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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

valentino appoloni

Rick Bass, "Diezmo"

2 Maggio 2025 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni, #storia

 

 

 

 

 

DIEZMO

RICK BASS

 

La vicenda narrata in Diezmo, romanzo di Rick Bass, edito da Mattioli 1885, si svolge tra Texas e Messico intorno al 1842, seguendo alcune memorie lasciate dai protagonisti di quella che fu chiamata la Spedizione Mier; per il resto, l'autore ovvia alle carenze di documentazione facendo ricorso a un buon piglio romanzesco. Il confine in quella zona era già caldo all'epoca. Non sarà, quello descritto, l'ultimo conflitto in loco; infatti pochi anni dopo, ci fu una durissima guerra tra Stati Uniti e Messico, nel 1846, dovuta sempre a dispute sui confini e la brama di conquista fu premiata. Le conseguenze furono la perdita da parte del Messico di circa metà del proprio territorio. In pieno Novecento, durante la rivoluzione messicana altre due volte i soldati di Washington effettuarono un'invasione. Nel 1914 quando a lungo occuparono la città portuale di Veracruz e nel 1916 quando il generale Persching con un corpo di spedizione partì per cercare di catturare Pancho Villa il quale a sua volta aveva attaccato la città americana di Columbus.


Pochi anni prima dei fatti narrati in Diezmo, ad Alamo i ribelli texani erano stati massacrati dopo tredici giorni di assedio dall'esercito messicano del generale e dittatore Lopez de Santa Anna; un mese dopo a Jacinto l'esercito texano di Sam Houston si vendicava sconfiggendo il nemico. Nel film Alamo - Gli ultimi eroi del 2004, quando il generale Santa Anna davanti ad Alamo afferma di voler attaccare il piccolo fortilizio nemico, senza attendere che giungano le artiglierie adatte all'assedio, alle obiezioni dei suoi ufficiali replica che se non avessero vinto in modo rapido e netto, il Messico sarebbe stato per secoli a mendicare il pane dagli americani. È solo la battuta di un film, però forse ci hanno preso.

Tornando al libro, dopo la battaglia di Jacinto il Texas si fece indipendente e si diede un ordinamento repubblicano. Questo è il retroterra storico del romanzo; il Texas guarda agli Stati Uniti cui si unirà anni dopo ma in questa fase c'è ancora il rischio che il Messico riprenda il Texas che considera una provincia ribelle. Ci sono anche intrighi da parte degli inglesi per far sì che questa annessione con gli Stati Uniti non avvenga. Nel frattempo accadono scaramucce lungo i confini. Succede che in un piccolo paese passano dei soldati i cui ufficiali si presentano come reclutatori per trovare gente da mandare contro il Messico, per rispondere a una iniziativa nemica. È in nome della gloria che persone comuni, ex militari, contadini, adolescenti entrano nella spedizione. Ufficialmente si deve far fronte a una incursione. Anche il giovanissimo protagonista si arma e parte; la paura diffusa è che il treno della gloria parta per sempre. Il ragazzo a sedici anni crede che Alamo e San Jacinto siano fatti lontanissimi e che per le nuove generazioni non ci sia più un'epica per cui vivere. È in nome di alti valori, come la libertà e la patria che si fa leva per arruolare gli uomini. Ma soprattutto si garantisce che ci sarebbero stati molti combattimenti e questa è un'esca efficace. Per il ragazzo infatti conta la voglia di avventura e di partecipare a un grande evento; è come entrare in una piccola Iliade. Chi resta fuori è condannato all'oblio.

E quindi si parte guidati da capi abbastanza autorevoli ma mentitori. La spedizione, spiegano, ha il patrocinio del presidente del Texas Houston di cui si legge spesso una serie di altisonanti dichiarazioni per tenere alto il morale dei soldati. Ma alcune parti del testo del presidente non vengono lette. In particolare si omette questo passo: "Sarete guidati solo dai principi bellici più civili e troverete di grande utilità mostrare misericordia nei confronti della gente comune".

Presto, non a caso, gli uomini cominciano a mostrarsi come arroganti saccheggiatori e nel territorio ancora texano si appropriano di tutto il necessario come se fosse un loro diritto farlo.

Poi una parte del gruppo decide di superare il Rio Bravo ed entrare nel territorio messicano, compiendo un atto illegale. Qui iniziano le violenze più gravi sulla popolazione. La spedizione Mier si muove senza onore e nella convinzione che i messicani siano facilmente battibili. Si depredano i villaggi, si chiedono riscatti, si giustiziano prigionieri e si fa bottino, pensando di essere largamente superiori in armi e qualità. Non c'è nessun freno o pietà verso i messicani.

Poi però davanti a truppe numericamente soverchianti, gli americani cedono e vengono fatti prigionieri. A questo punto dopo tante battaglie ben narrate, il rischio è che il libro diventi un romanzo "carcerario", arenandosi e perdendo il senso dell'avventura e l'amore per gli spazi.  In buona parte il rischio è rigettato nel senso che il testo resta vivo; si descrivono la dura vita dei prigionieri, la solidarietà e gli antagonismi interni, la nostalgia di casa e soprattutto il diezmo che dà il titolo al libro. Si tratta di una crudele decimazione imposta ai prigionieri rei di tanti abusi sui civili e poi di vari tentativi di fuga.

Intanto il giovane dietro le sbarre cresce e matura. È consapevole del dolore che hanno causato. Lo si vede riflettere di politica e diplomazia dato che intorno alla situazione dei prigionieri che si fa questione politica calda, agiscono e tramano parlamentari americani, diplomatici del Texas e agenti inglesi; le considerazioni che fa il giovane su queste manovre di cui sembra molto informato, forse troppo, sembrano quelle di un adulto ben istruito, non quelle di un adolescente quale è. Comunque è interessante recepire la parte "maledetta" del libro.

La guerra, appunto, inizia all'insegna dell'inganno. In fondo la gente del posto è considerata sacrificabile. Civili o soldati sono pari. Si può ammazzare il civile messicano perché non è giunto il grosso riscatto richiesto. Questa è la brutale etica dei conquistatori che pagheranno per la loro improvvisazione oltre che per i loro crimini. Quando i prigionieri americani sopravvissuti tornano a casa, molti non riescono a uscire dalla strada della guerra e della violenza che segnano le loro vite, senza alternative:

"Era la stessa storia di sempre. Chi non moriva in battaglia era condannato a invecchiare e soffrire di reumatismi, dimenticato e trascurato, come Bigfoot Wallace, ritiratosi in un misero ranch di campagna a ovest di San Antonio, alla fine troppo vecchio per la guerra, ma senza aver conosciuto nient’altro. Dopo avere ucciso forse un migliaio di uomini a colpi di arma da fuoco, coltello e sciabola, e non avendo mai fatto altro in vita sua, fissava il lungo tunnel buio dei suoi ultimi giorni, senza avere altre strade, senza scelte o opzioni rimaste, a parte il silenzio e un lento scivolare nell’oscurità".


È anche questo uno scotto da pagare dopo una spedizione assurda e fallimentare, costruita sulla menzogna e la brama di bottino, ma peraltro seguita da vere e proprie guerre nelle stesse zone, tuttora tormentate.

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Cormac McCarty, "Città della pianura"

2 Marzo 2025 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni

 

 

 

 

 

CITTÀ DELLA PIANURA

 Cormac McCarthy

 

Questo libro di Cormac McCarthy, pubblicato nel 1998, ha come protagonisti John Grady e Bill Pharman, due giovani che lavorano in un ranch negli Stati Uniti, al confine con il Messico.

La loro vita procede in modo semplice e abitudinario, badando al bestiame e facendo vita in comune con gli altri mandriani; le uniche distrazioni, siamo negli anni 50' del secolo scorso, sono le visite nei locali e nei bordelli messicani. È qui che John incontra una giovanissima prostituta di cui si innamora, ricambiato, finendo per ingegnarsi in ogni modo su come portarla negli Stati Uniti, togliendola al suo temibile protettore.

Ma prima di arrivare al nocciolo della trama, Cormac costringe il lettore a tollerare molti capitoli che apparentemente disorientano perché non danno corpo a un percorso. Si susseguono quindi con molti dettagli i fatti del quotidiano dei due ragazzi, il rapporto con il loro anziano capo, le lunghe cavalcate sulle montagne e anche le corse in pick-up.

Il motore del libro comincia a scaldarsi quando John incontra la ragazza nel bordello e comincia a fare progetti di vita con lei, nonostante le gigantesche difficoltà della situazione.

Il ragazzo va diritto verso il suo destino ed è intorno a questo concetto che poi Cormac riflette mettendo in bocca ad alcuni personaggi il suo pensiero. L'uomo non è libero, si muove in un labirinto di costrizioni che vengono dalla sua storia. Non ha senso, sostiene un vagabondo che incontra Bill Pharman, pensare ad alternative a quanto si è fatto. C'è un determinismo che permette movimenti limitati e già decisi, perciò i personaggi dei romanzi che prendono decisioni costose, sanguinosamente costose, non fanno altro che seguire un corso già tracciato nel passato. È un'idea ciclica del tempo, che era propria degli antichi greci. Il passato ingabbia già il futuro.

È un libro, nel complesso, pessimista e pieno di dolore, accresciuto dal fatto che lo scoramento avvolge vite ancora giovani; tutto questo induce chi legge a chiedersi l'origine dell'ossessione per il male da parte dell'autore.

Troviamo personaggi con menomazioni fisiche come in certi testi di Kafka; quasi sempre lo scontro con il male è devastante e secondo la filosofia dell'autore non ci si può sottrarre. Lo stesso ranch dove lavorano i due giovani è preso di mira dall'esercito che vorrebbe espropriarne i terreni, privando di prospettive chi lavora con i cavalli ed è abituato a vivere liberamente. Dove andare allora? C'è un avvenire? Il Messico che altre volte è parso pur tra tante contraddizioni l'antemurale della modernità alienante e un'oasi di libertà e umanità, dove un cowboy senza meta può trovare un piatto di tortillas anche nella casa più povera, ora è luogo di oppressione. Là si va per l'amore mercenario, tra gente di malaffare, scagnozzi spietati e qualche brava persona troppo corriva per cambiare le cose. Se l'amore si fa autentico allora porta a scontri mortali.

Nella seconda e ultima parte del libro, Bill, rimasto solo e ormai vecchio, va al nord, non più verso il Messico, terra calda e ricca di passione.

Nel racconto finale pronunciato dal vagabondo che lo incontra, si accenna a Cristo e al suo mettersi al posto dell'uomo per accollarsi il supplizio che spetta ai peccatori. Si dice che si deve onorare chi è morto per noi, ritardando il nostro momento di pagare il conto. Ma non ci sono molti agganci morali e domina una certa rassegnazione. Anche Bill trascorre i suoi anni vagando tra gli stati, sempre povero, senza sicurezze, sperando nell'umanità di chi incontra.

Il vagabondo gli dice infine che è il condividere il senso della vita. Soffrire insieme e aiutarsi. È l'unica cosa positiva, l'unica nota di azzurro di un libro molto triste.

E bisogna avere pazienza nel leggere Cormac; ad esempio si deve tradurre da sé molti passi in spagnolo, accettare corposi aneddoti che sembrano fuori luogo, cercare di dipanare la matassa di lunghi dialoghi di atmosfera sapienziale. Ma ne vale la pena, anche se, dopo grandi sforzi, compiuta la piacevole opera di lettura, pare di vedere là sopra, sul muro che si è cercato di scalare, i cocci aguzzi di bottiglia di cui parlava Eugenio Montale.

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Cormac McCarthy, "Non è un paese per vecchi"

17 Febbraio 2025 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni

 

 

 

 

NON È UN PAESE PER VECCHI

Cormac McCarthy

 

Non è un paese per vecchi è un libro di Cormac McCarthy da cui nel 2007 è stato tratto un film con Tommy Lee Jones, a cura dei fratelli Coen.

Se in altri libri di McCarthy ci sono lunghi passi filosofico-sapienziali piuttosto pesanti, qui prevalgono un buon ritmo e dialoghi più essenziali.

Si scontrano in questo romanzo pieno di delitti fondamentalmente due visioni, quella della violenza moderna che è insensata e inspiegabile e quella del vivere tradizionale incarnata dallo sceriffo Bell, uomo sobrio e concreto, legato alla moglie e a un mestiere che è congiunto a una vocazione etica; infatti sta a lui proteggere la gente della sua contea e anche essere pronto a morire per i suoi cittadini. È una riserva di moralità in una società in disfacimento.

Ma con la nuova violenza il suo mondo (siamo all'inizio degli anni '80) entra in crisi; come si fa a fronteggiare ciò che non ha senso e logica? Lui che è una voce piena di scetticismo con lo sguardo verso un passato visto come un piccolo Eden, è a disagio. Oggi, spiega, i trafficanti si ammazzano in gran numero nel deserto, tra Texas e Messico. Il dio denaro ossessiona le persone; inoltre c'è uno psicopatico che uccide in modo spaventoso. Un tempo, ricorda Bell, la gente si lamentava perché nelle scuole i ragazzi correvano indisciplinati. Ora siamo in un'altra era. Lo sceriffo si sente disarmato davanti a questa deriva, anche se comunque seguita a lavorare e a credere nel sistema. Non si può più fare un discorso su ciò che è giusto o sbagliato, nota, perché si verrebbe derisi. E il ridicolo è un'arma devastante. Gli anziani hanno lo sguardo dei pazzi, sono disorientati e muti davanti a un mondo illeggibile per loro. Le persone perbene in fondo possono essere vecchie per ragioni non solo anagrafiche; sono vecchie in quanto persone perbene, ci sembra di poter dedurre.

Nella vicenda, c'è un reduce dal Vietnam che si impossessa del denaro di alcuni narcotrafficanti e ciò gli cambierà assolutamente in peggio la vita; poi c'è uno psicopatico, Anton, determinato, intelligente, coriaceo. Ha una sua filosofia che spesso illustra prima di ammazzare; si lascia andare a qualche tirata speculativa in cui assicura che c'è un destino, un determinismo che ingabbia la vita. Secondo Anton ciascuno segue un percorso già segnato e lui non fa che eseguire quello che deve succedere. L'assassino dice "testa o croce?", davanti alla potenziale vittima di turno che deve rispondere, giocandosi la vita; ma per lui tutto è già previsto, il presente non porta novità; non si esce da un tracciato scritto nel proprio passato.

Resta la bella figura dello sceriffo, eroe sconfitto ma dignitoso, spiazzato dall'esplodere di una violenza che corre troppo veloce per lui. È come se qualcosa si fosse guastato nel suo Paese, regalando stragi, serial killer, avidità infinita che non risparmiano né le metropoli e nemmeno la provincia. Ogni tanto si nomina Dio che però è un Dio assente o impotente; non entra nella vita delle brave persone che a lungo lo attendono e che comunque sono così pacate da non fargliene una colpa.

È un'altra grande indagine sul male quella che ci regala Cormac McCarthy, senza dare risposte a parte quella del titolo.

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Arturo Pérez-Reverte, "Rivoluzione"

11 Febbraio 2025 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni

 

 

 

 

RIVOLUZIONE

Arturo Pérez-Reverte

 

Rivoluzione è un libro di Arturo Pérez-Reverte ambientato nel Messico di Pancho Villa in cui infuria appunto la rivoluzione, iniziata nel 1910.

L'inizio del libro può sembrare tributario di un cliché abbastanza abusato. C'è un giovane europeo, Martin Garrett; è un uomo istruito, venuto in Messico come ingegnere esperto in esplosivi. Deve lavorare nel settore minerario per conto di un'azienda spagnola. Si trova casualmente immerso in una gigantesca sparatoria tra rivoluzionari e governativi; viene "tirato per la giacchetta", coinvolto nello scontro in cui la sua competenza con l'esplosivo è decisiva. Naturalmente in poche ore si dimostra indomito, efficace, fortunato; conosce addirittura Pancho Villa e tutto il suo stato maggiore. Viene stimato e apprezzato da quasi tutti.

Fin qui la traiettoria sembra abbastanza prevedibile; c'è uno sconosciuto precipitato in mezzo a fatti di portata storica in cui trova un'avventura esaltante. Molto è giocato sulle evidenti differenze culturali e caratteriali tra il giovane ingegnere e il mondo greve e sanguigno dei rivoluzionari e sul fascino esercitato dagli ideali di lotta su un uomo distinto ma curioso.

Poi però il romanzo decolla ed è un piacere leggerlo perché l'autore ha grande maestria nel passare tra ambienti molto diversi tra loro.

Sono superbe le scene delle battaglie, della vita cittadina dove c'è un'aristocrazia molto conservatrice e cariche di umanità e colore le descrizioni degli accampamenti dei rivoluzionari; i miliziani portano con sé mogli, compagne, famiglia. Il protagonista è sempre più coinvolto nelle dinamiche anche politiche della rivoluzione e conserva l'aria un po' goffa e incerta di chi non sa spiegare perché invece di fare l'ingegnere nelle miniere, si occupa di far saltare i ponti per conto di Villa, partecipando a molte azioni pericolose. La sua, infatti, non è una scelta razionale. Vede che le persone accanto a lui ci mettono l'anima in nome della rivoluzione, senza avere particolari bagagli culturali, agendo d'istinto; questo è sufficiente per condividere il loro sacrificio, accettando ogni rischio perché lealtà e amicizia sono da anteporre alla viltà e all'egoismo.

L'altro punto di forza del romanzo sono i dialoghi. In particolare quelli con l'amico rivale, l'ufficiale Córdova con cui c'è una competizione feroce per la stessa donna; è una sfida personale che si aggiunge alla più generale contesa politica, arricchendo la trama. Da sottolineare, infine, la bellezza di un intenso finale drammatico ma non scontato, in cui la parte migliore e più alta del protagonista sembra seguire il tragico decorso dell'avventura di Pancho Villa.

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Cormac McCarthy, "Cavalli selvaggi"

7 Febbraio 2025 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni

 

 

 

 

CAVALLI SELVAGGI

Cormac McCarthy

 

Cavalli selvaggi è un romanzo di Cormac McCarthy, pubblicato nel 1992; da esso fu tratto il film Passione ribelle con Matt Demon e Penelope Cruz nel 2000.

Il titolo è bello anche se nulla c'entra con quello originale, All the pretty Horses.

È ambientato tra il sud degli Stati Uniti e il Messico in un'epoca in cui in teoria il vecchio West dovrebbe essere terminato da qualche decennio, ma ne resta ancora l'atmosfera.

È un romanzo di formazione intensissimo che vede tre ragazzi finire appunto in Messico dove un tempo fuggivano i banditi e gli avventurieri. Il protagonista, John Grady, amante dei cavalli e dei ranch, sente di poter essere vivo solo in quella terra piena di contraddizioni; peraltro il libro si apre con il funerale del nonno del giovane e con la notizia che il ranch di famiglia sarà purtroppo venduto. Così vogliono i suoi genitori. Questa è una cesura fondamentale.

Il ragazzo, amareggiato, decide di mollare tutto e di partire con un amico andando oltre la frontiera dove incontrerà un altro giovane, dal passato misterioso e fonte di guai. Grady trova un Messico dai mille colori, un luogo magico dove si vedono persone di estrema generosità accanto a gente corrotta e vile, cittadine pericolose e povere accanto a luoghi dove la natura trionfa; l'autore regala passi caldi dove descrive con poesia feroce tramonti e notti accanto a un fuoco dove si mangia quello che si è cacciato.

Grady, appena sedicenne, come gli altri personaggi sembra adulto nel senso che affronta situazioni complicate con molto coraggio; si dimostra abile fino all'inverosimile con i cavalli. Sembra un vecchio cowboy con una sicurezza che talvolta arriva alla spavalderia. Ma con Cormac bisogna abituarsi ad adolescenti autonomi, pieni di forza, un po' disperati, indomiti, a volte pronti a fare discorsi "filosofici" sulla vita e la morte. Talvolta si trovano anche lunghi passi apparentemente slegati dalla vicenda principale, non sempre chiarissimi.

Il protagonista soffre e patisce, cerca vendetta in atmosfere che si fanno western, ha poca nostalgia di casa nonostante abbia pagato un bel dazio in termini di vicissitudini e peripezie.

Malgrado la forte violenza di tante situazioni, nel libro trova spazio il romanticismo di una storia d'amore, per quanto molto tormentata.

Alla fine il mondo di Grady è il Messico, guardato con sufficienza e disprezzo da molti americani; ma in quella terra piena di semplicità e arretratezza il mondo si è fermato e per chi quel mondo lo ama e detesta la modernità, è il posto dove viverci, pur senza trovare mai la felicità.

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William Dalrymple, "Il ritorno di un re"

3 Febbraio 2025 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni, #storia

 

 

 

 

 

Il ritorno di un re

William Dalrymple

Adelphi

 

 

Il ritorno di un re è un libro di William Dalrymple, edito da Adelphi. 

La vicenda storica è molto articolata e si svolge tra India, retta allora dalla Compagnia delle Indie, Russia, Afghanistan e Persia. Ci troviamo quindi nella grande cintura tra Impero Russo e India Britannica e si vivono le grandi tensioni più o meno sotterranee tra Pietroburgo e Londra, con i timori inglesi di un'espansione ulteriore dell'influenza degli zar in particolare verso Kabul. Difficile non pensare alle tensioni che anche oggi restano forti in queste aree.

Chi ha letto Il Grande Gioco di Peter Hopkirk troverà atmosfere simili; spie, intrighi, regolamenti di conti, carrierismi esasperati e competizione sfrenata tra politici e diplomatici soprattutto inglesi. Ma soprattutto, rispetto al libro di Hopkirk qui ci sono sanguinosissime guerre e non solo per procura. Assistiamo all'invasione britannica dell'Afghanistan del 1839 dettata dalla volontà di imporre al paese un re filoinglese; questa grande e costosa invasione avviene in modo irragionevole. L'emiro afghano Dost Mohammed stava resistendo alle pressioni dei russi e intendeva avviare ottimi rapporti con gli inglesi, grazie al grande lavoro dell'ufficiale ed esploratore Burnes, molto apprezzato a Kabul. Ma la linea che passa è quella opposta; nonostante i rapporti di Burnes sottolineino il positivo atteggiamento di Dost verso l'Inghilterra, i suoi superiori in India si convincono che il sovrano stia per cedere ai russi e perciò convincono Londra che si deve agire in modo aggressivo. Viene imposto come sovrano il vecchio Shujah, un re cacciato molti anni prima e che viveva in esilio in India. È l'inizio del disastro. Un capo afghano disse ai generali inglesi: "Avete portato un esercito in Afghanistan, ma come lo farete uscire?".

Infatti, quando il nuovo re si dimostrerà un fantoccio in mano agli stranieri, non in grado di far rispettare le tradizioni e la religione, nascerà una aggressiva opposizione. Complice l'enorme superficialità dei comandi inglesi, inizia la catastrofe che avrà il suo acme lungo le vallate e i passi montani in cui le truppe soprattutto indiane tentano di ritirarsi. Ma questa è solo la prima parte dei fatti prima di una nuova invasione, condotta dalla cosiddetta Armata vendicatrice che compirà enormi stragi e distruzioni per reagire alle umiliazioni subite precedentemente. Nel complesso l'Afghanistan si rivela un paese non occupabile, diviso tra clan e faide, povero ma agevolato da una morfologia che rende quasi impossibile la sua duratura conquista. Eppure i vari statisti ancora una volta saranno sordi davanti alla lezione della storia. Sia nel 1979 da parte dei sovietici, che di recente, da parte statunitense intorno al 2001, saranno avviate lunghe guerre e invasioni del paese, destinate alla fine al fallimento.

Il libro è ricchissimo di personaggi, anche femminili, con sguardi che spaziano dall'India britannica, al Punjab, alla Russia. Indimenticabili soprattutto due figure romantiche in azione sui due fronti opposti, ma con molte similarità tra loro. C'è infatti il già citato Burnes, acuto conoscitore dell'Asia ma con pochi appoggi in alto e l'ufficiale zarista Jan Vitkevič; conoscitore di molte lingue e dialetti locali, aveva sposato la causa russa per uscire dalla difficile situazione legata alle condanne subite come insorto polacco. Ambedue saranno fra le innumerevoli vittime in questi anni tormentati.

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ADDIO ALLE ARMI DI Ernest Miller Hemingway (1899 – 1961)

25 Aprile 2023 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni

 

 

 

 

 

Ci si accosta con reverenza a quello che è ritenuto un capolavoro, impreziosito dalla traduzione di Fernanda Pivano che tanto si adoperò per far conoscere gli autori americani in Italia.
La vicenda si svolge in buona parte sul fronte italiano durante la prima guerra mondiale e il protagonista è un giovane ufficiale americano della Croce Rossa.

Lo stesso Hemingway prestò servizio come autista di ambulanza in Italia in quegli anni, venendo ferito. Devo dire che l'edizione Mondadori è davvero ricca di materiale introduttivo e critico; per l'autore la genesi dell'opera fu molto articolata e complessa, disturbata da vicissitudini e fatti luttuosi e richiese importanti rettifiche editoriali. Furono scritti ben quarantasette finali diversi.
Purtroppo nell'introduzione si accenna chiaramente all'epilogo del libro e questo può spiacere a chi si accinge a leggere. La traduzione della Pivano, considerata notevole, personalmente non mi ha impressionato. Le frequenti ripetizioni per me sono un fatto di inaccuratezza che affatica la lettura di una prosa già volutamente secca e scarna, poco seducente.

Il giovane protagonista si innamora di un'infermiera inglese e tutto ruota intorno alla loro storia d'amore, mentre sta per avvenire il disastroso evento di Caporetto. Sinceramente i dialoghi tra i due amanti mi sono sembrati poco persuasivi, mai travolgenti, anche se probabilmente lo scopo è proprio quello di descrivere personalità senza grandi principi o valori, bisognose di un rapporto vivo mentre intorno ci sono incertezza, sofferenza e morte.

Efficace invece la descrizione della ritirata di Caporetto, anche se una nota dell'editore scrive che gli Arditi nacquero dopo Caporetto, in realtà nacquero prima, nel luglio del 1917. Sembra, in generale, che la storia della coppia cresca a fatica, immersa in momenti piuttosto fatui che fanno pensare agli altri romanzi dell'autore ricchi di mondanità, momenti conviviali, godimenti, edonismo. Solo la figura del cappellano, non certo approfondita, ma seria e austera, pare fare da contraltare alla leggerezza del protagonista che deve fuggire con l'amante in Svizzera dove ancora si parla a lungo di pranzi, cene, passeggiate in posti innevati, mentre altrove la guerra continua.
Il finale del libro è obiettivamente impressionante e indimenticabile. Il dramma viene declinato con cupa lentezza e in modo impersonale, senza enfasi, in maniera diretta, quasi spietata, con una secchezza micidiale. La laboriosa scelta tra i vari finali non è stata certo infelice dal punto di vista artistico. Lascia infatti un senso di nulla e di irrimediabile tristezza. Dalla guerra non viene niente di buono sembra dire lo scrittore; nessun conflitto salva qualcosa. Anche una guerra combattuta per nobili ragioni ha conseguenze disastrose.

Nel dettaglio, a questo proposito scrisse Hemingway: " ... ma a provocare, iniziare e far scoppiare le guerre sono le solite rivalità economiche e i porci che ne traggono profitto. Ritengo che tutti quelli che hanno da guadagnare da una guerra e che contribuiscono a causarla andrebbero fucilati il giorno che inizia, da rappresentanti accreditati dei leali cittadini di quei paesi che si accingono a combatterla".

 

Valentino Appoloni

Nota della direttrice: 

 

Personalmente, ritengo lo stile di Hemingway - che non mi piace come persona ma adoro come scrittore - inconfondibile, fatto proprio di quelle ripetizioni, di parole scabre e primigenie, di piccoli gesti monotoni dall'apparenza inutile. Uno stile che diventa sciatto e banale solo nei tanti imitatori. 

Circa le ricche introduzioni dell'edizione Mondadori,  il concetto di "spoiler" ai miei tempi (sono nata nel 61) non esisteva. La letteratura non era assimilabile alle serie tv, e gli Oscar Mondadori, come i tascabili Bur - ma anche gli sceneggiati televisivi - assolvevano al compito didascalico di acculturare la popolazione. Se si parlava di un romanzo si faceva critica letteraria e non ci si preoccupava di anticipare il finale. 

Parizia Poli 

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IL COLONNELLO CHABERT

13 Maggio 2021 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni, #storia

 

 

 

 

Il colonnello Chabert è un breve romanzo di Balzac del 1832. Si narra la vicenda di un ufficiale che combatte a Eylau sotto il comando di Napoleone; nella mischia, dopo la celebre carica di Murat contro i Russi, viene ferito e travolto dagli squadroni di cavalleria francese che rientravano dopo l’attacco risolutore.

Per l’esercito e per lo stato è morto da eroe, come tanti altri caduti in quella battaglia sanguinosissima.

In realtà è ferito seriamente ma vivo; quando dopo alcuni anni, nel 1817, riesce a tornare a Parigi, il suo mondo non esiste più. Sia in politica che nella vita privata, la realtà è profondamente cambiata. L’amato Napoleone è in esilio, è tornata la dinastia dei Borboni che perseguita i bonapartisti,  la moglie si è legittimamente risposata in quanto si credeva vedova. La donna ha avuto una buona eredità che Napoleone aveva fatto incrementare in omaggio al suo compianto colonnello. L’arrivo dell’ufficiale non è una buona notizia per lei: quanto ha creato in quegli anni rischia di vacillare e allora è opportuno che l’atto di morte del marito non venga invalidato. Lui è costretto a farsi rappresentare da un avvocato che cerca di dipanare la matassa di una situazione grottesca; avrebbe tutti i motivi per far valere le sue ragioni, ma viene fatto sentire come un oggetto ingombrante e una fonte di disagio. Il manifesto della freddezza umana raggiunge il suo culmine nella gretta figura della consorte e come sempre Balzac sa dipingere bene i peggiori vizi dell’animo umano. Infatti al colonnello si chiede una sola cosa; di non esistere, di rinunciare alla sua identità, di tornare nel suo passato con la sua frusta divisa, le datate decorazioni, il suo retaggio di ricordi napoleonici lontani e inutili ora che si vive in piena Restaurazione.

Per non compromettere la serenità altrui, si accontenterà allora di essere un vivo che cammina ancora ma che deve recitare la parte del defunto, vivendo senza mezzi; in fondo per tutti sarebbe stato meglio che lui fosse rimasto a terra sul campo di battaglia, coperto di una gloria che a nessuno interessa, utile solo per aver generato una buona pensione a favore della “vedova”.

Vengono in mente personaggi spregevoli come quelli costruiti dal nostro Verga. Ma è con un altro siciliano che l’avvicinamento è più pertinente, ossia con Pirandello, autore del fu-Mattia Pascal e dell’Enrico IV. Se per alcuni protagonisti delle sue opere, la perdita della propria identità e della propria riconoscibilità nel mondo era, per certi versi, un rifugio dal contatto doloroso con la realtà, nel caso di Balzac il quadro è meno grottesco e ben più tragico. Il colonnello galleggia tra vita e morte; viene rifiutato e fatto scivolare ai margini, costretto dagli altri ad adattarsi a un vivere minimo, vivo per se stesso ma morto per la società.

Rimane però nel breve romanzo, una figura positiva; l’avvocato dello sfortunato protagonista agisce non solo da avvocato, ma anche da amico. Prova disgusto per la corruzione morale di Parigi, ripromettendosi di lasciare la città dove potere, arrivismo e grettezza creano un’aria malsana e ipocrita. Un personaggio come lui impedisce che la vicenda scivoli su un piano di totale pessimismo. 

 

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BERLINO ULTIMO ATTO di Heinz Rein (1906 – 1991)

30 Agosto 2020 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni, #storia

 

 

 

 

Il romanzo di Heinz racconta le ultime settimane di Berlino come capitale del Reich nazista, nell’aprile del 1945; i sovietici premono sulla città e si respira un clima da finis mundi. I cittadini vivono sotto i bombardamenti, fanno lunghe code per prendere un po’ di cibo, si muovono schiacciati tra gli assedianti e gli scherani del regime hitleriano, sempre pronti a trovare e punire oppositori veri o presunti.

La narrazione si incentra sul ruolo di alcuni cittadini che, pur nell’angoscia di quei giorni, aspirano a costruire un domani migliore; sono naturalmente degli oppositori del nazismo e appartengono alle forze politiche che in passato si sono infruttuosamente opposte a Hitler. A queste persone che tentano di sollecitare la popolazione a reagire, si aggiunge il soldato disertore Lassehn che rappresenta un giovane stanco della guerra e della propaganda, ma ingenuo e privo di formazione politica tanto da dover essere guidato dagli altri personaggi ben più maturi di lui. Si dovrà puntare su individui come lui per l’avvenire della Germania, sembra questo uno dei messaggi del libro, dato che il giovane ha la fermezza di contestare il regime per aver fatto credere a tutti che nazismo e nazione tedesca siano la medesima cosa.

È un romanzo appassionante e che sa emozionare, con meticolose descrizioni della città martoriata, ma l’opera ha non pochi limiti. Alcuni evitabili, legati alla traduzione che usa termini fuori posto e fuori tempo come sfangare, financo, zompo. Non ho apprezzato le lunghissime  filippiche messe in bocca ai personaggi molto critici verso il popolo che si è accodato al dittatore. Sono passi molto pesanti e ripetitivi, da opera scopertamente didascalica, figli di una insistita superiorità verso la massa pavida dei cittadini. Evidentemente lo stampo etico-politico dell'opera pubblicata nel 1947 giustificava questo; però a tratti sembra un romanzo ottocentesco con frequenti descrizioni di ambienti e persone, con finestre in cui si giudica con durezza la moralità o la mancanza di moralità delle masse, spezzando il ritmo narrativo.

L’arrivo dei russi è visto come il sospirato arrivo dei liberatori; c’è solo un debole accenno nel finale alle numerose violenze da loro compiute sulle donne dopo la vittoria. Perciò è un libro sicuramente da leggere, ma usando lo scudo della pazienza.

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DAVANTI A TRIESTE di Mario Puccini (1887-1957)

22 Marzo 2020 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni, #storia

 

 

 

Il giovane sottotenente Mario Puccini, marchigiano di Senigallia, raggiunge il fronte nel 1916. Appena messo al comando di un plotone di soldati più esperti e più anziani di lui, cerca di trovare un colloquio con questi uomini semplici, obbligati alla guerra, diffidenti verso gli ufficiali. Nonostante la differenza di cultura (Puccini tiene nel suo zaino Foscolo, Leopardi, Dante), riesce con un insieme di bonomia e autorità a fare breccia tra loro che trovano in lui un consigliere oltre che un capo. La quotidianità del vivere insieme è pienamente esaltata nei gesti, nelle espressioni, negli atteggiamenti dei compagni; ma non si deve pensare a una prosa semplice e poco studiata. In realtà oltre a vari slanci lirici nelle descrizioni dei paesaggi, il linguaggio si apre a immagini vivissime, a tratti quasi di gusto futurista: " .. il cannone da campagna ciancia i suoi proiettili tra i denti e li caccia via ... Nei bagliori prodotti dai colpi in partenza, ti par vedere torsi di colossi muoversi tra masse di ferro incandescente".

Non mancano toni elegiaci come nel legame con la dolina carsica fatta attrezzare sotto i suoi ordini e poi lasciata con un velo di tristezza, tanto da tornarvi appena possibile e gustarne con esibita malinconia i cambiamenti intervenuti dopo che un altro reparto vi si era sistemato. E dovunque c'è un'attenzione somma al carattere genuino e popolano dei suoi subalterni, uomini capaci di ribellarsi se manca il tabacco, ma in buona parte disposti al sacrificio nei momenti delicati. Colpisce soprattutto la coralità (peraltro parziale) del racconto in cui i vari soldati, sollecitati dall'autore, danno le proprie impressioni.

Le azioni descritte sono quindi quelle vissute a livello principalmente di plotone, con le sofferenze patite nella quotidianità della guerra; è però una sofferenza resa meno aspra dalla collaborazione tra gli uomini, dal gusto della battuta facile, dallo sguardo di un paesaggio che non stanca; non ci sono particolari attacchi verso i superiori e anche la polemica verso gli imboscati non decolla mai. Oltretutto le operazioni cui Puccini prende parte, sono tutte concluse con dei successi tattici, per quanto sanguinosi.

Le particolarità dell'opera sono quindi legate allo stile e alla capacità di raccontare alternando la voce del memorialista e le voci dei vari soldati, costruendo in parte un racconto dal basso della guerra sul Carso, fatto piuttosto raro nella letteratura del periodo.

Mario Puccini, oggi poco noto, fu una personalità culturale poliedrica; figlio di un editore ed editore egli stesso, conobbe Ungaretti con cui ebbe un vivo scambio epistolare durante il conflitto. Scrisse romanzi, saggi, novelle. Fu anche uno studioso di letteratura spagnola.

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