poesia
La complessità della vita e il significato dell’esistenza nella ricerca lirica di Biancamaria Valeri
È caratteristica saliente delle poesie che Biancamaria Valeri raccoglie nel volume Di fiore in fiore, recentemente pubblicato dall’Editore Miano, la notevole essenzialità linguistico-espressiva, come bene ha messo in evidenza il prefatore Marco Zelioli: “Da lei/ la materia è permeata/ e vive/ e sente/ e avverte/ e percepisce./ È un Paese la mia Anima./ È il luogo profondo/ dei sentimenti e dei ricordi miei” (Paese dell’anima). Ciò non è sicuramente indizio di spontaneità impressionisticamente effusiva, di approssimazione formale, giacché - lo sottolinea ancora il medesimo studioso – i testi rivelano tratti manifesti di non superficiale elaborazione artistico-letteraria, a partire dalla frequente, cόlta ricercatezza lessicale: “Algido è il cielo/ dove stormi di uccelli/ si rincorrono/in volteggi lenti e misurati/ malinconico preludio della loro dipartita/ verso altri lidi” (Vento d’autunno) ; e inoltre, citando in ordine sparso, in questi componimenti ricorrono vocaboli quali “adamantino”, “pelago”, “ratte”, “avìte”, “speme”, “fûr” e varî altri.
Per parte mia osserverei in aggiunta che la linearità e la semplicità stilistico-compositive alle quali si è fatto cenno in precedenza conoscono nello stesso tessuto verbale un’interessante sollecitazione antagonistica, una controspinta determinante indugio discorsivo, complicazione e inversione sintattiche prodotti dall’adozione sistematica del procedimento anastrofico: “Brilla/ l’azzurro ciel/ come cristallo adamantino./ Dal mare/ piatto e placido/ refrigerante brezza spira” (Estate); “Racchiuso nell’abbraccio/ di cielo e terra/ dai tuttavia dell’infinito il sentimento” (Il mare); “Di silenzio si riempie/ la sfera celeste e la terra./ Alla muta volta del cielo/ risponde/ il bagliore spettrale/ delle luci cittadine” (Falce di luna calante).
L’impiego meditato di altre figure retoriche, dalla similitudine (“Come viandanti/ andiam peregrinando,/ percorrendo una strada”, Viaggio) all’antitesi (“Piccole luci/ che lottano contro la notte/ sembrano parlare tra loro,/ chiacchierine splendenti” (Attesa); “Si capisce la gioia/ se si attraversa/ la stretta e angusta/ porta del dolore” (Dolore e vita), nonché di studiate soluzioni fonico-ritmiche come la rima (“Lì dove il caldo nasce per amore/ e nasce anche/ per l’amara esperienza del dolore”(Lacrime) o l’enjambement (“Di delizie mi sazierò/ nell’infinita pace del tuo/amore” (La tua pace), rappresenta un’ulteriore attestazione dell’origine pure riflessa e riflessiva di questi versi.
Nelle pagine della Valeri è poi palesemente attiva una strategia di “allusione” estetico-culturale a luoghi assai noti della letteratura italiana. Il rinvio intenzionale si fa occasione preziosa di emulazione intellettuale, di stimolante confronto: “La bella d’erbe e d’animal/ famiglia/ gode/ per la ricchezza/ delle messi/ che dona generosa/ la natura” (Estate), in cui appare, appena dissimulato, il richiamo all’inizio dei Sepolcri foscoliani: “Ove più il Sole/ per me alla terra non fecondi questa/ bella d’erbe famiglia e d’animali” (vv.3-5) ; e in forma più franta e diffusa a L’infinito di Giacomo Leopardi: “Non voglio staccarmi/ da questo colle/ dove affacciata sulla valle/ sto bene,/ avvolta nei pensieri miei./ Contemplo l’infinito/ e una profonda quiete/ inonda l’anima mia” (Abbandono). Potrei proseguire con le citazioni, ma mi limito a segnalare la ripresa inequivoca di un passo celeberrimo del canto XXVI dell’Inferno dantesco: “Lui scelse/ il ben dell’Universo/ e mai lasciò/ la linea prefissata/ non illusori risultati/ ma il frutto di/ virtù e conoscenza (Deriva, corsivi miei).
L’autrice riserva in particolare un’attenzione spiccata all’universo naturale, accostato e reso nella sua esuberante vitalità, nella captante molteplicità dei suoi aspetti con gli accenti di un brioso descrittivismo: “Ti affacci sulla valle/ che ampia e verdeggiante/ si apre al tuo sorriso./ Attraversata è dal vento/ questa valle./ Il signore delle nubi/ corre, vola,/ a volte leggero/a volte violento/ … Monti azzurri per i boschi/ che le pendici fino a cima ammantano” (A Ferentino mia città); “Abbracci con forte/ e appassionato legame/ tutta la grande Famiglia/ del genere umano/ che prende da te linfa e nutrimento./ Sostieni erbe ed animali/ ma anche chi appare/ lontano da forme viventi./ Tutto in te vive/ tutto in te si scioglie” (Madre natura).
La natura, oltre che nella sua dimensione autonoma, vive nella complessa valenza metaforica dell’esistenza medesima, della varietà e contraddittorietà suggestive dei tanti volti della stessa, delle gioie e dei dolori, delle aspettative fiduciose e delle amare delusioni, in una dialettica serrata e polivalente: “Metafora caduca/ della vita ingannano il passante/ con lo squillante colore/ delle fronde/ La terra odora di muschio (…) Sospinte dal vento/ sferzante/ in contrasto con la pioggia/ le foglie son cadute./ Un sospiro d’addio/le ha fatte vibrare/mentre abbandonavano il ramo” (Tappeto di foglie); “Mette le ali al cuore/ il dolore,/ che sprofonda il tuo sentire./ Come molla, però,/ ti spinge/ a risalir l’Abisso./ Speme di sopravvivenza/ al Nulla che isterilisce/ rattrappisce” (Dolore).
La speranza trova indubbio fondamento in una Presenza superiore, confortatrice e pacificante, che costantemente accompagna l’uomo nel suo cammino: “Nel tuo seno materno/ troverò pace, o Dio (…) Non m’atterrirà/ alcun male/ se s’apre/ la misericordia tua (…) Luce infinita/ e profondo amore./ Apri le braccia/ e dammi pace,/ Amore,/ nella luce del tuo amore/ quiete avrò” (La tua pace, cit.).
Floriano Romboli
Biancamaria Valeri, Di fiore in fiore, prefazione di Marco Zelioli, Guido Miano Editore, Milano 2024.
Christian Testa, "Pensieri poetici nel tempo"
Christian Testa
Pensieri poetici nel tempo
Guido Miano Editore, Milano 2024
La poetica dello scrittore pavese Christian Testa, espressa nella raccolta Pensieri poetici nel tempo, si avvale di una poliedrica tematica articolata in visitazioni interiori e ambientali tali da offrire al lettore una visione complessa delle sfere emotive umane e, allo stesso tempo, uno sguardo critico-valoriale sul mondo contemporaneo. La definizione della sua scrittura qui sviluppata dataci dallo stesso autore - “pensieri poetici” - molto bene si attanaglia alla semantica e al messaggio dell’opera, nel senso che la sua lirica è altamente debitrice di un’ispirazione noetica. Il libro è stato edito nel dicembre 2024 per i tipi della Casa Editrice Miano di Milano, nella collana di testi letterari Alcyone 2000 e reca la prefazione di Michele Miano.
In primo piano emergono le liriche in cui il poeta inserisce le convinzioni che reggono la sua esistenza: tradiscono in parte un afflato didattico-retorico, ma si distaccano nettamente dalla tendenza contemporanea di una letteratura di denuncia non supportata da alternative progettuali. Una delle poesie di tal misura è senz’altro Studenti, ai quali si rivolge tecnicamente con diverse anafore per cadenzare il suo messaggio: “Vostra”, con l’iniziale maiuscola, ad indicare la dignità della loro condizione (innocente, energica, pura, curiosa); “cercate sempre”: un invito a praticare i valori della vita (umiltà, identità, unità, amicizia, pace, autenticità); “non smettete mai”: richiesta di perseveranza e coerenza nei principi ideali (sognare, fare del bene, pensare, proteggere la natura, sperare in un futuro migliore). Così anche Italia, esprimente un caldo amor patrio, con rime libere sparse nel testo, formulata in tre quartine, due distici e una terzina finale in cui sintetizza il suo sentimento d’amore verso l’amato paese: “Italia, Italia, Italia / ti porterò sempre, /per sempre nel cuor”. Ed anche A Giovannino Guareschi, grato per i suoi valori autentici e la sua ironia.
Un posto di rilievo nella sua ispirazione e nelle sue emozioni assume la dimensione musicale, nella quale egli vibra, gioisce, si commuove, prova brividi e passione, trova pace nell’animo e con il mondo, si sente meno solo e addirittura gli sembra di toccarla e vederla in una sorta di estasi di tipo metamorfico. Ciò nella composizione intitolata semplicemente Musica, praticamente una dea-musa mediatrice fra lui e Dio, alla quale è eternamente grato: “Grazie di esistere. // Senza di te solo il silenzio / e il dolore del mondo”. Altre emozioni interiori scaturiscono per Il tuo compleanno, una lirica composta da un’unica strofa di venti versi, con diciotto anafore suddivise fra “con” (otto volte) “E che festa sia per te” (dieci volte per tutti i versi dispari); ne risulta così una partitura musicale particolarmente ritmata, dalle dediche più svariate, dai sentimenti umani alla partecipazione della natura: una festa di amicizia vera, al calore del sole, al fresco della pioggia, con la forza della vita, nel profondo dell’anima, con il sorriso del cielo ….
V’è un legame particolare tra il poeta e la natura, un rapporto affettivo che si espande a tutto il Creato: nascono così canti per la Neve, una filastrocca all’incanto del soffice bianco manto; per il Mare, di cui percepisce gli umori e soffre per la sua lontananza; per la Foresta, in cui il verso finale è emblematico del suo desiderio di simbiosi (“Oh foresta mia tienimi con tè / per sempre”; per il Fiore, la cui bellezza è “testimone del divino in terra”; per i fiumi della sua terra, Lambro (immagini del suo inquinamento e degli uccelli morenti) e Adda (“mio amato fiume”); per Varenne, il famoso cavallo trottatore, al quale attribuisce un’anima che “vivrà per sempre”. E il poeta conserva nel cuore tanti ricordi, fino a sciogliere un inno alla memoria, dove sono le nostre radici e la nostra identità: senza memoria e storia non siamo nessuno, ci ammonisce, occorre rimembrare coloro che se ne sono andati, i personaggi del passato, poiché il tempo esegue il volere di Dio. Ed è con la religiosità che la sua poetica punta verso l’alto: nella casa di Dio trova pace e serenità, il valore della preghiera, nonostante il “lungo e tormentato cammino” della Fede.
Enzo Concardi
Christian Testa, Pensieri poetici nel tempo, pref. Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 68, isbn 979-12-81351-20-2, mianoposta@gmail.com.
Amelio Cimini, "In Cammin o - 50 anni di poesia in musica"
In cammino – 50 anni di poesia in musica
Amelio Cimini
Guido Miano Editore, Milano 2025.
«Chi canta prega due volte»: cito Sant’Agostino per dire che questo libro è un chiaro invito alla preghiera. Ma il libro, purtroppo, è senza musica. Il che, per quanto ci fa intendere Don Amelio Cimini nella sua prefazione, è un ‘di meno’ del quale bisogna farsi una ragione. È così: perché, se si ascoltano delle canzoni avendo il loro testo sotto gli occhi, si gustano meglio. Però va dato atto all’Autore di aver avuto coraggio a presentare un libro di ‘poesie senza musica’: che canzoni restano, spesso col loro ritornello, e come tali il lettore le può immaginare (e magari inventarsi la musica). Chi vuole ascoltare la musica di molte canzoni curate da Don Amelio (versione ritmica e arrangiamento) può prendere un CD come In attesa dell’alba – canti spirituali di un popolo in cammino (a cura del Centro pastorale polacco “Corda cordi”), con dodici canzoni tra cui la ben nota Alla Madonna di Czestochowa, col suo amabile ritornello: «Madonna, Madonna Nera,/ è dolce esser tuo figlio!/ Oh, lascia Madonna Nera,/ ch’io viva vicino a te».
Don Amelio Cimini, che ha al suo attivo oltre cinquecento brani musicali pubblicati, ora ci offre questo suo In cammino che raccoglie un piccolo numero di canti-preghiere, ‘distillando’ i testi in sette parti: le prime sei (La vita, Simboli e segnali, La ricerca, La scoperta, Il Mistero, L’Annuncio) sono una sequenza investigativa della vita di chi voglia rendersi più consapevole del proprio essere; l’ultima (Donna e Madre) è quasi l’indicazione della ‘compiutezza’ che l’umanità trova in Maria, cui ci si può rivolgere cantando perché è la ‘nostra’ madre: piena di giovinezza, di misericordia, di luce – per richiamare alcuni titoli.
Sono molte le reminiscenze bibliche, ovviamente, trattandosi di canti religiosi: come l’inizio di Lungo i fiumi. Niente di inutilmente ripetitivo, però; nessun ‘manierismo’, ma un consapevole richiamo a tematiche ‘eterne’ perché siano rimeditate, riassorbite coscientemente da chi legge/ascolta il messaggio di questi canti, che riecheggia e amplifica quello del primo Natale: «… Grande notte dell’Oriente,/ tu portasti al mondo inter/ la Speranza che non muore,/ la dolcezza nel dolor…» (Il sussurro della speranza). Il tema della speranza è uno dei fili conduttori della raccolta, che attraversa dubbi (Il cielo è blu), paure (Se scende la sera), pregiudizi (inizio dell’ultima strofa di Artigiano misterioso), ricerche (Tu sei), scoperte (il finale di La vera vita); e, per un cammino non facile, non senza difetti, si è condotti a scoprire la pienezza della vita: «… Ciò che non arriva a Dio/ non può dar felicità:/ proteso all’infinito/ è il nostro cuor! ...» (La vera vita).
In questa raccolta di ‘poesie senza musica’, l’Autore dimostra di possedere un ritmo adeguato anche alla parola scritta. Ciò rende facile la lettura di quanto proposto per ‘svegliare’ il lettore e fargli percepire che ogni istante della vita ha un senso preciso, vive di un rapporto con l’eterno che – anche inconsapevolmente, a volte – lo fa ‘muovere’ verso gli altri. L’uomo, da solo, è poca cosa; insieme agli altri costituisce una comunità, un popolo. È inevitabile riflettere su ciò, per tutti, anzi per ciascuno – salvo volersi ritrarre dalla vita sociale. Da sempre la musica è un invito all’ascolto, prima, e poi un modo per coinvolgere altri nel canto: crea vicinanza, favorisce amicizie, fa nascere un approccio comunitario agli argomenti trattati dalle parole che accompagna. E la poesia, a ben vedere, fa lo stesso, spesso usando la musicalità delle parole per evocare un ritmo (a volte nascosto) capace di avvicinare gli uni agli altri almeno nel pensiero, se non nell’azione corale.
Quello di scrivere canzoni e pubblicarle senza musica si rivela pertanto un ottimo modo per ‘coinvolgere’ i lettori. La poesia non crea un coro udibile, ma una consonanza di sentimenti e di pensieri, sì. È questa la ragione del suo esprimersi, in fondo. Lo si capisce bene leggendo le righe (una o due, tre righe solo due volte) introduttive di ogni canzone-poesia. Un escamotage che avvicina la comunicazione dell’Autore a quella che Giorgio Gaber usava nel suo ‘teatro-canzone’ per spiegare al pubblico i suoi pensieri (ben aiutato dal co-autore Sandro Luporini); con la differenza che Gaber usava le canzoni per ‘accompagnare’ il testo teatrale, mentre qui le note introduttive ‘accompagnano’ i testi delle canzoni-poesia. Anche i ritornelli aiutano a ‘collocare’ i testi, indicando il ‘succo’ del messaggio: ad esempio, il ritornello di Quale vita o di Sono il buon pastore. Allora nulla può più frenare l’impeto che nasce della scoperta della strada (‘stretta’, per rifarci a ciò che indica Gesù nei Vangeli) per la realizzazione non di desideri effimeri, ma della felicità: strada piena di realismo nel considerare sé in paragone a Colui che per salvarci ha dato la sua stessa vita. Così scaturisce la preghiera, come in Davanti alla Sindone.
Le parole di chiusura del foglio illustrativo del CD In attesa dell’alba sono indicative: cantare permette di respirare «un po’ d’aria pulita dopo una giornata di smog», il che offre «una piccola luce, in attesa dell’alba».
Con questa raccolta Don Amelio Cimini ci regala un modo di pregare lungo il “cammino” della nostra vita; e così, tornando alla citazione iniziale, mentre si è letto questo libro abbiamo pregato almeno una volta. Cosa della quale ringraziare l’Autore, al cui invito a camminare per la vita non ci siamo sottratti: perché, come dice il secondo verso del ritornello della canzone di apertura del libro (Allora capirai), «la vita è un cammino, è una canzone».
Marco Zelioli
Amelio Cimini, In cammino – 50 anni di poesia in musica; a cura di Marco Zelioli, Guido Miano Editore, Milano 2025, pp. 64, isbn 979-12-81351-10-3, mianoposta@gmail.com.
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L’AUTORE
Amelio Cimini vive a Ladispoli (RM). Sacerdote, autore-compositore (4 Cantate per Soli, Coro e Orchestra, 500 brani pubblicati), ha curato per diverse Case Editrici oltre 100 album discografici. Insegnante nei Seminari e Licei di Roma e in Istituti di Scienze Religiose, animatore musicale per la catechesi giovanile e la pastorale parrocchiale, ha organizzato, tra l’altro, i Corsi di Aggiornamento Liturgico-Musicale per il Vicariato di Roma e il Corso di Perfezionamento Liturgico-Musicale (Co.Per.Li.M.) per l’Ufficio Liturgico Nazionale CEI.
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Maurizio Zanon, "Il soffio salvifico della poesia"
Il soffio salvifico della poesia
Maurizio Zanon
Guido Miano Editore, Milano 2025.
Il soffio salvifico della poesia è il titolo generale della presente antologia poetica ed appare in contrasto con quello di questo primo capitolo, ovvero La fatica del vivere. In realtà non è così, in quanto per Maurizio Zanon – prolifico autore con profonde radici veneziane – la poesia è stata, ed è nella sua esistenza, proprio l’antidoto principale – insieme all’amore e alla natura – per superare il cosiddetto disagio esistenziale e la particolare inquietudine psicologica dell’epoca contemporanea. È un tema che la letteratura di ogni tempo e parte del mondo ha sempre trattato e cantato, sviscerato e proposto da molti punti di vista, poiché riguarda in sostanza la condizione umana, con le esperienze vissute e con le fondamentali questioni filosofiche sui perché del nostro passaggio terreno: qui Zanon si qualifica come un aedo moderno della vita e della morte, mediante un’incessante ricerca interiore che spesso e con dolore rimane irrisolta, demandando alla futurologia la soluzione di ogni problema.
Troviamo nelle liriche di questo capitolo atmosfere, immagini e pensieri che riflettono sia gli stati d’animo del poeta, che oscillano volutamente tra ottimismo e pessimismo per dimostrare la contradditorietà del nostro vivere, sia le riflessioni di carattere ontologico che nascono da un’osservazione critica della realtà odierna, riferita ora alla propria fatica esistenziale, ora alle tipologie sociali del comportamento umano e delle tendenze decadenti dei valori. In altre parole egli si fa interprete, ed assume su di sé, il destino individuale e collettivo di una umanità probabilmente in via di dispersione. Si riscontra in tutto ciò, dal punto di vista culturale, la lezione dell’Ermetismo novecentesco – più come contenuti che come stile – e una certa vena crepuscolare in senso lato, cioè la ricerca di quieti angoli dello spirito ove chiudere la parabola umana. Dunque poeta-testimone del tempo e poeta-profeta, nel senso di uno sguardo indagatore sull’avvenire. […].
Enzo Concardi
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Un vivo, profondo sentimento d’amore lega Maurizio Zanon a Venezia, la città natale, e alla sua donna. L’intenso rapporto affettivo è, come spesso accade, contraddistinto da un’intima ambivalenza, permeato da quell’acuta sensibilità che sa aprirsi contrastivamente all’apprezzamento delle situazioni positive, spiritualmente gratificanti, e all’avvertimento dei momenti dolorosi, emotivamente deprimenti.
Il fascino seducente dell’ambiente lagunare, gli impalpabili, intriganti segreti di una tradizione «portati nel cuore da chi lì è nato» (Torno a scrivere di te) hanno ancora un importante effetto rasserenante e confortatore («…Aspettando poi il tempo buono per farmi cullare/ da quelle amorevoli acque di barena,/ dai loro incantevoli silenzi» (Soffia il vento di scirocco), mentre appaiono innegabilmente suggestive talune preziose atmosfere fatte di smorzata, contenuta luminosità: «Venezia bizantina/ si stende in riflessi dorati/ rivivo memorie passate/ su carezze d’onde/ ove si posano/ gondole d’opaca luce…» (Venezia bizantina); infine però il soffocamento progressivo e il degrado sostanzialmente inarrestabile provocati dal turismo di massa e dall’invalsa mentalità affaristico-speculativa inducono l’autore ad abbozzare un quadro di triste, opprimente negatività: «…Appari sempre così malinconica, mentre vedi scappare/ ad uno ad uno i tuoi figli/ costretti ad abitare lontano da te/ perché non danno ricchezza, sono solamente un peso…» (Torno a scrivere, cit.).
Non è analogo il risultato intellettuale-morale nel caso dell’evocazione commossa della relazione amorosa con la propria compagna, nonostante che questa possa presentare pure aspetti di sofferenza: «…Un tratto t’ho seguito/ per Piazza dei Signori te ne andavi/ lasciandoti dietro quella scia che sa di ricordi e ferite» (A Padova, corsivi miei, come sempre in seguito). Ora il discorso lirico vira decisamente verso le rilevazioni positive, che giungono alla celebrazione entusiastica, enfaticamente partecipe, sostenuta tra l’altro dal ricorso a una “canonica” similitudine: «Questo amore/ maturato al passo delle stagioni/ oggi vola a ritmi cadenzati/ come ala di gabbiano/ procede in cieli al sole estesi!// Chissà mai dove arriverà questo amore:/ oltre il mare oltre il cielo/ al di là di questa luce forse/ chissà mai questo amore/ dove luna andrà a spiare!?» (Questo amore). […].
Floriano Romboli
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L’interconnessione tra segno verbale e segno grafico ha da sempre affascinato gli intellettuali di tutti i tempi ed è tuttora oggetto di dibattito. Se il primo a proporre lo stretto legame tra pittura e poesia è stato il poeta Simonide di Ceo, il principio estetico dell’ut pictura poësis formulato da Orazio nell’Ars poetica trova la sua piena realizzazione nelle poesie di Maurizio Zanon proposte in questo capitolo. L’autore ritrae con leggiadri tocchi una vasta gamma di paesaggi “pittorici”, caratterizzati dalla presenza di una natura idilliaca, colta in tutte le sue sfaccettature e nei suoi più minuti aspetti; il foglio bianco si trasforma in una preziosa tela, le parole sono come sottili pennellate, capaci di catturare luci ed ombre e i chiaroscuri rivelano gli intimi moti della propria interiorità. I testi appaiono dominati da un io lirico intento ad una fantastica rêverie, da cui scaturiscono dolci e piacevoli atmosfere oniriche, mentre una fitta rete di morbide sinestesie evoca un policromo ventaglio di sensazioni e un vortice di emozioni coinvolgenti.
La struttura a chiasmo della poesia incipitaria sottolinea il gioco fonico di allitterazioni e di assonanze, incastonate anche nelle rime al mezzo e che contribuiscono ad amplificare la musicalità dei versi: «S’alza silenzioso il magico biancore dell’alba/ inconfondibile lucore che l’animo risveglia/ e il nuovo giorno somiglia al lieto gemito/ d’un bimbo appena nato. In questa luce unica/ e profonda/ tutto ricomincia in gocciolii di rugiada./ Pian piano poi il cielo vedi schiudersi/ a un impareggiabile azzurro» (Risveglio di primavera). L’arrivo dell’alba è un momento epifanico e l’io poetico prova un ammirato stupore di fronte al passaggio dal buio della notte alla luce del giorno, paragonato ad un bambino il cui ossimorico gemito è lieto di fronte alle meraviglie del creato. La scena descritta diviene metafora di una rinascita, tema che permea di sé tutta la silloge; le gocce di rugiada suscitano una sensazione tattile di freschezza, mentre l’impareggiabile azzurro riecheggia gli interminati spazi leopardiani, richiamando la tensione verso l’assoluto e invitando a guardare oltre il contingente, in una dimensione futura, per un nuovo inizio. […].
Gabriella Veschi
Maurizio Zanon, Il soffio salvifico della poesia, prefazioni di Enzo Concardi, Floriano Romboli, Gabriella Veschi; Guido Miano Editore, Milano 2025, pp. 80, isbn 979-12-81351-50-9, mianoposta@gmail.com.
Don Giovanni Mangiapane, "Poesie del Santo Rosario e della via Crucis"
Poesie del Santo Rosario e della Via Crucis
Don Giovanni Mangiapane
Guido Miano Editore, Milano 2025.
Del Santo Rosario sono illustrati poeticamente dall’Autore tre misteri: i ‘gaudiosi’ (contemplati al lunedì e al giovedì), i ‘dolorosi’ (al martedì e al venerdì) e i ‘gloriosi’ (al mercoledì, al sabato e alla domenica). Non sono proposti i misteri ‘della luce’, introdotti nel 2002 da San Giovanni Paolo II (al giovedì, con modifica della sequenza delle contemplazioni degli altri tre misteri: i ‘gaudiosi’ lunedì e sabato, i ‘gloriosi’ mercoledì e domenica, rimanendo al martedì e al venerdì i ‘dolorosi’). Tutto è trattato nel pieno rispetto della tradizione della preghiera mariana più nota ed usuale, fin da quando i monaci Cistercensi ne ‘fissarono’ la forma nel Medioevo. Ogni mistero si conclude con due versi che si ripetono per salutare Maria: nei misteri gaudiosi come Madre di Dio, per mezzo della quale l’opera del Padre ha il suo compimento («Ti salutu, Maria, Matri di Diu/ cu tia l’opra sua tutta finiu»); nei Misteri dolorosi come «… Madre Addolorata,/ ai piedi della croce sei piantata»; nei Misteri gloriosi con queste parole: «Io ti saluto, del cielo Regina,/ della gloria di Dio sei tutta piena».
I versi di questo Rosario ci offrono una chiave didascalica efficace e piena di acume interpretativo. Tre soli esempi, uno per ogni mistero, valgono a far tesoro di questa preghiera. Nel terzo mistero gaudioso si ‘vive’ la concitazione del momento che precede la nascita di Gesù: «Nun c’è postu, troppa genti,/ vonnu essiri presenti/ e na grutta li ripara,/ pi l’Eventu di la Storia» («Non c’è posto, troppa gente:/ voglion essere presenti/ e una grotta li ripara,/ per l’evento della storia»): niente di più vicino alla comune vita delle donne e degli uomini di tutti i tempi di fronte ad un ‘lieto evento’. Nel quarto mistero doloroso si rivive in una sola quartina tutta l’angoscia di un’ingiusta condanna e nello stesso tempo si raccoglie un segno della permanente presenza di Cristo nel tempo della vita del mondo: «Nciampà cadì si susì/ la matri la binidicì,/ facci cè ncapu linzolu/ donni avvisò pi cunsolu» («Inciampò, cadde, si alzò,/ la madre là lo consolò;/ c’è un volto sul lenzuolo:/ a voi, donne, così vi consolo»). Nel secondo mistero glorioso, al momento dell’ascensione di Gesù, c’è la succinta ed abile descrizione della vita dei discepoli che non si ferma, ma va avanti con un nuovo scopo: la missione verso tutte le genti attraverso il proprio quotidiano vivere: «Mentri parlava acchianava/ di cori binidicia;/ cu acchianà dopu scinni/ ura è: a li facenni» («Mentre parlava se ne saliva/ e di cuore li benediceva./ Chi è salito dopo scende;/ e ora, alle nostre faccende»).
La seconda parte della raccolta è dedicata alla Via Crucis. Le prime quattordici stazioni, nella traduzione italiana, sono introdotte da una breve meditazione in prosa. Le stazioni sono quindici: è compresa quella della Resurrezione, introdotta nel XII secolo dall’Arcivescovo di Colonia, ma percorsa saltuariamente (l’itinerario tradizionale, quello riportato sulle pareti delle chiese cattoliche in tutto il mondo, si ferma alla XIV stazione con la sepoltura di Gesù). Si ripercorre l’ultimo tragitto di Gesù in Gerusalemme: dopo la condanna di Pilato, caricato della croce, incontra la Madre; poi Simone di Cirene è costretto ad aiutarlo; incontra la Veronica, cui ‘regala’ l’immagine del proprio volto impressa su un velo, e le donne di Gerusalemme, cui dice di piangere su loro stesse e i propri figli e non su di lui. Gesù, messo in croce, parla al ‘buon ladrone’ ed infine alla madre e al discepolo prediletto Giovanni, affidando l’una all’altro prima di esalare l’ultimo respiro. E le tre cadute, e la deposizione dalla croce, e la sepoltura di Gesù che conclude provvisoriamente la vicenda – perché la fine vera non c’è, arrivando la Resurrezione che apre mille e mille vie alla testimonianza cristiana.
In tutto questo tragitto, l’Autore si percepisce compartecipe di ogni vicenda ripercorsa, e sentiamo il suo caldo invito a riconoscerla come ‘nostra’, a meditarla con cuore umile e aperto, a lasciarci sconvolgere la vita da un incontro tanto intenso e vero come quello di Gesù – ancora qui con noi. Una compartecipazione che si propone con tanta discrezione quanta decisione, come, ad esempio, nella seconda e terza quartina della IX Stazione: prima Gesù si rivolge al lettore e poi l’Autore richiama l’attenzione sulla vicenda del Cristo («Ce lo hai detto tante volte,/ timorosi per le svolte:/ “State attenti, non sbandati;/ voi con me siete impastati.”// Nella vita lo facesti,/ con coraggio sempre andasti;/ ma quel giorno hai sudato,/ sangue vivo hai versato»). Una compartecipazione ‘richiesta’: infatti, mentre la preghiera del Rosario è sia personale che comunitaria, la Via Crucis è un gesto per sua natura comunitario. In essa si rivivono le ultime ore di vita di Gesù prima della Resurrezione: ore vissute in mezzo alla gente di allora, coi suoi pensieri e pene, indifferenze e passioni. Un gesto che anche oggi coinvolge chi, come il Cireneo della V Stazione, si trova a passare per caso. Un gesto “pubblico”, al quale l’Autore invita a compartecipare, soprattutto, direi, con la giaculatoria ricorrente che (al posto della tradizionale «Santa Madre, deh! Voi fate/ che le piaghe del Signore/ siano impresse nel mio cuore») suona così: «O Gran Virgini Maria,/ vostra pena è curpa mia» («O gran Vergine Maria,/ la vostra pena è colpa mia»). Tanti altri sarebbero gli esempi, ma è meglio che il lettore li scopra da sé.
Lo schema delle poesie è fisso: nel Rosario c’è la sequenza di quattro quartine di quattro versi, più un saluto a Maria nel distico finale, quasi sempre con rima baciata a due a due. Anche nella Via Crucis i versi sono a schema fisso: tre quartine e un distico finale, quasi sempre con rima baciata, più il “ritornello” di chiusura su citato, uguale fino alla quattordicesima stazione. È uno schema utile alla memorizzazione, che nella traduzione italiana inevitabilmente si perde, anche se c’è il tentativo di conservarlo intatto – ove possibile.
Per quanto riguarda l’uso, voluto, della lingua siciliana per i suoi versi, Don Giovanni Mangiapane ‘gioca in casa’. Non è la prima volta, infatti, che pubblica in Siciliano; e la Regione Sicilia, per promuovere l’uso della lingua isolana e farla conoscere a scuola, ha inserito i suoi Versi Siciliani in due volumi di poesie editi dal Liceo Umberto I di Palermo nel 2024. Da tempo si è abbandonato l’uso del termine di “poesia dialettale”, perché con questa espressione solitamente si sottintende l’uso di una lingua morta. Merito di questo sacerdote poeta è di produrre letteratura in ‘viva’ lingua siciliana, affinché la ricchissima cultura isolana venga tramandata così come è nata, senza ‘traduzioni’.
Le poesie proposte nella raccolta sono state pensate e scritte per essere lette e recitate in Siciliano, e il classico problema dei testi poetici è che, quando vengono tradotti da una lingua ad un’altra, inevitabilmente perdono un po’ del loro fascino stilistico. L’aiuto a comprendere la lingua siciliana ci viene qui dallo stesso Autore, che a fianco del testo siciliano propone quello italiano. Così anche i meno avvezzi alla lingua isolana possono avvicinarsi al senso pieno delle parola scritte. In ciò si è abbastanza facilitati, se si conoscono già gli argomenti stessi delle poesie – cosa probabile, perché il Rosario e la Via Crucis sono preghiere e gesti ben noti alla gran maggioranza dei possibili lettori. Però ci sono parole “intraducibili”, e nel tradurre l’Autore fa ricorso a delle parafrasi. Tuttavia, in certi casi bisogna ‘entrare’ nella lingua originaria per comprendere il significato del tutto, perché ci sono modi di dire che, a chi non conosce la lingua originaria, dicono poco. Ad esempio il “mortorio” del quarto verso della XIV Stazione della Via Crucis è il suono di campane a morto, usato anche, per le “chiamate d’emergenza”. Nel nostro caso, dal venerdì della sepoltura di Gesù alla sua Risurrezione all’alba della domenica di Pasqua, il tempo di un “mortorio” significa una brevissima attesa – nella prospettiva dell’Eterno. Devo questa spiegazione alla cortesia dell’Autore, perché io non ci sarei mai arrivato! Ma, per il resto, tutti i versi in Siciliano sono facilmente godibili e fruibili da chiunque, con l’ausilio della ‘traduzione d’autore’.
Diciamolo pure: questa raccolta poetica vale molto per chi conosce già la sequenza dei Misteri della preghiera del Rosario e per chi già pratica il ‘pio esercizio’ della Via crucis; ma vale anche, e forse ancor di più, per chi non li conosce. Sì, perché la forma poetica (tanto in lingua siciliana quanto nella traduzione italiana) è tanto semplice quanto potente, capace di avvicinare anche chi si accosta solo per curiosità a questi testi di Don Giovanni Mangiapane. Che, in tal modo, esercita la sua missione in bellezza.
Marco Zelioli
Don Giovanni Mangiapane, Poesie del Santo Rosario e della Via Crucis, testi in lingua siciliana con traduzione italiana a fronte; prefazione di Marco Zelioli, Guido Miano Editore, Milano 2025, pp. 72, isbn 979-12-81351-52-3, mianoposta@gmail.com.
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L’AUTORE
Giovanni Mangiapane, nato a Cammarata (AG) il 24 maggio 1944, è stato sacerdote e parroco della diocesi di Agrigento per cinquantaquattro anni, ordinato il 29 maggio 1970 parroco sino ad ottobre 2023. Ha ricoperto l’incarico di Direttore Ufficio Beni Culturali in Diocesi dal 2002 sino al 2009, dopo avere ricostruito la Cattedrale di Caltabellotta, per le grandi celebrazioni del 7° centenario della pace di Caltabellotta del 31 agosto 1302. Ama scrivere, in lingua italiana e in vernacolo, anche versi, con piccoli messaggi augurali, concorsi parrocchiali, epitaffi, ricorrenze di vita. La Regione Siciliana, nel promuovere il Siciliano come lingua da far conoscere a Scuola ha inserito i suoi versi in due volumi di poesie, Versi Siciliani di Giovanni Mangiapane, edizioni Liceo Umberto I di Palermo 2024.
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Leopardi, il poeta dell'infinito
Se Leopardi il poeta dell’infinito fosse una qualsiasi serie in costume, mi sarebbe piaciuta. Ma è una serie su Leopardi e non va bene.
La prima puntata si salva: Ranieri che si batte per una degna sepoltura al poeta malvisto dall’intellighenzia e dalla chiesa, il conte Monaldo, superbamente interpretato da Alessio Boni (molto migliorato negli anni come attore), la cui tensione morale e affettiva si rivela da ogni tendine e muscolo facciale, l’austera e terribile madre, felice che il figlio sia malato per poterlo immolare al suo Dio corrucciato. Bello, per dirla in breve, l’inizio.
La seconda puntata lunga, tronfia e quasi inguardabile, con l'improbabile carteggio alla Cyrano de Bergerac fra Raneri e l’Aspasia/Targioni Tozzetti. Passano gli anni e questa sorta di gobbo di Notre Dame rimane troppo giovane, troppo bello, troppo dritto e con lo stesso, anonimo filo di voce per tutto lo sceneggiato (sì, io chiamo ancora così le serie tv e me ne vanto).
Non trovo giusto aver puntato tutto sul Leopardi filosofo, sul suo nichilismo, disfattismo e pessimismo, quando, in realtà, questo “giovane favoloso” era innamorato della vita, dalla quale si sentiva escluso. Ebbene sì, avrebbe rinunciato a tutta la sapienza, a tutta la cultura, alla fama e alla gloria pur di essere come qualsiasi altro. Leopardi amava l’amore e s’infatuava, Leopardi gridava alla luna il suo dolore e la sua rabbia per la cattiveria con cui la natura matrigna si era accanita contro di lui. Insomma, non mi è piaciuto l’aver puntato tutto sulle Operette Morali piuttosto che sui grandi e piccoli Idilli.
La figura del Ranieri, poi, è completamente sbagliata. Da Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi si evince la figura di uno sfruttatore, certo non di un grande, sincero e disinteressato amico, come si vuol far credere qui; il quale non si è battuto perché venisse ricordata la grandezza del genio leopardiano, ma piuttosto le bizzose meschinità di un povero malato: nevrastenia, golosità, piccole cattiverie che sicuramente erano presenti in una figura tanto sofferente e delle quali, però, non c’è traccia nella serie di Rubini.
Concludendo, molto meglio Il giovane favoloso di Martone.
Benedetta Sanna, "Avere la pazienza del pane"
Avere la pazienza del pane di Benedetta Sanna (Eretica Edizioni, 2024 pp. 68 € 15.00) discioglie l'origine del fermento esistenziale mescolando gli ingredienti con un espediente indispensabile per far maturare l'amalgama emotivo attraverso la fragranza dei versi e il profumo della memoria. Benedetta Sanna concede il suo tempo interiore nella preparazione di una riflessione umana, lungo il tracciato delle parole, la qualità panteistica delle immagini, immersa tra isola e città, nella reazione alle avversità e alle difficoltà della vita. Se il pane elabora la pazienza, la poetessa raggira l'antico e proverbiale modo di dire per alimentare l'atteggiamento alla comprensione, la disposizione alla fiducia nella natura e nel suo stupore e alla volontà di percorrere l' evoluzione personale, nella stabilità di tracciare su carta la destinazione della propria anima. I versi delineano le reazioni istintive, provocate dalle aspettative sensibili, fondono l'irrequietezza nelle schegge di lucida immediatezza, scuotono l'affanno della coscienza, persistono nella loro urgenza di espressione, nell'esigenza di trovare un'entità autentica, capace di rivelare l'intensità dell'intonazione elegiaca. La poetessa vive la ragione poetica, coniuga l'esperienza della dimensione estetica di ogni visione del reale nella quotidianità con la pratica di una scrittura meditata nell'attenzione intenzionale alle sensazioni, inaugura la stagione di una fusione spirituale, condensa l'indagine negli affetti e salda la qualità dei componimenti appesi nella sospensione dei ricordi. Benedetta Sanna suggerisce, con l'impeto suggestivo delle sue poesie, l'indicazione interpretativa dell'attesa, come indugio silenzioso e minuzioso nei rapporti relazionali, assiste l'asprezza e la severità degli eventi, evidenzia la dolcezza della speranza e la consistenza dell'assenza. Accoglie nel suo cuore l'avidità insaziabile di trasmettere amore, oltre la rabbia e il dolore, aggira la voragine inaccessibile dello sconforto e l'intuizione indefinibile della malinconia con il significato profondo di una schiettezza urlata e decantata nella vicinanza delle superfici animose e solitarie dei pensieri, oltre l'indolenza del distacco e l'accerchiamento della solitudine. Avere la pazienza del pane ricorda di cogliere l'opportunità di sorvegliare, capire e seguire l'estensione della consapevolezza, proietta il valore del presente nella benignità del tempo che sa sempre restituire gli intrecci della vita scandendoli oltre il frammento dei turbamenti. Benedetta Sanna confessa la fragilità dei rimpianti e la ruvidezza delle separazioni, esprime l'energia coraggiosa della parola, dà senso alla voce sfumata e disillusa della nostalgia, pone la quiete all'inquietudine. Manifesta l'intenzione di dare forma e corpo al grumo indistinto e indecifrabile dei sentimenti, confida nella previsione temporale delle esperienze, fa riemergere la riflessione antica e generativa degli intervalli. Dedica alla risorsa preziosa dell'indulgenza la ripartizione della tensione impaziente, interroga l'anima e ne ascolta il principio vitale, identifica l'eco del rimpianto, le occasioni inesorabili di impastare le fascinazioni e i disinganni del proprio cammino. Benedetta Sanna ci insegna a saper prevedere, ad attendere il tempo necessario affinché le prospettive umane migliorino, a nutrire le trasformazioni e ricevere compiutamente le conseguenze della saggezza popolare: “A chi sa attendere, il tempo apre ogni porta”.
Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Al mare basterebbe
sapere che torniamo,
che il viaggio non è breve
ma l'orizzonte lo vediamo:
i contorni del suo volto,
l'isola e il suo solco,
uno sbadiglio nel Mediterraneo.
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Se la notte porta il sogno
e nel sogno c'è un consiglio
di saper essere anche io notte,
quando voglio:
una penna che non dubita del foglio.
E io che resto serva del tuo giorno
so bene che ti vedo
solamente alla sua fine,
dove il nero è tutt'uno con la stanza.
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Sapessi come te dimenticarmi
dell'affanno dei miei anni,
che invece io pronta ricordo
ogni volta
che scordo l'origine dei venti
e cosa scosse il maestrale
nelle radici,
in quegli occhi tuoi sempre spenti
e le tue spalle come colline,
alle mie pendici.
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Solamente scrivendo
posso togliere la rabbia.
Evitare di sputare la tovaglia,
aggredire i tuoi costumi ed usi,
così sporchi e truci
di giostre secolari,
violenze e torti.
Di netto poi trafiggo
dal polso fino al torace
lo spettro sudicio e ingombrante
dell'elefante in una stanza.
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Distinguere parole
come rose dalle spine,
tra le mani tue supine
in grado di abbracciare
ogni mio indizio alieno.
Su quella spiaggia bianca e dolce,
dove ancora
dormo e tremo.
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Sono arrivate molte cose
negli anni
a salvarmi.
Prima dalla provincia,
poi da ogni mia piccola stanza.
Quasi come un passaggio
di mano in mano
di una chiave
o di un segreto,
e quella devozione.
L'occhio aperto
sulla terra stanca.
Il tuo antico rituale.
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Gomitolo di niente,
briciola
scarto
e restanza.
Pregarti voglio oggi
per avere un segno,
da un cielo
il cui colore appena distinguo.
Dal tetto del palazzo,
da un urlo sotto casa.
La notte non ha suono.
Il fascino e la pena del vivere nell’arte di Daurija Campana
Daurija Campana
Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato
Guido Maino Editore, Milano 2024
Una caratteristica della ricerca poetica di Daurija Campana - ora antologizzata nel volume Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato, pubblicato dalla Casa Editrice Miano - è il ricorso invero frequente a un sistema di rime, talora evidenti nella loro regolarità (“Socchiudi il sole tra le ciglia scure/ e lascia che il tempo i pensieri pasca/ hic et nunc, tra prati, piane e paure/ hai nascosto le cinque lire in tasca…”, Il canto del cuculo), talora più rare e sfumate (“…Ed io restavo a casa a prepararmi/ per la scuola e pensavo/ quanto avrei desiderato destarmi/ una volta col tuo bacio”, Madre) o magari maggiormente elaborate in un sapiente gioco fonico-ritmico di lontana, ma inequivoca ascendenza dannunziana: “Non piace./ La pioggia che dice/ che tace… Che pace!/ Tra gli orti, contorti/ pensieri distorti/ su vivi e su morti/ che pace, che sensi…/ Che pensi? (…) Sembriamo/ uccelli dagli aurei capelli, fringuelli/ leggeri e soavi/ che lievi/ distendono ali/ sul cielo sereno” (Non piace).
Tale particolarità compositiva implica un effetto di stabilità, di equilibrio armonioso, di indubbia scioltezza formale, pur in presenza di procedimenti costruttivi di segno opposto, quali l’enjambement, rivolto a esiti di “spezzatura”, di frangimento disarticolante la compagine strofica: “…Le tue cangianti vesti non ingannino/ il marinaio che il tuo volto ammira/ non si neghino al folto dei cipressi:/ così lui ti vedrà dalla dimora/ eterna…” (Luna); oppure, più specificamente, come le pause indotte dall’inversione dell’ordine sintattico nell’organizzazione del discorso logico, dall’impiego della figura dell’anastrofe: “Ti alzi, soffio di vita nell’aria/ dorato grano tra spighe e respiro,/ sopra la terra leggera che varia,/ sguardo di cielo immenso blu ammiro…” (Il vento); “Il cielo è sereno, cade la pioggia,/ oggi il sorriso è turbato dal pianto,/ il viso riga scendendo la goccia,/ l’animo giace perduto ed affranto…” (Cade la pioggia); “Per te io piansi le lacrime in cuore,/ la giovanile età del gioco/ in cui la gioia dimostravo lieta/ e al sorriso spesso ricorrevo.// Ma poi ti vidi e fu in me il dolore/ che mi sussurrava il tuo sguardo fioco/ mancato sorriso lo sguardo vieta/ e nel guardarti, ricordo, piangevo…” (Amore).
Nondimeno una sollecitazione antitetica anima profondamente la struttura dei testi lirici di Campana. Una nota vitale, uno slancio positivo e proiettivo si precisano come attesa di un incontro morale-affettivo, come desiderio di piena intesa sentimentale, bisogno di integrazione con gli altri e di immedesimazione con il respiro pacificante della natura; questa istanza fiduciosa ed espansiva tende successivamente a contrarsi e a cadere, inappagata e respinta, risolvendosi in scacco emotivo, privazione, rimpianto, dolorosa solitudine: “…E spira il silenzio sopra il mio canto,/ la nuvola bella appare più rosea/ sorrisi sul sole e sui solchi scuri/ in petto il cuor mesto ora riposa” (Cade la pioggia, cit.); “…Continuo a bramar, ogni istante, ogni ora/ che il padre mio, che tanto io adoro/ ritorni da me e resti per ore/ per giocare con la sua bimba ancora” (Re Evandro); “…ma il desiderio seguiva il timore.// Giorni lontani, di gaudio e di festa/ giorni di vita, di spensieratezza/ tutto oggi è perso, come la pula/ che porta via il vento, troppo lontano…” (Mietitrebbia).
Anche nella produzione pittorica dell’autrice si alternano colori vivaci, un cromatismo esuberante e tonalità più cupe, dal blu al grigio: quest’ultimo, ad esempio, domina la rappresentazione del padre, ritratto di spalle sul trattore, figura indeterminata poiché ormai remota e perduta.
Il prefatore Michele Miano acutamente pone in risalto il fatto che la poetessa in varî dipinti “sembra prediligere la figura umana femminile”, riprodotta in atto problematico e pensoso. Aggiungerei che detta figura si staglia su un fondale uniforme e spesso nero, e concentra nello sguardo uno spirito suggestivamente enigmatico e interrogativo, pronto a misurarsi con le prove della vita, ma ad aprirsi altresì alla speranza: “Ti prenderei la mano/ tra spighe meste e campi di fieno,/ e assetata di vita/ correrei al lago, mentre i rossi papaveri/ condurrebbero i passi/ alla quiete…” (Vanessa cardui).
Floriano Romboli
Daurija Campana, Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 80, isbn 979-12-81351-41-7, mianoposta@gmail.com.
Andrea Cattania, "Amore per sempre"
Amore per sempre
Andrea Cattania
Guido Miano Editore, Milano 2024.
“Amore per sempre” in Andrea Cattania e in Edward Estlin Cummings
“L’amore per sempre” dei nostri due poeti, come suggerisce il titolo di questa tematica, riguarda la poesia amorosa dedicata ad un’unica donna amata, al sentimento che sfida il tempo, all’eterna promessa fra due entità che s’incontrano per non più perdersi: solo la morte potrà segnare la dimensione dell’assenza, della distanza, ma forse neanche Lei, poiché il ricordo, la memoria dell’unione infranta, sopravvive spiritualmente anche agli artigli della Straniera, e ciò vale per l’esperienza umana e letteraria di Andrea Cattania. Succede a lui – l’amore non conosce differenziazioni di epoche o di mentalità – quel che capitò a Dante con Beatrice (la donna angelicata, salvatrice della sua anima, guida spirituale nel Paradiso della Commedia) e al Petrarca con Laura (la protagonista del Canzoniere, dove il poeta aretino suddivide il suo canto fra le rime “in vita” e “in morte” dell’amata). Assistiamo dunque alla sublimazione del sentimento amoroso, poiché poco importa se Beatrice e Laura non sono mai state realmente a fianco dei due poeti toscani e sono andate all’altare con altri uomini: per loro esse sono rimaste sempre la vera idealizzazione della donna perfetta o perfettibile, fino a costituire costante fonte di ispirazione poetica per tutta l’esistenza. Così anche per Cattania, che nei suoi versi esprime ora il rammarico e l’amarezza per un amore non corrisposto, poi la felicità con la donna che ha amato “in vita” e che amerà per sempre anche “in morte”: Lila» […].
Enzo Concardi
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Le problematiche dell’essere in Andrea Cattania e in Charles Baudelaire
La profonda dicotomia dell’essere che sin dai primordi turba l’animo umano e scuote gli intellettuali di ogni epoca, emerge anche nell’opera del poeta - ingegnere Andrea Cattania; un’ossimorica tensione tra ragione e sentimento, tra angoscia esistenziale e desiderio di elevazione pervade infatti le sue liriche. La poesia di apertura di questo capitolo, Il futuro dell’homo sapiens, pone subito un’accorata domanda, enfatizzata dall’apostrofe e dal rincorrersi di potenti antitesi: «Che ne sarà di te, Uomo Sapiente?// […]/ Vinci sfide impossibili, raggiungi/ le vette della conoscenza astratta.// Spingi al limite il pensiero simbolico.// Incapace di volgere in amore/ la folle ebbrezza di un sapere immenso,/ non sai se non ipotizzare quando/ si estinguerà, e come, la tua specie». L’ammirazione per i risultati raggiunti dalla mente umana, sottolineata dai verbi vinci, raggiungi, spingi, si accompagna alla triste consapevolezza della leopardiana infinita vanità del tutto: l’uomo non sa trasformare la sua conoscenza in condivisione (incapace… non sai), non si innalza al di sopra del contingente e il suo folle volo è ancora una volta fallimentare. Tuttavia i versi sono mossi da un’incessante ricerca, tesa a svelare il senso dell’esistenza e a scoprirne la bellezza, anche quando i sentieri sono impervi e le vie d’uscita lontane: «…Noi,/ piccole talpe cieche sottoterra,/ allunghiamo lo sguardo, ci illudiamo/ di scorgere un chiarore in fondo al tunnel…» (L’intuizione di Anassimandro). […].
Gabriella Veschi
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La contemplazione dell’universo e della natura in Andrea Cattania e in Paul Claudel
Non è raro il caso di una personalità dalla solida preparazione scientifica, che nondimeno riveli vivi interessi artistico-letterarî, che coltivi anche attivamente non superficiali inclinazioni estetico-culturali, una spiccata propensione alla scrittura poetica. Sono d’altronde pienamente ammissibili opzioni tematiche extra-scientifiche, svolgimenti di motivi etico-sentimentali, intimistico-psicologici o storico-sociali, confessioni di esperienze di vita sofferte e inconfondibili.
Invece la ricerca lirica dell’ingegner Andrea Cattania non sa prescindere dalle problematiche logico-matematiche, specificamente astrofisiche, che urgono alla sua mente, stimolano la sua fantasia, la quale se ne alimenta intensamente con risultati di indubbia incisività creativa: «La materia diffusa, l’energia/ che pervade/ l’intero cosmo, ovunque,/ nell’universo/ genera il campo gravitazionale./ La distorsione del mondo reale./ La curvatura dello spaziotempo» (La distorsione dello spazio); «…La luce/ si propaga intrecciando al proprio interno/ i due campi in un’unica natura/ nell’universo dello spazio-tempo./ La sua velocità costante è un limite/ irraggiungibile, esprime il rapporto/ in cui la massa diventa energia» (Vorrei conoscere i pensieri di Dio).
A un discorso imperniato sulla univocità e determinazione lessicali unite a essenzialità sintattica è immanente il rischio dell’aridità intellettualistica o comunque dell’appiattimento prosastico, mentre l’autore non si nasconde le peculiarità preziose della poesia: «La tempesta quantistica flagella/ gli elementi del brodo primordiale./ Li sfibra, li divelle, li affastella/ in seno al cono gravitazionale/ (…) Non solo lo scienziato, anche il poeta/ osa raffigurare lo scenario/ dell’Universo nell’Istante Zero./ La traccia folgorante di un pensiero./ L’origine del tempo immaginario» (La nascita del cosmo, corsivi miei come sempre in seguito). […].
Floriano Romboli
Andrea Cattania, Amore per sempre, prefazioni di Enzo Concardi, Floriano Romboli, Gabriella Veschi; Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 100, isbn 979-12-81351-46-2, mianoposta@gmail.com.
Wanda Lombardi, "Tempi inquieti"
Wanda Lombardi
Tempi inquieti
Guido Miano Editore, Milano 2024.
Wanda Lombardi torna a far sentire la sua voce poetica con una breve ma intensa raccolta, Tempi inquieti, per Guido Miano Editore: venticinque nuove poesie, seguite dalla riproposizione di altre quattordici già pubblicate e raccolte sotto il significativo titolo Perché nulla vada perduto. Il tutto conferma quanto la poetessa sia ‘presente’ al nostro tempo, pur così travagliato; e la sua ricca bibliografia a chiusura del libro lo attesta senza ombra di dubbio.
Nell’accostare i versi di questa raccolta di Wanda Lombardi, non si può prescindere dall’osservazione di Maria Rizzi nella Prefazione all’opera, laddove, riportando i versi che alludono all’«… immane dolore / che stretto ho serrato nel cuore / dinanzi a muri di ferro …» (da Nell’andare), afferma proprio tale esperienza permette all’Autrice “di calarsi nel sociale con sguardo caldo di pietas, valutando i pericoli del male, schegge di guerra in periodi bui come quello che attraversiamo”. Il “coraggio delle ferite” (citando ancora la Rizzi) permette alla Lombardi di affrontare ogni argomento con spirito al tempo stesso umile e combattivo – come testimoniano poesie come Rialzarsi per continuare.
Come le rondini che fuggono dai consueti posti, perché dall’alto vedono «i risultati dell’odio,/ devastazioni, strade insanguinate,/ infanzia violata, crudo dolore/ per rancore tra genti mai sopito,/ per un diritto mai ottenuto» (da Rondini addio), così lo scoramento può prendere anche le persone capaci di pensare con la propria testa, perché «…in ogni angolo della Terra si soffre,/ si langue, si muore/ per contrasti a volte minimi/ che dialogando si potrebbero evitare» (da Abitudini). E poi, «In un mondo che corre vorticosamente,/ in un’epoca in cui sempre più veloci andiamo,/ spesso dimentichiamo la necessità/ di pensare, di usare il cervello/ che tempi più lenti ha per lavorare» (inizio de Il tempo della velocità). Non per nulla Tra ombre e dubbi finisce così: «È vero o falso il mondo in cui viviamo?/ Forse è da preferire questo a quello di domani». In ogni caso, «Malgrado gli alti e bassi,/ meravigliosa è la vita/ ché anche i momenti bui/ forza ridanno, la volontà nutrono/ e trasformarsi possono/ in coralli luminosi/ sì come le stelle dal caos/ si distinguono» (da La collana della vita). Ciò conforta anche di fronte alle perdite di affetti e di persone, come testimoniano le poesie dedicate al fratello Ubaldo e A un ragazzo prematuramente scomparso.
Una poetessa capace di scrivere «qualcosa di grande avverto/ nella profondità dell’essere» (da La musica della vita) è senza dubbio persona aperta sempre alla novità, ma nello stesso tempo critica – giustamente critica sul senso di tale novità. Ci sono, infatti, novità che sconvolgono («Spaurita, dall’alto mi par di osservare/ un mondo lacerato che sembra crollare/ …/ rapidi cambiamenti epocali/ con diritti raggiunti, imprese spaziali,/ progressi nei paesi musulmani,/ robot, intelligenza artificiale,/ e accanto guerre, genocidi, povertà,/ dignità calpestata» – da Contrasti) e novità che confortano come la presenza di un amico (amico evocato con queste parole in chiusura della prima parte della raccolta: «Con viso aperto/ e trasparenza negli occhi,/ è un vento benefico/ che un equilibro restituisce,/ è una brezza marina/ che adagio ti sprona a ripartire,/ a riprendere in mano/ le redini della vita» - da L’amico vero). Sta all’uomo avvertire la direzione alla ‘piena umanità’ cui ogni persona è chiamata, rendersi conto che occorre «la capacità di meditare sulla vita,/ sui cambiamenti repentini,/ le cose irrisolte, i problemi accantonati/ e guerre… guerre nate con l’uomo/ e che con l’uomo periranno» (da Silenzio amico). È però inutile rifugiarsi «nel ricordo di tempi lontani/ quando tutto affascinava/ e un niente appagava», perché «Vivere in pace con tutti è un sogno/ che morirà con l’uomo» (da Sguardo sul mondo).
Così Wanda Lombardi ci sprona ad essere consapevoli del nostro tempo nel nostro tempo, cioè ad essere ‘presenti’ e non ‘assenti’ col cuore e con l’anima: il mondo in cui viviamo è il nostro mondo, non ce n’è un altro. Un richiamo da non sottovalutare, mai.
Marco Zelioli
Wanda Lombardi, Tempi inquieti e altre poesie, prefazione di Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 60, isbn 979-12-81351-38-7, mianoposta@gmail.com.