Ubaldo De Robertis, "L'epigono di Magellano"
L’epigono di Magellano è un gran libro. Iniziamo dal linguaggio: pieno d’ironia, brillante, inaspettato e compresso, a tratti anche fiabesco. Lo stile di Ubaldo De Robertis convince subito e serve da esempio ai tanti scrittori che oggi cercano di farsi strada nell’affollato mondo della narrativa contemporanea, ma serve anche da elisir di piacere per i lettori che hanno dimenticato che oggi si può leggere qualcosa di diverso. L’autore è un poeta, e si vede nelle descrizioni, nei dialoghi, nelle situazioni che narra: “Lassù, oltre il crinale di ulivi, l’assalto di rovi e cespugli. Le ombre penetrano il bosco, divorano i colori; rimane l’odore del muschio asservito alle rocce, ai tronchi più vecchi e cadenti…”. Questa qualità è mantenuta in tutte le pagine e l’opera vanta un ritmo fortemente lirico e musicale. Anche nelle situazioni comiche, che non sono poche.
L’originalità, tratto principale di quest’opera, sta nel partire da una trama apparentemente insignificante, trasformando ogni minimo evento in una fonte di arricchimento sia lirico che di pensiero. La trama, comunque, a un certo punto esplode e si dipana come un filo di Arianna in un labirinto, guidando il lettore verso la soluzione della stessa, che ci mette in pace con quella parte di noi che borbotta, sbuffa, tentenna e brontola sempre. In pace, direi, temporanea, perché quella parte rimane pur sempre un nodo irrisolto di un uomo che si vuole irrisolto per essere in qualche modo felicemente in pace con se stesso. Quindi essere in pace non porta la pace, semmai soffoca il brontolio, che alla fine ci piace e ci permette di identificarci nel personaggio che ci fa da specchio.
La narrazione è in prima persona. Il protagonista, Mike, un ricercatore di fisica che si vuole scrittore, ha un gattone, Magellano, che osserva il mondo dai suoi vispi occhietti, diventando alter ego del protagonista, riuscendo là dove Mike fallisce, essendo migliore degli uomini in generale. Comparte il loro spazio vitale Camilla, la correttrice di bozze, che odia il gatto e che ha sempre una battuta acida pronta per partire come un fendente verso il suo datore di manoscritti nonché padron di casa. Le donne del romanzo, oltre Camilla, sono Margherita, amante dello scrittore, e Ottavia, donna di mezza età esperta di astrologia. Altro personaggio chiave è Marco, farmacista e amico per la pelle, ed è proprio con lui che si verificano le situazioni più esilaranti. La trama ha un punto di svolta quando muore Magellano, il gatto tricolore, grasso e saccente, e Mike, vedendosi costretto ad affrontare la vita da solo, rimette a posto i tasselli del suo rompicapo, grazie alla grandezza e alla saggezza delle sue amiche, donne, meravigliose donne che hanno una marcia in più, e che per dimostrarlo non hanno bisogno di superpoteri, ma di gesti minimi, di parole, di dignità.
Aleggia in tutto il libro Bulgakov, con il suo Il maestro e Margherita, che riesce a riportare il lettore verso veri riferimenti letterari, non certo sceneggiati di prima serata della TV. Troppi libri, infatti, oggi ricalcano ritmi e stilemi da sceneggiatura, come se la nostra letteratura, invece di essere guida, fosse trainata costantemente dalle tendenze della moda. L’autore dimostra che per fare un buon libro, oggi, non è necessario emulare linguaggi cinematografici, e grazie al suo stile e alla sua capacità descrittiva dell’animo umano, propone un romanzo di grandissimo pregio, partendo da spunti di vita quotidiana e restituendoli con cipiglio narrativo, preda di descrizioni poetiche, trasformandoli in grandi cose. Si sa, del resto, le grandi cose, quando le fai, non sai cosa sono, e cominciano piccole.
Claudio Fiorentini
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Alberghi e libri, una bella iniziativa!
"Chi ha avuto il piacere di vivere una vacanza in "amichevole" compagnia di un buon libro, conosce la meravigliosa magia della perdita di confini tra l'esperienza vissuta in prima persona e quella immaginata grazie alla lettura. Ricordare una vacanza, in questi casi, vuol dire automaticamente riportare la mente al libro che le ha dato un'anima. In effetti, una lettura affascinante e sapiente ci rende più sensibili, riflessivi e disponibili ad assaporare fino in fondo ogni dettaglio della nostra permanenza fuori casa: il viaggio, in questo modo, diventa anche un viaggio interiore...
L'Associazione Alberghi del Libro d'Oro, nel tempo più conosciuta come Golden Book Hotels, ha superato ormai i 20 anni di storia: nacque nel gennaio 1991, con l'intento di riunire strutture turistiche di qualità attorno alla semplice idea di offrire in dono agli ospiti la lettura di un libro, per lo più composto di brevi racconti di autori classici, di vario genere e nazionalità, tradotto in più lingue, soprattutto personalizzato in copertina per ogni struttura: oggetto personalissimo da conservare e collezionare.
Da subito, si sono aggregati spontaneamente al progetto vari alberghi di tutta la penisola. Il secondo decennio di vita dell'Associazione ha visto poi un costante sviluppo di iniziative di consolidamento dell'immagine, della promozione e della comunicazione del gruppo, sempre nello spirito di un'offerta turistica "differente", dove la cultura continua a svolgere il ruolo primario.
Nel tempo, anche l'offerta di lettura si è evoluta: cinque anni fa abbiamo cominciato a personalizzare pure i contenuti dei libri, stabilendo un nuovo ed originale rapporto di collaborazione con i migliori autori emersi proprio dai concorsi letterari che annualmente bandiamo, ai quali abbiamo proposto di scrivere racconti realmente tailor made, chiedendo di ambientarli direttamente in albergo, posto dunque strategicamente quale protagonista o scenario della vicenda narrata.
È poi storia recente il passaggio alla produzione non solo "cartacea", ma anche "virtuale" dei nostri libri: i nuovi e-book stanno diventando strumenti di promozione sempre più mirata per gli alberghi, i quali possono presentarsi ai loro clienti con le proprie storie inedite super-personalizzate, ma anche raccontando più facilmente la struttura per immagini; e, a ruota, c'è anche il serial Miló, storia a episodi di un hotel di fantasia in una città di fantasia, rivolto a tutti i clienti e gli amici dei Golden Book Hotels.
Il fiore all'occhiello di questo lungo percorso culturale è stato la creazione della nuova Biblioteca Digitale Golden Book Hotels Library, moderno contenitore di tutti i migliori racconti pubblicati nei tanti anni di attività del gruppo, suddivisi per genere letterario, di autori classici e contemporanei, presentati in tutte le lingue, in doppio formato pdf e ePub.
Infine, si è fissato l'appuntamento annuale con il 23 Aprile, Giornata Mondiale del Libro, in cui ciascun albergo del gruppo rinnova la sua proposta di lettura agli ospiti, offrendo un proprio nuovo racconto scritto per l'occasione: storie tutte raccolte in antologia e distribuite contemporaneamente all'interno del circuito in questa data così simbolica.
Golden Book Hotels è costituita oggi da un selezionato gruppo di alberghi, residenze di campagna e ristoranti, che condividono il principio che Turismo significhi soprattutto Cultura, e per i quali la cura del particolare è espressione del loro profondo senso dell'ospitalità: queste strutture saranno sempre liete di aggiornare la vostra biblioteca di ricordi con piacevoli letture e graditi soggiorni."
IL PRESIDENTE
Mauro Gabba
GOLDEN BOOK HOTELS / ASSOCIAZIONE ALBERGHI DEL LIBRO D'ORO
Golden Book Hotels. Nuovo sito ufficiale dell'Associazione Alberghi del Libro d'Oro.
La Roma quadrata
In mezzo fra i Greci e gli Etruschi, gli antichi abitanti dell’Italia facevano i contadini e i pastori. I più vicini agli Etruschi si chiamavano Latini e il loro paese si chiamava Lazio, era una terra di montagne, colline, boschi e pianure fertili. Fiumi e torrenti scendevano a valle ma poi si fermavano, impaludandosi e trovando il percorso verso il mare bloccato da dune di sabbia. Le zone, allora, diventavano acquitrini pieni di zanzare e la malaria proliferava. Le popolazioni vivevano in collina e scendevano in pianura solo per pascolare il bestiame.
Verso nord il confine era segnato dal fiume Tevere. Era un fiume largo e profondo, con pochi guadi. Al di là del Tevere risiedevano gli Etruschi. I Latini portavano sulle rive del Tevere lana, pecore e grano, gli Etruschi armi, vasi e sale. Lentamente i villaggi rurali fra il Tevere e il golfo di Napoli si unirono in poche città stato, fra le quali Albalonga. Quella fondata sul colle palatino prese il nome di Roma.
Roma era un villaggio di capanne rotonde, col tetto aperto nel mezzo per far uscire il fumo del focolare. Tutt’intorno c’era un muro di grosse pietre. Nel muro si aprivano delle porte, fra cui una, dalla quale passavano i mercanti che portavano il bestiame al pascolo in pianura. All’alba, tutto il villaggio risuonava dei muggiti delle mucche, perciò la porta era detta Mugonia. Era una Roma semplice, realistica, contadina e popolaresca.
Narra la leggenda che Romolo e Remo, discendenti da Enea, nipoti del re di Albalonga, figli di Rea Silvia e del dio Marte, vengono rapiti da fratello del nonno che dà ordine di farli uccidere. Ma chi ha l'incarico di ucciderli li abbandona in una cesta sulla riva del Tevere, così come, in modi diversi, accade per Mosè, per Biancaneve e per tutte le mitologie poi derubricate a fiaba. I bambini piangono perché hanno fame, una lupa li allatta e diventa la loro madre. I fratelli crescono, puniscono lo zio usurpatore - come vorrebbe fare Giasone senza però riuscirci - e fondano una nuova città, appunto Roma, pare che sia Romolo stesso a tracciarne il solco con l'aratro. Subito i gemelli litigano per il possesso della nuova città e, come Caino ed Abele, Romolo uccide Remo.
Corre l'anno 753 a. c., Romolo diventa il primo re di Roma, tutti gli avvenimenti vengono computati ab urbe condita.
Lucio Sandon, "Il trentottesimo elefante."
IL TRENTOTTESIMO ELEFANTE
LUCIO SANDON
Tre storie che si sviluppano parallelamente e in modi diversi: un ufficiale di polizia penitenziaria, un medico in Afghanistan e Amilcare, il figlio minore di Annibale. La prima storia diventa un giallo mistico-investigativo che giustifica la narrazione delle altre due, la seconda storia è invece un ottimo racconto ambientato in Afghanistan ai tempi dei talebani, e la terza, invece, è il tronco del libro, la colonna portante, la parte più sostanziosa e impegnativa, a tutti gli effetti un romanzo storico di grande pregio che scava nella realtà di un viaggio e una guerra lontanissimi nel tempo. Tre storie, quindi, lontane tra loro, ma vicine e connesse grazie a un misterioso oggetto, una sorta di croce a forma di buco di serratura, un amuleto che rappresenta il simbolo di Tanit, la dea della morte dei cartaginesi. Il libro, che alla fine si rivela un mélange di romanzo storico e thriller contemporaneo, parte infatti dai ritrovamento accidentale di quest’oggetto. Il protagonista, Angelo, di servizio a Poggioreale, si trova ad affrontare una fase della vita in cui le motivazioni sono scarse. Il caso lo costringe a rivoluzionare la sua esistenza e diventa un ignaro prescelto quando, dopo aver comprato un bidet per la ristrutturazione del bagno di casa, cominciano le sue sventure, come se quel pesante oggetto fosse portatore di sfortune e di disgrazie. In realtà quell’innocuo sanitario contiene un antico amuleto, un oggetto insignificante che sembra vivo e che sembra voler tracciare una strada all’ignaro possessore affinché i disegni del destino siano adempiuti. Si tratta proprio della croce di Tanit.
Tutto questo si allaccia necessariamente alla vicenda di Annibale, in quanto lui era devoto di Tanit e con lei ha un debito, non avendole sacrificato Amilcare, il figlio più piccolo, come voleva la tradizione. E sarà proprio Amilcare a narrare la storia della spedizione voluta dal padre, ci racconterà quel viaggio e quei combattimenti con gli occhi di un figlio, e ci svelerà perché nel titolo si cita un trentottesimo elefante quando la storia ci ha insegnato che gli elefanti erano trentasette.
La capacità descrittiva dell’autore, vincente nei tre rami della narrazione, merita tuttavia uno speciale encomio per la narrazione centrale, il romanzo storico, che è ben lungi dall’essere accademico e nozionistico. Lucio Sandon ha, infatti, la capacità di proporci una garbata quanto appassionante ricostruzione di quella spedizione senza cadere nell’accademia, e gli anni di lavoro e di ricerche che ha eseguito per poter arrivare a raccontarla non pesano sul lettore, che viene letteralmente sedotto e travolto dalla fluidità della scrittura. Diciamo che quando si legge questo libro non si legge l’autore, ma la storia.
E poi, leggendo, sembrerebbe quasi naturale che un uomo solo sia riuscito a riunire quasi centomila uomini e a guidarli per un viaggio di 5000 chilometri, affrontando rischi e fatiche d’ogni sorta e mantenendo per anni l’assoluta fedeltà del suo esercito. Immaginate, però: anni di viaggio a piedi da Cartagine a Capua, riunendo durante il viaggio altre truppe, un esercito di valorosi in terra straniera, per combattere Roma a Roma. Un uomo solo, e tutti a seguirlo… Di che fibra doveva essere fatto! Comunque è con lui, visto dagli occhi di un bambino, che arriviamo nella campagna molisana, nei pressi delle sorgenti del Volturno, dove l’esercito cartaginese fece una lunga sosta, forse di anni, e dove chissà quali misteri ancora sono nascosti. Ed è proprio lì, in quel tratto di campagna, che si concentrano tutti gli eventi che danno vita al giallo, che si verifica una serie di misteriosi omicidi, in qualche modo collegati ad una lontana scorribanda di un gruppo di giovani delinquenti finita in violenza pochi decenni prima. Le vittime sono proprio quei delinquenti, e sono tutti conoscenti del protagonista. Da uno di loro, però, Angelo riceve una lettera, ed è da quel momento che si sente obbligato a diventare non solo investigatore, ma anche investigatore dell’occulto, perché solo così riuscirà ad evitare che la spirale di morte continui la sua strada. Tutto si riallaccia ad una scelta di Annibale che, a un certo punto della sua vita, preferì gli affetti al sacrificio.
Per la natura degli eventi narrati, le presenze femminili sono necessariamente limitate; le donne, si sa, non sono come gli uomini che giocano a farsi male con le armi. Tuttavia, nella narrazione delle vicende di Angelo ve ne sono, e sono anche determinanti, a cominciare da Tanit, che è una dea, ed è una forza misteriosa che trascina gli eventi nell’abisso; poi c’è proprio una donna - anzi, una misteriosa figura che si direbbe un fantasma - la chiave che svela i segreti più infami; ed è anche una donna colei che spinge il nostro poliziotto a risolvere il caso, motivandolo ad addentrarsi nei disgustosi sentieri del malaffare e della violenza.
Insomma, siamo davanti a tre storie molto ben costruite e collegate tra loro, che compongono un romanzo di grande pregio. Scritto con un linguaggio fluido che unisce alla bellezza e all’interesse del romanzo storico una vena pulsante di mistero che lo collega ai giorni d’oggi e, in tinte di giallo mai eccessive, ci fa scoprire che quella vena pulsa ancora, e ci riporta in Afghanistan, dove una storia diversa chiede di essere raccontata e dove un intero Paese chiede di essere salvato. Ma alla fine tutto ritorna al luogo degli omicidi, dove dopo tanto orrore il nostro Angelo, finalmente, ritrova la serenità e la voglia di vivere. Buona lettura!
Di tutti i colori
Sappiamo tutti che fare shopping significa riempire un vuoto che non si colmerà mai. Non acquisto oggetti che possano farmi bella (non esisterebbero!) ma cose graziose per compensare il magone che mi annoda la gola, il macigno che devo sollevare ad ogni respiro. È la fatica di vivere che un pomeriggio da sola in città riesce ad accantonare per qualche ora.
Per tutta la vita mi sono vestita con tinte unite neutre e smorte, colori non colori. Ma ora ho la cosiddetta “botta dei cinquant’anni” e, all’improvviso, ho riscoperto l’arcobaleno, cercando di portare fuori quella luce che dentro va sempre più spegnendosi con gli affanni dell’età. Ma, attenzione, non mi vedrete mai con una tonalità che non mi piace, anche se usa, quindi, ad esempio, non sarò mai vestita di verde panchina.
E veniamo agli ultimi acquisti. Ecco un paio di abitini nei colori modaioli che vi avevo preannunciato e che trovo davvero belli: rosa quarzo e azzurro serenity, eccone un altro con delle simpatiche righine bordeaux e oro. Sono tagliati a sacchetto, coprono i difetti e stanno bene a tutti. Bisognerebbe portarli col tacco e non, come faccio io, con le ballerine che sulla mia altezza hanno un effetto deleterio ma io le adoro in questa stagione.
Ecco una maglia albicocca, che ravviva l’incarnato, ecco dei pratici pantaloni color vino, ed ecco, una felpa nera, che fa sempre comodo, ma accesa da una scritta bianca. Come insegna una fashion blogger di quelle serie: nero sì, ma, dopo i cinquanta, sempre illuminato da qualcosa di chiaro.
Per finire, si noti il piumino (un po' inflazionato, ce l'hanno tutti da queste parti) nero anch'esso ma personalizzato dalla fodera allegra e dalle maniche di tre quarti (nonna docet).
Alla prossima.
Sergio Costanzo, "I racconti della mano destra".
I racconti della mano destra
Sergio Costanzo
Marchetti Editore, 2016
pp 170
12,00
“ognuno viva il proprio tempo e io mi tengo il ricordo dei miei giorni andati. A quella purezza scanzonata, a quella leggerezza della mente, è piacevole talvolta ritornare.”
I Passi, quartiere a nord di Pisa, periferico, esposto a tramontana, delimitato da ferrovia e fiume, un mazzo di case moderne e squadrate, disegnate a tavolino e divise da strade che s’intersecano come decumani e cardi. Agli inizi degli anni sessanta vi si trasferiscono giovani famiglie con bambini piccoli e qualche vecchio al seguito. Le celle dell’alveare pian piano si riempiono a formare una comunità, con i suoi negozi, la chiesa, il cinematografo dell’oratorio, i campi di calcio improvvisati. Qui cresce Sergio Costanzo, autore de I racconti della mano destra e di molti romanzi storici, fra i quali Io Busketo, dedicato alla cattedrale della sua città. Costanzo è pisano ed è orgoglioso di esserlo (tocca proprio a me che sono livornese ricordarlo, ahimè). Costanzo è un ragazzo del popolo, padre operaio e madre casalinga che arrotonda lo stipendio del marito con lavori di cucito.
Intelligente, discolo quanto basta e, soprattutto, sveglio, il ragazzino sperimenta la vita, l’amicizia, la solidarietà del quartiere. Impara dagli altri, dai ragazzi più grandi, dai vecchi, dagli artigiani che tramandano conoscenze ed esperienze. Intorno, c’è il mondo del sentito dire: quella Storia con la esse maiuscola, colata attraverso i telegiornali, le riviste, le conversazioni captate con disinteresse infantile che, tuttavia, scavano e seminano nell’animo ricettivo del ragazzo. E Costanzo filtra la storia attraverso il suo personale sentire, non si perita di rivelarci il suo pensiero, il suo credo che mi pare non sia frenato da preconcetti ma sappia vedere tutti i lati della medaglia. Intorno, c’è anche lo sport che aggrega e disciplina, c’è, soprattutto, per questo ragazzino precoce, la tempesta degli ormoni, suscitata, più che altro, dal fatto di non sapere, non avere accesso, desiderare senza poter ottenere. E la mano destra, allora, impara a muoversi guidata dalla fantasia, che alimenta pure la sessualità degli adulti, quando questi siano intellettualmente vivaci.
Il clima è quello che si respira nel film Malizia di Salvatore Samperi. La sensualità del protagonista è fatta di sovraeccitazione mentale, d’ipersensibilità agli stimoli, siano essi visivi, olfattivi, tattili. Emana da luoghi e oggetti apparentemente insignificanti. Una calza velata, l’orlo di una gonna a rivelare paradisi inconoscibili, il profumo e il tepore d’un cappotto tenuto fra le braccia, il fruscio d’una stoffa, la morbidezza d’una sottoveste intravista da uno spiraglio, bastano a scatenare un erotismo soffuso, raffinato, d’altri tempi come i calendarietti del barbiere, come le gambe affusolate delle Kessler. Una lascivia tutta nella gola, nel battito del cuore, carnale ed estetizzante insieme.
“Un colpo, un’emozione, un profumo acuto e penetrante, ancor prima di vederla. Era un aroma volatile, indefinito. Lieve, pareva sfiorare la mia pelle e subito evaporare lasciandomi occhi, labbra, bocca secca come fossi stato abbandonato nel deserto. Penetrava nella mente all’inizio del respiro, poi, inalando l’aria, si perdeva.” (pag 79)
L’eleganza è la cifra di questo erotismo vecchia maniera e impronterà il futuro gusto dell’autore. Saranno, perciò, scarpe “alte di tacco” e scollate sul piede, foulard svolazzanti nel vento, grandi occhiali da diva e gonne a tubo a creare quell’alone di mistero senza il quale l’attrazione viene a mancare. Sarà, di rimando, stile di scrittura fulgido e poetico, capace di trarre languore spirituale anche dalle più semplici parole toscane e annodarti la gola.
“e più d’una partita percepii puppe appoggiate sul mio corpo e sorrisi e baci. Ed eran corse a casa e bocca asciutta dai lupini e abiti puzzolenti di sudore e mani salate dalle bucce delle seme e pelle calda e rossa per il sole e sensi all’erta e somma eccitazione.” (pag 133)
L’altra grande componente del libro è la nostalgia. Ho già fatto notare come, leggendo testi di autori vicini a me per età o anche più grandi, si riscontri dirompente, nei loro scritti, il richiamo, più o meno doloroso, del rimpianto.
“Ciò che appare distante, rimosso, finito, riemerge con potenza e prepotenza.” (pag 31)
In certi casi è lo strazio del tempo che non torna più, del tempo fuggito e ritrovato solo nella memoria, della madeleine dolce perché trasfigurata dal ricordo che, come ha detto qualcuno, sa vedere “il bello del brutto”, sa farti affezionare a “un metro di sconnesso marciapiede e lì sognare”. Per altri è una rievocazione divertita, dolceamara, scanzonata e, come in questo caso, anche occasione di confronto fra le passate generazioni e le presenti, fra il mondo che fu e quello, non per forza sbagliato ma comunque molto diverso, dei propri figli.
“Forse oggi, in un mondo estremamente frammentato e segmentato, questa idea di aggregazione sembra improbabile, ma noi eravamo tutto e il tutto era in noi, eravamo lavagne pulite sulle quali le molteplici esperienze lasciavano segni. Assorbivamo il bene e il bello, percepivamo il giusto e lo sbagliato e questo nostro essere ovunque e in perenne movimento ci permise di acquisire senso critico, visione più ampia, molteplicità di espressione.” (pag 30)
Sì, quelli erano tempi dove i genitori, i nonni, gli zii, i maestri, i preti ti mostravano la netta divisione fra Bene e Male, fra Giusto e Ingiusto. Giusto era rispettare gli anziani, dar loro il posto sull’autobus, onorare il padre e la madre, essere leale con gli amici, guadagnarti il pane onestamente. Erano tempi dove la forma non aveva ancora preso il posto della sostanza.
“(c’era comunque nelle famiglie italiane) l’idea dell’educazione al rigore, al rispetto delle leggi, degli altri, dei disagiati, degli anziani. C’era il rispetto dei migliori, di quelli che si meritavano le cose perché si impegnavano, di quelli che lavoravano perché avevano studiato. C’era l’idea di un mondo giusto se si fossero rispettate le norme. Se pure si aspirava a emancipazione e libertà, le regole morali e civili erano sacre e il rispetto veniva dall’esempio, dal buon comportamento degli adulti, da una rettitudine e osservanza delle forme, tradotte in tangibile sostanza.” (pag 68)
Per chi non l’avesse capito, questo libro mi è piaciuto immensamente, per i bei ricordi, per le atmosfere così ben ricostruite, per lo sguardo romantico sulla vita in cui sempre mi rispecchio, per la prosa con tutti i ritmi giusti e lo stile che è, insieme, poetico (“quando le lucciole ritmano i respiri”) ma anche povero, attaccato alle piccole cose di tutti i giorni, capace di restituire pregnanza alle parole, alte o basse che siano, italiane o vernacolari, capace di farti sentire odori e sapori, di farti rievocare ambienti e stati d’animo, di farti vedere i ragazzi che non scendono dall’autobus, bensì “esondano”.
Forse I racconti della mano destra mi è piaciuto così tanto perché anch’io mi ritrovo in ciò che afferma Costanzo: “Non sono un giovane d’oggi e non voglio giudicare, mi tengo i miei ricordi, li custodisco e ne sono assai geloso”
I vestiti nuovi dell'imperatore
Ciao a tutti
mi conoscete, scrivo narrativa, recensisco libri e amministro questo blog collettivo letterario ma ... ecco... per la prima volta in 55 anni, tiro fuori una parte di me che non ho mai considerato e ho sempre ritenuto superficiale, frivola e vanesia: il mio amore per i vestiti.
Non so niente di più di quanto sappiate anche voi sulla moda, non faccio belle fotografie e non vado alle sfilate. Semplicemente, mi piace fare shopping, comprare abiti e accessori e, a volte, persino dimenticarli nell'armadio.
Ora vorrei condividere con voi i miei acquisti e i possibili abbinamenti.
Non mi vedrete mai con gli abiti addosso, non sarebbe un bel vedere, ma li fotograferò per voi, se continuerò ad aver voglia di farlo. Oggi ho seguito l'impulso del momento. Sappiate solo che ho 55 anni, sono bassa 1,58, peso 56 chili di troppo a causa della menopausa, sono castana, mal schiarita di biondo con una tinta casalinga.
Mi sono sempre piaciuti i vestiti ma non me ne ero mai concessa abbastanza fino ad oggi. Arrivata a questo punto della vita, ho deciso che è giunto il momento di non farsi mancare nulla, ovviamente nei limiti del mio budget che è piccolo piccolo. Quindi non troverete mai grandi marchi fra le mie scelte, e ci sarà anche sicuramente molto di cinese doc. Anzi, i marchi non li nominerò nemmeno e neppure i prezzi, contrariamente a quanto farebbe una fashion blogger che si rispetti, ma io, ve l'ho detto, non lo sono.
Ho deciso che nel mio guardaroba deve esserci tutto, che non devo stare lì a chiedermi se ho le scarpe giuste per quella gonna e quale borsa stia bene con quella giacca. Insomma, quando mi vesto, non devo faticare e, se anche le occasioni eleganti sono poche, la vita sociale e mondana vicina allo zero, la maggior parte del tempo vado vestita arcicomoda, in ciabatte davanti al pc, o pronta per le zampate del cane e i peli del gatto, pure non mi faccio trovare impreparata per ogni circostanza che si prospetti.
Cominciamo con un paio di canotte da poco acquistate. Le vedete nelle due foto. Sono belline, vero?
La larghezza e la lunghezza della base per fortuna coprono le magagne, io tendo ad accumulare cuscinetti nella parte inferiore del corpo. Purtroppo le braccia nude non nascondono la pelle cadente, ahimé. Ogni volta che vedo la mia carne tremula penzolare con "l'effetto saliera", penso sempre ai consigli di mia nonna: "non scoprirsi mai prima di luglio e portare sempre, dopo una certa età, la manica di tre quarti anche d'estate", che sarebbe davvero, aggiungo io, il massimo dell'eleganza.
Intanto vi dico che i colori di moda questa stagione in corso sono il rosa quarzo e il l'azzurro serenity. La prossima volta vi mostrerò due acquisti in queste nuances e vi parlerò anche della manica scesa - con spalle scopertissime, ahimé - che porteremo l'ormai prossima estate.
Fatemi sapere se le mie magliettine vi piacciono. (ppoli61@tiscali.it)
L'Avana Amore mio
L’Avana amore mio - Taccuino avanero e storie cubane
Il Foglio - Pag. 180 - Euro 12
Fotografie originali di Orlando Luís Pardo Lazo e Stefano Pacini.
Raccontare L’Avana attraverso le pagine dei suoi scrittori: Carpentier, Piñera, Gutiérrez, Valdés, Estevez... E nella seconda parte una selezione di storie cubane. Un libro di viaggio, una passeggiata per L’Avana più vera e cadente, meno turistica e più cubana.
“Non posso essere fedele a una causa persa, ma posso esserlo a una città perduta."
Questa è L’Avana di Cabrera Infante: una città perduta che lo scrittore non riesce a ritrovare. Forse era proprio quello che temeva, scriveva di Cuba per esorcizzare la paura di morire prima di rivedere il suo mare. Povero Cabrera Infante, morto tra la nebbia di Londra sognando un bambino che si arrampica come un gatto su una palma reale. L’Avana per un infante defunto suona adesso come un titolo beffardo, un sogno irrealizzabile di rivedere palazzi e porticati, guaguas affollate, biciclette e Chevrolet sul lungomare, Lada e sidecar che sfidano buche sul selciato, sensuali trigueñas e mulatte dai fianchi larghi. Niente è più possibile, resta solo la fedeltà a una città perduta, espressa in milioni di parole gettate in faccia al vento e disperse tra le braccia della storia”.
’Avana, io non so se ritorneranno quei tempi/ L’Avana, quando cercavo la tua luna sul Malecón/ L’Avana, quando potrò vedere di nuovo le tue spiagge/ L’Avana, e rivedere le tue strade sorridere/ L’Avana, nonostante le distanze non ti dimentico/ L’Avana, per te sento la nostalgia del ritorno (da Zoé Valdés, La vita intera ti ho dato).
Chiara Gamberale, "Adesso"
Chiara Gamberale
Adesso
Feltrinelli, 2016
“Perché è solo parlando d’altro che succede. Succede che fra tutte le persone che corrono e si accalorano e parlano fitto al telefonino sulla metro e ti costringono a prendere atto dell’assoluta mancanza di senso – loro e dunque anche tua – una ti convince che un senso ce l’hai”
Dalle mura del condominio di via Grotta Perfetta (Le luci nelle case degli altri, della stessa autrice), Lidia, giovane donna dagli occhi intensi e dal fascino discreto ed ammaliante, si avvia nel mondo delle relazioni. Un matrimonio mai spento nel suo essere relazione, una solitudine ed una ricerca di senso perpetue, la tentazione di cavalcare una adolescenziale spensieratezza con l’insoddisfazione che ne deriva immancabilmente.
Pietro, apparentemente impermeabile al dolore, padre per necessità e vocazione, è il suo contraltare di senso, così che entrambi, nell’incontro, scoprono di averne uno – di senso – diverso da quello che pensavano e che diventa loro.
Adesso.
La dimensione temporale ha sempre un fermo immagine, quello dell’attimo in cui si sceglie il passo successivo, in cui ci si butta o ci si ritrae, ci si volta per andarsene o si resta.
Intorno a Lidia e Pietro, personaggi minori dipingono le sfumature dell’incontrarsi adulto, le complessità delle relazioni, in un fil rouge di speranza mai sopita.
Un libro lieve e caldo, che può accompagnare con spensieratezza o far scendere nella profondità del conoscere se stessi. Basta fermarsi un attimo. E farlo adesso.