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IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GILDONE

31 Maggio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GILDONE

Girovagando con Flaviano, debbo dire, ho scoperto tante facce del Molise, che sfuggono ad un visitatore poco attento. Con le sue fotografie apre una finestra sulla realtà, sui paesaggi, sui personaggi e abbiamo così potuto ammirare scorci panoramici stupendi, monumenti, palazzi medievali, castelli e vissuto tanta storia. Questa piccola regione è come un diamante grezzo e ogni volta ne mettiamo a nudo un pezzo importante. Oggi ci troviamo a Gildone, un'altra piccola realtà in provincia di Campobasso.

Il borgo antico sorge su un colle da cui si gode un'ampia veduta e il paesaggio è quello tipico della collina molisana con campi coltivati alternati a boschi che coprono buona parte del territorio. Il centro del paese è rappresentato dal classico borgo medievale con stradine strette e ben tenute, dove è facile incontrare persone anziane, sole, sedute in attesa di un figlio lontano, perse nei ricordi di un tempo quando tutto intorno erano bambini schiamazzanti, chiasso, vita

Le prime notizie del paese risalgono al XII secolo quando era “Celidonia” divenne poi Celdrone e infine Geldone nel XII secolo. Fra le principali attrattive del paese senz'altro la chiesa parrocchiale di San Sabino, edificio di antica origine trasformato nella struttura attuale in epoca barocca, interessanti opere di scuola napoletana si possono ammirare all'interno della chiesa di Sant'Antonio Abate. Lungo una strada del centro, una particolare cappella, una Edicola sacra, mostra ai passanti l'affresco di cinque santi: San Pietro, San Cristoforo col bambino sulle spalle, San Paolo e nelle due lunette San Rocco e San Sebastiano. In località Morgia della Chiusa è venuto alla luce un sepolcreto sannitico cronologicamente collocato tra la fine del V e gli inizi del III secolo a.C., composto da 23 tombe disposte su tre raggruppamenti diversi.

Le tombe sono tutte a fossa, senza copertura... riempite di terra e pietre; Lo scheletro è disteso supino talora con testa reclinata... la maggior parte delle tombe presenta uno o due vasi deposti ai piedi... Le tombe maschili sono caratterizzate da un piccolo coltellino posizionato sulla spalla, da rasoi, da piccole asce, in tre casi da cinturoni di bronzo e in tre casi da punte di giavellotto. Le tombe femminili hanno le fibule (i fermagli per i vestiti) sia di bronzo che di ferro, talora con decorazione a filigrana...” (Fonti e bibliografia: Di Niro A., "Gildone. Necropoli sannitica, in Conoscenze V", Campobasso, 1989 )

Salendo sulla collina che sovrasta il paese, in zona “Montagna” si arriva a un'altezza di circa 1000 metri sul livello del mare e si trovano i resti di una lunga struttura muraria che costituisce la “fortificazione di Gildone”. Le mura sono visibili per ampi tratti e sono realizzate con grossi blocchi, sovrapposti e intercalati con pezzi di minore grandezza, purtroppo lo stato di conservazione non è ottimale e la parte visibile non supera il metro di altezza. Dalla sommità si gode una splendida vista sulla valle del torrente Carapelle e sul percorso del tratturo Castel di Sangro-Lucera.

Un'importante festa si tiene ogni anno a Gildone il 13 giugno in onore di Sant'Antonio di Padova, patrono del paese. La “devozione del pane”, è una ricorrenza particolarmente suggestiva che vede, durante la processione del santo, portato a spalle per le vie del paese, tutte le donne sfilare in corteo reggendo in equilibrio sulla testa grandi cesti di vimini ornati di gigli e ricolmi di pane. Le massaie più esperte riescono a trasportarne fino a 15 kg, sfilando con passo sicuro. La pratica di tale tradizione risale agli anni '30, quando fu inviata in paese una levatrice che veniva da Rovigo, tale Amabile Tezzon, la quale, nel giorno della processione, fece trovare, al passaggio del santo, una cesta di pane e dopo la benedizione lo distribuì ai poveri, in ricordo del gesto compiuto dalla madre del piccolo Tommasino miracolato dal Taumaturgo. Da allora la commissione organizzatrice adottò questa iniziativa e divenne consuetudine. Ancora oggi il pane benedetto, preparato il giorno prima con la farina (un tempo donata dai paesani) ora offerto dai fornai del paese, viene distribuito a tutti i partecipanti. Queste tradizioni popolari legate alla fede servono a tenere uniti i gildonesi che di generazione in generazione mantengono vive le loro usanze e nell'occasione di queste ricorrenze cercano di rientrare in paese o di osservarle anche se si trovano all'estero, per quel senso di comunanza e vicinanza che, più si è lontani, più si fa forte. Da Gildone sono emigrate migliaia di persone, i primi partirono già nel 1880, il paese è passato da una popolazione media che sfiorava 3000 abitanti agli attuali 850 circa. Il fenomeno fu intenso fino al 1915, quasi si esaurì durante il ventennio fascista, per ricominciare verso la fine degli anni 40. L'origine di tale fuga dalle proprie case fu la diffusa povertà e il grande desiderio di migliorare le condizioni economiche della famiglia. I gildonesi, e i molisani in generale, partivano dal porto di Napoli per affrontare lunghi viaggi che li portavano negli Stati Uniti, in Brasile, Argentina, Canada e Australia. Erano viaggi verso una “terra promessa” ignota, spesso senza progetti concreti di ritorno in Italia. Diverso era invece il sogno di chi emigrava verso altre regioni italiane o in Europa, almeno all'inizio lasciava al paese la famiglia sperando di tornare e potersi costruire una casa, in realtà pochi poi hanno fatto ritorno definitivo, col tempo le famiglie li hanno raggiunti e si sono stabiliti nel paese di emigrazione.

Poesia di Gianni Rodari Il treno degli emigranti.

Non è grossa, non è pesante la valigia dell'emigrante... C'è un po' di terra del mio villaggio, per non restar solo in viaggio... un vestito, un pane, un frutto e questo è tutto. Ma il cuore no, non l'ho portato: nella valigia non c'è entrato. Troppa pena aveva a partire, oltre il mare non vuole venire. Lui resta, fedele come un cane. nella terra che non mi dà pane: un piccolo campo, proprio lassù... Ma il treno corre: non si vede più.

IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GILDONE
IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GILDONE
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Mayer e le carte foscoliane

30 Maggio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #personaggi da conoscere

Mayer e le carte foscoliane

Enrico Mayer (1802 – 1877) - livornese di padre tedesco e madre francese, membro dell’Accademia Labronica, pedagogo e fondatore di scuole, amico di Mazzini, del Vieusseux, di Angelica Palli, di Byron - insieme a Gino Capponi e Piero Bastogi, acquistò a Londra, per 60 lire, delle carte appartenute a Ugo Foscolo.

La sfortunata figlia del poeta, Lady Floriana, che con il padre aveva condiviso gli ultimi anni di stenti, peregrinazioni e miserie, per poi morire di mal di petto subito dopo, le aveva lasciate in consegna al canonico Riego, suo protettore dopo che Foscolo, affetto da manie di grandezza, l’aveva ridotta sul lastrico.

Le carte costituivano un prezioso corpo critico di commenti alla Divina Commedia che Mayer consegnò all’Accademia livornese e sono tuttora conservate nella Biblioteca Labronica.

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Stelutis alpinis

29 Maggio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia, #musica

Stelutis alpinis

“Stelutis alpinis” è un canto scritto e composto da Arturo Zardini (1869-1923) durante la Prima Guerra. L'autore, profugo a Firenze, era un maestro di Pontebba, paese che allora si trovava sul confine italo-austriaco. La canzone è una sintesi di sentimenti profondi: sofferenza, fedeltà, affetto, intimità, una canzone semplice che ha fatto presa sull'anima popolare ed è diventata l'inno degli alpini e del Friuli intero, anche durante l'altra guerra.
Il testo originale scritto in dialetto friulano è ricco di diminutivi, vezzeggiativi specifici del parlare friulano, molte sono le versioni tradotte in lingua italiana, pregevole quella del poeta Chino Ermacora che la pubblicò nella rivista “PICCOLA PATRIA” nel 1928.
In seguito, nella traduzione, anonimamente, qualcuno ha aggiunto due strofe che non appartengono al canto originale, prezzo da pagare quando un successo diventa popolare. Anche Francesco De Gregori ne ha tratto una sua versione con una canzone compresa nell'album ”Prendere lasciare”
Qui di seguito riporto una versione di Emilio Maria Boria, molto conosciuta, forse la più nota e che, anche se perde un po' della metrica originale, cerca di rispettare la semplicità del testo e soprattutto di non perdere nella traduzione il ritmo che permetta di "cantarla" in italiano. Ovviamente comprende anche le due strofe apocrife

STELLE ALPINE

Se verrai qui fra le rocce
Dove lor mi han sotterrato
C'è uno spiazzo pien di stelle
Dal mio sangue fu b
agnato.
Come segno una crocetta
È scolpita nelle rocce.
Fra le stelle c'è l'erbetta
Sotto loro dormo in pace.
Prendi su, prendi una stella
Che ricorda il nostro amore.
Dalle un bacio, è così bella.
Poi nascondila sul cuore.
Quando a casa tu sei sola
E di cuor tu pensi a me
Il mio spirito a te vola
Io e la stella siam con te.
Ma un bel dì quando la guerra
Farà parte dei ricordi
Nel tuo cuore là dov'eran
Stella e amore saran morti.
Resterà per me la stella
Che il mio sangue ha già nutrito
Perché splenda sempre bella
Sull'Italia all'infinito.

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Marina Plasmati, "Il viaggio dolce"

28 Maggio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #poesia, #personaggi da conoscere

Marina Plasmati, "Il viaggio dolce"

Il viaggio dolce

Marina Plasmati

La lepre Edizioni

pp 166

16,00

Era come se avesse il mondo dentro al cuore, non davanti agli occhi

Il viaggio dolce” è quello che il protagonista del romanzo di Marina Plasmati sta per compiere di lì a breve, fatale ed ultimo. Il protagonista resta sempre “l’ospite di riguardo”, persona schiva che se ne sta chiusa in camera senza disturbare, parlando sottovoce, con mite gentilezza. Ma noi sappiamo bene chi è, anche se non viene mai nominato, è Giacomo Leopardi, e questo bellissimo romanzo costituisce quasi una versione in prosa delle sue poesie immortali.

Il romanzo racconta gli ultimi mesi di vita del poeta, quelli trascorsi in Campania, a villa Ferrigni, presso il cognato dell’amico Ranieri, e la Plasmati li ricrea attingendo direttamente ai testi leopardiani. Sono le stesse vicende e gli stessi protagonisti descritti in “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi”, di Antonio Ranieri, senza la malignità piccata del biografo ottocentesco ma con il rispetto e compassione della studiosa.

Il paesaggio è lo stesso de “La ginestra”, il penultimo canto prima della morte, nato proprio in quei luoghi estremi e ripubblicato qui in appendice, insieme al “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani”. La ginestra è un fiore povero e tenace, dal profumo persistente, bello nonostante la sua ruvida semplicità, buono come le persone che abitano quei luoghi, capace come loro di strappare la propria esistenza al deserto - “contenta del deserto” - di sentirsene comunque pago, ma destinato, alla fine, a soccombere come ogni altra cosa. La ginestra ci parla della forza e dell’ostilità di una natura splendida e matrigna e di come l’uomo debba, con un atto di supremo coraggio, guardare in faccia la realtà, “nulla al ver detraendo”, riconoscendo negli altri esseri umani la stessa sua condizione e unendosi a loro per sopportarla. Il vulcano tiene in scacco gli abitanti, può risvegliarsi da un momento all’altro e distruggere tutto, come ha già fatto con Pompei, che il protagonista visita a dorso di mulo, può seppellire l’umana vanagloria in un soffio.

Ma per quanto cattiva, la natura resta vagheggiata, proprio perché tutto è così labile, caduco, effimero. Negare i valori della vita, tenersene lontani, serve solo a farli amare di più e il famoso pessimismo cosmico altro non è che un disperato richiamo di vita e d’amore.

Appena usciti dalla vista della villa, un panorama quasi senza orizzonte si aprì al loro sguardo: colline e vigneti a destra, macchie di alberi da frutta a sinistra, prati di fiori davanti, il vulcano inquieto alle spalle e il mare quieto in lontananza. L’estate rinvigoriva i colori, i sapori e gli odori di tutto il paesaggio con una forza impetuosa. La terra partoriva dappertutto virgulti e germogli di erbe, piante e fiori: l’aria ribolliva d’insetti rumorosi, impazziti alla ricerca di cibo, il cielo risuonava di canti di uccelli affannati al lavoro del nido, la luce stessa splendeva carica di un’intensità abbagliante. Tutto, persino il deserto di cenere e lava, sembrava esplodere di nuova vita.” (pag 88)

Esplosione e rigoglio che fa da contrasto alla violenza dello “sterminator Vesevo”, all’aridità del deserto di lava, al nulla che sta per inghiottire il poeta, al quale si può opporre solo una stoica rassegnazione, una dolcezza quieta, un amore sotterraneo e mai sopito per la vita, quella che rinasce alla fine nel grembo di Silvia. Quest’uomo schivo e triste, timido e amareggiato, persino un poco capriccioso a causa dei mali che lo affliggono, è l’essere più solo e più assetato di vita:

sognava la gloria e l’amore, volava col pensiero oltre ogni confine, creava con la fantasia mondi infiniti e nel frattempo vedeva la vita vera, la vita della carne e del sangue, fuggire lontano e non voltarsi indietro: la piangeva, la cercava nella pagina, la innalzava nei versi, talvolta, oppure la rincorreva per guardarla dalla finestra nella vita degli altri, rimpiangendone disperatamente l’assenza. (pag 25)

Tanta sofferenza è il risultato di una mente superiore rinchiusa in un corpo brutto e malato, è il risultato, soprattutto, di una sensibilità acutissima e dolorosa. “Un nonnulla lo poteva turbare fin nel profondo, in modo incomposto, eccessivo.” (pag 39)

Alla villa egli conversa con ospiti più o meno eruditi, ospiti che si rivelano di vedute ristrette, di animo coriaceo e fanno risaltare, per contrasto, la sua nobiltà sdegnosa. A un altro livello, invece, si muovono Cosimo e Silvia, due giovani servitori che si piacciono fra loro. Essi rappresentano tutto quello che il poeta vagheggia ed ha perso, rappresentano la materia stessa degli Idilli. Lei, ingenua, fresca e dalla voce ammaliante come Teresa Fattorini, la compianta e mai dimenticata Silvia di cui è ignara omonima. Lui giovane, forte, garzoncello scherzoso con ancora tutta la vita davanti, con le promesse in fiore, con il cuore buono e gentile. Infine c’è Pasquale, più vecchio, portatore di una saggezza antica. A loro, epitome di tutto ciò che di prezioso c’è, ciò che egli sta per lasciare, va l’affetto dell’ospite di riguardo.

E sono anche gli unici in grado di capire davvero la poesia, che parla direttamente al cuore attraverso scorciatoie intuitive. La poesia è considerata dal Leopardi come appartenente alla sfera dell’istinto, connaturata alle società e agli individui più semplici. Le domande che si pongono le persone ingenue, come il pastore errante dell’Asia, sono le stesse dell’umanità di fronte al mistero dell’universo, della vita e della morte, di cui tutti noi, filosofi o analfabeti, siamo ignoranti.

È la ginestra nostra quella, disse ad alta voce e la sua bocca si aprì al più semplice dei sorrisi.

Anche lui sorrise, continuando a fissarla.

Sì, è proprio lei, che ne dice?

“È bellissima, esclamò la ragazza con gli cocchi stupiti.” (pag 86)

È lo stesso stupore che ci coglie di fronte ai versi leopardiani, quando li leggiamo con umiltà e senza sovrastrutture, lasciandoci irrorare dalla loro bellezza.

Da notare l’uso del dialogo senza virgolette che trasforma le conversazioni in una sorta di indirekte rede, a metà fra l’agito e il pensato, fra narrazione e analisi del testo leopardiano.

La descrizione di questa Silvia rediviva ricorda il famoso quadro di Veermer e il romanzo di Tracy Chevalier.

“Il vento ricominciò a scherzare col vestito e i capelli, la veste aderì alle curve dei fianchi e disegnò il ventre gonfio di giovane ragazza. I capelli presero a svolazzare morbidi e giocosi sulla fronte e intorno alle orecchie. Un raggio di luce trasparente le colpì gli occhi chiarissimi e le illuminò le linee azzurrognole delle vene del petto e della nuca scoperta. La bocca risaltò di un rosso intenso, come le gote bagnate di sudore. Così, immobile, assorta in un sogno inondato di luce, la trovò l’ospite di riguardo, affacciandosi silenziosamente nella sua stanza.” (pag 84)

Lo stile è lirico e struggente, degna perifrasi di versi meravigliosi che sono nel cuore di tutti noi.

Sentiva che non era di felicità che si trattava, ma di semplicità sottile e sapientissima, la semplicità del fiore, della lucciole, della rondinella, di ciascuna creatura una ad una. Sentiva che non era comprendere o ingannarsi il dramma, m vivere, semplicemente vivere, come fa il fiore, la lucciola, la rondinella, vivere, per poi svanire, come fa ogni creatura, una ad una. Sentiva che nessuna consolazione né reticenza era possibile, che nessuna ambizione era essenziale, tranne la vita, semplice e sapiente, quella del fiore, della lucciola, della rondinella, di ciascuna creatura, una ad una E in ogni sua creatura, una ad una, la natura continua a trasudare delitto e tralucere grazia, in ogni sua creatura, per sempre” (pag 109).

Patrizia Poli

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INGIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: PESCOPENNATARO

27 Maggio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

INGIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: PESCOPENNATARO

Le fotografie con cui oggi Flaviano Testa ci presenta questo piccolo paese dell'alto Molise, raccontano meglio di altre la solitudine e l'abbandono che vive questo luogo incantevole per la natura che lo circonda. Oggi in paese si contano poco meno di trecento abitanti e..... due gatti. Sul suo territorio sono venuti alla luce reperti risalenti al Paleolitico. Al museo civico della Pietra “Chiara Marinelli”, si può ammirare un'importante collezione Preistorica, frutto di una ricerca trentennale e di uno studio costante ed appassionato, vi sono esposti oltre 1600 manufatti in selce e calcare, molti dei quali di straordinaria fattura. Vi è una sezione interamente dedicata ai numerosi scalpellini pescolani, che si sono resi famosi in tutto il mondo per la loro maestria, realizzando opere in pietra finemente lavorate.

L'abitato sorge a oltre 1200 metri di altitudine e soffre di forti nevicate durante l'inverno, precipitazioni a cui gli abitanti sono abituati e i cui disaggi sanno affrontare con tranquillità. Si ricorda un episodio accaduto durante la seconda guerra mondiale nei pressi del paese. Le truppe inglesi avevano occupato il territorio e impiegavano alcuni soldati indiani che, per approvvigionamenti e altro, aiutandosi con dei muli, facevano la spola fra Pescopennataro e Agnone. Successe che, durante uno dei viaggi, una squadra composta da circa venti uomini venisse sopraffatta da una bufera di neve e perdesse l'orientamento, poiché la strada era completamente coperta di neve e non si vedeva niente intorno. Giunta la sera, mentre vagavano in quel deserto di dune bianche, stremati dal freddo e dalla fame, decisero di accendere un fuoco per scaldarsi e di uccidere i muli per sfamarsi. Quando oramai avevano perso le speranze di potersi porre in salvo, furono raggiunti da alcuni soccorritori partiti da Pescopennataro, così sotto l'abbondante coltre di neve rimasero solo i muli, che nei giorni successivi divennero una riserva di carne fresca per gli abitanti del paese.

Fra i monumenti più importanti che si possono ammirare in centro al paese, la chiesa di San Bartolomeo Apostolo, la porta arcuata medievale, detta "Porta di sopra" e la fontana di Piazza del Popolo, opera dell'architetto De Lallo.

La vera attrattiva resta comunque lo splendido scenario naturale: le località Rio Verde e la Pescara con piste per lo sci di fondo, l'area boschiva che si estende fino a monte San Luca, ricca di rare specie arboree come l'abete bianco, fanno di Pescopennataro, chiamato anche “il paese degli abeti bianchi”, la piccola Svizzera del Molise. Un tempo i maestosi boschi di abete bianco erano ricchezza di tutto l'Appennino, oggi, a causa delle mutate condizioni climatiche, dello sfruttamento del territorio, la specie è divenuta rara e deve essere preservata per consentire ai visitatori di godere ancora di uno scenario affascinante e suggestivo attraverso una rete di sentieri naturalistici che si snoda all'interno delle abetaie esistenti. Dalle sorgenti di Rio Verde sgorgano fresche acque oligo minerali e a fine inverno si possono ammirare panorami mozzafiato con le cime circostanti ancora innevate mentre i prati si tingono di verde intenso e si coprono di candidi bucaneve. Di recente sono state attrezzate in zona vie per l'arrampicata sportiva e per l'alpinismo, che richiamano appassionati da ogni parte d' Italia.

La notte di sant'Antonio Abate, fra il 16 e il 17 gennaio, si accende un grande fuoco in piazza attorno al quale, da tutti i partecipanti, vengono consumate patate e salsicce cotte alla brace, mentre durante il mese di agosto si tiene un'importante serie di festeggiamenti con intrattenimenti musicali, sagre ed eventi che richiamano turisti e paesani emigrati. Per circa quindici giorni il paese torna vivo, pieno di gente, le strade si fanno rumorose e le finestre e le porte delle case abbandonate si aprono... poi tutto torna nel silenzio.

INGIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: PESCOPENNATARO
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Quattro consigli di lettura

26 Maggio 2015 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

Quattro consigli di lettura

Quattro libri profondamente diversi tra loro che mi sento di consigliare a diverse tipologie di lettori.

Prima di tutto un saggio scritto con stile piano e semplice, da narratore popolare, dal siciliano Roberto Mistretta: Rosario Livatino - L’uomo, il giudice, il credente (Edizioni Paoline - euro 15 - pag. 230). Il lavoro - scritto in collaborazione con padre Giuseppe Livatino - esce nel venticinquesimo anniversario della morte ed è una documentata biografia sul giovane giudice siciliano, ucciso dalla mafia mentre si recava - senza scorta - al Tribunale di Agrigento. Visto il tipo di editore, il saggio affronta anche il cammino spirituale di un uomo coraggioso, impegnato nella lotta alla criminalità organizzata e in odore di beatificazione. Mistretta cita miracoli e testimonianze che andranno a far parte del dossier per la causa di santità promossa in favore del giovane giudice.

Un altro libro interessante è una sceneggiatura inedita di Pier Paolo Pasolini: La Nebbiosa (Il Saggiatore - euro 14 - pag. 200), per un film scomparso come Milano nera, un flop di Gian Rocco e Pino Serpi che resistette solo cinque giorni in cartellone nel capoluogo lombardo. In realtà la vera sceneggiatura non fu mai tradotta in immagini, Pasolini fu pagato solo per metà lavoro e i due maldestri giovani registi tradirono tutta la sua poesia e il grande lavoro di ricerca linguistica e culturale. La Nebbiosa adesso è un libro che si legge come un film ed è un interessante spaccato della violenza metropolitana lombarda negli anni Sessanta, condotta da un gruppo di teddy boys.

Pupi Avati, invece, dopo lo splendido Un ragazzo d’oro, mette da parte il cinema e scrive Il ragazzo in soffitta (Guanda - euro 16 - pag. 250), che segue di due anni un’ispirata autobiografia (La grande invenzione). La storia contiene tutti i temi del suo cinema: adolescenza, musica, provincia, amicizia, persino horror, in un ritorno al passato che profuma de La casa dalle finestre che ridono. Protagonisti due adolescenti: il bolognese Berardo Rossi, detto Dedo, studente poco brillante ma popolare tra le ragazzine, e il triestino Giulio Bigi, introverso quanto abile traduttore dal latino. Filo conduttore del racconto un’amicizia nata sui banchi di scuola che - con il meccanismo del flashback (capitoli alterni) - apre le porte a una storia horror che vede protagonista un orco, presunto assassino di bambine. Finale a sorpresa.

L’ultimo consiglio è un fumetto pulp che costa euro 2,90 in edicola, uscito per Editoriale Cosmo, il primo di una miniserie di quattro albi. Si tratta di Battaglia, di Roberto Recchioni e Massimiliano Leomacs Leonardo, storia di un vampiro ai tempi del fascismo, che utilizza il nero per narrare la storia del nostro recente passato. Battaglia ricorda anche nel formato i vecchi albi di Kriminal, Satanik e Diabolik.

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Ida Verrei, "Arràssusìa"

25 Maggio 2015 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #ida verrei, #recensioni

Ida Verrei, "Arràssusìa"

Arràssussìa

Di Ida Verrei

Fabio Croce editore 2015

Recensione di Adriana Pedicini

La vita è sempre un insondabile mistero. Non ci sono previsioni o programmi che procedano lineari e scontati, anzi, talvolta vengono completamente sconvolti e i ruoli consueti si ribaltano e la disperazione o la sconfitta sembrano prendere il sopravvento. Senonché la vita, quella vera, è fatta per chi possiede grande forza d’animo, seppure messa a dura prova da evenienze negative e dal dolore, da chi ha capacità e soprattutto volontà di tracciare negli intricati sentieri dell’esistenza una sua traccia. Non che non manchino le difficoltà, ma è proprio attraverso esse che si va alla ricerca con la lanterna di Diogene del vero, dell’identità, della legge fuori dal tempo che rende il tempo riconoscibile.

E alla fine il ritrovarsi, tanto inatteso e tanto imprevedibile, speculare al perdersi, pareggerà i conti, ma basterà tutto questo per dire di essere vissuti in piena autonomia e libertà? Forse, no, sicuramente no, proprio per il fatto che è la vita stessa a prendere il sopravvento con le sue impennate, le sue false partenze e infine con la ricomposizione di tutto. Purché si sappia riconoscerne la legge suprema che è quella dell’accettazione dei suoi ritmi, dei suoi spezzettati doni che intervallano sentieri ardui e spinosi.

“La vita non è un intero, è fatta di porzioni, piccole fette che ogni tanto ci è concesso di assaporare... è crudele, lo so, ma ci sono altri pezzi di vita che ti attendono”

Nelle parole del vecchio libraio è condensato il messaggio, secondo me, del romanzo.

Riflessione donata al protagonista Manù, distintosi fin da piccolo, nell’ombra del collegio che lo ospitava con bambini poveri e abbandonati oppure orfani, per le sue doti che lo avevano condotto a districarsi tra il bisogno di un padre inesistente e le delusioni di una madre troppo debole nel costruire con lui un vincolo forte d’amore vissuto e alla fine l’aveva vista allontanarsi per effetto della lusinga di avere un amore esclusivo, quello maritale. Finalmente il giovane protagonista troverà nel giardiniere Gennarino chi gli consegnerà con bontà e dedizione l’unico senso che possa dare stabilità alla struttura interiore di ciascuno, il senso delle radici, soprattutto quando il passato è senza storia. “

“l’unico maestro e confidente, quello a cui porre domande e da cui ricevere risposte”.

Non si dovrebbe mai tornare indietro. Non quando il tuo è stato un passato senza storia. Non c’è più tana, pietre, soltanto pietre”

Eppure è un’operazione necessaria questa per avere gli strumenti per crescere e andare avanti. E l’incontro con Gennarino gli aveva disvelato questa verità che alla fine si rivelerà una realtà e non una pura invenzione.

E, dopo tante traversie e vicende vissute come passaggi di vita con vari personaggi, alla fine Manù ritrova insperatamente le sue radici e la sua stabilità economica. Manca solo una cosa: l’amore e questo non tarderà a venire, ma per breve tempo. La vita esige altro sacrifico, impone di pagare altro scotto non previsto, ma evocato inconsapevolmente, a guardar bene, dal continuo ripetere “arrassusìa”, una sorta di scongiuro che nella lingua napoletana significa “non sia mai” che avvenga quello che non si desidera. Tale morfema esprime bene nella saggezza popolare partenopea il senso della precarietà dell’esistenza che affonda le sue radici nella formazione filosofica di derivazione ellenica che in quella terra proliferò.

E Napoli è presente nel romanzo con la particolarità dei monumenti, strade, chiese, vicoli, fondachi, con la suggestione del cimitero delle fontanelle, con la possente musicalità delle voci e dei suoni, con la fragranza dei sapori e del profumo dei fiori, con la meraviglia del mare azzurro, degli scogli, delle imbarcazioni dei pescatori, ma anche con tanto buio, tanta fatiscenza, tanta decadenza, tante dure salite, tanto chiasso e confusione, tutto uno sfondo su cui si dipanano, oltre a quella del protagonista Manù, anche vite altre e altri accadimenti, altre atmosfere, tutte intrecciate insieme, da quelle del collegio, luogo di tristezza ma anche di grandi amicizie, alle avventure sentimentali, agli incontri affettivamente significativi, al disagio di non poter essere militante attivo insieme ai suoi amici nella lotta contro lo status quo per non compromettere il suo futuro, all’affermazione personale negli studi e nella professione e infine il riconoscimento di grande scrittore di romanzi.

Manca dunque solo l’amore, scivolato via in una tragica circostanza, ma ancora una volta la vita lo sorprende. E non solo lui, al punto che non si sa bene se sia la vita a manipolare gli esseri umani o essi realizzino se stessi quando capiscono e accettano le dure leggi dell’esistenza. Certo è che tutti i personaggi che non si sono persi per un motivo o per l’altro alla fine appaiono come ricomposti, pacificati nella nuova condizione che il destino o la volontà ha imposto loro.

Anche per il nostro protagonista arriva la gioia della famiglia e dell’amore coniugale, ma solo dopo che tale gioia sarà stata mondata dal dolore capace di trasformare una perdita in dolce presenza nella dimora del cuore per sempre

Mi ami Manù?

E mi amerai sempre?

Sempre

Mi amerai nel mio esserci e nel mio non esserci?

Nella presenza e nell’assenza?

Sempre!

Un romanzo composito che anche nella struttura procede a tratti, e non è un limite, ma un sottolineare che la vita è fatta di tappe, alcune positive, altre negative che ci vogliono protagonisti sì ma non padroni assoluti, perché….. “ ARRASSUSSIA”…….

Un monito da non dimenticare.

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Io parlo jazz

24 Maggio 2015 , Scritto da Claudio Fiorentini Con tag #claudio fiorentini, #musica

Io parlo jazz è uno spettacolo teatrale tratto dall’omonimo romanzo di Claudio Fiorentini, pubblicato nel 2004.

Lo spettacolo consiste in letture e musica che non raccontano tanto una storia quanto le emozioni legate al Jazz, e che affrontano l’epopea di questo linguaggio musicale, che inizia nei campi di cotone e che culmina nell’espressione libera che oggi conosciamo. Ma il Jazz può essere anche un modo di parlare, un modo di scrivere, e l’esperimento, prima letterario e poi teatrale, tratta proprio di questo: musica e parole, ritmate insieme, che portano un messaggio di leggerezza. Lo spettacolo, tenuto a Roma il 30 e 31 gennaio, poi replicato ad Ostia il 15 aprile, ha visto la luce grazie al contributo del Teatro Porta Portese, e alla regia e voce di Susy Sergiacomo, al canto di Eleonora Tosto, alla voce di Tonino Tosto, al piano di Dario Troisi e alla musica di tanti, tantissimi musicisti che hanno lasciato un segno indelebile nella nostra storia.

Buona visione.

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Il fiume di Eraclito di Adriana Pedicini. Recensione di Nazario Pardini

23 Maggio 2015 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #recensioni, #poesia

Il fiume di Eraclito di Adriana Pedicini. Recensione di Nazario Pardini

Adriana Pedicini

Il fiume di Eraclito

Poesie

RECENSIONE DI NAZARIO PARDINI

Siamo il fiume che invocasti, Eraclito.

Siamo il tempo. Il suo corso intangibile…

Jorge Luis Borges

Istantanee di vita

a fermare il tempo,

amore della vita

che lenta scivola nel rimpianto,

timore della morte

e nessun rimedio per fermarla.

Crogiuolo di mille domande

sulle ali di una farfalla.

Partire da questi versi dal sapore di vita, dalla visione di un tempo che scorre veloce senza darci la possibilità di palpare il presente irrequieto e inafferrabile, significa andare a fondo di una poesia complessa e inquietante. Di una plaquette che tocca i tasti più dubbiosi del fatto di esistete e che mette in campo i dati della realtà fenomenica e quelli di un ripiego escatologico di grande complicanza esistenziale. Sta qui il polemos tra gli opposti eracliteo; il pascaliano dissentire tra rien e tout. Sì, c’è la vita con tutta la complessità dei suoi ricami: saudade, mistero, nostos, melanconia, inquietudine, memoriale come fonte di amore, come tuffo in profumi di acacie:

Dietro il lento oscillare delle acacie

sale la filigrana del ricordo

del lungo ramo

che sbatteva alla finestra

e tra i fiori acri sfiorito il volto

e immobile lo sguardo.

Anche oggi

tra i passi lenti

di questa primavera

solo si spande nell’aria

il profumo dolceamaro

delle acacie.

Ai cigli delle vie fuori città

sui terrapieni corrono,

nei giardini e nelle aiuole cittadine

i fiori bianchi fluttuano sgranandosi

al vento gelido di fine marzo

che ora come allora

asciugandole rapina le mie lacrime.

Di te

solo il profumo dolceamaro

delle acacie (Le acacie di marzo).

Si nota fin dagli inizi il disagio della Nostra di fronte al confronto tra l’esistere e l’infinitezza degli spazi che ci circondano. E’ troppo umano questo esserci; troppo limitato, troppo precario:

Ho pianto il mio dolore

ho pianto la gioia

l’odio ho pianto

di quest’effimera vita.

Tutto sembra inutile

e il vivere sia fatto invano

in attesa del tempo senza tempo.

Eppure più forte è il desiderio

di questa precaria vita

come di assetato

che mai estingua alla fonte

nel cammino

la bramosia di lunghi sorsi,

di conservare sulle labbra

e in ogni fibra

della fresca estasi

il brio (Vita),

ed è per questo che allunghiamo sguardi in lontananze sperdute con la speranza di trovarvi la soluzione ai tanti perché dei nostri irrisolti e irrisolvibili dilemmi. C’è in ognuno di noi il desiderio di fermare la clessidra, di arrestarne l’ingordigia che fagocita le cose più preziose della nostra terrenità. Forse è ricorrendo proprio ai ricordi o al sogno che si cerca di riportare alla luce ciò che resta di questo sacro patrimonio nel tentativo di prolungarne la storia:

A brace spenta

bruciano

le mani del sogno

caldo in cuore.

Neri rami s’elevano

sterile fumo

alla neve del cielo.

Di pioggia le nuvole

s’ammassano dense

segni fatali di sorte.

Pace o segno di

nero silenzio

questa assenza di voce (Sogno),

nel tentativo di placare il dolore delle sottrazioni, rifugiandoci in una alcova di volti rassicuranti, di primavere innocenti troppo presto sparite, chiedendo collaborazione ad una natura profumata e umanizzata per configurare e dare corpo a forti emozioni. D’altronde il nostro sguardo è limitato e incapace di andare oltre gli orizzonti che ci limitano. E si rischia di sperderci in mondi sovrumani, in ambiti d’infinita estensione per le nostre flebili forze; per noi che viviamo l’”amore della vita/ che lenta scivola nel rimpianto,/ timore della morte/ e nessun rimedio per fermarla”. Thanatos e eros, vita e morte, speranza e rimpianto, rimpianto e nostalgia per parole non dette, per cose non fatte, cosciente, la Nostra, della precarietà dell’esistere e della sua definitiva ultimazione:

Scivola ancora

di nuovo

più fitta la pioggia

lungo i muri e le pozze riempie

porta suoni lontani di voci

sopite per sempre,

la nostalgia porta di una vita

che non è quella da vivere.

Sfilza le ore

e grava l’aria di cupi ricordi.

Tutte son morte le foglie

e la vita è un desiderio

strozzato nel cuore.

All’orizzonte

il nulla di questo giorno.

Sull’impiantito della mente

disegno il mio larario antico

e di ghirlanda adorno

il posto vuoto (Nostalgia),

una dualità, una contrapposizione di estremi la cui simbiotica fusione si fa alimento della scioltezza eufonica del poema, i cui versi, combinandosi con quelli che sono gli input vicissitudinali, si risolvono in brevi e apodittiche soluzioni; in un linguismo che fa della metaforicità la base d’appoggio per verticalità meditative; per confessioni di ontologica complessità emotiva. E’ qui il nocciolo della substantia di questa poesia; sta tutto in una versificazione stretta e monoverbale, anche, incisiva e redditizia, per il valore etimo-fonico e comunicativo dei significanti. La parola è sufficiente a se stessa, si fa unità morfosintattica e risolutiva per un pensiero di intensità epigrammatica sul rapporto della vicenda umana col tempo; tanto che, dal polimorfismo di accostamenti inconsueti, emerge, con nettezza parenetica, che la vita è il tempo prestato dalla morte. “La vita è un naufragio, ma nelle scialuppe di salvataggio non dobbiamo dimenticare di cantare” affermava Voltaire. Anche se illuminista, anche se della ragione faceva il fulcro dei suoi convincimenti, in tale affermazione presagiva uno dei motivi focali del primo ottocento: il mare; quell’immenso spazio che più si avvicina al bisogno di libertà; ma di una libertà vaga, indeterminata di memoria delacroisiana cercata inutilmente dai romantici, anch’essi còlti da quel malum vitae che portava, spesso, a pessimismi o a melanconie congenite di memoria leopardiana. Alfredo Panzini definì i Poeti “simili al faro del mare”: quel faro che illumina una parte di un tutto sommerso dalla notte. E’ in quel mare che si perde l’animo del Poeta incapace di andare oltre quella scia che invita a più ampie navigazioni. Questo è tutto ciò che troviamo nella poesia della Pedicini. Una poesia complessa che fa degli interrogativi esistenziali il cuore del canto; un canto, che, con grande partitura musicale, e con urgente partecipazione panica, ci prende per mano per inoltrarci, al fin fine, in quelli che sono i valori della vita. Sì, perché porsi le tante questioni sulla nostra venuta, non significa altro che amarla questa storia; esserne integrati moralmente, civilmente ed esteticamente; esserne passionalmente avvinti tanto da non dimenticare di cantare sulla scialuppa di salvataggio; perché, in definitiva, sono proprio i dolori a farsi gradini di una scala tramite cui ci eleviamo a cime spirituali le più vicine all’inarrivabile “… E se la costante della vita è, in definitiva, il dolore, in esso è anche il riscatto della dignità umana, oltre che l'unico veicolo possibile della conoscenza (πάθει μάθος). E, inoltre, esso predispone ad una dimensione altra, dove il dolore è anche il veicolo per raggiungere livelli spirituali alti, in cui la Fede e la preghiera risultano essere di significativo impatto sull’animo umano che in tal modo “graziato” produrrà positive energie con ricadute notevoli nella personale vicenda esistenziale” (dalla prefazione dell’Autrice).

Quando il dolore

avrà macerato

le fibre del mio cuore

stilleranno i ricordi

in gocce di parole.

Nazario Pardini

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Accademia labronica

22 Maggio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #luoghi da conoscere, #cultura

Accademia labronica

La Biblioteca Labronica, intitolata a Francesco Domenico Guerrazzi, è la principale collezione pubblica di Livorno, in cui sono conservati autografi e manoscritti di Leopardi, Galilei, Foscolo, D'Annunzio, una edizione dell'Encyclopedie stampata nella città, e più di seicento volumi pubblicati a Livorno fra il 1644 e il 1900.

Essa deriva dall' Accademia Labronica fondata da Giuseppe Vivoli nel 1816, con l'appoggio del Granduca Ferdinando III di Lorena, rifinita negli statuti del 1837.

L'Accademia aveva lo scopo "di promuovere in Patria il gusto e la cultura delle Scienze, delle Lettere e delle Arti", nelle adunanze dei membri si poteva scrivere "a libera scelta sopra qualsivoglia elemento" senza però entrare nel merito della religione o della politica

(Che ne pensate? Non è anche, forse, proprio lo spirito di questo blog?)

I soci costituirono una biblioteca e scrissero gli Atti dell'Accademia. Il primo presidente fu Pietro Parenti e il primo segretario Francesco Pistolesi. Alla metà dell'ottocento la biblioteca constava già di settemila volumi messi a disposizione del pubblico nel 1843 e poi donati al Comune nel 1852.

Ebbe fra i suoi membri molti cittadini illustri da Angelica Palli a Enrico Mayer.

Cessò la sua attività nell'ultimo decennio del XIX° sec.

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