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come eravamo

AA.VV A cura di Alberto Figliolia, "Tifosi interisti per sempre"

12 Novembre 2022 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #sport, #come eravamo

 

 

 

 

AA.VV – a cura di Alberto Figliolia
Tifosi interisti per sempre

Il grande racconto della passione nerazzurra
Edizioni della Sera, 2022 - Euro 14- pag. 160

www.edizionidellasera.com

 

Alberto Figliolia raduna attorno a sé un gruppo di scrittori innamorati della grande Inter, praticamente due squadre al completo, ben 22 autori, oltre lui stesso nelle vesti di allenatore - giocatore. Tra gli autori dei racconti citiamo Claudio Agostini, Federico Zanda, Giovanni Marrucci, Nicola Colombo, Lorenzo Meyer, Francesco Rota, Giulio Ervino, Albert Borsalino e un grande prefatore come il centravanti Renato Cappellini. Luigi Garlando scrive: “È dallo stile, dall’eleganza del cuore che si riconoscono gli interisti. Noi interisti siamo artisti pazzi, nati sotto la luna piena di marzo, ma il nostro cuore è una spugna immersa nel coraggio”. Come posso non dargli ragione? Sono interista da un lontano giorno del 1966 quando mio padre era in poltrona e bestemmiava per colpa d’un dentista che eliminava l’Italia dai mondiali d’Inghilterra. Sono interista dai tempi del mago Helenio Herrera che vinceva campionati e coppe, al cinema gli facevano la parodia sia Franco Franchi che Alberto Sordi, ma in campo non ce n’era per nessuno, altro che Mouriño! Sono interista da quando scalpitavo sin dal venerdì sera per andare la domenica con mio padre, pronto prima dell’alba in attesa del treno, a Firenze o a Roma per veder giocare Mazzola, Suarez, Jair e Vieri. Sono interista da sempre, anche se perdiamo con il Bologna per colpa d’un portiere che non raccoglie un passaggio, anche se non vinciamo campionati per anni, insomma, non sono juventino, il nerazzurro è una fede. Pure la squadra della mia città (Atletico Piombino) indossa identica maglia e fa parte - proprio come l’Internazionale di Milano - dei miei amori inossidabili. Il libro è una raccolta di racconti, l’impostazione è sentimentale, si viaggia sulle ali del ricordo, con un pensiero unico espresso a più voci, guidate da un direttore d’orchestra come Alberto Figliolia, che lega i ricordi con il filo sottile della nostalgia. Renato Cappellini firma l’introduzione, la sua figurina Panini è una mia personale madeleine, me lo ricordo con la maglia della Roma, del Varese, persino del Como e della Fiorentina, ero un bimbo quando segnò un gol al Real Madrid, vestito di nerazzurro, in Coppa dei Campioni. Alberto Figliolia lo conosco come esperto di calcio e di basket, critico letterario, giornalista sportivo, persino poeta (ottime le sue liriche nel mondo dello sport), ma in questo lavoro è anche ottimo selezionatore di talenti. I racconti ci portano a spasso nel tempo, fanno conoscere stagioni diverse della nostra Inter, ci ricordano che ha vestito la gloriosa maglia anche Vastola, non solo Meazza, Skoglund, Facchetti, Sarti, Burgnich, Lorenzi … Tifosi interisti per sempre è un libro che non può mancare nella biblioteca del tifoso nerazzurro, bello sin dalla copertina a colori che raffigura Spillo Altobelli, palla al piede, pubblico in dissolvenza, il centravanti che mi porta indietro nel tempo alla riscoperta della giovinezza.

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Aldo Dalla Vecchia, "Trionfo d'amore"

25 Giugno 2021 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #come eravamo

 

 

 

 

Trionfo d’amore

Aldo Dalla Vecchia

 

Graphe.it Edizioni, 2021

pp 83

8,00

 

Aldo Dalla Vecchia ha avuto la bontà di citarmi in Trionfo d’amore, piccolo e delizioso saggio sul fotoromanzo, un collage di riferimenti che concorrono a formare la storia e l’anima di una categoria popolare in auge dagli anni sessanta ai novanta, che raggiunse il suo apice nei settanta. Intrattenimento, specchio di un’epoca, fatto di costume, i fotoromanzi ebbero origine in Italia – come il melodramma – e da qui si diffusero in tutto il mondo.

Gli anni settanta hanno visto il fiorire della casa Lancio e del suo parco di attori, i più importanti rimasti nel cuore di una generazione. Katiuscia, Michela Roc, Paola Pitti, Claudia Rivelli, Franco Dani e lo sfortunato Franco Gasparri sono alcuni dei belli “e possibili” di un decennio di splendore. Avvenenti, divi allo stato puro, ma, insieme, ragazzi della porta accanto – la popolarità di Katiuscia o di Franco Gasparri è stata maggiore di quella delle star del cinema. A questo ha contribuito la grande intuizione della casa Lancio, decisa a discostarsi dalle rivali Grand Hotel e Bolero, quella di cercare nuovi volti, freschi e moderni, e trarne dei divi capaci di far impazzire e sognare la gente.

I fotoromanzi circolavano ovunque e se ne vendevano milioni di copie. Venivano prestati e passavano di mano in mano e di generazione in generazione, dalle nonne alle ragazzine delle scuole medie. Raccontavano storie di sentimenti forti e contrastati, di scelte difficili, di tradimenti, con l’inevitabile lieto fine, dove il bene, la purezza di cuore e la gentilezza erano premiate, mentre l’opportunismo, l’avidità e l’arrivismo erano puniti.

Specchio del costume, oggi sono stati soppiantati dal romance – la cultura pop rosa è più in voga che mai e le case editrici che la declinano in tutte le salse, dallo storico all’erotico al paranormal, si moltiplicano a dismisura, – e dalle app per cellulare con storie romantiche interattive come quelle firmate da Claire Zamora.

Dalla Vecchia ci ricorda che nel 2020 – anno terribile della pandemia – forse per il bisogno che tutti abbiamo di evasione e consolazione, è tornato in edicola l’albo Sogno, fuoriserie degli anni settanta, insieme a Kolossal.

Il saggio analizza tutto l’excursus del fenomeno, dalle origini, risalenti al dopoguerra, al periodo d’oro degli anni sessanta, settanta e ottanta, per giungere alla decadenza sul finire del nuovo millennio e, quindi, all’audace riproposta nel 2020. Evidenzia anche i rapporti del genere con la cultura alta - i primi fotoromanzi sceneggiavano opere letterarie famose - con il cinema, con la politica, con il sociale, con il sesso, con la religione e persino con la moda.

In barba a chi ha sempre considerato disprezzabili certi contenuti, i fotoromanzi erano confezionati con cura e dispendio di mezzi, con passione e intelligenza. Catturavano e ammaliavano anche chi non lo avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura.

Aldo Dalla Vecchia è fra i cultori dichiarati del genere, si sente l’attenzione dello studioso, del giornalista e del saggista, ma anche tutto l’entusiasmo per la materia.

 

“Grazie a quei volti, a quelle foto, a quelle storie, anch’io, come un’infinità di altre italiane e italiani, sognavo e sorridevo, mi immedesimavo e mi commuovevo.” (pg 10)     

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Paul e Virginie

19 Agosto 2020 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo, #televisione

Paul e Virginie

 

Nel 1974 avevo tredici anni. Romantica, sognatrice e appassionata com’ero, m’innamorai dello sceneggiato Paul e Virginie, in onda di pomeriggio sulla Rai, tratto dal romanzo di Bernardine de Saint Pierre del 1788.

Un Laguna blu ante litteram. Infatti, il romanzo di Henry de Vere Stacpole – da cui è stato tratto il famoso e “scandaloso” film con Brooke Shields del 1980, - è stato scritto successivamente, nel 1908.

Niente bambini nudi, qui, niente corpi che nuotano in libertà, niente accusa di pedopornografia, Paul e Virginie  veniva trasmesso durante la tivù dei ragazzi.

In una esotica colonia francese sbarcano due donne esiliate, una nobile e una plebea, con due figli, una bambina d’alto lignaggio e un maschietto plebeo, che crescono insieme. Va da sé che s’innamorano l’una dell’altro. Va da sé che il destino vuole separarli. Ma, quando lei sta per tornare da lui, una tempesta fa naufragare la sua nave e la giovane annega.

Ricordo, dopo l'ultima puntata, di aver singhiozzato per ore, di essere andata a letto orfana della storia che adoravo - avventurosa, patetica, esotica - soprattutto, straziata per l’amore tragico dei due protagonisti interrotto da un così  fatale e crudele destino.

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Patrizia Poli, "Come eravamo, piccolo manuale della nostalgia"

27 Maggio 2020 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #come eravamo

 

 

 

Quello che facciamo da bambini, sia esso frutto di una nostra libera scelta oppure delle imposizioni familiari, plasma ciò che diventeremo e ci piacerà fare da grandi.

Ogni attimo della nostra breve vita, ogni novità, ogni conquista sembrano così recenti, così nuovi di zecca e significativi da divenire immutabili, invece tutto cambia, basta guardare le foto di qualche anno fa, le piccole cose sgualcite che profumano di ricordi, basta voltarsi indietro per rendersene conto. E la vita diventa una strada buia che va verso il nulla.

 

Non è la prima volta che un libro nasce da questo blog. E' già accaduto con La scommessa dell'arte di Walter Fest, tratto dagli articoli dedicati a pittori e artisti.

Personalmente in questi anni ho scritto e pubblicato tanti pezzi sul passato, su com'eravamo noi "ragazzi" degli anni sessanta e settanta. I libri che leggevamo, i programmi che guardavamo in televisione, i giochi, le pubblicità. Ma anche le feste di Natale, con l'albero vero che spandeva il suo profumo di bosco per casa, il modo di trascorrere certe estati infinite e sonnolente.

Bene, ho pensato di raccogliere in un volume autopubbicato su ilmilibro.it - dove ho ancora in vetrina Il respiro del fiume, Bianca come la neve e Quand'ero scemo - tutti questi articoli in una operazione nostalgia dolce-amara.

La raccolta si intitola Com'eravamo, piccolo manuale della nostalgia.

 

Ecco la recensione del primo lettore:   

 

"Un libro colmo di nostalgia del passato. I ricordi rivivono con realismo e l’autrice ha la capacità di farli apparire molto recenti. Certo i cambiamenti nel tempo sono stati tanti e ciò è evidente quando ci accingiamo a fare un confronto tra ieri ed oggi. Il lontano 1966 era l’anno in cui uscivano le prime fiabe sonore, ma allora erano diffusi anche i fotoromanzi della casa Lancio, che raggiunsero il massimo splendore negli anni ’70 ed erano espressione della narrativa popolare.

Grande successo ebbe il Manuale delle giovani marmotte edito nel’69 , un libro dalla “informazione spicciola”. In quegli anni al cinema si seguiva il filone western, mentre in TV molto popolare era Carosello con Calimero, Gringo… uno spazio televisivo dedicato alla pubblicità. In quel periodo poi il francese come lingua straniera “contendeva il primato all’inglese”. Iniziarono le trasmissioni della TV dei ragazzi nelle ore pomeridiane, mentre Alberto Manzi alfabetizzava tanti italiani.

Nel ’78 i cinema erano affollati quando si proiettava Greese con John Travolta. Nel frattempo la Pongo e il Das davano ai piccoli l’opportunità di esprimersi creativamente, oppure nelle strade si ascoltava il rumore delle palline clik-clak, indizio di un gioco diffuso tra i ragazzi. La sera in TV si seguivano vari sceneggiati prodotti da grandi registi, mentre gli spot pubblicitari diventavano sempre più numerosi. Famoso era quello della Cynar, contro il logorio della vita moderna. Ma anche la comicità imperversava. Segue i boom economico, si diffonde una cultura veloce per tutti e… tanto altro…

Il libro è davvero uno spaccato della vita che si conduceva nel passato, descritta mirabilmente dall’autrice"

Angelo Pulpito

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I sopravvissuti

8 Marzo 2020 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo, #televisione, #il mondo intorno a noi

 

Correva l’anno 1979 e uno sceneggiato - o meglio serie televisiva, come si chiamano quelle che oggi imperversano sulla tv on demand – ci catturò e spaventò tutti. Si tratta de I sopravvissuti, serial fantascientifico d’inquietante e strabiliante attualità. Un virus, sfuggito a un laboratorio cinese, infetta il mondo. Sono in pochi a sopravvivere, lottando per non soccombere in uno scenario post apocalittico, caotico e imbarbarito.

Eh sì, anche adesso par di stare in un film. Mascherine, assalti ai supermercati, fughe di massa dalle zone interdette, orribili immagini di pazienti “pronati” in sale di rianimazione sovraffollate e da incubo.

Ma fino a che non toccherà a qualcuno che conosciamo - non uno della tv, non il capo del partito democratico Zingaretti o un uomo della scorta di Salvini, e nemmeno il salumiere o il tabaccaio del nostro quartiere - ma proprio uno che conosciamo bene, un amico o un familiare, fino ad allora continueremo a pensare che sia tutta una grande esagerazione mediatica, qualcosa che non ci riguarda. Invece è una pandemia bella e buona, di quelle che non si vedevano da un secolo, e con le quali, ahimè, dovremo fare i conti sempre più spesso.

Quando una specie si fa troppo aggressiva e invadente, quando contamina, riscalda e distrugge il paese che la ospita, sbucano fuori i virus nascosti che, ne sono certa, sono gli anticorpi della terra. La terra si difende, elimina una parte degli invasori, la parte più debole e inutile: i vecchi, i malati, gli immunodepressi.

Eppure io penso che non tutto il male viene per nuocere. Diciamo che, per esperienza personale, ormai ne ho fatto il mio motto. Possiamo sempre trovare nelle difficoltà delle opportunità. Intanto stiamo rivalutando la vita normale, tutto quello che facevamo fino a quindici giorni fa, e ci sembrava pure noioso: uscire da casa, abbracciare un bambino, programmare un viaggio, cenare in un ristorante, fare due passi. Già questo ti fa capire che prima eri felice anche se non te ne rendevi conto, che avevi qualcosa a cui adesso vorresti tornare, che eri libero senza saperlo.

Rivalutiamo ciò che facevamo e, tuttavia,  dobbiamo sapercene consapevolmente astenere. Non è necessario fare l’apericena, no, non lo è per niente. Fino a venti anni fa non sapevamo neppure cosa fosse. E, se torniamo indietro di quaranta anni, il sabato sera cenavamo tutti in famiglia. Non è necessario nemmeno per il proprietario del locale perché, se lui morirà, o se noi moriremo, la sua attività non servirà proprio più a niente.

Dobbiamo avere rispetto, senso civico, prudenza e saper attendere con pazienza. Astenerci dal giudicare ciò che non conosciamo e non abbiamo ancora vissuto.

Restate in casa, leggete un libro, guardate un film divertente o istruttivo, recuperate la lentezza, riscoprite i  rapporti con i familiari e i social come mezzi d’informazione e di comunicazione e non come recipienti d’odio.

Fatelo senza prospettive, senza scadenze, perché non sappiamo quanto durerà, né se e come finirà.

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La baronessa di Carini

23 Gennaio 2020 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo, #televisione

 

Quella mano insanguinata sul muro resterà nella storia della televisione. E gli occhi come fanali azzurri di Ugo Pagliai, che avevamo già amato ne Il segno del comando.

Uno sceneggiato del 1975, L’amaro caso della baronessa di Carini, per la regia di Daniele D’Anza, che è stato una pietra miliare della fiction televisiva. La trama è ispirata a una ballata popolare siciliana, che narra di un delitto realmente avvenuto nel '500 a Carini: la baronessa di Carini, donna Laura Lanza, moglie di don Vincenzo La Grua – Talamanca, fu uccisa dal padre don Cesare Lanza, ma la storia si svolge nell’ottocento, tre secoli dopo il fattaccio. Coprotagonista, insieme a Pagliai, la bella Janet Agren.

Mistero, presagi di morte, eros e thanatos fusi insieme, ecco tutti gli ingredienti per un polpettone romantico che aveva molto del feuilleton e che ebbe grande successo all’epoca.

Memorabile la sigla d’inizio, la struggente ballata sceneggiata da Gigi Proietti e Romolo Grano: la sfortunata baronessa si accascia sul suo amante, lasciando una striscia di sangue sul muro con la mano. Avevo quattordici anni, ero romantica e innamorata dell’amore, proprio come adesso mi piacevano le grandi storie in costume d’avventura e sentimento. Ricordo che mi divertivo a impersonare la baronessa, strisciando teatralmente la mano sul muro del pianerottolo di casa e fingendo di stramazzare. Per fortuna nessun vicino ha mai aperto  la porta in quel momento.

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Natale in giro per l'Italia: Livorno

19 Dicembre 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo, #unasettimanamagica, #postaunpresepe

 

 

 

 

Mi viene da pensare a cos’era il Natale negli anni sessanta. Non quello di tutti, il mio.

Vivevo in una famiglia nucleare: padre, madre, io. Mio fratello non era ancora stato progettato. Una città di provincia della Toscana, un appartamento in un quartiere popolare, arredato in modo funzionale e moderno, ché noi eravamo una famiglia al passo coi tempi. Mia madre lavorava, guidava la Bianchina e faceva la spesa alla Smec, il primo supermercato che abbia messo piede in centro. Vivevamo il boom economico con speranza, fieri del progresso che avrebbe portato solo civiltà, orgogliosi del frigorifero, del tostapane, del frullatore, dell’acqua gassata con le presine dell’Idrolitina, del vino in bottiglia sulla tavola.

A quei tempi, l’albero non si faceva a novembre, non si faceva l’otto dicembre, non si faceva neanche il quindici, si faceva il ventidue o ventitré dicembre. E sapete perché? Perché allora il tempo era ancora il tempo. Un mese era un mese, lungo, infinito. Tutto si concentrava nella settimana di Natale, la settimana più magica dell’anno.

Non c’erano le sciroccate e le zanzare, andavamo a scuola col berretto di lana e le ginocchia intirizzite. L’albero era vero, perdeva gli aghi per terra, profumava di bosco la casa. E l’odore del pino si mescolava al cherosene della stufa che, dal corridoio, doveva riscaldare tutto l’appartamento. Le palle erano di vetro, ne compravamo una ogni anno, nuova e preziosa, le luci non erano led cinesi ma pupazzi di neve, casine, fantastici trenini che s’illuminavano da dentro. Non mancavano mai, appesi ai rami, figurine di cioccolata e un sacchetto di monete da mangiare.

Ho dei flash, di me e mamma che addobbiamo l’albero in salotto, è giovedì sera, la televisione è accesa su Rischiatutto. Mamma ha portato delle scatole piene di fili argentati e, per la prima volta, abbiamo decorato insieme tutta la casa, attaccandoli alle porte, agli specchi. Dal lampadario penzola una composizione di nastri e palle che ha fatto lei, con le sue mani, come le ha spiegato una collega di ufficio.

Al piano di sotto abitavano mia nonna (vedova) e la mia prozia (zitella). Loro andavano a messa e preparavano il presepe, in un angolo della sala. Un cimelio di famiglia, lo aveva costruito il bisnonno Fortunato nell’ottocento, ricavandolo da un caldano, mettendo da parte stagnola, sughero, pezzi di legno. Era bellissimo, aveva tutto: il pozzo, la fontana, la mangiatoia, la lanterna, persino la chiesa con le campane che suonavano la nascita del bambino che poi l’avrebbe fondata. Ricordo l’odore di muschio secco, la folla dei pastori stretti uno di fianco all’altro, dipinti a mano, qualcuno un po’ sbreccato, scolorito. Ricordo le stelle di latta, il filo argentato con le lucine. Capitava che la zia ricomprasse un filo nuovo, a volte, cambiasse lo scotch, ma la roba era quella, conservata in una scatola da scarpe terrosa; roba povera, a pensarci, ma io la trovavo meravigliosa.

E quando nonna m’insegnava a cantare Tu scendi dalle stelle, mi sembrava di essere lì anch’io, mentre Gesù nasceva nella grotta “al freddo e al gelo”, il bue e l’asinello lo riscaldavano col loro fiato e la cometa splendeva in cielo. Credevo a tutto, era tutto vero, il Bambino Divino, Babbo Natale che attraversava la notte per lasciare i regali sotto l’albero.

A scuola si festeggiavano solo gli ultimi giorni, proprio a ridosso delle vacanze, allestendo piccoli presepi e alberelli addobbati con qualcosa portato da casa. Ricordo un anno che la maestra regalò a tutti una palla dorata e luccicante da appendere all’albero, la aprivi e dentro c’era un piccolo pensiero per ognuno di noi, a me toccò un anellino rosa. E scrivevamo letterine di Natale, non tanto per chiedere regali, quanto per domandare perdono ai nostri genitori delle marachelle, per promettere di essere più buoni, per dire “babbo, mamma, vi voglio bene”, parole che il pudore dell’epoca non ci permetteva di esprimere in giorni meno speciali.

La via principale della città era rallegrata dalla “luminara” ma io, anche oggi che sono vecchia, trovo più affascinanti gli addobbi dei negozi di quartiere, quelli poveri - le lucine che si rincorrono sulla porta della tabaccheria, le palle colorate poggiate sui ripiani polverosi della mesticheria - li preferisco ai grandi apparati dei centri commerciali. Amo il Natale della gente normale: il foglio di carta roccia, il rotolo di cielo stellato, il pungitopo e la borraccina raccolti in campagna.

Da noi, in Toscana, la vigilia non si festeggiava, era un giorno qualsiasi, i negozi chiudevano tardi la sera, non come adesso che alle quattordici è già tutto morto e la gente va a prepararsi per il cenone, quasi fosse l’ultimo dell’anno. Era un giorno di attesa, di trepidazione, di festa vissuta dentro. Si mangiava normale, poco per non appesantirci in vista del venticinque, si apparecchiava in cucina come sempre. In tv non mancava mai qualcosa di bello, un cartone incantato, un film fiabesco; andavo a letto col cuore in gola, con un po’ di paura, chiedendomi cosa sarebbe successo se, per caso, avessi scorto Babbo Natale. “Perché”, mi spiegavano i miei genitori, “quelli che vedi in giro, non sono veri Babbo Natale, sono solo travestimenti per far festa, Lui, l’originale, è misterioso e lontano, non lo si può vedere e passa solo se siamo stati buoni.” Il regalo, insomma, te lo dovevi meritare, non lo trovavi scontato all’Ipercoop. L’uomo barbuto vestito di rosso non faceva “ohohoh” all’americana, non viveva al polo nord con una renna di nome Blizzard, ma era, piuttosto, un’entità un po’ inquietante.

La mattina di Natale, anzi di “Ceppo”, come dicevano i vecchi, si faceva colazione col caffellatte e, ancora in pigiama, si aprivano i regali. C’era tanta roba da farmi sgranare gli occhi. Bambole, “ciottolini”, libri, matite. C’era un cesto rosso con un biglietto scritto di pugno da Babbo Natale in persona: “Perché tu sia più ordinata”, c’era un mangiadischi che, bastava schiacciarlo col dito, e potevi sentire le fiabe sonore, c’era il quarantacinque giri di Un cuore matto - ero follemente innamorata di Little Tony - e anche la Pappa col pomodoro con Rita Pavone nei panni di Gianburrasca.

A pranzo venivano su anche nonna e zia, mangiavamo i tortellini in brodo, il cappone lesso con le radici di Genova, il panettone di Milano che costava un mucchio di soldi - non come ora che ne trovi tre al prezzo di due - il panforte, i ricciarelli, i cavallucci, il torrone. Ma anche frutta secca, datteri della Tunisia con la ballerina in bilico sulle punte, zibibbo, fichi secchi aperti a panino e farciti di noci e noccioline.

Di pomeriggio nonna e zia tornavano giù, a casa loro, a riposarsi, mentre noi guardavamo i programmi televisivi, film, cartoni animati, commedie di teatro e, intanto, io giocavo con tutto quel ben di Dio che Babbo Natale mi aveva portato; si vede che, nonostante i dubbi, i timori e i sensi colpa, alla fine ero stata davvero buona. E, naturalmente, divoravo i libri nuovi. A santo Stefano, quando era invitata l’altra nonna, quella paterna, li avevo già finiti.

Non c’è nulla di speciale in questi miei ricordi, nessun messaggio, niente che caratterizzi una generazione. Posso solo dire che i bambini si nutrono di pensiero magico e chi glielo sottrae compie un crimine, li priva della fantasia, del desiderio, delle cose che noi adulti rimpiangeremo tutta la vita e non avremo mai più, per quanti sforzi facciamo.

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Aldo Dalla Vecchia, "Generazione Five"

23 Novembre 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #come eravamo, #televisione

 

 

 

 

Generazione Five

Aldo Dalla Vecchia

 

Pegasus Edition, 2018

13,00

 

Aldo Dalla Vecchia ci ha abituato al niente che diventa tutto. Un libricino senza neanche la numerazione delle pagine, fatto d’immagini, o meglio, di figurine firmate Gaspare Capizzi, che hanno tutta l’ingenuità di reminiscenze infantili. Vi ricordate quando giocavamo a “celocelo manca”? Ecco, Aldo, autore televisivo che ha conosciuto tutti i maggiori personaggi del piccolo schermo, innamorato della tv commerciale, gioca con noi mettendo sul piatto la nostalgia.

Ogni pagina un disegno caricaturale, ma non troppo, di un noto personaggio. Accanto una didascalia di mezza pagina dove, col consueto garbo, viene spiegato chi è la persona, che cosa ha fatto e perché è diventata famosa. Niente più di una specie di articolo di Wikipedia, direte voi. Invece, non so come né perché, la solita magia di Aldo fa sì che quei tempi ormai lontani, pionieristici e avventurosi, che videro la nascita della tv moderna, tornino a farci compagnia.

Quaranta icone pop per quaranta anni di televisione. Riecco gli ottanta e novanta, i lustrini e le battute assurde del drive in, trasmissione cult,  le ragazze scollacciate ma non volgari, i pupazzi come il Gabibbo o Five, le pietre miliari della televisione come Corrado, Mike Bongiorno o Lorella Cuccarini. Personaggi amati e mai dimenticati. Con pochi tocchi viene ricostruito un mondo, ora che la tivù come l’abbiamo conosciuta sta per scomparire.

Aldo dichiara di non amare la televisione ingessata dei canali Rai, quella in bianco e nero che definisce “antica e noiosa” – quella alla quale la sottoscritta è, invece, follemente attaccata – ma finisce per farla rivivere in personaggi come Loretta Goggi, stella di un grande sceneggiato, La freccia nera. Lui adora la tv commerciale, scanzonata e disinibita, colorata e frivola, moderna e allegra.

E il rimpianto esplode prepotente quando si ricordano persone che non ci sono più, come Sandra e Raimondo, la loro grazia, il loro humour delicato, il loro imperituro tormentone “che barba che noia”.

Quanto ci manca tutto questo, quanta delicatezza, ironia e grazia ormai perdute, quanto vorremmo chiudere gli occhi e fare un balzo indietro nel tempo. Operazione che con Aldo è sempre pienamente riuscita.

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Aldo Dalla Vecchia, "Abracadabra lo spettacolo continua"

8 Novembre 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #televisione, #come eravamo

 

 

 

 

 

Abracadabra

lo spettacolo continua

Aldo Dalla Vecchia

 

Pegasus Edition, 2019

pp 135

12,00

 

Aldo Dalla Vecchia ci ha abituato al suo stile garbato, a queste interviste che racchiudono tutto un mondo in pochi tratti, anche quando colloquia con personaggi sopra le righe, inconsueti.

Proseguono qui le interviste del primo Abracadabra (2017), basate sul mistero e sul soprannaturale ma, a mio avviso, soprattutto spunti per entrare nei microcosmi privati di personaggi più o meno conosciuti, appartenenti a un pianeta televisivo presente ma soprattutto passato, piccolo schermo un tempo trasgressivo ma ormai quasi casto e perbene se confrontato col trash posteriore.

Aldo, autore televisivo e giornalista, torna a interrogare personaggi famosi, ventidue per la precisione. Lo fa per la rivista Mistero, ponendo domande sul trascendentale e l'angelico, sul rapporto con la divinità, sulla credenza negli extraterrestri, sulla superstizione che, nel mondo dello spettacolo, è più viva che mai.

Ancora una volta entra in punta di piedi nelle vite e nelle anime di personalità carismatiche,  - a volte poco amabili e poco oneste come Wanna Marchi, altre volte colte e preparate come Pippo Franco o Iva Zanicchi - dimostrando nei loro confronti vivo interesse ma mantenendo anche una posizione distaccata. Si comporta come l’entomologo che osserva la sua collezione dall’alto ma con occhio curioso, partecipe, metodico e allo stesso tempo appassionato.

L’autore fa parte di questo mondo da sempre, è coinvolto e attratto dai suoi lustrini, dal suo abbagliante riverbero, però è anche l’uomo sensibile ed erudito che la sera torna a casa e chiude la porta, per riflettere in silenzio con un libro fra le mani. È quello che, col passare degli anni, sente sempre più acuto il pungolo della nostalgia, per tutto ciò che era, per la televisione degli anni che furono, per quella luce e quell’allure che, forse, adesso, con l’insorgere del web, della tv on demand, si sta affievolendo sempre più, nonostante tentativi di ibridazione come il recente Viva Rai play. Era una tv, quella, come ci racconta Iva Zanicchi, che “entrava” (nel bene e nel male) “nel cuore della gente.”

Lo stesso fa Aldo con i suoi libricini sempre azzeccati, sempre coinvolgenti e teneri.

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Ciribiribì Kodak

18 Ottobre 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo, #televisione

 

I giovani d’oggi non possono capire l’emozione che provavamo noi quando, al ritorno dalle ferie, magari quindici giorni dopo se avevi avuto da fare, finalmente ritiravi la busta che conteneva le fotografie delle vacanze. E balzavi magicamente indietro, ai luoghi e agli istanti che ti eri lasciato alle spalle.

Tiravi fuori ventiquattro stampe se eri in ristrettezze, o trentasei quando volevi abbondare e la meta del viaggio meritava. Certo non sprecavi gli scatti per farti selfie idioti o per immortalare la brioche del bar o il piatto di spaghetti del ristorante. Ogni fotogramma era una scoperta e fissava per sempre un momento irripetibile.

Negli anni settanta, ricordo, venne di moda la Polaroid, che stampava immediatamente ciò che avevi fotografato su pellicole auto sviluppanti. Ci sentivamo moderni a possederla.

Mio padre era uno che amava stare al passo con i tempi e con le novità. A un certo punto in casa comparve un piccolo visore, il View- Master. Ci mettevi dentro degli strani dischetti doppi e le foto apparivano tridimensionali.

E la pellicola su cui stampare era sempre Kodak.

Fino agli anni novanta è girato uno spot con un simpatico alieno dotato di telecinesi che faceva foto ricordo e le voleva impresse rigorosamente su carta Kodak, parlando una lingua tutta sua.

Ciribirbì Kodak, diceva.

Era interpretato da Davide Marotta, attore napoletano affetto da nanismo, famoso per aver lavorato con Fellini e Dario Argento.

Erano anni in cui la fantascienza ancora tirava e gli spot erano girati con lo stesso piglio di film leggendari come Atto di forza (di Paul Verhoeven), senza tanti effetti speciali ma ugualmente evocativi. Bastava una valigetta, lo schermo di un computer, qualche modellino di astronave e sognavi a più non posso.

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