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Stefano Iachetti, "Laura Morante, in punta di piedi"

31 Maggio 2018 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #cinema

 

 

 

 

 

 

Stefano Iachetti 

Laura Morante, in punta di piedi

Edizioni Sabinae - CSC Cineteca Nazionale, 2018

Pag. 170 - Euro 22

Grande formato - Illustrato - carta patinata

 

Stefano Iachetti è autore che conosco bene per aver apprezzato un suo pregevole testo su Asia Argento e soprattutto un libro di interviste alle protagoniste del cinema thriller italiano degli anni Settanta (La paura cammina con i tacchi alti, Il Foglio). Non delude neppure in questa agile ricostruzione della carriera cinematografica di Laura Morante, attrice in punta di piedi perché i suoi primi passi - è proprio il caso di dirlo! - li ha mossi come ballerina. Il libro analizza la vita artistica di un’attrice raffinata, a me cara sia per aver avuto i natali a Bagnore di Santa Fiora (luogo proustiano della mia infanzia), sia per averla apprezzata per la prima volta - in tutta la sua selvaggia bellezza - in Bianca di Nanni Moretti. Iachetti parla dei primi anni sulle tavole del palcoscenico teatrale con Carmelo Bene, delle frequentazioni cinematografiche con Giuseppe Bertolucci (Oggetti smarriti, La tragedia di un uomo ridicolo) e Nanni Moretti (Sogni d’oro, Bianca, La stanza del figlio...) - che la trasforma in attrice simbolo - ma anche dei film con Pupi Avati (Il nascondiglio, Il figlio più piccolo...), Carlo Virzì, Gabriele Salvatores... Non mancano note critiche e ricordi sulle due prove da regista di Ciliegine e Assolo, film risolti e convincenti, che hanno avuto poco pubblico ma molta critica entusiasta. Laura è attrice che piace a Nanni Moretti perché non ruba i primi piani e sa gestire il suo ruolo senza essere invadente, mentre Pupi Avati le contesta un eccesso di partecipazione alla scrittura, che non ritiene compito di un attore. Attrice sui generis, vocazione da scrittrice per il momento repressa, ma allevata come nipote prediletta di Elsa Morante (La storia, Il mondo salvato dai ragazzini...), quindi dobbiamo attenderci opere da autrice, come già fa notare la sua ambizione a diventare regista. Laura Morante ama affrontare nuove sfide, perché ogni volta che ricomincia da capo le sembra di ritornare adolescente e di dedicarsi a un mondo nuovo e inesplorato, lo dimostra la sua carriera: danza, teatro, cinema, regia, senza soluzione di continuità. Il libro di Iachetti è corredato di molte foto a colori e in bianco e nero tratte dai film di Laura Morante e dal suo album privato, stampato benissimo su carta fotografica, di grande ed elegante formato, come i classici libri di cinema curati dal Centro Sperimentale. Molte interviste, tra le quali spicca per la sua assenza (inspiegabile) Nanni Moretti, il regista che ha lanciato Laura, forse - come fa notare Iachetti con spirito citazionista - avrà pensato che non partecipando si sarebbe notato di più. Ma ci sono Pupi Avati, Carlo Verdone, Michele Pacido, Gianni Amelio e molti altri che hanno guidato Laura Morante, così come la protagonista commenta la sua carriera con arguzia e intelligenza, ricordando la famiglia e gli anni giovanili. Un libro imperdibile per i fan della Morante e per gli amanti del cinema italiano. Costa solo 22 euro (edizione di pregio) e li vale tutti.

 

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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La scelta sbagliata

30 Maggio 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

                                      

 

 

 

 

Partiti dalla lontana Scozia erano arrivati a Londra su una macchina sgangherata. Tutta la famiglia e tutti i beni  degli  ‘O Connor  erano su quella macchina.  Si erano decisi a recarsi nella capitale, causa la necessità di far iscrivere la figlia maggiore all’Università. Il capofamiglia, uomo diffidente e austero, dietro le continue insistenze della figlia spalleggiata dalla moglie, alla fine aveva ceduto e aveva acconsentito a intraprendere quel lungo e faticoso viaggio. Arrivarono di sera inoltrata, un tempo umido e freddo che aveva consigliato parecchi londinesi a restarsene in casa. Nonostante fosse venuto diverse volte in città, il signor ‘O  Connor  non conosceva bene le strade e, nel gelido silenzio di quella sera, si perse in vicoli oscuri. Si aggiravano spaesati in strade deserte e viscide di umidità. La loro meta era un albergo che avevano prenotato via internet, ma che al momento non riuscivano a trovare, unico punto di riferimento che avevano era che si trovava nelle vicinanze della torre sul London Bridge. Lasciarono il carro in un punto centrale, nei pressi di un incrocio dove erano a vista, qualsiasi emergenza poteva essere tenuta sotto controllo. Pensavano che, bene o male, in quell’incrocio qualcuno sarebbe passato. Il figlio maggiore e la madre  rimasero a fare la guardia, mentre il padre e la figlia s’incamminarono verso la torre che avevano avvistata da lontano, perché si stagliava alta nel cielo. Quello era il monumento da tenere presente nella loro ricerca. Sapevano che era al centro della città e, dirigendosi verso quel punto ,speravano di trovare risposte alla loro necessità. Il loro albergo era nelle vicinanze e non sarebbe stato difficile rintracciarlo. Per la cena non si preoccupavano, sul carro avevano tutto il necessario portato da casa, non valeva certo la pena spendere dei soldi per del cibo.  Arrivarono ad un punto dove bisognava attraversare una grande piazza. Per comodità di chi camminava a piedi, per evitare di incorrere in incidenti dovuti al traffico di auto, erano stati istituiti dei sottopassi, bastava scendere pochi scalini e percorrere un corridoio che si sbucava dall’altra parte, un percorso breve che alleviava i disagi di attraversare una piazza in mezzo al traffico. Padre e figlia adesso erano all’imbocco del sottopassaggio indecisi, non tanto la ragazza, ma l’uomo era fortemente propenso a non scendere sotto quel cunicolo oscuro. Erano fermi già da un po’, il timore del silenzio e di quel budello oscuro gelò l’entusiasmo di trovarsi  nella città simbolo della nazione.

"Dai papà scendiamo,  che problema c’è? Sono stati creati appositamente per farci passare le persone, per agevolare il passaggio verso l’altra parte della piazza, non ci può essere niente di male. Allora, cosa hai deciso, andiamo o torniamo  indietro?"

 

"Aspetta un momento figlia mia, non sono mica stupido,  so bene che è un sottopasso e a che cosa serve, ma tieni presente che siamo in una grande metropoli, è sera, il tempo è uno schifo, finora non abbiamo incontrato anima viva, possibile che sia una città deserta? Londra può essere tutto ma non è certo una città fantasma, le persone ci sono e a questa ora delle notte ci deve essere qualcuno per strada, no? Metti che sono là sotto aspettando chi passa per derubarlo? Non sto dicendo fesserie, ho letto molto su questi fenomeni. La sera, quando scende il buio, tutto rientra in una specie di coprifuoco, le persone sono a casa, i poliziotti hanno smesso il loro turno e quelli che delinquono ne approfittano. Senti, io là sotto non ci passo  va bene? Siamo venuti in città per degli impegni che dobbiamo onorare e ho addosso molti soldi, se ci rubano è finita, per me, per te e  per tutti. Visto che non c’è traffico, non dovrebbe essere complicato raggiungere l’altra parte. Perché non attraversiamo la strada, o quello che c’è da attraversare in superficie, così arriviamo lo stesso dove vogliamo?"

 

"Va bene papà, però tieni presente che non sono d’accordo, si poteva scendere tranquillamente.  Allora andiamo?"

I due si avviarono.  C’era una piazza molto grande da passare. Erano lì sul ciglio della strada, davanti a loro l’ampio spazio deserto della piazza, il selciato era lucido come se avesse piovuto e rifletteva la fioca luce dei lampioni.  Non avevano fatto nemmeno due passi verso il centro della piazza che improvvisamente alle loro spalle, provenienti da una via laterale immersa nell’oscurità, apparve un gruppo di uomini dalle facce patibolari. Messi alle strette e sotto la minaccia di coltelli, furono costretti a svuotare le tasche. Rubarono tutti i soldi che  aveva messo da parte per la figlia e se ne andarono soddisfatti del bottino. Ridevano in modo sguaiato  e uno di loro fra una risata e l’altra commentò ad alta voce:

"Ve lo avevo detto che conveniva aspettare qua e non là sotto, la maggior parte delle persone ha paura di entrare nel buio e sceglie di attraversare la piazza sicuri che all’aperto non può succedere niente di male, mentre noi, invece, li aspettiamo proprio qua."

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Aldo Dalla Vecchia, "La capra crepa"

29 Maggio 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

 

 

La capra crepa

Aldo Dalla Vecchia

Pegasus Edition, 2018

pp 84

12,00

 

Ho visto nascere e crescere questo libro giorno per giorno su Facebook, essendo io uno dei contatti di Aldo Dalla Vecchia, scrittore, giornalista e autore televisivo, di cui seguo le sorti  letterarie fin dal romanzo d’esordio, Rosa Malcontenta. Aldo è un gentiluomo d’altri tempi, un signore che – lavorando lui in campo televisivo – mi piace accostare a personalità del tipo di Corrado, Magalli e del povero Frizzi: gentile, educato, all’antica e ironico, di quell’ironia caustica ma buona ed elegante. Ogni giorno pubblicava un post in cui elencava le espressioni che, a suo dire, gli “facevano venire la psoriasi”. Da questi post è nato La capra crepa, un libello in cui vengono mostrate 333 di queste sgradevoli locuzioni. Alcune sono veri e propri strafalcioni grammaticali, altre sono modi di esprimersi entrati nell’uso comune, che, però, fanno accapponare la pelle. Vedi le italianizzazioni delle parole inglesi (tipo defolloware, unfriendare), vedi le abbreviazioni, spesso meneghine, dei termini italiani, come se a finire la parola si perdesse troppo tempo. Vedi i cliché abusati e le frasi fatte di cui si è perso anche il significato originale.

In effetti, pure io ho avuto l’impressione che, ormai, le persone “aprano bocca e diano fiato”, come diceva mia nonna, nel senso che nessuno - nemmeno in televisione o persino al telegiornale - si chiede più se quello che sta dicendo è corretto o se è solo un vago sentito dire.

D’altra parte non si può nemmeno fare i puristi a oltranza, perché la lingua è in movimento e si evolve, nessuno si sognerebbe di comunicare nell’italiano di Dante e neppure in quello dei nostri nonni nati nell’ottocento. Ci vorrebbe, però, almeno un minimo di regola, un accordo comune, in modo che parlare non diventasse una questione privata, insomma un’opinione. Personalmente cerco di non impoverire l’italiano usando sempre l’espressione corrispondente inglese, bensì adoperando quest’ultima come un sinonimo, come una possibilità in più.

Le capre del titolo siamo tutti noi quando ci lasciamo irretire da slang, da scorciatoie linguistiche, da neologismi che durano lo spazio di una stagione. E queste nuove capre, questi neo analfabeti, si trovano a tutti i livelli, come dicevamo, anche fra chi scrive per mestiere, chi fa televisione, chi parla in pubblico. E, se si fa loro notare che sbagliano, apriti cielo, si è “saccenti” e “pedanti”, non si capisce il bisogno di libera espressione e scrittura di getto, la vena artistica inarrestabile.

Ovunque, in campo linguistico, vige un’anarchia spaventosa e pericolosa, l’ignoranza è stata “sdoganata”. (Ecco, ci sono cascata anch’io, perché sdoganare è, appunto, una delle parole che Aldo aborre.) Io penso che questo vada di pari passo con la fine della vergogna. Tutto è approssimativo e lecito, nessuno si vergogna più di nulla.

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Intervista a Tony Mal

28 Maggio 2018 , Scritto da Walter Fest Con tag #walter fest, #cinema, #le interviste pazze di walter fest


 

 

 

 

Amici lettori della signorasenzafiltri, oggi Walter Fest ha il piacere di presentarvi Tony Mal, un personaggio del fantasioso spettacolo teatrale e cinematografico Internazionale e, dato che i miei consueti appuntamenti si svolgono in luoghi all'aperto, oggi io e Tony Mal andremo a disquisire di cose varie e di cinema, vedendo per voi il film Avengers: Infinity war.
 

- Ciao, Tony.
 

- Ciao, Walter, hai portato qualcosa da sgranocchiare?
 

- Sì, pop corn, patatine e birra.
 

- Birra? Ma almeno è gelata?
 

- Sì, come un gelato.
 

- Ah, cominciamo bene!
 

- Tony Mal, puoi parlarci del tuo personaggio?


- Certamente, ecco, vedi, io sono un tipo timido ma anche un po' sarchio, un tipo sveglio ma anche un po' mollicone, finché non ho incontrato Tatiana.
 

- Un incontro determinante al buio.
 

- Più che altro a luci rosse, la prima volta che ci siamo conosciuti abbiamo fatto il kamasutra del rock and roll ed è stato lì che è nata la scintilla.
 

- E poi?
 

- E poi ho iniziato la mia carriera tutto sesso pazzo a tutte le ore.
 

- Una grande opera comica.
 

- Sì, comica e anche futuristica, ma non posso dire di più senza il consenso dell'editore.
 

- Capisco, senti, Tony, allora puoi parlarci dell'esperienza teatrale?
 

- Ti confesso che in teatro abbiamo avuto qualche problema con le attrici, se, da un lato, la compagnia risparmiava sui costumi perché le attrici erano nude, da un altro esse si lamentavano perché sentivano freddo, io ho provato a riscaldarle con del vero sesso ma non hanno accettato perché si allungavano i tempi di recitazione e così abbiamo risolto tutto con la scenografia.
 

- Io ne so qualcosa.
 

- Eh, già.
 

- Insomma, questo nuovo sesso moderno e innovativo ha funzionato?
 

-Sì, certamente, era ora di dire basta con il solito tran tran sessuale, grazie a Tony Mal con tutto il resto della compagnia scoprirete un nuovo mondo.
 

- Farai un film?
 

- Beh, sì, dopo gli ultimi miei successi "Amore mio non vedo il foro", "All'alba ne avevamo fatte sei" e "Due tette sotto il letto di latta" gireremo "Tony Mal sesso pazzo a tutte l'ore". Con un sovrapprezzo di 100 euro alla cassa potrete avere anche la versione 3d con uno sconto del 10% per comitive, vi consigliamo di prenotare, dopo lo spettacolo pasta e fagioli per tutti... a proposito, Walter, puoi passarmi un po' di pop corn?
 

- Certo... che ne dici di questo film che stiamo vedendo?
 

- Avengers: infinity war, ne saranno felici gli appassionati dei super eroi, bello, ricchissimo di effetti speciali, ho l'impressione che in certe scene si rischi di dormire, alcune per i miei gusti sono troppo buie, influisce anche la colonna sonora un po' retrò, poi di colpo ti risvegli con le azioni super veloci che ti tengono incollato alla poltrona. Leader del film, anche grazie alla sua prestanza fisica, è Thanos, uno dei protagonisti, un falso buono che ti manda apparentemente in confusione perché  ti fa quasi commuovere, ma poi alla fine ammazza tutti e pure mezzo pianeta.
 

- Pure l'Uomo ragno?
 

- Sì, anche lui, anzi, uno alla volta annienta quasi tutti i protagonisti del bene, questo film è un grande alternarsi di azioni, di battaglie, di personaggi che, alla fine, sconfitti usciranno di scena; 149 minuti dopo i quali sembra che per l'umanità non ci sia scampo, ma c'è un colpo di scena e quello che succederà nel futuro lo scopriremo a quanto pare, coming soon nel 2019.
 

- Fiùùùù... meno male!.. Dai, Tony, adesso salutiamo i nostri amici lettori della signorasenzafiltri, vi aspettiamo alla prossima intervista pazza e in teatro... tutti nudi... tutti nudi?... Ma no, scherzavo! Venite pure vestiti di tutto punto ma ricordatevi che con Tony Mal il sesso diventa pazzo a tutte l'ore.

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Evoluzione alla rovescia

27 Maggio 2018 , Scritto da Guido Mina di Sospiro Con tag #guido mina di sospiro, #saggi

 

 

 

Di Guido Mina di Sospiro, tradotto da Patrizia Poli in collaborazione con l’autore. Originalmente pubblicato sotto il titolo Evolution Upside-Down su New English Review, Disinformation e New Dawn Magazine.

 

«Io non credo che l’uomo derivi dalla scimmia a causa dell’evoluzione, bensì che la scimmia derivi dall’uomo per involuzione».

Charles Darwin possedeva alcune caratteristiche che me lo rendono caro. Era un “dilettante”, non un professionista, manifestando chiaramente che una prepotente sete di conoscenza è una mania, non una professione, con le relative incombenze burocratiche. E c’è qualcosa di notevolmente ardito nel suo viaggio sulla Beagle. È vero, stava cercando conferma alle sue teorie pre-formulate; ed è anche vero che sembrava trascurare qualsiasi prova contraria. Ma la sindrome da parzialità sembra insita nella natura umana. L’oggettività è impossibile. Tuttavia, quando pubblicò i suoi  fondamentali L’origine delle specie (1859) e L’origine dell’uomo, gli capitò di avere le idee giuste al momento giusto. Era l’età del Positivismo, orgoglioso e legittimo discendente dell’Illuminismo. Ed era l’alba del periodo più materialistico e deterministico della storia. La teoria di Darwin, dell’evoluzione biologica attraverso la selezione naturale, fu entusiasticamente cooptata da Herbert Spencer e da tutta l’intellighenzia, e applicata alla società in generale. Il dogma dell’evoluzione è ora insegnato in ogni scuola nel mondo occidentale e si trova in ogni testo scolastico, non solo di scienza, ma anche di storia, di educazione civica, etc. L’intero ethos della società occidentale è imbevuto di, e si fonda su, il mito materialistico dell’evoluzione e del progresso.

L’ampio concetto di “evoluzione”, perciò, è stato un prezioso alleato delle società moderne. Implicitamente, ma spesso anche esplicitamente, queste sostengono che, trovandosi all’apice dell’evoluzione sociale, la cosmologia che incarnano non possa che essere la migliore. È un argomento prepotentemente machiavellico. Eravamo scimmie, poi, esseri umani che potevano a malapena accendere un fuoco; infine, abbiamo padroneggiato la natura (eccome!); e ora, quali esponenti delle democrazie moderne nel mondo libero, laico e illuminato, abbiamo portato la buona novella ai nostri fratelli in paesi meno privilegiati, o piuttosto “in via di sviluppo”, e di sicuro lo abbiamo fatto in base alla legge dell’evoluzione. (Fra tantissime “anomalie”, Göbekli Tepe, il sito archeologico in Anatolia, confuta tale semplicistica spiegazione, ma ciò non sembra importare al sistema.) Certe idee si diffondono come la peste. Come conseguenza, un Pensiero Unico viene imposto nel mondo, così come un Unico Comportamento: lo stesso modo di ragionare, gli stessi “valori”, lo stesso modo di parlare, di vestire, persino di mangiare. Un punto di vista completamente e arbitrariamente personale è stato spacciato per oggettivo e viene imposto su scala planetaria attraverso le lobbies culturali e i mass media. Gloria all’intrinseca supremazia del dogma evoluzionista e alle sue ramificazioni: il liberalismo e il libero mercato, di cui l’ultimo è, in effetti, il risultato di una selezione naturale spietata.

Leibnitz, e più recentemente Popper, affermarono che viviamo “nel migliore dei mondi possibili”. È il principio della ragione sufficiente. Mentre Leibnitz sosteneva che Dio non può aver creato che il migliore dei mondi possibili, un mondo che cambia sempre in meglio, Popper affermò che le società occidentali contemporanee, e il loro sistema socio-economico, rappresentano il miglior sistema che possa essere ipotizzato in opposizione alle precedenti organizzazioni sociali e culturali.

Ora, caro lettore, se sei d’accordo con Leibnitz e Popper, non leggere oltre. Sei un esemplare umano ben adattato, il risultato di un indottrinamento culturale pervasivo, o di un vero e proprio lavaggio del cervello. Un vero figlio/figlia del tuo tempo. Se non sei d’accordo, vai avanti a tuo rischio e pericolo.

Quando ero ragazzo, un gruppo progressive rock italiano incise un album intitolato Darwin. La prima canzone incoraggiava (in modo sgrammaticato): “Prova, prova a pensare un po’ diverso, (...)”. Proseguiva spiegando che niente era stato creato da Dio ma, piuttosto, che tutta la creazione aveva creato se stessa, e poi era costantemente migliorata grazie alle leggi dell’evoluzione. Persino lo spaghetti rock cooptava la sua versione distorta del darwinismo. Bene, ora vi chiedo io di “pensare un po’ diverso” poiché, vedete:

io non credo che l’uomo derivi dalla scimmia per evoluzione, bensì che la scimmia derivi dall’uomo per involuzione

Joseph de Maistre spiegava che i selvaggi non sono popoli primitivi nel senso di popoli originali, ma piuttosto le rimanenze degenerate e/o degeneranti di popoli antichi che sono scomparsi. Mi ribello al dogma rivoluzionario, e dico che le specie animali mostrano chiaramente la degenerazione del potenziale dell’uomo primitivo. In nuce, “il filosofo proibito” Julios Evola scrisse: “Questi potenziali insoddisfatti o devianti si manifestano come sottoprodotti del vero processo evoluzionistico che l’uomo ha condotto dall’inizio. Per questo motivo, l’ontogenesi, la storia biologica dell’individuo, non ripercorre in nessun modo il processo della filogenesi, la presunta storia evoluzionistica della specie, ma ripassa attraverso alcune possibilità eliminate. Si ferma a delinearle in modo approssimativo e poi va oltre, subordinando queste possibilità al principio superiore e specificamente umano, che è definito un poco alla volta nello sviluppo dell’individuo.”

Abbastanza contro corrente? Ha perfettamente senso, anche se non lineare. Ma lo scienziato necessiterebbe di prove. (La scienza istituzionale, per inciso, tende a giocare un gioco truccato, stabilendo le proprie regole, e implicitamente rifiutando tutto ciò che non si conforma ad esse.) Immaginate, per esempio, un centauro, un corpo di cavallo a quattro zampe sormontato da un torso a due braccia con una testa. Questa adorabile creatura, se scoperta da qualche parte, metterebbe in ginocchio la teoria evoluzionista, dato che non ci sono antenati da cui i centauri possano essere discesi; d’altro canto, il mondo esoterico può ben considerare noi, umani a due gambe, i bastardi degenerati e mutilati di un centauro.

I poeti cercano la verità, non gli scienziati. Il poeta francese Maurice de Guérin, nel suo Centauro, fa incontrare la creatura con Pan, mentre vien giù dalla montagna verso la valle, per dissetarsi in un fiume. È notte, il fiume luccica, un nastro d’argento sotto la luna. Questo è il Pan arcaico, un essere che appartiene direttamente alla terra, niente affatto un dio, sebbene più tardi sarà elevato a tale rango. Ed è Pan che il Centauro di Guérin vede quella notte dall’altra parte del fiume, o… il primo uomo. Il centauro è sopraffatto dal disgusto. E dalla tristezza. In lui, il Centauro vede un individuo mutilato. Quell’essere dall’altra parte del fiume annuncia, inoltre, la sua stessa sconfitta e la fine dell’Età dell’oro. E non è un caso se il fiume sembra, nella notte, una striscia d’argento. È iniziata l’Età dell’argento

Il mondo deve essere stato a lutto quando l’uomo si staccò da questa parte del suo essere. L’Età dell’oro lascia il posto a quella dell’argento. Toccherà in sorte a Erodoto, nel V secolo a.c., la transizione dall’età dell’argento a quella del bronzo. Egli sta a cavallo delle due epoche e annuncia la storia. Il Rinascimento, e più tardi l’Illuminismo, introdurranno l’Età del ferro, nella quale viviamo.

Lo scienziato non può che rifiutare ciò. Deve farlo. Ovviamente, se il paleontologo o l’archeologo disseppellissero i resti di un centauro, sarebbe non solo un colpo fatale alla teoria dell’evoluzione, ma alla scienza al completo. Inoltre, sarebbe utile trovare veri anacronismi. Come, ad esempio, esseri umani fossilizzati dentro lo stomaco di, mettiamo, un allosauro; o un trilobite in strati cenozoici (“recenti”, circa 65 milioni di anni). Ma, ancora, la scienza, e le società occidentali in generale, tendono a rifiutare o, in realtà, nascondere, prove che possano danneggiare lo status quo. Questa censura è una tattica di sopravvivenza, tutt’altro che originale. Ma pare che tracce di nicotina siano state recentemente ritrovate dentro un antico  sarcofago egiziano. Essendo il tabacco una pianta del Nuovo Mondo, una tale scoperta dovrebbe aver cambiato, se non altro, la nostra percezione della storia. In realtà, significherebbe molto di più. Non sorprendentemente, di questo si è detto o fatto molto poco. Perché, gli studi su Atlantide, cioè concepire la possibilità che ci sia stata una civilizzazione avanzata in epoca preistorica, sono profondamente sovversivi. Sconfessano Darwin, Marx e Freud, e infastidiscono profondamente gli “esperti” accademici. Mettono in discussione la cosmologia del Big Bang. Non ispirano fiducia nel progresso o l’ingegneria sociale. E, infine, aprono la porta “alla marea nera di fango”, come Freud chiamava l’occulto (in realtà l’esoterismo) nella sua famoso contesa con Jung.

Qualche anno fa, passai un certo numero di pomeriggi e sere a intervistare lo sciamano, o piuttosto, “il portapacchetto” (nel “pacchetto” è custodita la “medicina” [o lo scibile magico]), della tribù Miccosukee, negli Everglades nel sud della Florida. Dopo alcune sedute scoprii che l’uomo era in grado di leggere la mia domanda seguente mentre la formulavo nella mia mente, e rispondeva senza che gli avessi chiesto niente a voce. Come ci si aspetterebbe, io ero totalmente incapace di leggere la sua mente o quella di chiunque altro. Alla fine, dalle sue parole è emersa un’interpretazione della storia assai insolita.

Quando gli Spagnoli cacciarono l’ultimo Moro, ottenendo così la loro storica Riconquista dopo otto secoli di occupazione musulmana, in quello stesso anno, 1492, Colombo ufficialmente e apparentemente scoprì l’America (per sbaglio?). È difficile pensare a una coincidenza. Certamente, la metastoria non è insegnata in nessuna scuola, e molta gente non sa nemmeno della sua esistenza. Che ci siano poteri coinvolti nei cambiamenti epocali che vanno molto al di là della meschinità e dell’avidità umana e dei sollevamenti sociali sembrerebbe una verità evidente, e tuttavia rifiutata e considerata impensabile dagli araldi del dogma storico evoluzionistico. E cosa fece l’uomo bianco quando venne in America, mi chiese il portapacchetto?

Trovò l’Età dell’oro, mi rendo conto ora, in retrospettiva: non era il Nuovo Mondo, era il Vecchio Mondo, più vecchio della storia e del mito. Sì, l’America era ancora in uno stato di grazia. Cereali macroscopici crescevano solo qui: granturco,  zea mays, con grani così grandi da non richiedere macinatura. Era il cibo dei giganti, dei titani. Cacao, theobroma cacao, il frutto degli dei, ciò che “theo-broma” significa in greco. L’origine di questo albero tropicale era l’Amazzonia, da dove migrò in America centrale, attorno al 1500 a.c.. I Maya e gli Aztechi attribuivano origine divina all’albero del cacao, portato loro dal dio Quetzacoatl. La bevanda sacra chiamata “chocolatl” era consumata in coppe d’oro. E la lista continua. Il tabacco, cioè Nicotiana tabacum. Una pianta erbacea, il tabacco fu usato per prime dalle popolazioni dell’America precolombiana. I nativi americani coltivavano la pianta e la fumavano nelle pipe a scopo medico e cerimoniale. La varietà rustica era usata dagli sciamani per entrare in stato di trance e indurre allucinazioni. Il pomodoro, Lycopersicon  esculentum, era un altro dono dell’Età dell’oro. Un frutto che cresceva prontamente non da un albero e poteva essere coltivato ovunque, ammesso che ci fosse abbastanza calore. Il suo frutto commestibile, carnoso, abitualmente rosso, è diventato un alimento base delle cucine di tutto il mondo. Cosa sarebbe la cucina italiana senza di esso? Niente pizza? Niente pasta? E che dire dei seguenti altri doni degli dei? Vaniglia, patate, (che, ironicamente, resero possibile la rivoluzione industriale), immense mandrie di bisonti che brucavano e vagavano libere nelle pianure del nord? Che dire del tacchino, che è diventato un animale così simbolico negli Stati Uniti, ed è allevato e mangiato ovunque nel mondo? Nessun uccello di queste dimensioni cresceva in Europa e, ancora una volta a ragione, poiché l’Europa aveva abbandonato l’Età dell’oro, poi l’Età dell’argento e stava lasciando anche l’Età del bronzo.  

Ho una stampa di Eanger Irvin Couse che ho comprato a Taos, nel Nuovo Messico. Dipinta circa cento anni fa, rappresenta una scena silvestre. Un nativo americano, con indosso solo un  lembo di stoffa attorno ai fianchi, accovacciato sui ginocchi, si nasconde dietro un gruppo di alberi, osservando attentamente, non visto, alcuni tacchini in una radura a pochi passi da lui. Con la mano destra impugna ciò che, a prima vista, sembrerebbe una lancia. A ben guardare, ci si accorge che sta solo agguantandosi a un alberello senza rami, che può essere scambiato per una lancia, ma è, in effetti, solo uno snello giovane albero radicato nel terreno. Questa immagine, per inciso molto ben fatta, dice tantissimo. Il nativo americano, magro ma evidentemente non affamato, non ha intenzione di uccidere i tacchini, ma si gode la loro vista.

Tali popolazioni, primitive, originali, meritavano l’Età dell’oro in cui ancora vivevano. Non avevano bisogno di escatologie. Infatti nelle grotte sono stati trovati disegni che dipingono cacciatori primitivi che cacciano anche nell’al di là. L’al di là, in effetti, c’era; non c’era confine fra la vita qui e da qualche altra parte. L’Età dell’oro era l’Eden, e l’oro stesso, paradossalmente, non serviva. 

L’uomo bianco portò con sé non solo una serie di malattie esotiche, ma anche le banche, la più grave di tutte le malattie.

La Chiesa cattolica aveva messo al bando per secoli qualsiasi tasso d’interesse, percepito come usura. Le banche e il prestito divennero una pratica accettata solo durante l’inizio del Rinascimento.

 “A cosa”, chiese il mio amico portapacchetto Miccosukee, “a cosa servivano le banche in America agli uomini bianchi?” Di fatto, possedevano tutto: la terra, gli alberi, il pesce, gli uccelli, la selvaggina. Tutto ciò che vedevano. Eppure introdussero quel supremo artificio — la banca.

Sappiamo cosa è accaduto ai milioni di bisonti che pascolavano nelle praterie nelle mani dell’uomo bianco che cacciava per sport con fucili a ripetizione. Sappiamo cosa è accaduto ai nativi americani. E, tuttavia, continuiamo a considerare le nostre società come il logico risultato dell’evoluzione e del progresso. 

Frederic Edwin Church, il pittore della Hudson River School, si fece un punto d’onore di registrare le ultime vestigia dell’Età dell’oro in America. Non risparmiò alcuno sforzo nel raggiungere i luoghi più remoti per ritrarre la Grandiosità dell’Età dell’oro. Molto più di Turner o di Caspar David Friederich, rispettivamente dall’Inghilterra e dalla Germania. Proprio perché girò tutte le Americhe, ebbe l’ultima occasione di cantare a gloria dell’età perduta.

Ma il dogma evoluzionista si è diramato e ha infettato anche il mondo dell’arte. È difficile da credere, poiché l’arte avrebbe dovuto essere l’unico campo immune da un tal veleno. Tuttavia, ci è stato detto che anche l’arte si evolve. A chi piacerebbe Giotto, oggi, che non conosceva la prospettiva? Chiaramente, Piero della Francesca e Paolo Uccello, che l’hanno introdotta, erano molto superiori. Ma impallidiscono davanti alla grandezza di Michelangelo e, più tardi, di Tiziano. Tuttavia, Caravaggio, con le sue ombre e i chiaroscuri, è molto più evoluto. Per non dire di Goya, lontano finalmente da quegli stantii soggetti religiosi, impegnato nei molto migliori temi della vita comune. Ma l’impressionismo ha cambiato le carte in tavola un’altra volta – un cambiamento per il meglio, ovviamente – e tutti gli altri -ismi hanno portato alla migliore espressione artistica di tutte: l’arte astratta, alias “il qualunque-ismo”. In realtà, come ulteriore sviluppo sulla scala dell’evoluzione che porta alla perfezione, la bruttezza è diventata bellezza e la bellezza bruttezza. Le maggiori città del mondo occidentale annoverano molti musei dedicati a questo pinnacolo dell’evoluzione artistica: l’arte brutta. Mentre il fenomeno dell’arte brutta era in corso, Theodor Adorno e altri filosofi marxisti si affannavano a cantarne le lodi.

Come ci possiamo difendere dalle aberrazioni causate dalla cooptazione globalizzata  e dall’imposizione di un dogma evoluzionistico onnicomprensivo? Penso di avervi dato qualche cenno. La storia è ciclica e non, come ci viene detto eloquentemente e assiduamente, lineare. Al momento siamo nel punto più infimo. L’Età dell’oro, o Kali Yuga, come descritto nei testi tradizionali induisti. Ma la marea può tornare in futuro. Nel frattempo, stiamo già facendo ciò che è la cosa migliore—differenziarci dal pensiero comune.

P. S. : Mia moglie ed io abbiamo una nutrita collezione di pitture astratte alle quali siamo molto affezionati; l’incoerenza è un buon segno.

 

 

 

 

I do not believe that man is derived from the ape by evolution, but that the ape is derived by man by involution.”

Charles Darwin possessed some characteristics which greatly endear him to me. He was an “amateur,” not a professional, making it clear that an all-consuming thirst for knowledge is a mania, not a profession, with its clerical and bureaucratic overtones. And there is something immensely dashing about his voyage on the Beagle. True, he was looking for confirming instances of his pre-established theory; also true, he did seem to neglect whatever evidence he chanced upon that went against it. But the confirmation bias syndrome seems to be embedded in human nature. Objectivity is impossible. Anyway, when he published his seminal works Origin of Species (1859) and The Descent of Man (1871), he happened to have the right ideas at the right time. It was the age of Positivism, that proud and most legitimate descendant of the Enlightenment. And it was the dawn of the most materialistic and deterministic age in recorded history. Darwin’s theory of biological evolution through natural selection was enthusiastically co-opted by Herbert Spencer and the intelligentsia, and applied to society as a whole. The evolutionary dogma is now taught in every school in the western world, and found in every textbook, and not just of science, but also of history, civics, etc. The whole ethos of western societies is imbued with, and hinges on, the materialistic myth of evolution and progress.

The broad concept of “evolution,” therefore, has been an invaluable ally to modern societies. Implicitly, but often also explicitly, these maintain that, by finding themselves at the apex of the process of societal evolution, the cosmology they incarnate could not be but the best one. It is a Machiavellianly powerful argument. Why, we were apes; then, humans who could barely, say, light a fire; eventually, we mastered nature (and how!); and now, as exponents of modern democracies in the free, secular and enlightened world, we spread the good news to our fellow humans in less privileged countries, or rather “developing” countries and, surely, by the laws of evolution. Indeed, such ideas spread like the plague. As a consequence, a Single Thought is imposed upon the world, along with a Single Behavior. The same way of reasoning, the same “values,” the same way of speaking, dressing, even eating. A completely arbitrary subjective point of view has been disguised as objective and is being imposed on a global scale through cultural lobbies and the mass media. Glory to the intrinsic supremacy of the evolutionary dogma, and its ramifications: liberalism and the free market, the latter being, in effect, the result of merciless natural selection.

Leibnitz, and far more recently Popper, postulated that we live in “the best of possible worlds.” It is the principle of sufficient reason. While Leibnitz argued that God could not have created but the best of possible worlds, one that is constantly undergoing changes for the better, Popper affirmed that contemporary western societies, and their socioeconomic system, represent the very best system that could possibly be conceived as opposed to previous social and cultural organizations.

Now, dear reader, if you agree with Leibnitz and Popper, read no further. You are a well-adapted human specimen, the result of a pervasive cultural indoctrination, or outright brainwash. A true son/daughter of your times. If you don’t agree, read on—at your own risk.

When I was a teen-ager, an Italian progressive rock group released an album entitled Darwin. One of its songs encouraged the listener to “think a little differently.” It continued by explaining that nothing had been created by God, but rather all creation had created itself, and then had constantly improved thanks to the laws of evolution. Even spaghetti rock was co-opting its own warped version of Darwinism! Well, I now ask you to “think a little differently”. For you see—

I do not believe that man is derived from the ape by evolution, but that the ape is derived by man by involution.

Joseph de Maistre explained that savage peoples are not primitive peoples in the sense of original peoples, but rather the degenerated and/or degenerating remains of ancient peoples that have disappeared. I rebel against the evolutionary dogma, and assert that animal species clearly show the degeneration of primordial man’s potential. In a nutshell, the “forbidden philosopher” Julius Evola wrote: “These unfulfilled or deviant potentials manifest themselves as byproducts of the true evolutionary process that man has led since the beginning. For this reason, ontogenesis, the biological history of the individual, does not repeat in any way the process of phylogenesis, the presumed evolutionary history of the species, but passes again through some eliminated possibilities. It stops to roughly outline them and then moves beyond, subordinating these possibilities to the superior and specifically human principle, which is defined and fulfilled little by little in the development of the individual.”

Contrarian enough? It makes wonderful, if non-linear, sense. But the scientist would need proof. (Institutional science, incidentally, does tend to play a fixed game, as it sets up its own rules, and implicitly dismisses anything that does not quite conform with them.) Imagine, for example, a centaur, a four-legged horse body topped by a two-armed human torso with head. This lovely creature, if unearthed somewhere, would bring evolutionary theory to its knees, because there are simply no ancestors from which centaurs might have descended. On the other hand, the esoteric world may well consider us, two-legged humans, the degenerated and maimed mongrels of a centaur.

Poets seek truth, not scientists. The French poet Maurice de Guérin in his Centaur has the creature meet Pan, coming down from the mountains to the valley, there to drink from a river. It is nighttime. The river shimmers, a silver streak under the moon. This is the archaic Pan, a being immediately belonging to the Earth, not at all a god, though later he will be promoted to that rank. And it is Pan that De Guérin’s Centaur sees that night on the opposite side of the river, or… the first man. The Centaur is overwhelmed by disgust. And by sadness. In him, the centaur sees a maimed individual. That being on the other side of the river announces, furthermore, his own demise, and the end of the Golden Age. Not by chance does the river seem, in the night, a silver streak. The Silver Age has begun.

The world must have been in mourning when man detached himself from this part of his own being. The Golden Age gives way to the Silver Age. The lot will fall to Herodotus, in the fifth century BC, to transition from the Silver Age to the Bronze Age. He stands at the cusp of the two epochs, and ushers in history. The Renaissance, and later the Enlightenment, will usher in the Iron Age, in which we live at present.

The scientist cannot but reject this. He must. Of course, if paleontologists or archeologists did unearth the remnants of a centaur, it would not only be a fatal blow to evolutionary theory, but to science as a whole. Also, finding true anachronisms would be useful. Such as human beings fossilized inside the stomach of, say, an allosaur; or a trilobite in Cenezoic (“recent,” up to 65 million years old) strata. But again, science, and western societies by and large, tend to dismiss or indeed conceal evidence that may damage the status quo. This censorship is a survival tactics, not in any way shocking or original. But apparently traces of nicotine were recently found inside an ancient Egyptian sarcophagus. Tobacco being a plant of the New World, such a discovery should have changed if nothing else our perception of history. Indeed, it would mean so much more. Not surprisingly, very little has been said or made of this. Why, Atlantean studies, i.e., the entertaining of the possibility that there was an advanced civilization in prehistoric times, are deeply subversive. They make nonsense of Darwin, Marx, and Freud, and greatly annoy the professorial “experts.” They question the Big Bang cosmology. They inspire no belief in progress or social engineering. And ultimately open the door to the “black tide of mud,”, as Freud called the occult (really the esoteric) in his famous feud with Jung.

A few years ago, I spent quite a number of afternoons and evenings interviewing the shaman, or rather “bundle-carrier,” of the Miccosukee tribe, in the Everglades of South Florida. After a few sessions I realized that the man was able to read my next question as I formulated it in my mind, and would answer to it without my asking it orally. As would be expected, I was utterly unable to read his mind, or anybody’s. Eventually, a very odd take on history surfaced from his words.

When the Spaniards kicked out the last Moor, thus achieving their epochal Reconquista after eight centuries of Muslim occupation, that very year, 1492, Columbus officially and ostensibly discovered America (in error?). It is hardly a coincidence. Certainly, metahistory is not taught in any school, so people are at best perplexed by it. That there should be powers involved in epochal changes which go well beyond the pettiness of human greed and social upheavals would seem a self-evident truth, yet contrariwise denied out and out as utterly unthinkable by the heralds of the evolutionary historical dogma. And what did the white men do when they came to America, asked the bundle-carrier?

They found the Golden Age, I realize now, in retrospect. It was not the New World; it was the Old World, older than history, older than myth.

Yes, America was still in a state of grace. Macroscopic cereal only grew here: corn, Zea mays, bearing grains on very large ears which did not require any milling. It was the food of giants, of the Titans. Cacao, Theobroma cacao, the Fruit of Gods, which “theo-broma” means in Greek. The origin of this tropical understory tree were the Amazon Headwaters from where it moved to Central America. Cocoa cultivation began by Mayan tribes in Central America, around 1500 BC. Mayans and Aztecs attributed divine origin to the cocoa tree, brought to them by god Quetzacoatl. The sacred beverage called “chocolatl” was consumed from golden cups. And the list goes on. Tobacco, i.e., Nicotiana tabacum. An herbaceous plant, tobacco was first used by the peoples of the pre-Columbian Americas. Native Americans cultivated the plant and smoked it in pipes for medicinal and ceremonial purposes. The rustica variety was used by shamans to enter trance states and induce hallucinations. Tomato, Lycopersicon esculentum, was another gift of the Golden age. A fruit which grew readily not from a tree, and could be cultivated anywhere, provided there be enough warmth. Its edible, fleshy, usually red fruit has become a staple for cuisines the world over. What would Italian cooking be without it? No pizza? No pasta? And what of the following other godly gifts: vanilla; potatoes (which, ironically, made the Industrial Revolution possible); immense herds of bison grazing and roaming freely in the Northern Plains? What of the turkey, which has become such a symbolic animal in the US, and is raised and eaten all over the world? No fowl of this size grew in Europe and, again, with good reason, as Europe had left the Golden Age, then the Silver Age, and indeed was leaving even the Bronze Age.

I have a print by Eanger Irving Couse which I bought in Taos, New Mexico. Painted about a hundred years ago, it depicts a sylvan scene. A native American, wearing only a loin-cloth, and crouching on his knees, is hiding behind a clump of trees, keenly observing, unseen, some turkeys in a clearing, a few paces from him. With his right hand he is clutching what at first sight appears to be a spear. On closer inspection, one realizes he is merely holding on to a branchless sapling, which can be mistaken for a spear, but is in fact a slender young tree rooted in the ground. This image, incidentally very well executed, speaks volumes. The native American, slim but evidently not hungry, does not intend to kill the turkeys, but does enjoy observing them.

Such people, primitive, original people, deserved the Golden Age in which they still lived. They had no need for eschatology. Indeed, drawings have been found in caves depicting primitive hunters hunting also in their after-life. There really was no after-life, no demarcation between life here and life elsewhere. The Golden Age was the Garden of Earthly Delights, and gold itself, paradoxically, was not needed.

White man brought along not only a host of exotic diseases, but banking, the greatest disease of them all.

Indeed, the Catholic Church had been banning for centuries the charging of interest at any rate, as it perceived it as usury, with banking, and lending, becoming an accepted practice only during the early Renaissance.

“What,” asked my friend, the Miccosukee bundle-carrier, “what did the white men need banking for in America?” As a matter of fact, they owned everything: land, trees, rivers, fish, fowl, game. Everything they saw. Yet, they introduced that supreme artifice—banking.

We know what has happened since to the millions of bison that used to roam the prairies, at the hand of the white man, hunting for sport with lever action rifles. We know what has happened to the native Americans. Yet, we continue to disguise our societies as the logic result of evolution and progress.

Frederic Edwin Church, the painter from the Hudson River School, made it a point to record the last vestiges of the Golden Age in this continent. He spared no effort in reaching the remotest places so as to portray their Golden Grandeur. Far more than Turner or Caspar David Friedrich, respectively from England and Germany; precisely because he roamed the Americas, he had the last chance to sing her Golden glory.

But the evolutionary dogma has branched out and infected also the world of art. It is hard to believe, as art should have been the only field immune to such poison. Yet, we have been told that art, too, evolves. Who could like Giotto now, he who did not know perspective? Clearly, Pier della Francesca and Paolo Uccello, who introduced it, were far superior. But they pale in comparison to the grandeur of Michelangelo and, later, Tiziano. However, Caravaggio, with his shadows and chiaroscuro, is far more evolved. Not to mention Goya. Away at last from those stale religious subjects, into the far better common-life themes. But impressionism fuzzed this up too — a change for the better, of course — and all the other -isms led to the best artistic expression of them all: abstract art, a.k.a. “anything-goes-ism.” Indeed, as a further development along the evolutionary scale leading to perfection, ugliness became beautiful, and the beautiful, ugly. Major cities across the Western world number many a museum dedicated to this pinnacle of artistic evolution: ugly art. All along, Theodor W. Adorno and other Marxist philosophers were busy singing the praises of ugliness.

How can we defend ourselves from the aberrations caused by the globalized co-option and imposition of an all-encompassing evolutionary dogma? I think I have given you some hints. History is cyclical and not, as we are eloquently and assiduously told, linear. We are caught up in the very low ebb, at present. The Iron Age, or the Kali Yuga, as described in traditional Hindu texts. But the tide may come in the future. In the meantime, we are already doing what is best: differentiating ourselves from mainstream thinking.

P.S.: My wife and I have quite a collection of abstract painting of which we are very fond; inconsistency is a good sign.

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Fabio Lastrucci, Vincenzo Barone Lumaga, "Com'era weird la mia valle"

26 Maggio 2018 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

 

 

 

 

Fabio Lastrucci – Vincenzo Barone Lumaga
Com’era weird la mia valle
Milena Edizioni, 2018
Pag. 350 – Euro 19,90

 

Fabio Lastrucci e Vincenzo Barone Lumaga sono due autori di narrativa fantastica  piuttosto conosciuti nel mondo underground, provetti confezionatori di storie ispirate a Lovecraft e Poe, ma anche ai più recenti King e Lansdale, capaci di creare atmosfere nelle quali si nota il loro tratto distintivo. Com’era weird la mia valle è il breviario delle loro passioni, un’opera di saggistica divulgativa - introdotta da una precisa prefazione di Matteo Mancini - che punta a mettere in chiaro le basi del fantastico, partendo dalla definizione di orrore, affrontando miti immortali come Dracula, Frankenstein e zombi, passando per case infestate, uomini lupo e orrori al femminile. Il titolo è una citazione esplicita di una serie televisiva tanto amata dai ragazzi nati negli anni Sessanta, ma al tempo stesso fa capire l’ambito in cui si muovono gli autori: la valle del fantastico. Il libro ripercorre la storia delle prime riviste di narrativa (Weird tales), affronta i temi del pulp, approfondisce Lovecraft e i suoi incubi, ma anche molti indagatori dell’occulto che hanno preceduto Dylan Dog. Si parla di Jack lo squartatore, dei mad doctors, di Fantomas e di tutta la narrativa weird italiana dell’Ottocento e del Novecento, dagli scapigliati ai racconti di Dracula, fino a Franco Forte. Molta attenzione ai nomi contemporanei che hanno pubblicato fantastico: Massimo Citi, Silvia Treves, Giuseppe Cozzolino, Luigi Boccia, Elvezio Sciallis, Vittorio Catani, Danilo Arona, persino il sottoscritto, che si è occupato di misteri caraibici. Concludono un’opera interessante, dedicata ai cultori del fantastico, dieci interviste ad autori più o meno famosi, tra i quali spiccano Eraldo Baldini (Gotico rurale), Paolo D’Orazio (Splatter), Gianfranco Manfredi e Cristina Astori. I curatori hanno intervistato persino un certo Gordiano Lupi, autore di alcuni horror ambientati a Cuba e piccolo editore di provincia. Un libro indispensabile per chi ama il fantastico, per i collezionisti di narrativa pulp e per chi vuole cimentarsi nella scrittura di questa branca della narrativa.

 

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

Fabio Lastrucci, Vincenzo Barone Lumaga, "Com'era weird la mia valle"Fabio Lastrucci, Vincenzo Barone Lumaga, "Com'era weird la mia valle"
Fabio Lastrucci, Vincenzo Barone Lumaga, "Com'era weird la mia valle"Fabio Lastrucci, Vincenzo Barone Lumaga, "Com'era weird la mia valle"Fabio Lastrucci, Vincenzo Barone Lumaga, "Com'era weird la mia valle"
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Fiera del libro di Imperia

25 Maggio 2018 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #eventi, #case editrici

 

 

 

 

Un mese di maggio importante che ci ha visti presenti - per la nona volta dal 1999 - al Premio Strega con Anne - Riitta Ciccone, autrice di I’m, Infinita come lo spazio. Per una piccola realtà come la nostra, che si muove fra sacrifici, fiere campestri e zero contributo richiesto per pubblicare (rimarchiamo che siamo No EaP da sempre), è già una vittoria, in termini di riconoscimento e di visibilità. Va da sé che non siamo rimasti in gara dopo la scrematura a 12 titoli. Altra cosa importante il libro Le case del malcontento di Sacha Naspini, edito da E/ O, sta facendo molta strada, viene letto, presentato e recensito ovunque. Sacha, oltre a lavorare come grafico per i nostri libri, ha esordito con Il Foglio Letterario: L’ingrato e I sassi rimangono due evergreen del nostro catalogo. Se non li avete letti, non lasciatevi sfuggire l’occasione. Abbiamo anche presentato nella sala consiliare del comune di Piombino la rivista on line www.ilfoglioletterario.it, diretta da Vincenzo Trama, e siamo andati in Sicilia, dal 2 al al 6 maggio, per la prima edizione del Gioiosa Book Festival, organizzato dal nostro Antonino Genovese, storico autore del Foglio Letterario. Leggete la rivista su www.ilfoglioletterario.it e date un occhio alla sezione Amarcord del sito: troverete video che saranno presenti nella sola versione Issuu e che raccontano la nostra storia recente e meno recente. Free book omaggio anche per questo numero: Félix Luis Viera, Y me han dolido los cuchillos, tradotto da Gordiano Lupi, con testo originale a fronte. Chiudiamo il mese di maggio a Imperia, dal 25 al 28, dove presentiamo Raccontare Imperia - volume due, curato da Francesco Basso, un'antologia che comprende 20 autori e molti personaggi imperiesi. Presentiamo anche Pasta e cinema e La grande abbuffata, due libri che uniscono il piacere della tavola e della cucina mediterranea al gusto per il buon cinema italiano. Infine Dario Arkel ci parla di poesia con il suo pregevole Di vento di verso. Maura Fioroni è presente in fiera con il suo Yuma 2, dedicato a Bolivia e Argentina, ma anche con i suoi libri di viaggio a tema Cuba (I colori di Cuba e Yuma). Molte novità in catalogo, dal cinema alla saggistica, passando per interessanti titoli di narrativa. Veniteci a trovare a Imperia! (Gordiano Lupi)

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Lorenzo Barbieri, "Mariella"

24 Maggio 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #lorenzo barbieri, #recensioni

 

 

 

 

 

Mariella

Lorenzo Barbieri

 

ilmiolibro.it, 2016

 

Argomento scabroso, quello trattato in Mariella di Lorenzo Barbieri: l’amore proibito fra un adolescente e una bambina di dieci anni.

Matteo è un ragazzo malato, figlio di genitori ricchi e assenti. Il padre è sempre lontano per lavoro, la madre lo ha abbandonato in un vecchio casale in decadenza, insieme a due coppie di servitori che lo crescono come un parente e mentono dicendogli che lei è morta. Matteo è una sorta di “giovane favoloso”, un ragazzo sensibile e malaticcio, dall’animo teso e turbato. L’incontro con Mariella, bambina precoce, smaliziata e lolita, lo indirizza sulla via dei sensi ma anche sulla strada del risveglio alla vita, alla salute e alla scoperta delle proprie potenzialità. Grazie alla nuova energia infusagli da Mariella, Matteo prenderà in mano le redini del casale e dell'esistenza di tutti i suoi occupanti. Ridimensionerà il ruolo dei servitori, riportandoli al loro posto ma concedendo loro l’affetto che meritano, riconquisterà l’attenzione del padre e rimetterà in sesto la tenuta. Avremo un lieto fine, quando finalmente i due cresceranno e ciò che era proibito non lo sarà più.

La struttura della storia mostra alcune lacune, soprattutto c’è il vicolo cieco della malattia di Mariella. La scoperta che la ragazzina è gravemente ammalata di cuore sembra presagire sviluppi futuri che non si manifestano. Da notare che la radice della parola “morbo” è la stessa di “morboso” e di morbosità nella storia ce n’è parecchia. La cardiopatia di Mariella fa da contraltare a quella di Matteo. I due giovani si riconoscono nella stessa patologia, nella bambina il protagonista trova una compagna di solitudine, di giochi, di sensibilità e anche di sofferenza fisica.   

Alcune tematiche sono simili a quelle presenti nell’altro romanzo di Barbieri, La buona vita: la scoperta della realtà agreste da parte di un ragazzo solitario, i primi turbamenti erotici, il contatto con persone semplici ma genuine. Qui, però, l’attenzione si focalizza sull’erotismo torbido che Mariella, nella sua ingenua impudicizia, è capace di scatenare. Ma l’eros, come abbiamo detto, non è una pulsione negativa, se ben incanalata e indirizzata.

Purtroppo lo stile non è all’altezza del contenuto.  

 

 

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Il Maradagàl, una rivista oltre le mode

23 Maggio 2018 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #riviste letterarie, #cultura

 

 

 

 

Mi piacciono le operazioni culturali vere, quelle che non seguono le mode, dove si respira passione e competenza, persino un pizzico d’incoscienza - dati i tempi - ma consapevole, perché mixata da un sano realismo. Il Maradagàl è una rivista letteraria cartacea, già questo è un miracolo in tempi di Internet e stupidissimi social che ci sottraggono la poca intelligenza rimasta, il poco spirito critico, la residua concentrazione sopravvissuta ad anni di edonismo berluscorenziano. L’idea geniale viene a Sara Calderoni, che si avvale di un direttore artistico ispirato come Cristina Mesturini e di un comitato di redazione ricco di penne raffinate del calibro di Franz Krauspenhaar, Fabrizio Elefante, Nanni Delbecchi, Antonino Bondì e Flavio Santi. Editore coraggioso il milanese Marco Saya, che conosciamo da tempi immemorabili, uno che resiste, che ama la poesia e la cultura, soprattutto che non cede alle mode. “Siamo consapevoli che stiamo facendo un’operazione difficile, ma vogliamo fare del Maradagàl un oggetto da collezione”, mi ha confidato. Si presta, mi dico, ché il valore artistico c’è tutto, basti pensare al primo numero (Settembre 2017) con le riproduzioni a colori di pregiate opere di Guido Scarabottolo e Antonello Silverini, ma anche al secondo (Febbraio 2018) che contiene dipinti del russo Alexey Terenin.

I contenuti sono di alto livello, suddivisi in Critica, Scritture e Territori. Il primo numero è dedicato a un problema piuttosto sentito, quello della critica letteraria ridotta a inutile propaggine degli uffici stampa delle grandi case editrici. Il critico del ventunesimo secolo diffonde veline, scopre giallisti straordinari, scrittori di noir che compongono capolavori, cantanti e cabarettisti che si dimostrano letterati sopraffini e veline da Striscia la notizia che incantano lettori con libri scritti da editor  unificatori di un linguaggio che tende al basso. Discettano su tale spinoso tema critici illustri come Elefante, La Porta, Marcheschi, Baudino, Zaccuri e Manica. Tutto condivisibile quel che viene fuori, soprattutto il fatto che una recensione positiva non fa vendere copie come un tempo, salvo sia accompagnata da un’operazione editoriale imponente tipo quella che alcuni anni fa lanciò Giorgio Faletti (pace all’anima sua) nell’Olimpo delle patrie lettere. Tutte cose che scrivo da anni, dal mio piccolo underground, che verifico ogni giorno da modesto editore e microscopico autore, spesso molto recensito ma in definitiva poco venduto. Il libro è merce, in un paese di non lettori la differenza la fa tutta il marketing, la campagna stampa promozionale, la potenza editoriale. Ottime la parte dedicata alle Scritture che ci permettono di apprezzare Luca Ricci e i suoi aforismi sull’arte del racconto, ma anche Addio Lenin di Sandra Petrignani e Storia di una coincidenza dell’ottimo Delbecchi. Completano il primo numero contributi di alto livello culturale curati da Sara Calderoni, Flavio Santi (presenta un buon poeta come Paolo Febbraro), Antonino Bondì e Tullio Pericoli (riproduzioni pittoriche e testi). Franz Krauspenhaar vale da solo il prezzo della rivista - un po’ cara, a dire il vero: 15 euro, ma tiratura e vendite non saranno da best-seller - con il suo stile da teatro dell’assurdo, a metà strada tra poesia e citazioni letterarie disseminate con arguzia in un testo narrativo che ricorda Borges e Gadda.

Il secondo numero del Maradagàl non è meno interessante. Tema dettato da Sara Calderoni: il crocevia dei linguaggi. Parte critica che tocca argomenti legati a scrittura, cinema, letteratura, serie televisive, persino Dante e Amleto. Contributi di Elefante, Ricordi, Bellardi, Fumagalli e Ceteroni. Scritture importanti, come sempre, da Roberto Barbolini che cita Montale e Thomas Mann, passando per Arbasino e Kaminsky, a Claudio Morandini, Piero Lotito (come si scrive una buona storia?) e Roberto Ferrucci (le storie accadono, mica si scrivono!). Contributi letterari sul teatro di Bontempelli, poesie di Anna Maria Carpi e il solito, straordinario, Krauspenhaar che continua un viaggio surreale incontrando Sepulveda in una terra che ricorda l’America Latina. Il Maradagàl vi aspetta. Erano anni che non leggevo una rivista letteraria dalla prima all’ultima pagina, senza saltare una riga. Per informazioni e abbonamenti scrivete a Marco Saya (info@marcosayaedizioni.com) o alla redazione ilmaradagal.redazione@gmail.com. Un numero 15 euro. Abbonamento a tre numeri euro 40. Quadrimestrale. Ne vale la pena!

 

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

Il Maradagàl, una rivista oltre le mode
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L’anima creativa del Brand Tentazioni: Cinzia Diddi.

22 Maggio 2018 , Scritto da Daniela Lombardi Con tag #moda, #televisione

  

 

 

 

 

Tempo di traguardi raggiunti, tempo di emozioni. Soddisfazione per un ulteriore tappa raggiunta e per uno nuovo percorso che comincia. Finalmente è stato inaugurato, dopo una lunga ristrutturazione, lo Store Tentazioni by Cinzia Diddi a Sarzana. Fatiche e impegno, cadute e successi, gioie e dolori. Tutto questo in un mese di lavoro.

Protagonista come sempre … solo e soltanto l' amore e la passione per il lavoro. Dedico a mio fratello questo successo per essere sempre stato presente in ogni momento e in ogni mia scelta” . “A tutte le stelle che nelle notti della mia vita illuminano il mio cammino” e alle mie stelle più belle, le mie migliori creazioni:  i miei figli Dante Elsen Luigi e Annalea Ludovica Italia.

Ai miei genitori dedico questo traguardo e tutte le restanti pagine della mia vita, perché, oltre a essere  delle guide costanti, hanno permesso la costruzione della mia identità, fornendomi gli strumenti necessari a orientarmi nel mondo e insegnandomi la curiosità di esplorarlo ogni giorno da più punti di vista possibili.

Ringrazio i miei due  ospiti  d' onore Carmen di Pietro, da me vestita al Grande Fratello Vip e Giucas Casella che ho seguito nello stile all' Isola dei famosi.

La loro bellezza d' animo ha arricchito virtuosamente la giornata.

Un grazie colmo di gratitudine al mio ufficio stampa nella persona di Daniela Lombardi, professionista straordinaria e persona eccelsa”.

 

Cinzia Diddi

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                          

 

Conosciamo con più cura questo Brand:

 

L’anima creativa del Brand: Cinzia Diddi.

Cinzia si occupa di curare l’immagine di molti personaggi importanti, quali industriali manager avvocati di prestigio e personaggi del mondo dello spettacolo.
Siamo negli anni 80, era bambina e si divertiva a giocare nel reparto sartoria dell’azienda paterna.
E’ iniziato tutto da quell’atelier, poi l’attitudine, la sensibilità cromatica, l’intuito, il senso delle proporzioni e la formazione teorica... hanno fatto il resto.
Durante la sua esperienza lavorativa e grazie al padre, importante uomo borghese, Cinzia rimane a stretto contatto con l’alta borghesia, affinando uno spiccato senso del gusto e dello stile, ereditato senza dubbio dalla madre.
La parte stilistica è un aspetto di un contesto più ampio.
Cinzia è consulente di immagine, cioè quella figura professionale che fornisce un servizio dedicato al miglioramento dell’aspetto attraverso il modo di vestirsi, di muoversi e di presentarsi. Si occupa di tutto quello che concerne la comunicazione non verbale: l’abbigliamento, il trucco, l’acconciatura e l’etichetta, e dell’armonizzazione di questi aspetti.
Il valore aggiunto? Cinzia crea personalmente gli abiti.
L’immagine è una cosa seria: lavorare sull’immagine non significa mascherare ma svelare le persone. 
Per dirla in termini matematici, la passione per la moda è una condizione necessaria ma non sufficiente.
Ovvio, deve esserci una naturale inclinazione verso certi temi, ma come per ogni mestiere è necessaria una preparazione professionale maturata soprattutto sul campo di battaglia, unica scuola veramente formativa.

 

 

La storia del Brand Tentazioni è   una storia familiare, che affonda le sue radici in un lontano passato.
Da decenni si occupa di abbigliamento e di stile, più precisamente questa è la terza generazione.
Fare abiti è ciò che il team Tentazioni vuole e desidera fare. Fa parte del corredo genetico, e la passione che lo anima mantiene vivo e rinnova il voler fare sempre meglio, proiettandolo in un contesto quotidiano, dove ogni situazione è uno spunto per creare, un’occasione per accontentare, un momento in cui lo spirito di ricerca alimenta la sete di trasmettere i valori importanti attraverso il lavoro.
Così facendo la casa di moda Tentazioni crea valore nobilitando lo scopo.
Provando grande felicità quando le creazioni contribuiscono, nel quotidiano, a celebrare chi le sta indossando.
E’ così da sempre.
E di generazione in generazione vengono tramandati questi valori.

La filosofia del brand Tentazioni:
Lavorare con l’immagine è una cosa seria.
Gli abiti non devono mascherare ma rivelare la personalità di chi li indossa, creando carisma e mistero.
Un look che parla di noi riesce a farci riconoscere, ricordare, e darci credibilità.

 

 

La stilista pratese CINZIA DIDDI veste il cantante pratese FRANCESCO GUASTI

 

            "Francesco  Guasti  ha  un indiscutibile pregio, quello di avere una delle voci più squisitamente graffianti che si siano mai sentire, un vero miracolo della natura,

grandissimo artista, ma anche e principalmente un amico.

 

E’ un orgoglio per me vestire un grande personaggio come Francesco Guasti,  anche lui come me di Prato.

 

Il look che ho scelto per lui rispecchia esattamente il suo modo di essere: grintoso con personalità e comfort, un look affascinante e versatile, evocativo di un determinato stile di vita e in grado di suscitare emozioni. Un life style moderno, elegante e graffiante con articoli pratici, dalle linee pulite ed essenziali.

 

Pensato per un uomo che non segue le mode, ma che ha il carisma di dettarle.

 

I capi sono pratici, facilmente sovrapponibili e intercambiabili, caratterizzati da un’alta qualità dei materiali ed in grado di garantire comfort e morbidezza.

 

La sintesi perfetta tra comfort, eleganza contemporanea e brio da indossare indistintamente sia di giorno che di sera, per uno stile grintoso ma ricercato che non passa inosservato."

 

                                                                                                                                                                                             Cinzia Diddi

 

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