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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Diego Popoli, "Fotografie"

26 Agosto 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #racconto, #diego popoli

Fotografie

Diego Popoli

Edizioni Leucotea, 2015

pp 95

11,90

"Eravamo in quella fase dell'adolescenza, nella quale ti sembra di aver già vissuto tutto quello che puoi vivere, anche se in realtà, non sei altro che un debuttante, su questo grande palcoscenico che ci hanno dedicato." (pag 38)

Ventuno racconti che sembrano far parte di un unico corpus - quasi opera “di formazione” - molto brevi e molto semplici, dove succede poco ma si riflette tanto, anche in modo filosofico, sulla vita, sull’esperienza, sulla crescita, sull’amicizia. Fulminei episodi più pensati che agiti, flash back.

Amori, delusioni, avventure estive, viaggi ferragostani in stile Il sorpasso, domeniche sonnolente dove a farla da padrone è la noia - una noia che, forse, rimpiangiamo come non luogo nel quale tutto poteva ancora avvenire - fughe notturne nella provincia emiliana che ricordano le canzoni di Lucio Dalla. Quante Anna e quanti Marco hanno calpestato quei palcoscenici che non ci sono più e che sono già intrisi di maledetta nostalgia? Quanti amici, quanti compagni di scuola, quante figure conosciute, o anche solo intraviste, ci siamo lasciati alle spalle, mentre ognuna di loro, passando come una meteora, donava qualcosa: una riflessione, un insegnamento, un esempio?

Più che l’argomento, più che lo stile, colpisce, appunto, la pregnanza dei raccontini - veri e propri scatti fotografici a penna - se rapportata alla loro trama e al loro volume: quel poco o niente che vi accade lascia però un’orma, un’unghiata sul cuore, genera una riflessione, regala un insegnamento.

La narrazione procede per sbalzi, fra presente, passato e passato ancora più passato, fra ricordi e pensieri, fra un qui ed ora molto ordinario, come la fila alla posta, e l’iperuranio dove le memorie diventano perfette idee platoniche.

Si parte dalla metà degli anni ottanta, quando tutto sembrava ancora facile e possibile,

La strada che ci portava via, lunga e sconosciuta, la immaginavamo senza buche e piena solo di cose belle. Non sarebbe stata così. E il viaggio non lo avremmo fatto tutti insieme, come previsto.” (pag 79)

per arrivare lentamente fin quasi ai giorni nostri o, almeno, a quei primi anni duemila dove gli accadimenti mondiali hanno minato la fiducia e sconvolto la realtà come la conoscevamo.

Fotografie, di Diego Popoli, è il secondo libro che leggo delle edizioni Leucotea e trovo che questa casa editrice si caratterizzi per l’ottima e compiuta qualità della scrittura. Le sbavature sono veramente poche e facilmente risolvibili.

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Ganja Fiction (2013 - 2015) di Mirko Virgili

23 Agosto 2016 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #cinema, #musica

Ganja Fiction (2013 - 2015) di Mirko Virgili

Regia: Mirko Virgili. Soggetto: Mirko Virgili. Sceneggiatura: Guido Ludovici. Fotografia: Samuel Masi. Musiche: Emanuele Bossi. Produzione: Spoilt srl. Produttore: Samuel Masi. Organizzatore Generale: Claudio Caminito. Genere: Commedia thriller. Interpreti: Andrea De Rosa (Becchino), Renato Solpietro (Sasà), Francesco Venditti (Mr. Nice), Eros Barbieri (Mr. Grady), Crisula Stafida (Bianca), Ludmilla Radchenko (Luna), G-Max (Bomba), Claudio Caminito (Spadino), Gianluca Tocci (Conte), Duke Montana (Salvo Rotella), Giorgio Grasselli (Vito Rotella), Francesco Primavera (Bazooka), Marco Mancini (Spettro), Fabrizio Sabatucci (Mago), Francesco Sabino (Geko), Andrea Conte (Ciccio), Gianluca Cortesi (Spillo), Pierfrancesco Botti (Mocio), Gabriele Reale (Baracchetta), Marco Maria Della Vecchia (fidanzato di Mr. Grady), Mario Nicolini (Minkio), Valeria Alessandri (Tania), Flavio Carnevali (Mr. Skunk), Ernesto Maieux (O’ Varano), Remo Remotti (signore anziano), Alfio Sorbello (Chiacchiu), Raffaele Vannoli (Fiato), Edoardo Pesce (ragazzo), Claudio Camilli (ragazzo), Antonio Tallura (capitano), Ciro Petrone (Foglia), Janet De Nardis (moglie baracchetta), Noyz Narcos (nel ruolo di se stesso). Durata: 120’ (Versione YouTube del 2015: 82’).

Visibile in rete: https://youtu.be/pQTxcFKHmSs.

Ganja Fiction è un’opera prima girata in un anno e mezzo, tra scenari che vedono protagoniste Roma e Amsterdam. La scelta della capitale olandese, oltre per i meravigliosi scenari che offre, è dovuta alla sua famosa politica di tolleranza, luogo ideale per gli argomenti trattati. La possibilità di girare in veri coffee shop, con tutto quello che ne concerne, ha permesso di fotografare appieno l’atmosfera che solo posti del genere riescono a trasmettere, cercando in chi lo vede una buona dose di empatia. A veicolare questa empatia c’è la costante compagnia di una voce narrante che sembra voglia far capire come delle scelte sbagliate portino inesorabilmente a compiere sempre altre scelte sbagliate.

Sinossi. Roma. Becchino è alle prese con un amore non corrisposto nei confronti di Bianca, la bella titolare del negozio di pompe funebri dove lavora. Ad approfittare di questa debolezza è il suo collega e amico napoletano Sasà, sempre incline a piccoli furti, con due chiodi fissi: il gioco d’azzardo e la marijuana. Sasà convince Becchino che per far breccia nel freddo cuore di Bianca è necessario possedere una sol cosa: i soldi! In men che non si dica Becchino si ritrova catapultato in un nuova realtà: tanto per cominciare un debito da ben centomila euro con un pericoloso strozzino: O'Varano. Questi soldi non sono altro che la posta per sedere a un tavolo da gioco, una partita a porte chiuse di Texas Holdem. Con la sicurezza che si tratti di una partita truccata, di una vincita sicura, Becchino si lascia trasportare dal suo amico, ignaro che la realtà sia un’altra. Al tavolo da gioco siede una banda di abili imbroglioni che in una mano sola si porta a casa l’intero malloppo. Costretti a dover restituire in brevissimo tempo il grosso debito, Becchino e Sasà scelgono una strada veloce: rubare un enorme quantitativo di marijuana dalla casa di un certo Mr. Nice, famoso per la sua erba al gusto di fragola. Con l’aiuto di Spadino, scaltro scassinatore, mettono in atto il colpo, ma anche qui qualcosa va storto. Anziché trovare la marijuana, si ritrovano una casa svaligiata con Mr. Nice imbavagliato e ammanettato su letto. Qualcuno che ha avuto la loro stessa idea è stato più veloce! Quel qualcuno si chiama Mr. Grady, un gay col vizio dei cavalli e protagonista di una delle storie parallele. Costretto anche lui a compiere quel furto per saldare un violento allibratore. Tutto si complica quando entrano in scena tre giovani prepotenti guardie, poco inclini alla divisa e molto inclini a quella che ormai sembra essere la regina della scacchiera: la marijuana. La scoperta di questa famosa erba al gusto di fragola li porta in quello che è l’obiettivo di tutti, ovvero casa di Mr. Nice. Tutte le storie finiscono per amalgamarsi e fondersi verso un’unica strada, quella che porta ad Amsterdam, dove tra coffee shop e tanti canali della capitale olandese, si concluderanno le disavventure degli ultimi due personaggi rimasti.

Andiamoci a prendere la libertà, così recita Becchino nell’ultima scena. Ganja Fiction vuol dire una ricerca perenne di libertà. Un’incessante fuga da scelte sempre sbagliate, dove le paure diventano realtà e più di qualcuno viene inghiottito. A tener banco sono i vizi che, come nella realtà, esaltano le personalità dei personaggi, facendone uscire il loro lato più nascosto, quello più oscuro. Manie sessuali, debolezze, esaltazioni. Non esistono distinzioni, né buoni né cattivi. Tutte le emozioni, da quelle positive a quelle negative, passano attraverso un’unica testimone, impassibile, silenziosa. Una particolare tipologia di marijuana al gusto di fragola. Il soggetto è di Mirko Virgili, anche regista dell’opera. La sceneggiatura, di proprietà della Spoilt srl, è scritta da Guido Ludovici.

Le riprese iniziano nel marzo 2010, comprendono un anno e mezzo di lavoro tra Roma e Amsterdam, prima di passare alla post audio e video. Il film è stato girato in digitale con Panasonic HPX171 e Canon 5D. Il costo totale dell’opera è di circa 50 mila euro, oltre a una formula di co-produzione con la maggior parte del cast tecnico e artistico. Il titolo stesso rappresenta l’obiettivo principale di questo film. Ganja Fiction è un prodotto giovane che vuole parlare ai giovani. L’ingrediente principale, la marijuana, è in realtà la chiave per riuscire ad aprire una porta resistente e complicata come quella che può essere l’interesse nei giovani. A condire questi ingredienti, una selezione di brani musicali, dal reggae al rap, con una scaletta di nomi di un certo spessore. La Spoilt srl può servirsi come promozione di una larga e diversificata diffusione di gadget promozionali, nonché di una capillare rete di passaparola, concentrata in quello che può essere il target del film. Si avvale peraltro della collaborazione degli artisti che hanno partecipato nella formula della co-produzione, con interventi e promozioni ognuno nel proprio campo, eventi, concerti, interviste in tv e radio. L’apparizione stessa di alcuni personaggi rapper garantisce un certo tipo di promozione in ambienti difficilmente raggiungibili dai media tradizionali: Noyz Narcos: noto rapper conosciuto da gran parte dei giovani di tutta Italia (già nel cortometraggio Ganja Fiction, la sua presenza ha garantito visite tutt'oggi copiose sul sito web del corto. Nel film recita un cameo di se stesso all’interno del coffee shop Greenhouse di Amsterdam); Duke Montana: altro famoso rapper (anche lui nel cortometraggio); G-Max, rapper dei noti Flaminio Maphia, da tempo sulle scene del palcoscenico televisivo. Un ruolo importante in Ganja Fiction ce l’ha la musica: musica giovane. Si passa dal reggae al rap fino ad arrivare alle musiche composte dal maestro Emanuele Bossi, studiate soprattutto per i momenti di maggiore tensione. per non farsi mancare nulla, una cover dei Nirvana nel punto principale dell’opera. Vediamo alcuni gruppi.

Villada Posse: crew di artisti romani che da oltre quindici anni contribuisce significativamente alla storia della scena musicale reggae e raffa muffin italiana. Sempre attivo con serate in tutta Italia e con partecipazioni agli eventi di musica reggae in tutta Europa.

Lion D: altro cantante reggae dell'Emilia Romana e della stessa etichetta dei Villada Posse, nato a Londra e con musiche in lingua inglese giamaicano.

Radici nel cemento: noto gruppo reggae nato in prossimità del litorale romano conosciuto da gran parte dei giovani e divenuto famoso non solo a Roma ma in ambito nazionale.

Pmk: nuovo gruppo reggae proveniente da Pignataro Maggiore, piccolo centro della provincia di Caserta, nel cuore della Gomorra raccontata da Saviano e proprio dalla loro terra traggono ispirazione per le loro musiche.

Rasta Ciccio: unica canzone fatta da questo cantante dal titolo Fumo tanta erba nota a tutti i giovani dei licei dal 1999 a oggi.

Quartiere Coffee: reggae band di Grosseto che nell’ultimo anno ha collezionato importanti risultati in numerose piazze italiana grazie anche al singolo Sweet Aroma e dal suo videoclip, pezzo cantato in lingua inglese.

Noyz Narcos: noto rapper già citato sopra per il suo cameo nel film.

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Erba Celeste (2016) di Valentina Gebbia

20 Agosto 2016 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #cinema

Erba Celeste (2016)  di Valentina Gebbia

Erba Celeste (2016)

di Valentina Gebbia

Conosciamo Erba Celeste dalle parole della sua autrice (scrittrice, regista, sceneggiatrice e tecnico del montaggio):

Il film è tratto da uno dei miei romanzi. Se hai visto il sito, saprai il miracolo produttivo che rappresenta, realizzato senza budget, con i tempi di una normale produzione, solo grazie a volontà e passione. Saprai anche che siamo stati invitati, finora, in tre Festival e che il film non è ancora uscito nelle sale. Dovrebbe essere una questione di settimane, ovviamente in un circuito di cinema indipendenti. Daniela Giordano è una delle gioie che questo film mi ha dato”.

Leggiamo la sinossi: “Celeste è una musicista che vive in una residenza per artisti nell’assolato entroterra siciliano, il Baglio Acquecalde. È ammalata di cancro e ha scelto di rompere col pensare comune per curarsi con l’alimentazione naturale, la fitoterapia, i libri e la cannabis. Amaranto, proprietario della residenza, è un affascinante architetto deluso dall’amore, con un carattere spigoloso e con grandi difficoltà a leggere nella propria anima. Insieme a loro, vivono il dottor Camillo, medico amante dell’alcol che ha girato il mondo, e artisti che in quel luogo hanno ritrovato una famiglia, immersi nel verde incontaminato e nell’amore di Celeste. Il loro microcosmo è violato da alcuni eventi: Daniela, scrittrice bizzarra e un po’ fuori di testa, è certa che proprio fra quelle mura, le abbiano rubato il suo ultimo manoscritto, mentre nel comportamento di alcuni anziani, c’è qualcosa di strano e inspiegabile. Amaranto cerca di scoprire cosa accada e, nell’indagare, si troverà a diffidare proprio della sua amica Celeste che, nei pomeriggi domenicali, offre agli amici un tè a base di erbe non identificate. L’uomo crede che Celeste droghi la gente e che i mali del posto scaturiscano da lei. Un anziano attore muore per un apparente attacco di cuore e la situazione si fa sempre più tesa perché anche Doriano, il direttore d’orchestra, si sente male nella notte. Il Baglio Acquecalde finirà per diventare una metafora del mondo, un mondo che spaccia per verità atroci bugie e chiama droghe solo alcune sostanze condannate dalla convenienza della storia. Nell’intrecciarsi di sentimenti forti, storie d’amore, colpi di scena e tenerezza, e soprattutto nell’amicizia tra Amaranto e Celeste, nel loro incontro-scontro, c’è tutta la speranza di chi crede ancora nel futuro della vita”.

Erba Celeste è un buon film indipendente dove la Giordano recita qualche posa, dopo trentacinque anni che non calcava le scene, poco utilizzata nel ruolo della degente Adele, quasi sempre ripresa seduta e con un ruolo non molto influente nell’economia della storia. Un tema difficile come l’uso terapeutico della marijuana ha reso complessa la pratica di autorizzazione legislativa. A nostro giudizio le parti peggiori, quelle più didascaliche e ridondanti, narrate come una lezione scolastica, sono da ricercarsi nelle poche sequenze in cui la regista - attrice tenta di giustificare l’uso della cannabis. Il film gode di molti pregi e di una confezione sontuosa a livello di fotografia e di colonna sonora, una messa in scena pregevole e una recitazione - pur non perfetta - più che passabile visto che gli attori non sono degli affermati professionisti. Molto bravo il protagonista Daniele Musso nei panni di Amaranto, credibile voce narrante e importante presenza come deus ex machina della storia che si sviluppa all’interno della residenza assistita e vede come filo conduttore l’amicizia tra il ragazzo e la degente Celeste. Bene Valentina Gebbia, sia come regista che come interprete, buona la sua performance (a parte le sequenze troppo didascaliche) e interessante la direzione degli attori. Ottimi piani sequenza, suggestive panoramiche, rapide dissolvenze, colore intenso nelle riprese diurne ed efficace fotografia notturna giallo ocra, espressivi volti di anziani ripresi in primo piano. Straordinaria la colonna sonora - una delle cose migliori della pellicola - che accompagna immagini fotografate con mirabile intensità poetica. Note di merito per Ugo Flandina (fotografia) e Maurizo Bignone (colonna sonora) che con il loro lavoro conferiscono alla pellicola un valore aggiunto importante. Non condivido una parola del tema portante del film ma questo non inficia il giudizio estetico che resta molto positivo, inoltre, a parte l’uso della cannabis, resta il condivisibile tema dei valori caduti e degli anziani ormai ritenuti inutili e abbandonati a loro stessi. Difetto di fondo una recitazione teatrale, troppo impostata, e una sceneggiatura - soprattutto i dialoghi - che risente di una scrittura lirica, a tratti persino retorica. La storia riesce comunque a decollare, sollevandosi dalle pastoie di un eccesso didascalico, terminando con un finale da film giallo. Restano pesanti come macigni le parole del protagonista: “Non cambierò il mondo ma d’ora in poi voglio cercare di cambiare un po’ il mio mondo”.

Il film vince con merito il Premio del Pubblico all’ottavo Sciaccia Film Festival, inoltre viene presentato alla sessantaduesima edizione del Taormina Film Festival e nella sezione Sguardi Altrove del Womens Film Festival. Erba Celeste è realizzato con passione e volontà, grazie a molti sponsor e a una produzione composta dagli stesi attori. Girato nella zona di Palermo, con suggestive riprese della spiaggia di Mondello, fiumi montani, palazzi storici e spaccati di lungomare della città sicula. Citazione cinefila da A qualcuno piace caldo di Billy Wilder con un brano del film durante una proiezione, il famoso finale dove si recita la battuta: “Nessuno è perfetto!”.

Regia: Valentina Gebbia. Soggetto e Sceneggiatura: Valentina Gebbia (dal suo romanzo omonimo). Fotografia: Ugo Flandina. Assistenti Fotografia: Duilio Scalici, Salvo Cataldo. Montaggio: Valentina Gebbia, Ugo Flandina. Aiuto Regista: Ugo Flandina. Colonna Sonora: Maurizio Bignone. Assistenti Regia: Duilio Scalici, Antonio Forestieri, Francesco Gebbia. Costumi: Manuela Velardo. Trucco: Salvo Bartolone. Operatore alla Macchina: Duilio Scalici, Ugo Flandina, Salvo Cataldo, Marco Di Stefano, Nicola Virgilio. Scenografia: Manuela Velardo, Maurizio Riotta, Andrea Vita. Fonico: Davide Buglisi. Produttore Esecutivo: Micro Film Associazione Culturale. Direttore di Produzione: Anna Li Muli. Fotografo di Scena: Gero Cordaro. Effetti Speciali: Ivan Monterosso. Musiche: Maurizio Bignone. Pezzi Musicali: Il vento e le rose, La giostra delle favole, Melanconia e conforto, Lo scrigno dei piccoli tesori (eseguite dal Trio Siciliano: Fabio Piazza, pianoforte - Silvio Dima, violino - Giorgio Gasbarro, violoncello); Into the dark, The rason of the soul (eseguiti da Luca Pincini, violoncello e Gilda Buttà, pianoforte); Dancing in the clouds, The restaurant, Forever friends (eseguiti da Sicilia String Orchestra). I brani Baglio e Celeste sono di Fabrizio Fortunato. Brano S’iddu moru: musica e voce di Laura Lala, testo da Cavalleria Rusticana e Anonimo Tradizionale, pianoforte di Sade Mangiaracina, basso Diego Tarantino, batteria Claudio Mastracci. Brano L’urtimo ri l’urtimi: testo e voce Laura Lala, musica e pianoforte Sade Mangiaracina. Brano Nonnuzza: testo, musica e voce Laura Lala, pianoforte Sade Mangiaracina, basso Giacomo Buffa. Brano Flowers di Duilio Scalici e Valerio Panzavecchia, eseguito da Manmuswak. Brano Erba Celeste (titoli di coda): testo Valentina Gebbia, musica Rosario Castelluzzo, voce e arrangiamento Giorgio Spica, Alessandro Mirabella. Interpreti: Daniele Musso (Amaranto), Valentina Gebbia (Celeste), Fabio Gagliardi (Camillo), Daniela Lampasona (Daniela), Luigi La Rocca (Luigino), Pippo Montedoro (Doriano), Daniela Giordano (Adele), Giuseppe Battiloro (Mario), Roberta Murgia (Lucrezia Ballotta), Giorgio Spica (Marcello), Roberta Impallomeni (Laura), Giusy Ferrante (Loredana), Angela Iacomeni (Teresa), Giuseppe Santostefano (Demetrio), Francesco Boscia (Nora Li Puma), Margot Pucci (Giuditta Li Puma), Salvo Ficano (Mirelli), Maurizio Juso (Casimiro), Marina Fragale (Gilda), Adriana Dolce (Altera), Gino Bonanno (Rosario), Marilia Chiovaro (Cecilia), Giuseppe Nicastro (Alfredo), Mirko Ingrassia (Alfredo), Piero Gebbia (Direttore Libreria), Renato Magistrato (Paolo), Marco Maria Correnti (Michele), Daniela Vita (Sara), Antonio Valguarnera (Ruggero), Giuseppe Celesia (amico Amaranto), Marina Provenzano (Vittoria), Patrizio Rizzo (barista), Aldo Messina (medico), Valentina Tilotta (segretaria), Stefano Billante (Leonardo Dorini), Francesco Gebbia, Elena Gebbia, Nicoletta Arena, Ludovico Genuardi, Federico Scrima (ragazzi libreria), Livia Arena Schonberger (turista tedesca), Rosanna Pirajno, Gaspare la Grassa, Toni Catania, Giovanna Ribaudo, Giuseppe Visconti, Vincenzo Gianbanco, Piero Russo, Marcella Abbate, Angelina Gertrude Pace, Antonio Pia Alagna, Giuseppe Caiozzo, Francesco Callari (ospiti residenza), Caterina Buscemi, Maria Terzo (cameriere), Manuela Velardo, Gaspare Catania, Francesco Valguarnera (impiegati residenza), Benedetto Modica, Federico Portelli (trasportatori), Rosario Andrea Lio, Alessandra Benigno (figli Demetrio), Davidel Basile (falegname).

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Annibale e Scipione, due grandi condottieri a confronto

19 Agosto 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #storia

La costituzione romana posava sulla più perfetta organizzazione militare della storia: cittadini ed esercito erano una cosa sola. Una legione era una formazione mista di 4200 fanti, 300 cavalieri e vari gruppi ausiliari, ciascuna legione era divisa in centurie, comandate dai centurioni e aveva il suo vexillum. Ma i Cartaginesi erano ancora molto forti e volevano tornare ad essere i padroni del mare.

Dopo qualche anno, Roma e Cartagine erano di nuovo in guerra fra loro. I Cartaginesi misero a capo del loro esercito un grande generale che si chiamava Annibale Barca (247 - 183 a.c.) e odiava Roma con tutto se stesso. I Romani sorvegliavano il mare fra Cartagine e la Sicilia perché pensavano che i Cartaginesi sarebbero passati di lì per muovere contro Roma. Invece Annibale andò in Spagna e poi, attraverso la Francia, arrivò ai piedi delle Alpi per cogliere di sorpresa i Romani. Attraverso le Alpi non c’erano strade, le montagne erano coperte di boschi, di neve e di ghiaccio ed erano abitate da popolazioni selvagge e pericolose. Per valicarle Annibale dovette aprirsi una nuova strada e combattere i montanari. Riuscì comunque ad attraversarle con tutto il suo esercito, con i carri, i cavalli e persino alcuni elefanti.

Mentre i Romani sorvegliavano il mare, l’esercito di Annibale apparve all’improvviso nella pianura padana. L’esercito romano gli si mosse velocemente incontro ma i soldati di Roma arrivarono stanchi e spaventati e combatterono debolmente. Ci furono battaglie sul Ticino, sul Trebbia, sul Trasimeno e a Canne in Puglia. i Romani persero sempre; perdevano, retrocedevano ma non si arrendevano mai. Il giovane romano era educato alla guerra fin dall’infanzia, studiava l’arte militare e trascorreva molto tempo negli accampamenti. La vigliaccheria era considerata peccato senza perdono, punito con la fustigazione fino alla morte. Ai disertori e ai ladri veniva tagliata la mano destra. Il cibo in guerra era semplice: pane, polenta, verdura, vino agro, raramente carne. Morirono così tanti Romani che Annibale pare abbia fatto raccogliere tre cesti degli anelli che i patrizi portavano al dito.

Annibale vinceva e vinceva ma era chiuso in Italia senza rinforzi dalla madrepatria e ad ogni battaglia le sue scorte di uomini e mezzi sia assottigliavano. Intanto i Romani, guidati dal generale Scipione (236 – 183 a.c.) erano sbarcati in Africa e minacciavano la stessa Cartagine, dopo essersi accordati col re numida Massinissa. A seguito della disastrosa battaglia di Canne, i Romani evitarono altri scontri diretti e gradualmente riconquistarono i territori del sud Italia di cui avevano perso il controllo. Annibale fu richiamato a difesa della patria ma a Zama subì la prima sconfitta che segnò la fine della seconda guerra punica. Allo scopo di terrorizzare i Romani, il condottiero cartaginese schierò i pachidermi dinanzi alle proprie linee ma Scipione ordinò all'intera linea di suonare le trombe e i corni. Dallo schieramento romano si levò così un frastuono tremendo che terrorizzò gli elefanti al punto che molti di essi si voltarono e caricarono le loro stesse truppe.

I romani vinsero la guerra e ottennero tutte le navi cartaginesi. Cartagine rimase senza flotta per il commercio e perse importanza. Annibale si nascose prima in Siria e poi in Bitinia, quando i Romani ne chiesero l’estradizione, preferì suicidarsi.

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Segnalazione: ancora un romanzo di Tommaso Carbone

18 Agosto 2016 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #segnalazioni

Segnalazione: ancora un romanzo di Tommaso Carbone

È uscito il 2 agosto in formato ebook il romanzo di Tommaso Carbone Il cadavere del santuario, Libromania-De Agostini, pagine 142, a euro 0,99, fino al 31 agosto.

Il corpo di Giulia Palmieri viene ritrovato in un dirupo alle porte di Grottole, in Basilicata. Nulla nella vita regolare della donna sembra giustificare un omicidio. Le indagini del capitano De Ruggieri si complicano ulteriormente quando un collega della vittima, inizialmente tra i sospettati, viene a sua volta assassinato. La scia di sangue si allunga arrivando a lambire importanti personaggi della politica e dell’imprenditoria locale. Mentre le due morti portano a galla segreti e misteri inconfessabili della piccola comunità, il tempo stringe per il capitano De Ruggeri, perché là fuori c'è qualcuno che ha deciso di farsi giustizia da solo.

Tommaso Carbone è nato nel 1963 a Grassano, in provincia di Matera, si è laureato in Pedagogia e insegna nella scuola primaria. Nel 2012 ha pubblicato Niente è come sembra (Rusconi). Il suo racconto Un angelo vestito di nero è stato incluso nella raccolta Carabinieri in Giallo 3 (Mondadori). Con Libromania ha pubblicato il romanzo Il sole dietro la collina e Non avrete scampo.

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Omaggio a Darwin

17 Agosto 2016 , Scritto da Lidia Santoro Con tag #lidia santoro, #scienza, #filosofia

Omaggio a Darwin

Mi propongo di dare qui un breve compendio del progresso delle idee sull'origine delle specie. Fino a poco tempo fa, la grande maggioranza dei naturalisti credeva che le specie fossero immutabili e che fossero state create l'una indipendentemente dall'altra. Numerosi autori hanno abilmente sostenuto questo punto di vista. Alcuni naturalisti, invece, erano convinti che le specie subissero modificazioni, e che le attuali forme di vita discendessero per generazione regolare da forme preesistenti. (Darwin L'origine delle specie, 1859).

La vita della teoria di Darwin non è mai stata facile: l’evoluzionismo è un’importante teoria scientifica che ci ha permesso di risolvere tanti interrogativi fisici, ma offre anche tante tematiche interessanti su cui meditare e sperimentare per provarne la validità. Scomodiamo Popper e la sua concezione epistemologica della scienza: egli paragona la storia della scienza alla teoria dell’evoluzione di Darwin. Tutte le teorie scientifiche devono riuscire a superare una revisione empirica per poter sopravvivere ed essere accettate. La ricerca quindi non ha mai fine e la teoria sopravvive fino a quando non si possa dimostrare la non validità della teoria stessa.

E una teoria scientifica ha tanti nemici, politici, religiosi, filosofici. Nel pubblicizzare le sue idee Darwin temeva le conseguenze, anche se non prevedeva una tale rivoluzione del pensiero imperante.

Egli individuò il motore dei cambiamenti nella selezione naturale, motore che esprime la differenza esistente tra gli individui di una popolazione e regola la loro possibilità di sopravvivenza e di riproduzione; ma non fu facile poter dimostrare ciò che aveva visto con i propri occhi nei luoghi visitati, né bastarono l’attento e minuzioso diario, né gli schizzi con cui corredava ogni scoperta. La comunità scientifica gli contestava la non trasmissibilità delle variazioni che lui sosteneva di aver scoperto; solo con Mendel e le sue leggi e poi con gli studi sulla genetica, i suoi risultati furono giustamente valutati, ma la teoria sull’evoluzione delle specie continua a non aver vita agevole, né nell’ambiente scientifico, né in quello religioso.
Mettere a tacere definitivamente le controversie che, ancora oggi, periodicamente affiorano e offendono il suo pensiero, è forse l’omaggio che Darwin gradirebbe di più, per i 200 e più anni passati dalla sua nascita.
La negazione della teoria dell’evoluzione deriva in primo luogo dalla mancanza di cultura e di nozioni biologiche: è più comodo credere l’uomo al centro degli esseri viventi, anzi al vertice della piramide, senza porsi problemi sull’evoluzione e le trasformazioni che comunque sono anche sotto i nostri occhi (basta dare uno sguardo ai numerosi reperti fossili, orme del passato che, come le vecchie foto denunciano i cambiamenti dei costumi e delle abitudini così essi evidenziano le trasformazioni degli esseri viventi). E alla opposizione culturale si affianca quella di natura religiosa.
Le religioni si basano su dogmi o miti inoppugnabili: solo la fede e non la ragione rivela la verità. La fede è qualcosa di più che indimostrato, è indimostrabile, è qualcosa di assurdo. Questo atteggiamento raggiunge la massima espressione con Tertulliano e può essere sintetizzato nel concetto che gli viene attribuito “credo quia absurdum “, una verità è tanto più vera, quanto più appare assurda. Nel corso dei secoli la Chiesa, anzi le Chiese, sono rimaste saldamente ferme nei propri steccati, rigidi e inamovibili. L’evoluzione e la scienza in generale sono invece una continua, ininterrotta ricerca.
Quasi sempre i due credo sono in antitesi, e l’uno non accetta il divenire dell’altro. Le regole di comportamento, di ricerca, di insegnamento dovrebbero essere chiaramente secolari e democratiche, indipendenti da lingua, cultura, religione; le eredità scientifiche sono patrimonio dell’umanità e come tali protette e svincolate da qualsiasi forma di integralismo, sia esso religioso, politico o anche culturale.
Le religioni monoteistiche, sempre molto distanti tra loro, e solo recentemente più tolleranti, sembrano invece molto unite, rispetto a questo problema.
Giovanni Paolo II, attraverso l’Accademia Pontificia delle Scienze dice “le scoperte recenti portano a credere che la teoria dell’evoluzione è qualcosa più di una ipotesi”.
Viene da pensare che, da un pensiero stridente, trascendente e mistico, estraneo a un reale contatto con la storia e la realtà, possa derivare appena un piccolo spiraglio che non compromette molto, né prende posizioni nette e indubbie: quale teoria dell’evoluzione? Perché Darwin non viene nominato?
Per la chiesa di Roma insomma l’uomo è opera dell’atto della creazione, così come tutti gli esseri viventi e l’universo intero. Se pure ci fosse l’evoluzione, sarebbe comunque sotto il controllo divino.
La chiesa protestante è, di norma, rigida osservatrice dei testi sacri, inoppugnabili come i fondamenti della cristianità; negli ambienti del liberalismo protestante, invece, si affida a ogni credente la possibilità di scegliere criticamente e responsabilmente le proprie verità, derivanti sempre, però, da una lettura minuziosa e attenta della Bibbia.
Nelle chiese ortodosse, russa e greca, le autorità religiose, molto autonome, non sono vincolate alla chiesa di Roma, ma rimangono comunque legate ai concetti biblici della creazione in sei giorni, anche se, generosamente, i giorni vengono intesi come periodi storici.

Per il giudaismo, l’assenza di un’autorità centrale, che dia indirizzi precisi e univoci, consente, atteggiamenti molteplici ma pur sempre critici.
Per l’Islam, infine, tutto ciò che abita e popola la terra è stato voluto da Allah, negazione della teoria dell’evoluzione. Si possono accettare solo le mutazioni, come errori sfuggiti all’opera perfetta di Dio.
Negare la validità delle teorie darwiniane, è un passo indietro nella storia, nella religione e nella cultura dei popoli. Oggi, paradossalmente, prima ancora che le stesse teorie siano state totalmente e definitivamente accettate, si parla di un traguardo finale a cui sarebbe giunta l’evoluzione: le migliori condizioni di vita, le scoperte scientifiche, i progressi della medicina e della chirurgia avrebbero provocato una battuta di arresto al processo evolutivo Dopo duecento e più anni, Darwin ancora divide e unisce, infiamma e allontana.

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Federica Cabras, "E non VISSERO FELICI E CONTENTI"

16 Agosto 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #federica cabras

E non VISSERO FELICI E CONTENTI

Federica Cabras

Streetlib

pp 254

12,50

Un romanzo, questo E non VISSERO FELICI E CONTENTI di Federica Cabras, che disorienta sotto tanti punti di vista. Appartiene al genere noir ma sembra voler scavare nell’approfondimento psicologico. Parte da una premessa accattivante (e da un paio di capitoli in medias res che sono i migliori del libro e fanno ben sperare) per poi evolvere in qualcosa di inaspettato e diverso. È scritto con un linguaggio divertente ma che ha anche ambizioni letterarie. Alterna una narrazione fin troppo tradizionale con agili dialoghi (le visioni del protagonista maschile) che sono la parte più riuscita. Vuol dimostrare che da un atto malvagio può scaturire anche il bene ma lo fa mescolando a un’apparente leggerezza un’atmosfera mortuaria.

I protagonisti sono Eddie e Sandie, due coniugi che riportano alla mente certe coppie diaboliche della cronaca recente: Olindo e Rosa, Erica e Omar etc. Amori malati, dipendenza eccessiva e reciproca, una delle due figure che plagia l’altra fino a indurla al male, fino all’omicidio.

I due sposi vivono un rapporto tormentato, si sono allontanati psicologicamente dopo la morte in culla di una figlia, non hanno, però, mai smesso di amarsi di un amore malato che somiglia all’odio e che li terrà uniti fino alla morte e oltre. Lei è bellissima, fredda, egoista, calcolatrice, cattiva. Lui è debole e la subisce. Lei gli è infedele con un uomo che si dimostrerà pericoloso.

Ma la storia, che non posso svelare per intero, sebbene avvincente e scorrevole, non quadra, mostra delle incongruenze. Com’è possibile che una persona che fa di tutto per salvarsi dalla morte decida subito dopo di uccidersi?

Anche lo stile, come abbiamo detto, alterna momenti letterari ad altri comici, dialoghi serrati e moderni ad altri più banali. Le figure secondarie sono sviluppate in un modo che forse è eccessivo per il ruolo che ricoprono, come se si volesse rendere più corale il romanzo, senza però avere il coraggio di farlo fino in fondo.

Credo che l’autrice abbia bisogno di lavorare ancora, non solo di editing (c’è una serie di strani refusi che fa apparire il testo quasi tradotto da una lingua straniera) ma anche per liberarsi dalla zavorra che sembra frenarla. Parlo del fatto di non aver ben deciso quale strada prendere, se quella della storia di sentimenti o del thriller - per mescolare i due generi e farlo davvero bene bisogna essere Stephen King - e neppure quale stile adottare, se una narrazione effervescente che mal si sposa con il cupo e orrifico argomento trattato, oppure un linguaggio più elevato e poetico.

Se la Cabras saprà scegliere una delle due strade, senza mixarle indecisa - errore che riscontro in parecchi esordienti - raggiungerà senz’altro degli ottimi risultati perché le premesse per un buon incremento ci sono tutte.

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2016 che anno di merda!

15 Agosto 2016 , Scritto da Francesca Romana Con tag #racconto

2016 che anno di merda!

“2016 che anno di merda!” È cominciato male, ricordi Stefano? Eravamo insieme, come ogni anno da tredici anni ormai, al veglione di San Silvestro con tutti i colleghi: vino, vestiti eleganti, mutande rosse che portano bene, poi a mezzanotte il brindisi. Io, come sempre, ho alzato il calice e ho guardato verso di te, ma tu eri girato da un'altra parte. Seguendo il tuo sguardo, l'ho vista la biondina tutto pepe, la nuova recluta con dieci anni meno di me, che da quando era arrivata, due mesi prima, faceva strage di cuori. Era fasciata in un tubino nero che le mozzava il respiro e le tette rifatte le schizzavano fuori dalla scollatura. Ho avuto un triste presentimento, poi tu ti sei girato, hai abbassato lo sguardo, eri imbarazzato ed è stato lì che ho pensato per la prima volta “2016 che anno di merda!” e invece ad alta voce ho detto “auguri amore!” tu hai farfugliato qualcosa e poi mi hai portata in pista. Mi tenevi stretta aggrappandoti a me come un naufrago si terrebbe alla zattera, ma la marea ti stava portando lontano e ho iniziato a sentire freddo.

Che freddo di merda ho avuto per due mesi giorno e notte: un brivido che mi percorreva dentro e mi faceva battere i denti, non mi scaldavano maglioni e termosifoni, il gelo era sceso nel mio cuore e aspettavo la primavera , sperando che tu tornassi da me. Furono due mesi di bugie a cui fingevo di credere, sessanta giorni in cui ti inventavi cambi di turno per uscire all'improvviso, straordinari fuori programma per tornare a notte fonda. E io zitta a tremare di freddo nel letto da sola, o era paura? Una folle paura di perderti, di ammettere che il tuo sorriso più dolce non era più solo per me. Abbiamo fatto anche l'amore qualche volta. Oh, sì, ti piaceva farlo con me, io sapevo come farti impazzire e tu sopra di me eri libero, eri te stesso, eri padrone. L'avevamo fatto anche meglio di altre volte, forse perché io cercavo di godermi ogni attimo come fosse l'ultimo e tu pensavi a lei. Avevamo goduto a lungo ed eravamo rimasti fianco a fianco in silenzio, spossati, sudati, senza parole e dopo io avevo sentito di nuovo freddo.

Poi una sera sei tornato e non so come hai trovato il coraggio “Romi, io amo un'altra. Ti lascio, mi dispiace...” e hai iniziato con una serie di scuse interminabili a dire che non volevi farmi soffrire, mentre io tremavo sempre di più, che non avresti mai pensato che potesse succedere e nel mentre mi strappavi il cuore, lo gettavi a terra, lo calpestavi. “2016 che anno di merda!” fu l'unica cosa che riuscii a dire, ma non piansi, non davanti a te. Piansi dopo per ore, per giorni, mentre realizzavo il vuoto della mia vita. Piansi dopo, quando ti dicevo che potevi passare a prendere le tue cose che io sarei stata fuori e invece ti guardavo portare via le valigie nascosta dietro l'angolo di Piazza del Popolo. Dio quanto eri bello e Dio solo sa quanto ti ho amato.

Ho provato a voltare pagina, ti giuro. Cercai di reagire, di non pensarti, uscivo con le amiche, ho anche accettato di farmi accompagnare a casa da Giorgio, ricordi? Mi moriva dietro da sempre, ma una volta seduto sul divano con me ha capito anche lui che non avrei mai potuto lasciare che nemmeno mi sfiorasse con un dito e se ne andato mogio mogio, promettendomi amicizia, affetto incondizionato e poi non si è fatto più vedere. Ma chissenefrega di Giorgio, di Carlo e di chiunque altro, tu non c'eri più e la casa era vuota, la doccia pulita, il letto mai disfatto, e a volte provavo, appena entrata, a restare un attimo in silenzio immaginando di sentirti cantare mentre spadellavi frittate o cuocevi spaghetti. Provai ad odiarti ma ancora non ci riuscivo. Speravo che saresti tornato e volevo essere pronta, non potevo cancellarti dal mio cuore.

Poi un giorno, un collega, sai uno di quelli che si professano amici di tutti ma non sai mai di chi veramente lo sono, si avvicina e mi fa “ senti Occhi di gatto...”, questo era il mio soprannome fra i vecchi dell'ambiente, ” io ti sono amico e non posso tacere, tanto presto o tardi lo scopriresti da sola , sai...”, cercava le parole e io lo fissavo interrogativa, ” la donna di Stefano è incinta” disse e, mentre lui continuava a parlare con tono compassionevole, cercando di farmi coraggio, io non lo ascoltavo più. La testa mi ronzava “2016 che anno di merda!” non sentivo più nulla, solo un ronzio, come se un calabrone mi avesse punto il cervello e si stesse gonfiando, mi sarebbe scoppiato e presto avrebbe fatto schizzare gli occhi e la materia grigia sarebbe uscita dalle orbite, colando a terra goccia a goccia, lasciandomi vuota, ebete, senza più sentimenti né pulsioni, senza gioe né dolori. Presto sarebbe tutto finito.

Feci un sorriso forzato e girai le spalle, uscendo ti incontrai sul cancello, stavi montando in servizio e io smontavo, erano quattro mesi che ci avevano organizzato i turni in modo che non dovessimo mai incontrarci. Incrociai il tuo sguardo. eri contento, stavi pensando a lei e ti si mozzò il sorriso sulle labbra. Finalmente ti odiavo, dai miei occhi uscivano fiamme e mi accorsi che per un attimo avesti paura. Mi fissavi a bocca aperta, io passai oltre e, fatti pochi passi, ti chiamai ad alta voce: “Stefano!”. Ti girasti sorpreso e il cellulare ti colpì in piena fronte. Era stato il tuo ultimo regalo, conteneva tutte le nostre fotografie, i nostri ricordi e non volevo tenerlo con me.

Il giorno dopo mi presi un turno di ferie, tu eri smontato dalla notte e dormivi da lei, venni sotto casa e mi fermai su una panchina. Mi ero portata una bottiglia di vino e iniziai a bere, brindavo a voi, alla vostra salute, al bambino che avrebbe allietato la vostra vita e brindavo al “2016, davvero un anno di merda!” . Bevvi tanto, troppo, non bastò una bottiglia, ne comprai un'altra ed era quasi buio quando, dopo un'intera giornata passata a bere senza mangiare nulla, arrivai di nuovo barcollando davanti casa vostra e iniziai a urlare sotto la finestra “vieni giù uomo di merda! Vieni a dirmi in faccia che farai un figlio con la tua puttana” e in quel preciso momento scoppiai a piangere, caddi in ginocchio e piansi.

Non so come ero tornata sulla panchina e lì mi raccolse un collega con la volante, raggiunto dalla telefonata che avevi fatto tu per segnalare le mie molestie. Ero fradicia di pioggia, ubriaca marcia e avevo freddo “2016 che anno di merda” gli dissi soltanto e mi addormentai in auto mentre mi portava in Questura. O forse fu un dormiveglia in cui rivissi attimo per attimo quel lontano giorno in cui avevo perso la nostra bambina. Ricordi Stefano? Ero incinta di cinque mesi, tutto andava bene poi all'improvviso una fitta lancinante in fondo alla pancia e quel rivolo di sangue che mi scendeva lungo la coscia. Il panico mentre mi portavi in ospedale, il dolore, quando mi dissero che era morta. La vidi sai? Era piccolissima e rosa, credo di essere morta un poco anch'io quel giorno e forse è morto anche il nostro amore con lei. Niente fu più come prima, io che volevo riprovarci a tutti i costi, tu che rifiutavi. Avevi paura per me o chissà forse per te, non ci dicemmo mai niente, ma i sensi di colpa uccisero giorno dopo giorno il nostro rapporto. Ora l'avresti avuta con lei la “nostra” bambina, non si perdonano certe cose.

Arrivata in Questura ero sveglia, piangevo, il trucco sciolto che colava sul viso e tremavo, tremavo di nuovo come una foglia in balia del vento. Il capo mi prese da parte, mi fece la paternale, mi voleva bene, mi ha sempre stimato, aiutato e mi assicurò che non ci sarebbe stata denuncia da parte di Stefano anche se gli avevo sfregiato la macchina con la chiave, anche se aveva un bernoccolo in testa per via del cellulare la sera prima, mi assicurò che non ci sarebbero stati nemmeno provvedimenti disciplinari, ma io dovevo promettere che mai più mi sarei avvicinata a lui e che avrei fatto subito domanda di trasferimento e che avrei accettato di incontrare la psicologa che segue chi ha problemi di stress a causa del servizio. Non ricordavo di averti graffiato la macchina, non ero sicura, allora guardai la chiave di casa nostra e vi trovai tracce di vernice blu, la stessa della tua auto.

Accettai ogni condizione. Incontrai la psicologa e, mentre aspettavo il trasferimento, non uscii mai di casa se non per lavoro, non un uomo, non un sorriso. Rientravo in casa e mi chiudevo in camera mia, davanti al PC. Mi inventai una realtà virtuale, un uomo dolcissimo e meraviglioso che mi amava, che mi copriva di attenzioni e la sera facevo l'amore con lui a distanza, non pensavo più a Stefano, seguivo i colloqui con la psicologa e ricominciai a lavorare con impegno. Stavo guarendo. Appena finito il turno correvo da lui, lui mi aspettava. Non mi avrebbe mai fatto soffrire, poi una sera si è rotto il computer, niente schermo, niente collegamento, niente più uomo dei miei sogni. “2016 che anno di merda”. Fu proprio quella sera che suonasti alla porta, avevi dimenticato qualcosa nell'armadio e mi chiedevi di entrare, ti scusavi per non aver avvertito, ma tanto sapevi che ero sempre in casa, fu così che mentre fingevo di sorriderti, ti presi alle spalle e ti colpii con violenza alla testa con la tua mazza da baseball, proprio quella che eri venuto a cercare e che non trovavi nell'armadio.

Ora sei lì disteso a terra, una pozza di sangue sotto la testa, mi guardi e mi ascolti attentamente con gli occhi spalancati. Sei tutto mio un'altra volta, sei qui e non te ne andrai mai più, aspetteremo insieme che arrivi l'estate.

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Come se fosse l'ultima

11 Agosto 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #moda

Come se fosse l'ultima

Vivo questa estate come se fosse l’ultima. Non pensate a cose eclatanti o a incontri mondani. Niente aperitivi etc. etc. Sto solamente rispolverando tutte le vecchie, personali tradizioni, tutti i riti collegati alla bella stagione che ho accumulato negli anni. Visti da fuori non hanno nessuna attrattiva e, in parte, molti li avevo anche accantonati. Ora li riesumo, come quegli abiti che non hai il coraggio di buttare perché hanno il profumo dei ricordi più cari.

Parlo di un pomeriggio sonnolento in Fortezza, sui pratini sterrati; parlo di camminare la notte per le strade del centro, sentendo l’asfalto che ribolle sotto la gomma delle infradito e i cassonetti che esalano odori forti; parlo di un frate del mercato, gonfio e bollente, che ti lascia tutta la bocca sporca di zucchero; parlo di una pizza da Ughino, quando finisce Effetto Venezia e ci si riappropria dei Fossi.

Poi ci aggiungo altre consuetudini, altri “mi piace” legati ai nuovi spazi, alla nuova vita di adesso, come leggere un libro di ritorno dal mare, con l’usciale del terrazzo aperto e il vento leggero a rinfrescarmi prima di cena.

E, intanto, penso alle vacanze, a che mettere in valigia. Di certo quasi tutti gli ultimi acquisti: c’è chi porta in viaggio le cose più vecchie e consumate, per quello ho già me stessa e allora incigno.

A proposito di questi termini, usciale, incignare, ribollire sono parole che usiamo dalle mie parti dove il sì suona, e suona talmente bene che non sbaglia mai. Andate sul dizionario e vedrete che il toscano, al quale, invecchiando, sempre più mi lego - la bella lingua di mia nonna e della mia prozia - è italiano purissimo e primigenio.

E ora le novità nel guardaroba.

Il top con le maniche scese sulle spalle, sembrava dovesse essere la moda di quest’anno ma in giro, a dire il vero, se ne vedono pochi, quindi l’ho preso più come pezzo originale che di tendenza. A proposito, queste canotte lunghe dovrebbero essere portate, come fanno le giovani, con pantaloncini corti alla stessa altezza: il risultato è una frotta di ragazzine tutte uguali che girano con apparentemente indosso solo la maglia. Io che sono nonna mi sono inventata una maniera per coniugare l’età con la moda: le abbino a pantaloni oppure a gonne sotto il ginocchio delle quali resta visibile solo una striscia.

La canotta celeste semplicissima, appena un poco più corta davanti, che sta bene col denim.

La canotta bianca, in tessuto simile all’organza ma sintetico, un classico che risolve tanti problemi.

E… infine… scarpe scarpe scarpe!!! La mia passione, la passione di tutte noi. Due sandali caratterizzati da un minimo di zeppa, che avrei preferito con meno lustrini ma mi sono dovuta adattare a quello che ho trovato.

Speriamo di non risentirci tanto presto, perché non è proprio il caso che io compri altra roba almeno per ora. Ciao!

Come se fosse l'ultima
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‘TERAPIA INTELLIGENTE’, INTERVISTA ALLO SCIENZIATO SANNITA ANTONIO IAVARONE

8 Agosto 2016 , Scritto da Lidia Santoro Con tag #interviste, #medicina, #lidia santoro

‘TERAPIA INTELLIGENTE’, INTERVISTA ALLO SCIENZIATO SANNITA ANTONIO IAVARONE

Come sappiamo grandi passi avanti sono stati fatti nella ricerca per contrastare il tumore al cervello e l’autore di un’eccellente scoperta è il neuroscienziato beneventano Antonio Iavarone, Professore di Patologia presso la Columbia University di New York, che, con il suo team, ha testato gli effetti positivi ottenuti dalla somministrazione di un farmaco in grado di bersagliare una molecola anomala che rende ancora più aggressivo il tumore al cervello. Gli scienziati ritengono che ‘neutralizzando’ questa proteina si riuscirà a bloccare la crescita del tumore. Un obiettivo cui il team sta lavorando.

Ecco, dunque, di seguito pubblicata l’intervista fatta da Lidia Santoro allo scienziato Iavarone per ‘Hevelius’:

Lidia Santoro: Vorrei poter fare una premessa e credo che anche Lei sia d’accordo, se ricordo bene le Sue risposte ad alcune interviste: non desidero toccare l’argomento della fuga dei cervelli, la sua dolorosa scelta (dolorosa per Lei, ma anche per noi). Parliamo invece delle Sue importanti scoperte, che possono cambiare completamente le prospettive drammatiche che ci terrorizzano quando sentiamo parlare di tumori?

Antonio Iavarone: Circa la mia scelta non dovrei fare altro che ripetermi; sono d’accordo, parliamo di medicina. Prima però vorrei sottolineare come in Italia e soprattutto nel Sud si avverta un certo fatalismo, nel senso che in presenza di un tumore, soprattutto se particolarmente aggressivo, non ci sia niente da fare se non rassegnarsi, fatalismo associato a una situazione disastrosa per la mancanza di nuove possibilità terapeutiche, per cui ci si affida a cure assolutamente non scientifiche o a viaggi che non possiamo neanche definire della speranza, ma della distruzione. Occorrerebbe invece una maggiore disponibilità e sensibilità, per investire risorse e portare la sanità a livelli più competitivi. A tutto ciò si aggiunge l’ignoranza del problema, per cui di fronte a determinate patologie, o si avverte l’irrimediabilità o si ricorre alla “pillola” miracolosa. E vorrei mettere in evidenza come numerose siano le richieste di aiuto che ci provengono dall’Italia, richieste che dobbiamo necessariamente deludere con delle risposte dolorose e difficili. Sarebbe necessario invece che si creassero nuovi centri di ricerca, per poter studiare sul posto con le tecnologie necessarie, le giuste soluzioni terapeutiche, proprio perché i tumori variano a secondo delle aree geografiche e degli agenti cancerogeni e quindi sarebbe auspicabile che i centri di ricerca fossero sul luogo, per migliorare la qualità degli interventi diagnostici e terapeutici e quindi migliorare l’aspettativa di vita dei pazienti oncologici.

LS: Parliamo delle cellule staminali, cioè di quelle cellule ancora indifferenziate, che, se ben “istruite” possono trasformarsi, assumendo capacità e funzioni diverse. Gli scienziati sono entusiasti perché potrebbero aprire la strada alla cura di malattie come l’infarto, il morbo di Parkinson e l’Alzheimer. Intanto, in Italia e pure in Germania è vietata l’estrazione di cellule staminali da un embrione umano. Il cordone ombelicale, ad esempio, non può essere conservato per uso privato, ma donato in banche pubbliche per usi futuri, non personali. Invece in Inghilterra e, credo, in altri vari paesi, l’uso delle staminali estratte dall’embrione umano è perfettamente legale. Cosa pensa sull’argomento?

AI: E’ chiaro che le staminali rappresentano la grande speranza per malattie neurodegenerative quali il Parkinson e l’Alzheimer. Naturalmente non c’è niente di sbagliato o di poco etico nel fare ricerche su questo tipo di cellule, il cui utilizzo è indirizzato solo a risolvere appunto patologie invalidanti. Per altri tipi di applicazioni, quali la clonazione umana, c’è l’assoluta percezione che non sarebbero né utili, né appropriati a livello etico e morale. Le decisioni e le regolamentazioni sull’utilizzo delle staminali non devono essere assunte dai singoli paesi: in questo caso sarebbero assolutamente inutili e direi antistoriche. Penso che sia importante invece stabilire delle regole che siano accettate dalla comunità scientifica internazionale. Se queste ricerche vengono osteggiate e rese illegali, si rischia di frenare la ricerca dimostrando incompetenza e arretratezza.

LS: Una volta fu chiesto a uno scienziato che cosa fosse auspicabile per godere di una buona salute. Egli rispose “Soprattutto avere dei buoni antenati”. Naturalmente credo che le ascendenze non siano risolutive: è ovvio che occorrono anche stile di vita, esercizi fisici e giusta alimentazione. E intanto le nostre terre a vocazione agricola, a vocazione turistica, naturalmente belle, sono avvelenate sistematicamente sotto gli occhi di tutti, da nord a sud, senza distinzioni geografiche. Mentre aspettiamo che sia trovata un’adeguata soluzione per la gestione e la sorveglianza del territorio, noi, inermi, rimaniamo vittime di tali disastri. Ma solo noi contemporanei o anche i nostri discendenti? Come conseguenza lasceremo tragiche eredità? Trasmetteremo alterazioni genetiche e quindi mutazioni?

AI: Per quanto riguarda i tumori concorrono un insieme di fattori: oltre a quello ambientale e genetico interviene la casualità, in un ambiente altamente inquinato saranno attaccati gli organismi più predisposti, quelli più fragili. In una situazione di disastro ambientale, come nel sud e in Campania, in questo momento, c’è un’incidenza molto elevata di tumori, non escludendo naturalmente le altre regioni. La situazione nella “terra dei fuochi” è notevolmente pericolosa, né cambierà nei prossimi anni purtroppo. Siamo di fronte a un disastro irreversibile, per le generazioni di oggi, ma anche per quelle future, una realtà che probabilmente non è riscontrabile in nessun altro paese del mondo.

LS: I suoi studi e le sue ricerche riguardano soprattutto i tumori al cervello, anzi di un sottogruppo molto specifico di tumori, tra i più maligni, conosciuto come glioblastoma multiforme. Voglio sperare che la sua ricerca oggi riguarda questo tumore in particolare, ma che poi gli studi avanzeranno nell’adozione di terapie che riguardino una gamma più vasta di patologie. E’ noto che i tumori cerebrali hanno una suddivisione in primari e metastatici, se si sono originati nel cervello o se hanno avuto origine in altri organi del corpo. Per il patologo e per il ricercatore vi è differenza ai fini della terapia?

AI: Molti tipi di tumori possono diffondersi al cervello, partendo da altri organi e per questo sono detti metastatici e hanno una terapia diversa a secondo del tessuto coinvolto, della sede originaria del tumore e di altri fattori. Il concetto primario per la terapia è rappresentato dal tessuto da cui origina il tumore e anche dall’area geografica interessata. Si parla sempre di personal terapy, di terapia personalizzata, nel senso che la natura dei tumori dipende anche dal tessuto interessato, dall’individuo, dall’area di origine. Ecco perché è assolutamente inutile e anzi dannoso poter pensare di ricorrere a una terapia unica, a un farmaco in assoluto, ma occorrono seri istituti di ricerca che esaminino la patologia e ne indichino il corso terapeutico.

LS: Mi concedo un momento di frivolezza: qualche anno fa il ricercatore giapponese Shinya Yamanaka scoprì una tecnica che gli valse il Nobel e che consisteva nel ricondurre una cellula adulta allo stato embrionale. Una tecnica di ringiovanimento che ha un’importanza notevole nella cura di patologie serie. Ringiovanimento delle cellule. Quindi sorge spontanea la domanda: questa tecnica non può avere impieghi più effimeri, aiutando noi donne (e non solo!) a migliorare il proprio aspetto e di conseguenza il proprio benessere psicologico?

AI: Ci sono possibilità di ringiovanimento probabilmente, derivanti da altri campi di ricerca, ma non dallo studio di Yamamaka. Per quanto riguarda gli studi di Yamamaka essi rappresentano una tappa importante perché una cellula matura può essere riprogrammata in cellula staminale: non cellule pluripotenti, ma cellule pluripotenti indotte (IPS). Una tappa importante dicevo, perché le cellule adulte del paziente stesso possono essere prelevate, quindi senza problemi etici, e fatte specializzare nel tipo di tessuto richiesto, soprattutto nella cura di malattie degenerative. Naturalmente l’utilizzo di queste cellule, salvo alcune patologie, come malattie del sangue e della cornea, è ancora fonte di studio. Nel futuro sicuramente potranno essere utilizzate per riparare qualsiasi tipo di tessuto, dal cardiaco al nervoso, ma oggi non esiste ancora una tecnologia che consenta di usare ordinariamente le cellule staminali.

LS: Mentre preparo le domande per Lei, mi ricordo di un altro scienziato, Renato Dulbecco e di alcune analogie: meridionale, ricerche in America e studi sul cancro. Lei lo ha conosciuto? Ricordo in particolare che nonostante sia stato un protagonista di scoperte di rilevanza mondiale, non aveva mai perso la gioia di vivere e il senso dell’humour e alla notevole età di 95 anni salì sul palco di S. Remo, palcoscenico dell’effimero e del leggero, per presentare alcuni brani, con la sua solita intelligenza, classe e discrezione. Com’è il professore Antonio Iavarone quando è lontano dagli studi e dalla ricerca?

AI: Conoscevo bene Renato Dulbecco e lo frequentai quando venni in America. Intorno agli anni 2000 tornò in Italia, perché aveva desiderio, non della sua terra ma di cambiare qualcosa, di migliorare la situazione sanitaria locale e di raccogliere fondi per la ricerca. Per cinque anni, ha presentato, relazionato, frequentato salotti, insomma si è reso visibile. Alla fine tornò in America in una situazione di assoluta delusione e incapacità di poter ottenere i risultati sperati. Per quanto riguarda me: mi piace molto leggere libri di storia contemporanea, la politica mi attira e mi respinge, ho imparato ad amare l’opera frequentando il Metropolitan. Purtroppo però i miei ritmi lavorativi sono pressanti e mi concedono poco tempo libero.

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