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Antonio Scurati, "Il rumore sordo della battaglia"

9 Marzo 2020 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni, #storia


 

 

 

Il rumore sordo della battaglia

Antonio Scurati

Bompiani , 2018

 

 

Il romanzo storico di Scurati è raccontato in prima persona dal protagonista, il giovane Sebastiano; è un esponente della piccola nobiltà, nato nel 1476 in un'Italia dove lo splendore delle corti avrebbe mostrato presto crepe politiche e militari tali da aprire la strada alle invasioni straniere. Quando il ragazzo, rimasto orfano del padre, caduto combattendo da cavaliere contro le picche svizzere nella battaglia di Morand, imbraccia le armi, la penisola subisce nel 1494 l'invasione di Carlo Ottavo; in questo periodo c'è l'incontro con Giovanni Dellanotte detto Malacarne, un misterioso e cupo mercenario, a capo di una setta (i Fratelli) di cui lentamente nella vicenda si spiegano le particolarità. Mentre la guerra infuria, il ragazzo si lega al feroce e carismatico condottiero; la sua setta ha come scopo la guerra combattuta a viso aperto, sfidando il nemico con armi bianche, da cavalieri, come nel Medioevo. Ma già appaiono armi come cannoni, colubrine, spingarde, archibugi che iniziano a cambiarne il volto; gli intrepidi cavalieri vengono abbattuti da lontano dalle nuove armi. Questo per Dellanotte è intollerabile; è un modo in cui il soldato riesce a ingannare la morte, vincendo in modo subdolo, senza onore, senza guardare negli occhi l'avversario. I Fratelli combattono invece diversamente, bramando di uccidere da vicino. Il Malacarne e i suoi passano da una compagine all'altra, ora sono con gli Spagnoli, ora con i Francesi, poi da soli. Appaiono come dei "luddisti della guerra"; le armi da fuoco vanno distrutte e anche quelli che le usano, chi lavora con la polvere pirica merita la morte, gli stessi artigiani e operai che fabbricano gli archibugi vengono trafitti senza remore. La loro è consapevolmente una lotta contro la storia, ma non importa, perché non amano la vita e sono voluttuosamente attratti dalla morte in battaglia insieme ai compagni. La morte tramite il ferro, non il fuoco, è l'unica misura della grandezza tragica cui il cavaliere deve tendere. Sono personaggi maledetti; non credono nella vita ultraterrena, quella terrena è accettata solo in quanto se ne auspica la fine in modo violento, in un'orgia di sangue. È un cupio dissolvi. Non importa vincere, ma morire nel modo giusto. Conta solo che ci sia una battaglia e che sia grande, spiega Giovanni Dellanotte. Il giovane aderisce a questa filosofia disperata, cercando un ruolo e una identità nel suo inquieto vivere, agitato da sogni in cui appare il padre che non ha mai conosciuto. Non c'è nulla di romantico nella loro impostazione antitecnologica; il loro "viva la morte" viene descritto, a un certo punto, come qualcosa di animalesco. Solo la condivisione  con i compagni di questo reiterato "abitare la battaglia" getta un filo di luce, quella dell'amicizia, su esistenze senza speranza. Improvvisamente il protagonista si stacca dai Fratelli, dopo l'ennesimo massacro; addirittura decide di diventare un archibugiere, tradendo lo spirito della Fratellanza; questa svolta non ci appare ben spiegata e approfondita, ma non sembra dettata da un ripensamento etico, dato che permane un fondo di disperata accettazione della vita da soldato. È uno dei punti deboli del libro. L'altro aspetto che lascia perplessi è l'insistere sulla fisicità, sulla carnalità, sugli istinti; sembra che l'autore senta il costante bisogno di convincerci che quella era un'epoca di brutalità e di conseguenza si deborda in fatto di descrizioni di violenze e di torture.

Invece le ambientazioni  delle battaglie sono superbe; si parla di eventi storici come la battaglia di Fornovo e quella di Pavia e di personaggi come i Borgia e i capitani di ventura dell'epoca.

Nel complesso un bel libro, in cui la luce del Rinascimento lascia posto alle brutture di guerre senza fine, in un mondo di diffusa corruzione.

 

 

 

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