito per la reputazione guadagnatasi (Agrigento 10 luglio 1928, Palermo 5 ottobre 2012). Stavolta la Nostra si ispira alle composizioni mosaicali richiamanti l’antico Egitto e precisamente la Regina Nefertiti, dalla quale l’opera poetica, che trattiamo, prende titolo e immagine di copertina.

Marco Zelioli, prefatore di Regina Nefertiti, fa un breve cenno anagrafico di Gabriella Frenna (messinese di nascita ma palermitana di elezione) e riferisce che i mosaici sono realizzati con minuti tasselli di vetro policromo che, per la perfezione compositiva, sembrano creare opere pittoriche e, soprattutto, sottolinea che ella “trae ispirazione” dal padre. Quanto alla forma afferma: “Colpisce subito il lettore come le poesie di Regina Nefertiti alternino con leggerezza i riferimenti al passato remoto (l’antica “mirifica” civiltà egizia), a quello prossimo (il padre che “incanta” le figlie col racconto delle meraviglie di quella civiltà”); mi sembra un modo alquanto succoso ed esaustivo.

Il critico inoltre, riferisce che Angela Ambrosini, a sua volta, afferma che la forma dialogica dei versi rende attrattiva la lettura e la descrizione delle opere musive, e le narrazioni storiche e leggendarie sono coinvolgenti. E con Enzo Concardi, conclude dicendo che la raccolta costituisce “un itinerario, oltre che letterario ed artistico, anche spirituale, culturale, storico, entrando in un’avventura non scevra da dimensioni oniriche (…), cioè con lo sguardo sempre meravigliato” dell’Autrice; meglio non poteva dirsi.

La raccolta comprende circa sessanta componimenti che confermano quanto sopraesposto in merito ai contenuti e alla scelta del prosimetro (ovvero di prosa e versi insieme). Come è detto in premessa Gabriella Frenna svolge un excursus storico e insieme leggendario sull’Egitto, al tempo dei faraoni, lo fa con leggerezza espositiva pregevole che merita essere ripercorsa. Descrive la posizione geografica dell’Egitto attraversato dal sacro fiume Nilo dall’altopiano del Sahara fino al Mediterraneo, fiume che ha fatto la grandezza dell’Impero Egizio già tremila anni avanti Cristo, grazie alle piene ricorrenti che fornivano acqua alle popolazioni e alle coltivazioni. Questo raccontava Michele Frenna affascinando e facendo fantasticare le giovani figlie.

Il greco Erodoto di Alicarnasso (V sec. a.C.), primo storico, descriveva già le sfingi che sembrano ancora oggi delle sentinelle regali; sono monumenti di grandi proporzioni con testa umana e corpo di leone. Nella cultura ellenica le sfingi venivano interrogate, per ricevere un responso; esse davano risposte enigmatiche che originavano drammi e tragedie come quella riguardante Edipo in terra tebana in Grecia (fra i massimi tragediografi si veda Sofocle, sempre nell’età classica).

Questa Regina Nefertiti offre a Gabriella Frenna una sorta di percorrenza memoriale al seguito del genitore per momenti vissuti e per luoghi visitati e fantasticati, come nel museo del Louvre e la piramide di vetro a Parigi. È la stessa Autrice che ammette: “Mi piace retrocedere/ in storia millenaria/ per carpire la vita/ del popolo egiziano.” (p.26), e scoprire il mistero affascinante, provare la grande ammirazione che suscitano le famose piramidi e le strutture architettoniche che ancora oggi stupiscono. Riconoscere il valore del Nilo, alle cui rive numerose colonne formavano una “foresta di pietra”; alle sue piene si legava l’anno suddiviso in tre stagioni. Veniva stimolata a scoprire l’aura misteriosa e sacrale, la simbologia arcana, la scrittura enigmatica di un’antica civiltà.

 

***

 

Finalmente eccoci (al XIV sec. a.C.) alla “storia di Nefertiti/ regina e sposa amata/ dal faraone Akhenaton” (p.56), che ruota intorno al sole divinizzato con il nome di Aton; difatti il marito Amenofi IV ha assunto il nome di Akhenaton, volendo rivelare la natura divina del sovrano, essere figlio del dio Sole Aton e sole lui stesso. Il Faraone spostò la capitale dalla città di Tebe, nel nord dell’Egitto, fondandone una nuova sulla riva orientale del Nilo, denominandola Akhetaton, ossia “orizzonte di Aton”, l’attuale Amarna. Fu un faraone illuminato che favorì le arti; nella sua concezione “Il dio Aton creatore/ era padre e madre” (p.59), perciò pose la sua sposa al suo stesso rango. La regale coppia viene raffigurata e replicata per secoli, insieme alle “amate figlie” (p.64). Mi sorge spontaneo l’accostamento delle “amate figlie” della regale coppia, con le “amate figlie” Frenna (Rosanna e Gabriella), cosa che esalta ancora di più la sublimazione dell’amore filiale.

Gabriella Frenna ricorda che il padre narrava di antiche dinastie dei regnanti dell’Alto e Basso Egitto; usava vetrini di colore bruno per gli uomini e giallo per le donne, inoltre le proporzioni delle figure corrispondevano al loro “prestigio sociale”. Nella leggenda o nella tradizione antica, Nefertiti, ad opera degli dei Thot e Shou, incarna la dea che dona l’amore; perciò, tornando al maestro, Michele Frenna, egli diceva alle sue “amate figlie” riferendosi alla Regina: “La bella è arrivata” anche nel suo bel mosaico.

Questa raccolta monotematica costituisce una poesia poematica, una sorta di storia dell’Arte che diletta il lettore con le puntualizzazioni dell’Autrice su alcuni particolari da lei illuminati: così il sole Aton, rappresentato da un disco i cui raggi sono tante mani per simboleggiare ricchezza (a piene mani, appunto); le piramidi che sono orientate con gli astri, col sorgere e col tramontare del sole, grandi per significare il prestigio e la potenza dell’Egitto, nonché il vertice che si innalza al cielo; e così via. “Diodoro Siculo narrò/ che i blocchi di pietra/ dalla terra d’Arabia/ furono trasportati/ nel deserto egiziano” (p.40). (Diodoro nativo di Egira, nel I sec. a.C., in provincia dell’odierna Enna).

A costo di ripetermi (come in altre occasioni) sono convinto che le rievocazioni dell’amato padre producono piacevolezza e donano conforto, così finiscono per generare nella Nostra un desiderio di cui non vuole staccarsi, perciò si spiegano le ridondanze. Nondimeno la sua esposizione sa di freschezza che riesce a intrattenerci e a trasmettere tanta tenerezza che giova rinnovare. Mi piacere chiudere la Regina Nefertiti con questo pensiero di Gabriella Frenna: “Rimembro tue parole/ nello svelare pensieri, / aspetti e sensazioni, / (…) / nella tua arguta voce, / nel rievocare emozioni, / (…) / trasmessi con acume/ da tua mente estrosa.” (p.76). Spero di non essere stato agiografico; ho voluto sostare su un viaggio della memoria che esprime il valore degli affetti.

Tito Cauchi

 

 

 

Gabriella Frenna, Regina Nefertiti, Mosaici di Michele Frenna, Pref. Marco Zelioli, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 84, isbn 979-12-81351-18-9, mianoposta@gmail.com.

 

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Antonio Crisci, "L'uomo di ghiaccio"

6 Aprile 2023 , Scritto da Raffaele Piazza Con tag #raffaele piazza, #recensioni, #storia

 

 

 

 

Nel corso della Storia dell’umanità la terribile realtà delle guerre, con tutto il male e la morte che hanno causato, costituisce una lezione incontrovertibile da tenere in considerazione soprattutto nella nostra contemporaneità.

Guerre che nei secoli prima e dopo Cristo hanno scosso le coscienze dei sopravvissuti per i tantissimi morti e feriti spesso anche innocenti, come i civili, tra i quali bambini, oltre che per le distruzioni di paesi e città e per i danni ambientali.

La lezione suddetta si dovrebbe imprimere nelle menti dei capi delle nazioni del pianeta terra che dovrebbero assolutamente cercare l’antidoto di una pace universale per il mondo per evitare quella che sarebbe una vera Apocalisse.

Ma ciò costituisce un’utopia e lo dimostra chiaramente una guerra tremenda come quella che si sta combattendo in questi mesi del terzo Millennio in Ucraina, guerra che, vista la portata degli arsenali nucleari e chimici delle superpotenze, potrebbe essere anche l’ultima guerra con la distruzione totale della vita sulla terra in un folle quanto tragico Olocausto a livello globale, totale e definitivo nel tristissimo prevalere dell’irrazionalità e della violenza.

Scrive Michele Miano nell’introduzione al volume, preceduta da una premessa dell’autore, di non sentirsi all’altezza nel delineare alcuni aspetti delle vicende narrate in questo libro costituito da brevi capitoli, opera che ha per argomento l’immane tragedia del corpo di spedizione italiano dell’Armir in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

Perché il titolo L’uomo di ghiaccio? Credo che questa definizione sia stata coniata da Crisci in riferimento al clima glaciale, alla neve con la quale dovettero fare i conti i soldati italiani in Russia, soldati che bestemmiavano nelle sofferenze che li portavano spesso alla morte affondando nella neve stessa, nei loro passi stentati,ed erano bersaglio dei colpi delle armi dei russi.

Anche se ci furono rarissimi casi di miracolati, come quello del soldato italiano che cambiò identità e divenne cittadino russo, il bilancio per l’esercito italiano fu terribile e anche ai giorni nostri si è verificato che reliquie dei soldati italiani siano state restituite a genitori e parenti affranti e i soldati caduti in Russia potrebbero essere considerati persone dallo sfortunatissimo destino terreno. 

Viene in mente l’ibernazione dell’uomo dalla quale nessuno si è risvegliato, quindi nel titolo vediamo un simbolo di morte, il senso di qualcosa di inerte, l’icona di colui che vittima del male e/o della follia, muore sul campo di battaglia, e ciò vale anche per i soldati russi e per tutti i soldati di ogni nazionalità in ogni tempo.

Una terra desolata pare divenire il luogo dell’immane tragedia inconcepibile per chi è nato ed è presente nel nostro liquido e alienante postmoderno occidentale nel quale le persone vivono esistenze che nella loro essenza sono lontane anni luce dal baratro e dal dolore dei soldati italiani caduti in Russia e dal loro tragico destino.

Scrive Crisci, nel frammento Un giorno alla memoria, che dopo troppi anni di oblio sarebbe doveroso dedicare un giorno alla memoria di questi innocenti e giovani martiri.

Il tempo non ha cancellato l’ardimento e il sacrificio di giovani vite immolatesi per cause a loro non completamente note ma dettate dal senso del dovere e da ideali patriottici e si potrebbe aggiungere che tali ideali furono più sentiti dai soldati italiani nel primo conflitto mondiale che nel secondo, anche se non crediamo all’assunto di Hegel che affermava che le guerre sono necessarie.

Raffaele Piazza 

     

     

Antonio Crisci, L’uomo di ghiaccio, introduzione di Michele Miano, II° edizione, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 136, isbn 978-88-31497-91-6, mianoposta@gmail.com.

 

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Antonio Crisci, "L'uomo di ghiaccio"

14 Dicembre 2022 , Scritto da Marco Zelioli Con tag #marco zelioli, #recensioni, #storia

 

 

 

 

Antonio Crisci

L’UOMO DI GHIACCIO

II° edizione

 

 

È un bel regalo che Antonio Crisci riproponga il racconto L’uomo di ghiaccio, seconda edizione, per i tipi di Guido Miano Editore. Nell’introduzione, Michele Miano giustamente richiama Centomila gavette di ghiaccio (1963) di Giulio Bedeschi (1915-1990); ma si possono fare anche altri accostamenti a cronache e racconti “di guerra”, più o meno noti al grande pubblico. In questo filone si colloca a pieno diritto il lungo racconto di Antonio Crisci, che è molto coinvolgente, anche se non ha (e non potrebbe avere, dato che l’Autore riferisce vicende vissute da altri, non da lui personalmente) l’immediatezza della vena contestatrice e corrosiva del romanzo/cronaca (però riferito alla I guerra mondiale) Un anno sull’altopiano (1937) di Emilio Lussu (1890-1975), né l’ampiezza descrittiva e la capacità di intravedere, pur nelle più tremende vicende belliche (della II guerra, in questo caso), la forza rinnovatrice della fede che troviamo nel racconto-cronaca di Eugenio Corti (1921-2014) I più non ritornano (1947 – uno dei primi resoconti diretti scritto da un reduce dalla campagna di Russia, di poco preceduto da Con l’armata italiana in Russia di Giusto Tolloy, del 1946, e contemporaneo all’uscita di Mai tardi di Nuto Revelli). Il Corti avrebbe ripreso l’argomento ne Il cavallo rosso (1983), e va ricordato anche il suo epistolario, uscito postumo, Io ritornerò (2015), impreziosito da fotografie scattate dall’autore stesso al tempo della ritirata dell’Armir tra la fine del 1942 ed il 1943.

Nel racconto del Crisci non vi sono invettive contro l’insensatezza della guerra, né si indugia sulle vicende della ritirata dell’Armir dalla Russia (circa 100 mila uomini, la stragrande maggioranza mai tornata), ma si segue il filo conduttore della ricerca dei circa 600 soldati e degli ufficiali italiani rimasti vivi pur dopo la loro deportazione nei famigerati gulag. Non pochi di loro decisero di restare in Russia, venendo in qualche modo dimenticati due volte. Se nel racconto c’è una nota polemica, è per stigmatizzare l’atteggiamento remissivo del PCI nei confronti dell’allora Unione sovietica: con meno pavidità, se il PCI avesse “spinto” tale ricerca, si sarebbero potuti certamente ritrovare molti dispersi, morti o ancora vivi, che invece rimasero quasi tutti tali.

Il racconto esordisce così: “Dopo troppi anni di oblio sarebbe doveroso dedicare un giorno alla memoria di questi innocenti e giovani martiri. Il tempo non ha cancellato l’ardimento e il sacrificio di giovani vite immolatesi per cause a loro non completamente note ma dettate dal senso del dovere e da ideali patriottici” (p.17). Si sviluppa in seguito con la narrazione di un intreccio di incontri più o meno casuali, come quello con la russa Natasha, e di personaggi che offrono spunti per allineare le vicende della ritirata di Russia, dei reduci e dei sopravvissuti fermatisi là. Infatti l’Autore riporta i racconti da lui uditi da parte di reduci della ritirata, come “zio Pasquale”, che nel salone del barbiere del paese racconta delle “marce del davai” (significa “va’ avanti”: i soldati russi lo ripetevano ai prigionieri italiani per farli camminare senza fermarsi – perché chi si fermava era perduto, o veniva giustiziato sul posto o veniva abbandonato e moriva di freddo); e racconta delle spie italiane che, in quanto comunisti convinti (o da se stessi o forse dai soldati sovietici), facevano da spalla ai “vincitori”.

Si inserisce qui la vicenda dei gemelli Aniello ed Alfonso, passati direttamente al fronte russo da quello albanese e greco, dove erano stati col fratello maggiore Vincenzo, tornato ferito in Italia. Aniello morì in Russia, mentre Alfonso (attorno al quale gira poi tutto il racconto) fu salvato da una famiglia russa nel gennaio 1943: un “miracolato”, perché - come nota l’autore - “La guerra con la sua ferocia rende duri anche gli animi inclini alla pietà” (p.65). Quasi incredibilmente, la storia di Alfonso si collega a Natasha, e ad altri ancora, come “zio Raffaele” e Ciro, in una linea temporale che giunge ai giorni nostri, attraversando vicende epocali come la caduta del muro di Berlino del novembre 1989.

Il tutto è reso con semplicità, il che rende avvincente la lettura di questa storia, vera ma anche romanzesca oltre che istruttiva.

Marco Zelioli

 

 

Antonio Crisci, L’uomo di ghiaccio, introduzione di Michele Miano, II° edizione, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 136, isbn 978-88-31497-91-6, mianoposta@gmail.com.

 

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Antonio Crisci, "L'uomo di ghiaccio"

30 Novembre 2022 , Scritto da Michele Miano Con tag #michele miano, #recensioni, #storia

 

 

 

Confesso di non essere all’altezza nel delineare alcuni aspetti delle vicende narrate in questo volume, l’immane tragedia del corpo di spedizione italiano dell’Armir in Russia durante il secondo conflitto mondiale.

Ma ci riesce molto bene e in modo convincente Antonio Crisci, con piglio narrativo e stile asciutto a raccontare alcuni episodi accaduti e tramandati da parenti, amici e conoscenti reduci dalla Campagna di Russia.

Com’è noto l’8a Armata Italiana (nome in codice Armir: Armata italiana in Russia) alla fine del 1942 fu investita da una potenza di fuoco soverchiante ad opera dei sovietici e dovette quindi cedere terreno. Iniziò la tragedia della ritirata dei nostri soldati in larga parte truppe alpine scarsamente equipaggiate, una sorta di “Anabasi” dei nostri giorni, un’odissea in cui centinaia di migliaia di uomini congelati morirono di fame e stenti percorrendo a piedi mezza Europa o furono fatti prigionieri senza avere più notizie di loro.

Crisci ripercorre alcune tappe di questa avventura sciagurata, filtra e rielabora con la sua sensibilità da uomo di cultura alcuni episodi caratteristici. La sua scrittura ha il pregio della semplicità e della concretezza grazie a un linguaggio comunicativo.

Si legga, ad esempio il racconto L’antefatto - Il miracolato dove un soldato italiano viene miracolosamente salvato da una famiglia russa. Cambia identità e dopo mille peripezie si trasferisce definitivamente in quella terra. Al riguardo, come non ricordare la pellicola capolavoro del 1970 di Vittorio De Sica I girasoli: un soldato ferito e quasi morente (interpretato da Marcello Mastroianni) viene salvato amorevolmente da una ragazza russa con la quale poi si sposa e forma una famiglia trasferendosi definitivamente in Russia. Sotto i campi coltivati a girasoli sono seppelliti i militari italiani nelle fosse comuni dove ogni campo sterminato che ondeggia al vento rappresenta le vittime di una guerra terribile e assurda.

Antonio Crisci pone l’accento anche su alcune questioni forse troppo trascurate o appositamente “dimenticate” dei dispersi in Russia: dai dispersi ai prigionieri nei campi di lavoro fino a casi estremi di soldati che salvatisi, si stabilirono definitivamente in quella terra.

Altri racconti invece descrivono gli stenti, la fame, il freddo, le atrocità, la ferocia della guerra patita dai nostri soldati, le cosiddette “marce del davaj” dal termine russo, ‘davaj’ che significa “avanti”, che provocarono un altissimo numero di morti tra i prigionieri. Queste marce durarono fino a venti giorni con fermate di pochissime ore per la notte, con tappe fino a 20 km al giorno in condizioni disumane. I soldati catturati furono costretti a camminare senza soste e senza cibo, a dormire all’addiaccio con temperature polari e molti di loro non riuscirono a resistere e morirono o furono uccisi e lasciati lungo il percorso senza sepoltura. E poi il ritorno in Italia dei reduci con mezzi di fortuna e in condizioni psico-fisiche indescrivibili, la loro difficoltà a inserirsi in una società ormai in stravolgimento in un clima da guerra civile dopo l’armistizio e i fatti dell’8 settembre 1943.

E quell’amara consapevolezza di dimenticare, di insabbiare in patria il disastro italiano in Russia di non dare giusto merito a quei poveri ragazzi dimenticati da tutti in un clima di tensione, caos, sbandamento delle forze armate e per dirla alla Luigi Comencini: Tutti a casa (film del 1960 ambientato durante la seconda guerra mondiale).

Racconti che racchiudono esperienze di vita, accompagnate da una vibrante partecipazione emotiva dell’autore e creano una rispondenza nell’animo del lettore, grazie anche a un linguaggio diretto, efficace proprio perché immediato e alieno da sovrastrutture e da ricerche formali.

E ancora altri racconti descrivono le vicissitudini dei nostri soldati sul fonte greco albanese e in generale sui Balcani con dovizia di particolari. Ma il vero messaggio subliminale che intende suggerirci Antonio Crisci è lo stimolo alla creazione di una nuova coscienza, una vera coscienza nelle nuove generazioni al ripudio della guerra e ad evitare tragedie come quella racconta in questo volume. Una vera tragedia ancora d’attualità e che ci fa riflettere anche alla luce dei nuovi e recenti conflitti in Europa.

Piace al prefatore di questo volume, il cui nonno materno era aggregato proprio al corpo di spedizione dell’Armir, terminare questa breve introduzione citando un brano tratto dal celebre romanzo Centomila gavette di ghiaccio del 1963 di Giulio Bedeschi che descrive come non mai la grande ritirata italiana dalla Russia: «La visibilità divenne nulla, come ciechi i marciatori continuarono a camminare affondando fino al ginocchio, piangendo, bestemmiando, con estrema fatica avanzando di trecento metri in mezz'ora. Come ad ogni notte ciascuno credeva di morire di sfinimento sulla neve, qualcuno veramente s'abbatteva e veniva ingoiato dalla mostruosa nemica, ma la colonna proseguì nel nero cuore della notte».

Michele Miano

 

 

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L’AUTORE

Antonio Crisci è nato in un piccolo borgo della Valle Suessola (in Campania), area di origine osca prima ed etrusca poi. Trasferitosi successivamente a Santa Maria Capua Vetere (CE), antica Capua, si dedica con successo a percorrere le attività caratteristiche della città: i Beni culturali e il diritto. Notevole è l’impegno profuso a promuovere e valorizzare le bellezze storiche e artistiche del territorio della città sia professionalmente (a lungo impiegato nei siti principali della città, quali l’anfiteatro, il mitreo ed il museo archeologico dell’Antica Capua) sia per passione (presidente della sede locale dell’Archeoclub d’Italia e promotore di importanti manifestazioni quale “Ager Campanus”, rassegna annuale che da oltre un decennio promuove e rappresenta l’arte e la cultura in Terra di Lavoro).

 

 

 

Antonio Crisci, L’uomo di ghiaccio, introduzione di Michele Miano, II° edizione, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 136, isbn 978-88-31497-91-6, mianoposta@gmail.com.

 

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Roberto Mistretta, "Rosario Livatino - L'uomo, il giudice, il credente"

25 Settembre 2022 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #storia, #persoanggi da conoscere

 

 

 

 

Roberto Mistretta
Rosario Livatino - L’uomo, il giudice, il credente
Edizioni Paoline - Pag. 440 - Euro 22

 

Dopo l’ottimo libro su don Ferdinando Di Noto e la sua battaglia in favore dei bambini, Edizioni Paoline affida a Roberto Mistretta un lavoro altrettanto importante - direi quasi indispensabile - sulla figura del giudice Rosario Livatino, già pubblicato sette anni fa, ma rivisto e ampliato dopo la beatificazione di un uomo definito martire di giustizia e della fede. Roberto Mistretta è scrittore conosciuto per i piacevoli romanzi gialli che vedono protagonista il pacioso commissario Bonanno (Premio Tedeschi, 2019), ma anche di racconti per bambini e saggi divulgativi a tema sociale. Rosario Livatino è un personaggio che affascina lo scrittore siciliano, perché è un uomo coraggioso e indomito, appassionato difensore della legalità, profondo conoscitore del diritto e della società, sorretto da una fede forte, convinto che il suo unico compito fosse quello di servire lo Stato. Livatino, il giudice ragazzino, ha compiuto il suo dovere fino in fondo, contro tutto e tutti, questo libro gliene dà merito, sin dalla presentazione evangelica, scritta da monsignor Russotto, che lo definisce l’uomo delle Beatitudini, un giudice santo pur se profondamente uomo, un coraggioso eroe del Vangelo e della giustizia. Mistretta prosegue sul solco tracciato dalla fede, perché avvisa il lettore che il suo libro - oggi più di sette anni fa - è dedicato soprattutto a chi crede nel Vangelo e si propone di mettere in evidenza l’umanità e la profonda spiritualità del giudice ragazzino. Prima di cominciare a scrivere su Livatino, l’autore si reca in pellegrinaggio ad Agrigento e sosta in raccoglimento davanti alla camicia intrisa del suo sangue, quella che indossava il giorno del martirio. Il libro è dedicato a un Beato, a un giudice integerrimo, eroe della fede, servitore dello Stato, che pone sempre Dio e la legge al centro del suo lavoro. Trentotto anni ancora da compiere, il più giovane magistrato ucciso in Italia, il primo a essere dichiarato Beato. Il libro si sviluppa in cinque parti: L’uomo e il magistrato, Le agende specchio dell’anima, Sangue innocente, La vita oltre la morte: i miracoli, Interventi pubblici di Rosario Livatino. Mistretta racconta vita e opere di un uomo cresciuto a pane e diritto, destinato a compiere grandi cose sin dai tempi del liceo e di una doppia laurea, magistrato zelante e meticoloso che indaga su uomini intoccabili e pericolosi, su potenti mafiosi che ne decretano la condanna a morte. Livatino era un uomo schivo, non si lasciava intervistare, non amava la ribalta, neppure le fotografie, preferiva lavorare con passione (persino in ferie!) e compiere il suo dovere senza esibire successi e impegno. Il giudice ragazzino, dopo la morte si è meritato gli onori di un film girato da Alessandro di Robilant tra Comitini, Naro e Agrigento, per narrare la vita e la figura di un magistrato ucciso da quella mafia che aveva cercato di combattere. Mistretta racconta il metodo di lavoro, approfondisce l’uso delle agende che contengono elementi importanti per ricostruire il suo pensiero e il lato umano di un personaggio che soffriva un grande senso di isolamento, cercando rifugio nella fede in Dio. Terribile il capitolo intitolato Quel cornuto lo dobbiamo ammazzare, dove da buon scrittore di thriller l’autore ricostruisce l’organizzazione dell’omicidio e l’agguato a un uomo indifeso, vittima sacrificale di un sistema corrotto. Cosa vi ho fatto, picciotti? Ha appena il tempo di sussurrare il giudice ragazzino, finito da cinque colpi di pistola. Tieni, pezzo di merda! È la terribile risposta che accompagna gli spari. Mitra e pistola, poi un colpo in pieno volto. Mistretta racconta tutto, con stile piano e suadente, grazie a capitoli brevi e testimonianze, con umile partecipazione alla vita di un Beato, di un futuro Santo. Non mancano le parole dei pentiti e i miracoli compiuti, ma anche se non credete al soprannaturale e se non avete fede, il più grande miracolo di quest’uomo è aver affrontato la vita come la morte, convinto di fare il proprio dovere e di servire lo Stato fino in fondo. Leggete questo libro e approfondite la sua esistenza. Vi sarà utile.

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Lucia Paoli, "Tu mar es mi amar"

17 Agosto 2022 , Scritto da Maria Gisella Catuogno Con tag #maria gisella catuogno, #storia, #personaggi da conoscere, #luoghi da conoscere

 

 

 

 

Tu mar es mi amar

Lucia Paoli

Edizioni Il Foglio, 2022

 

È in libreria Tu mar es mi amar di Lucia Paoli, Ed. Il Foglio Letteraio, un denso saggio storico, ricchissimo di documenti, tratti da archivi nazionali ed esteri, soprattutto spagnoli, che ci trasporta nel Mare Toscano della seconda metà del Cinquecento – e dunque nel Canale di Piombino – dove si scontrano, si intrecciano, più di rado si tollerano reciprocamente gli appetiti di tre protagonisti: gli Appiani, signori di Piombino dal XIV° secolo, i Medici, in emergente ascesa, e gli spagnoli, con la loro ingombrante presenza sulla Penisola sancita dalla pace di Cateau Cambresis del 1559.

La Spagna ha infatti il possesso diretto della Sardegna, di Napoli e della Sicilia, indiretto dei rimanenti stati italiani, ad accezione della gloriosa Repubblica di Venezia, che può permettersi una fiera indipendenza politica e culturale, mentre anche Genova, ‘la Superba’, è costretta a sostenere la Spagna, se non altro per gli ingenti prestiti che i suoi banchieri le hanno concesso.

A movimentare lo scenario è poi la creazione, per volontà di Filippo II° di Spagna, nel 1557, col Trattato di Londra, dello Stato dei Presìdi, come appannaggio dei viceré spagnoli di Napoli: il possesso di Orbetello, Porto Ercole, Porto S. Stefano e Talamone, cui più tardi si aggiunge Porto Longone, è un’acquisizione preziosa, che permette loro il controllo delle rotte marittime dal sud verso la Liguria, da cui si irradiano anche le vie terrestri dirette a Milano e al nord, verso le Fiandre, endemico teatro di guerra per la Spagna.

Anche la ‘libera’ signoria di Piombino deve accettare un presidio spagnolo, che al contempo costituisce la difesa militare della città ma pure un pesante condizionamento alla sua autonomia. In tali complicati rapporti si inserisce la politica di Cosimo I° e dei suoi successori, molto interessati al controllo del Mare Toscano e delle isole che lo costellano: e se non è possibile ai fiorentini il possesso di tutta l’Elba, che spetta alla signoria piombinese, così come di Pianosa e di Montecristo, la concessione dello sfruttamento delle miniere di ferro nel Riese e l’edificazione della città fortezza di Portoferraio, Cosmopoli, baluardo invincibile per i Turchi, li risarciscono degli insuccessi.

In tale quadro generale, il lavoro della storica elbana, vissuta a Firenze, si concentra fin dal primo ‘Libro’ sulla politica degli Appiani, che si devono confrontare con amici/nemici più forti e (pre)potenti di loro, come vasi di coccio costretti a viaggiare con vasi di ferro, avrebbe detto Manzoni.

Nell’ultimo mezzo secolo del loro governo, forse per stanchezza, forse per incapacità, i signori di Piombino preferiscono abitare nelle proprietà toscane, consegnano la città al consiglio degli Anziani –  che si appoggiano agli antichi Statuti, in una sorta di regime monarchico-repubblicano – riscuotono le rendite senza avere impegni amministrativi, si affidano alla difesa militare spagnola e, per la tutela del mare, alla flotta medicea – di cui Jacopo VI del resto, fu ammiraglio – oltre che alle  piazzeforti di Portoferraio e di Livorno.

Quest’ultima è in piena espansione: libera, accogliente, approdo di merci provenienti da ogni angolo del mondo, vero emporio mediterraneo, è davvero una ‘città delle nazioni’ che stupisce, insieme a tutta la spregiudicata politica medicea, gli spagnoli. Ma l’ammiraglio appianeo ha una preoccupazione: non avendo eredi legittimi pensa di legittimare presso l’imperatore il figlio Alessandro, nato da Oriettina Fieschi, genovese come la moglie Virginia e di lei parente; ci riesce e Alessandro diventa signore di Piombino: il suo matrimonio con Isabel de Mendoça, figlia dell’ ambasciatore spagnolo a Genova, sembra rafforzarne  potere e prestigio.

Se il primo Libro è concentrato sulla geografia che fa da sfondo alle complicate vicende ispanico-medicee-appianee, gettando luce sugli interessi economici e strategici dei protagonisti, il secondo è invece tutto dedicato alla figura di Alessandro I Appiani e alla sua breve ma intensa signoria, attenta ai bisogni della popolazione, al controllo delle pretese delle famiglie abbienti (e filospagnole), ‘laica’ nell’accogliere stranieri e perciò sostanzialmente invisa a pochi ma potenti personaggi ribelli.

La  congiura contro Alessandro  e il terribile assassinio che ne consegue sono analizzati nei dettagli, non solo nelle cause e conseguenze, ma anche nella ricostruzione della fisionomia dei personaggi che vi ruotano attorno, a cominciare da Don Felix D’Aragon, capo del presidio spagnolo piombinese, responsabile morale del delitto e forse spinto ad esso dalla brama di possesso per la Spagna del Canale, l’Elba e Piombino. La ‘damnatio memoria’ dello sfortunato signore appianeo, dipinto dalle fonti tradizionali come dissoluto, libertino e inviso al popolo, si è mitigata nei secoli, ma appare ancora incredibilmente presente in testi che si suppongono attendibili.

Alle due Isabelle, madre e figlia, è infine dedicato il terzo e ultimo libro, che le valorizza per il loro profilo umano e per l’impegno istituzionale profuso: la prima, sebbene sospettata da alcuni di essere complice dell’omicidio del marito, riesce a convincere della propria innocenza e con lei, a lungo reggente per il figlio Cosimo, il futuro Jacopo VII, la signoria piombinese si trasforma in principato, per volere dell’imperatore, e Isabel, vedova volitiva, istruita e capace, diventa ‘la principessa’ per antonomasia; alla morte precoce del figlio, lotterà con le unghie e con i denti per la successione di Isabella, contro pretendenti di rami collaterali degli Appiani, seguendo personalmente la lunga ed estenuante causa ereditaria di fronte alla corte imperiale di Praga.

La seconda Isabella, andata in sposa a dodici anni allo zio materno, George de Mendoça, conte di Binasco, ottiene Piombino in seguito alle forti pressioni spagnole presso l’imperatore. Sette anni dopo, principessa e vedova, si sente indipendente come la madre: chiede e ottiene la protezione dei Medici e si prepara a un secondo matrimonio, con il duca di Bracciano, Paolo Orsini. Le nozze, celebrate a Piombino nel 1621, saranno seguite da un soggiorno degli sposi a Marciana, all’Isola d’Elba.

Ma intanto è cominciata la Guerra dei Trent’anni (1618-1648) e il comune bisogno di denaro spinge l’imperatore ad affidare alla Spagna l’incarico di sciogliere il nodo della successione del principato. Per la corona spagnola è arrivato il momento tanto atteso: il possesso dell’agognato Canale. Dopo varie vicissitudini, lo stato sarà offerto per un milione di fiorini al principe di Venosa, Niccolò Ludovisi e avrà fine la lunga e disperata lotta degli Appiani per Piombino.

L’Appendice che segue ai tre Libri, dal titolo “Allargando gli orizzonti” getta infine un fascio di luce sulla politica marittima di Ferdinando I de’ Medici, più spregiudicata di quella dei suoi predecessori, che lo porta ‘da Livorno al Brasile’, nell’intento, non di rado frustrato, di nuove ed ardimentose esperienze, che gli assicurino fama e ricchezza.

“Tu mar es mi amar” è dunque un testo ricco e stimolante, destinato ai cultori della storia, che tra l’altro vi troveranno un’immensa messe di documenti, tra cui lettere, relazioni di ministri e funzionari spagnoli – molti dei quali provenienti dagli archivi di Simancas, Siviglia, Lisbona – ma appetibile anche per ‘non addetti ai lavori’, che, a prescindere dalla documentazione proposta, lo potranno leggere come una narrazione piana e avvincente delle complicate, e spesso sconosciute, vicende che hanno interessato la nostra geografia piombinese ed elbana, che il Canale di Piombino, fatalmente, ieri come oggi, divide e unisce.

Maria Gisella Catuogno

 

 

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Valentina Fontan, "Nel segno del destino"

27 Aprile 2022 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #storia, #personaggi da conoscere

 

 

 

 

 

Nel segno del destino

Valentina Fontan

Literary Romance, 2022

 

Rispetto a Il prezzo della felicità, Valentina Fontan appare molto maturata come autrice di romanzi storici a tutti gli effetti. Nel segno del destino mescola le vicende di personaggi inventati con quelle di altri realmente esistiti.

Lorenzo e Greta sono due giovani innamorati. Lei, pia e dolce, avrebbe voluto ritirarsi in convento, ma è costretta a sposare il vecchio e sgradevole promesso sposo della defunta sorella. Lorenzo è un soldato romano che finirà per essere la guardia del corpo di Martin Lutero, il noto riformatore tedesco. Praticamente, Lorenzo sarà “l’ombra” onnipresente che ci permetterà di conoscere da vicino le vicende della vita di Martin Lutero.

Lutero dette inizio al protestantesimo, condannando la vendita delle indulgenze e sostenendo che chiunque può interpretare le Sacre Scritture senza bisogno di intermediari. Le sue famose 95 tesi segnarono il principio dello scisma della chiesa protestante da quella cattolica. La Fontan ripercorre tutti i principali avvenimenti della vita del monaco, dalla scomunica, al rogo della bolla papale, alla traduzione in tedesco della Bibbia etc. Ne esce una figura di uomo convinto delle proprie idee, impavido, capace di sfidare tutto e tutti e alla ricerca di una spiritualità autentica ma, soprattutto, di pace interiore.

Fra Martino e Lorenzo si instaura un cameratismo, a fasi alterne di odio e amore, che si approfondisce di giorno in giorno e che mi ha ricordato, per libera associazione mentale, quello scanzonato ma emozionante fra Merlin e Arthur nella serie televisiva Merlin.

Il percorso di Greta, invece, s'intreccia con le vicende di Katharina Bora, la suora divenuta poi moglie di Lutero, fra fughe rocambolesche dal convento, letture segrete e ricongiungimenti sempre rimandati. È interessante, quindi, questo chiasmo stabilito dall’autrice fra le due coppie di amanti, quelli di fantasia e quelli storicamente esistiti.   

Si sente il lavoro imponente di ricerca e studio dietro la stesura del romanzo. La maggior parte dello sviluppo è affidato al dialogo più che all’azione o alle descrizioni. Come nel precedente testo della Fontan, anche qui i personaggi, tutti indistintamente, tendono ad avere una certa qual “bizzosità” di fondo, comunque giustificata dalle diatribe e liti storiche.

All’autrice va il merito di aver riportato in auge una personalità basilare per la cultura occidentale, ma controversa e forse ultimamente un po’ accantonata.

 

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Pierluigi Curcio, "Milone"

27 Luglio 2021 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #storia, #personaggi da conoscere

 

 

 

 

Milone

Pierluigi Curcio

 

Amazon, 2021

pp 279

 

 

Pierluigi Curcio torna al romanzo storico, la sua specialità, con Milone, ambientato nel VI secolo a. c., fra Grecia e Magna Grecia. Milone di Kroton era un giovane lottatore, vincitore di molti giochi, fra i quali quelli olimpici. Bello, fortissimo, irruente, coraggioso, formidabile nella lotta, fu anche il condottiero che permise a Kroton, Crotone, di sconfiggere la rivale Sybaris. Genero di Pitagora, simpatizzante delle sue dottrine o, comunque, attratto nell’orbita del potente suocero, ne seguì gli insegnamenti e la politica e ne fu suo malgrado influenzato.

Il romanzo si basa molto sui dialoghi, non sempre però riusciti, non sempre scorrevoli o di immediata comprensione per l’avanzare della trama. Curcio riprende tutti gli eventi storici rielaborandoli in modo fedele ma personale. Ciò che costituisce l’attrattiva di questo testo è l’approfondimento della psicologia del protagonista.

Milone è un personaggio romantico, avvolto da un manto di malinconia e di furore a causa della perdita di Aura, l’amatissima prima moglie. Aura e Milone sono cresciuti insieme, condividono ideali e complicità, insieme all’irruenza profonda di un primo amore destinato a rimanere l’unico. Il giovane ama anche lo sport, non è immune dal fascino della vittoria olimpica, ma il suo sogno è vivere una vita serena accanto alla sua donna. Tuttavia il destino decreterà altrimenti. Aura gli verrà strappata, Milone troverà fama e gloria ma precipiterà in un gorgo di disperazione, autodistruzione e sete di vendetta.

Tutto ciò che farà sarà compiuto per colmare un vuoto incolmabile. A nulla varrà il suo diventare quasi un semidio, novello Heracles incarnato, a nulla varranno onori e vittorie se la vita che dovrà vivere andrà contro la sua stessa natura e volontà, se il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere lo strazierà fino al termine dei suoi giorni, fino a quando, vecchio e debole, sfiderà gli dei in un’ultima smargiassata che si concluderà nelle fauci di un lupo con lo stesso sguardo della morte.

Anche le vittorie sui sibariti, il suo diventare sacerdote di Hera e seguire le dottrine di Pitagora, padre della sua seconda – e detestata – moglie, saranno frutto del senso del dovere e del rispetto per Kroton, la sua città, la città di Aura e della giovinezza. Non saranno ideali o aspirazioni a guidarlo, ma il bisogno di fare ciò che va fatto e di espiare colpe e disonore, perché, a volte, la vita che vorremmo non è quella che il fato, o gli dei, prendendosi gioco di noi, ci riservano.

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Paolo Seno, "Dove la sorte ti ha voluto chiamare"

17 Luglio 2021 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #storia, #personaggi da conoscere

 

 

 

 

Dove la sorte ti ha voluto chiamare

Paolo Seno

 

Tralerighe Libri, 2020

pp 354

18,00

 

Saggio storico travestito da romanzo, che risente del difetto comune alla maggior parte della narrativa di questo genere, ovvero la didascalizzazione eccessiva dei dialoghi. Per il resto, un documento di notevole interesse atto a riannodare le vicende della Grande Guerra, non solo quelle note, fatte di trincee fangose e montagne innevate, ma la vita di tutti i giorni, i bombardamenti, l’esodo da Venezia, i profughi, le malefatte del generale Cadorna che usò migliaia di giovani italiani come carne da macello, mandandoli a morte certa e reprimendo qualsiasi timore o dissenso con l’immediata fucilazione.

Nel 1997 Paolo Seno acquista in un negozio di numismatica un pacco di quindici cartoline di uno sconosciuto soldato, Nino Astolfoni, sottotenente del 228° reggimento di fanteria. Un incontro casuale ma quasi predestinato, fatale.  Da sempre appassionato della prima guerra mondiale e incuriosito dall’ignoto ufficiale, l’autore approfondisce con accurati studi in archivio la biografia di questo personaggio e di alcuni suoi amici e commilitoni. S’imbatte poi nel pronipote di Nino, che oggi vive a Boston, e insieme a lui ricostruisce l’esistenza militare e borghese di questo sottotenente caduto come tanti sul Colombara.

Alto un metro e ottanta, non bello ma comunque piacente, Nino Astolfoni non era solo un soldato, ma anche un giornalista de La Gazzetta di Venezia, un giovane imbevuto di ideali repubblicani, una mente per certi versi controcorrente, un artista di talento che firmava i suoi disegni col nome “Ofi”. Disegnatore dal tratto preraffaellita, se non fosse morto avrebbe prodotto opere di pregio specialmente nel campo della grafica e dell’illustrazione, guarda caso il settore prediletto dall’autore. Sì, se non fosse morto in una guerra sciagurata, si sarebbe sposato, avrebbe avuto figli e nipoti, avrebbe contribuito al bene comune, così come tutti gli altri giovani di cui si narrano le vicende in questo libro, simile alla diaristica di guerra ma diverso per struttura e intenti.

Parte consistente, e affascinante, è occupata dalle descrizioni di Venezia, città natale dell’autore, con le sue atmosfere lagunari e i suoi sempiterni monumenti. E poi le montagne, il Colombara, i boschi, le malghe, i prati, la bellezza indifferente della natura a contrasto con l’orrore delle trincee, nelle lettere alla madre e alla sorella l’animo di poeta (oltre che di artista) di Nino sa coglierne tutta la magnificenza che quieta e pacifica lo spirito fra tanta desolazione. L’ultima lettera prima della morte in combattimento è la più struggente, velata di tristezza, forse presaga della tragedia. 

A narrare in prima persona è l’attendente di Nino, che ne ricorda con nostalgia il valore come ufficiale esploratore in avanscoperta, in pratica un “aspirante suicida” proprio malgrado. A lui fa da contraltare Ina, la sorella di Nino, che ne tratteggia l'aspetto umano e quotidiano. Non manca un tocco di rimpianto e romanticismo nella figura di Lina Rosso, pittrice e crocerossina, probabile “morosa” di Nino.

Un romanzo biografico per addetti ai lavori, per chi ama sviscerare un’epoca in ogni suo aspetto, non solo bellico, cercando anche di sfrondare gli eventi da certe sovrastrutture, da certi orpelli retorici prodotti dal successivo regime fascista.

Le lettere riportate nel testo risultano spesso più scorrevoli e coinvolgenti delle stesse parti romanzate, e la seconda porzione del testo, che se ne avvale a piene mani, è la più avvincente e schietta perché, se all’inizio si è letto con distacco si finisce poi per affezionarci a Nino, alla sua gioventù sprecata, alla sua fiducia, al suo senso del dovere, alla sua anima elegiaca che gli permetteva di ritagliarsi un’isola di buon umore e poesia pur nella violenza della guerra.

Alla fine, di là dal saggio storico e dalla diaristica, rimane un senso struggente di malinconia come se avessimo perduto qualcuno che ormai conosciamo bene.

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Giovanna Strano, "Lo specchio delle stelle"

6 Giugno 2021 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #storia, #personaggi da conoscere

 

 

 

Lo specchio delle stelle

Giovanna Strano

 

Nuova Ipsa Editore

pp 213

18,00

 

Giovanna Strano torna al romanzo storico con Lo specchio delle stelle. Qui non si tratta dell’autobiografia di un artista famoso, come Van Gogh o Modigliani, o della modella di Botticelli, ma di un particolare periodo, non molto conosciuto, e di riferimenti alchemici, esoterici e religiosi.

Il luogo è la Sicilia - il romanzo ha il patrocinio della Regione – i personaggi sono i sovrani di Trinacria, Federico III di Svevia ed Eleonora d’Angiò, oltre al templare Ruggero di Flor e al medico alchimista Arnaldo da Villanova.

Fra castelli, segrete, eresie catare, si giunge alla scoperta e decifrazione di un antico misterioso manufatto, sorta di sacro Graal – ma forse è proprio il Graal stesso – un papiro scritto di pugno da Gesù in persona, dove si cela il mistero dell’universo creato. Gli opposti si contrappongono come nel catarismo, la luce e il buio, il bene e il male, Dio e Satana, ma uno solo – scopriremo - è Colui che ha voluto e immaginato tutto, colui nel quale la coniunctio oppositorum si realizzerà.

La corte di Federico III (com’era stata quella del più noto Federico II) è un luogo aperto e tollerante, dove persino l’eresia catara viene accolta e non rinnegata, dove è sempre accesa la fiamma della conoscenza e della cultura. Federico è un uomo di onore e di grande curiosità intellettuale, sua moglie Eleonora una donna illuminata, sostenitrice del progresso e dell’emancipazione femminile. Sposatala per dovere dinastico, Federico s’innamora di lei e con lei ha nove figli, e questo mette in crisi il precedente rapporto con Sibilla Sormella.  

Federico crede nell’amicizia e nella lealtà ma perde i suoi due amici, Ruggero, comandante templare degli Almogavari, megadux dell’imperatore bizantino, e Arnaldo, per colpa di tradimenti.

Arnaldo da Villanova, la cui tomba è stata scoperta nel 1969 nel castello di Montalbano Elicona, - paese crogiolo di religioni diverse e che ospita addirittura due chiese catare - è una singolare figura di medico, una via di mezzo fra un mago e uno scienziato, indagatore dei misteri della natura e dell’alchimia, vicino allo spiritualismo francescano. Viene fatto coincidere con il segreto dell’Argimusco, altopiano siciliano dove si ergono pietre erose dal vento – quasi megaliti naturali, usato come osservatorio astronomico fin dall’antichità.

Personaggio a se stante e onnipresente, la bella terra di Sicilia, il soffio caldo e sensuale dello scirocco, il barbaglio del mare, l’incandescenza del sole e i profumi di piante mediterranee ed erbe medicinali.

Al di là dell’intento filosofico esoterico o della ricostruzione storica, è ben disegnata la psicologia dei personaggi e ben sviscerato il sentimento d’amore, quello che nasce “nonostante”, fra Maria e Ruggero, e soprattutto fra Eleonora e Federico. Amori non scontati, non predestinati, non voluti ma che si sprigionano e crescono fino a travolgere il presente e riscrivere il passato. Maria vedrà morire Ruggero, Federico abbandonerà la madre dei suoi cinque figli per una donna che gli è stata data in moglie solo per convenienza. La Strano è una storica, ma l’amore la affascina, sentimento trascendente, prepotente, quasi religioso e filosofico.

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