franca poli
La signora e la strega
(Malleus maleficarum, I parte, questione VI)
Natale in giro per l'Italia: Venezia.
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Mamma
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rosa e spine
luce lontana di sole d'autunno
di candela consumata di tempi andati
mi manchi mamma
mi mancano le tue parole i tuoi consigli disattesi
i tuoi silenzi di disapprovazione le tue mani sempre pronte a una carezza
i tuoi capelli bianchi e i tuoi occhi pronti al sorriso
un giorno arriverò
e sarà di nuovo festa e sarà di nuovo casa
FORZA BOLOGNA
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Serie A, è appena ricominciato il girone di ritorno dopo la sosta per le feste e ricominciano le polemiche, ma non tutto il calcio è malato. Io vado contro corrente e ammetto di avere una visione romantica dello stadio e delle partite domenicali che forse non è più attuale. Lo sport, le discipline sportive non sono solo violenza, arbitraggi pilotati, cori razzisti, corruzione e ciarpame, anche da una partita di calcio c'è da imparare etica e rigore, sportività, appunto, e lo stadio può diventare scuola di vita.
Non tutta la colpa è da imputare ai tifosi se la nostra società è malata, lo stadio, a mio avviso, riflette solo quanto nel complesso siamo diventati. I valori di amicizia e sana competizione stanno scomparendo ovunque, nella scuola, nel mondo del lavoro, per strada, dove prevalgono invidia, maleducazione, cattiveria e prevaricazione.
Io ho un bellissimo ricordo dello stadio di Bologna, dove la squadra del cuore di mio padre giocò il campionato che la portò alla vittoria del suo ultimo scudetto nel lontano 1964. Era l'Inter l'avversaria diretta e lo spareggio finale si giocava a Roma, in campo neutro. Mio padre, mentre io gli saltellavo intorno, non staccava l'orecchio dalla radiolina a transistor per seguire la partita. A vittoria avvenuta, il giorno dei festeggiamenti, col babbo che mi teneva per mano, mentre la folla festante applaudiva Pascutti, Bulgarelli, Perani, Haller, Fogli e tutti gli altri, avvolta da un tripudio di bandiere rossoblu, mi sono sentita orgogliosa della vittoria della mia squadra e di appartenere alla mia città. Per mio padre il calcio era stato uno svago importante, l'unico di pochi momenti, durante la lunga prigionia nei campi inglesi in Africa, e in quei brevi tornei calciava orgoglioso il suo pallone raffazzonato con quattro stracci, pensando a due mondiali appena vinti dall'Italia nel 1934 e nel 1938 alla faccia dei boriosi aguzzini che gli passavano una pagnotta e una borraccia d'acqua a settimana. Il babbo era tifoso del Bologna e la partita dell'ultima vittoria fu anche l'ultima della sua vita. In autunno un incidente stradale lo strappò a noi, alle sue passioni, mai più stadio, mai più feste, mai più insieme a ridere e piangere e io, seppur piccina, raccolsi il testimone ideale del suo tifo sportivo, di felice condivisione, per quel calcio per quella squadra, la squadra del cuore.
Ho tifato Bologna per tutta la vita, nello stesso identico modo, seguendolo con rassegnazione nei periodi più bui, in serie B, nei lunghi anni di militanza in serie cadetta e poi ,con leggeri entusiasmi, l'ho visto risalire dalla C alla B, poi di nuovo nel girone delle grandi, ma sempre fra gli ultimi in classifica, soffrendo, zoppicando, ma quanta fede, quanta costanza nei suoi tifosi ogni domenica.
Il mio amore per la squadra della mia città non mi ha impedito di crescere, studiare, leggere, lavorare, vivere e amare la mia famiglia, di condurre una vita sana con sani valori. Mio fratello ha portato il figlio allo stadio fin da quando era piccolo e insieme hanno seguito il nostro Bologna, spesso anche in trasferta, nelle sue avventure e disavventure. Anche lui, come il babbo, sapeva trasmettere la stessa passione. Negli ultimi anni hanno vestito, sempre insieme, la casacca dello stewart e in tribuna qualche volta hanno fatto accomodare anche me e la mia famiglia accanto ai tifosi VIP come Lucio Dalla, Gianni Morandi, Andrea Mingardi e una domenica, quando, con grande campanilistico orgoglio, battemmo il Milan, vicino a noi era arrivato da Milano anche Diego Abatantuono per seguire la sua squadra.
Lo spirito è sempre stato lo stesso, grandi gioie per piccole soddisfazioni. Anche mia madre tifava Bologna, ormai anziana, la domenica si sedeva in prima fila sulla sua poltrona e seguiva la partita in televisione, era un momento di unità in famiglia e si rideva quando gridava al nostro Bologna “avanti miei brocchi fategliela vedere!”
Ancora oggi seguo la mia squadra, senza patemi d'animo, e soffro per i pochi risultati che ottiene, ma soffro di più nel vedere che gli stadi sono diventati per i giovani non luogo di incontro, ma scenari di guerra, campi di battaglia: spranghe, botte, coltelli e violenza. Morire per una partita di pallone è davvero un'assurdità. Che il calcio sia diventato la valvola di sfogo di una società che nulla riesce a trasmettere è lo scenario più triste a cui si possa assistere. L'amor patrio, l'inno di Mameli cantato a squarciagola solo se gioca la nazionale di calcio non sono un bel esempio per i nostri ragazzi e non ci si deve meravigliare dei risultati che ne conseguono.
Mancano valori di unità e aggregazione alla base della nostra società e, quando nascono, succede in maniera sbagliata. Così si instaurano fortissimi legami nei gruppi degli “ultras”, cresce, in una sorta di comportamento tribale, il desiderio di protezione dei membri da coloro che vengono considerati i “nemici”, che, a seconda delle circostanze, possono essere altri gruppi di tifosi o le forze dell'ordine. Il comportamento di base di queste “bande” si estende, ben visibile, anche ad altri ambiti, come quello politico ad esempio, poiché è proprio questa intensa coesione fra simili la molla che fa scattare il comportamento delinquenziale.
Questa è la mia concezione, questa la mia storia. È forse tramontata per sempre la mia poetica visione delle partite di calcio e dello stadio come ancora oggi dovrebbe essere, un luogo di divertimento, un momento di condivisione per famiglie, dove si apprende che, come nella vita, a volte si vince e altre si perde, quando si perde a lungo ci si fortifica e più grande sarà la gioia della vittoria, si impara a combattere con onore, con onestà, con determinazione, preparandosi fisicamente e psicologicamente all'incontro (mai allo scontro) della vittoria o della salvezza.
Andrea Legnani, "L'edera e l'olmo"
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L'edera e l'olmo
Andrea Legnani
Frammenti di vetro editore
Andrea Legnani, un amico di Facebook, sapendo del mio amore per la lettura, ha voluto farmi un regalo e, qualche giorno fa, nella posta ho trovato, graditissima sorpresa, il libro che ha scritto L'edera e l'olmo. Ho iniziato subito a leggere, mossa, inizialmente, debbo essere sincera, da grande curiosità, poi, via via, sono stata assorbita dalla lettura che si presenta leggera, avvincente e di facile comprensione.
La trama si snoda nei secoli che vanno tra la fine del 1300 e la fine del 1900, ruotando intorno a una tenuta, “la Carradora” situata nell'imolese. Indirettamente collegati dagli eventi e dal destino tanti fatti e tanti personaggi si sono succeduti in quelle terre dove, all'inizio della narrazione, si racconta che, per dare sepoltura a una neonata, frutto del peccato di una suora, un vescovo volle piantare alcuni semi di olmo. Nel trascorrere dei secoli la pianta crebbe e divenne un gigante ombroso, al cospetto del quale passarono signori e briganti, pellegrini e santi. Intorno al tronco dell'olmo prese a crescere una pianta di edera che lo avvinghiava e che viveva con lui in perfetta simbiosi, assistendo al trascorrere delle stagioni, del tempo e degli avvenimenti, ora luttuosi ora festosi.
Sono stata particolarmente colpita dalla narrazione storica, trattandosi di episodi, situazioni drammatiche, vendette, avvicendamenti di proprietà e circostanze fortuite avvenuti nella mia terra, nella zona di Imola, poco lontano da dove sono nata e cresciuta.
Per farla breve, con l'olmo ormai grande e imponente si identificava la zona, la casa stessa, che mi è diventata, nel corso della lettura, quasi familiare, fino a scoprire alla fine, in un vero coup de théâtre, che lo stesso autore vi aveva vissuto e soggiornato da bambino quando la proprietaria era diventata la nonna.
Interessanti gli eventi storici, tutti comprovati da documentazioni reperite presso gli archivi della curia Vescovile, immortali le vicende che hanno accompagnato la tenuta, che nei secoli fu convento di clausura, residenza signorile e anche stazione di posta. Nel finale la leggenda che vive oltre ogni tempo, unici spettatori Edera e Olmo, torna a svelare il mistero di una morte irrisolta.
Delizioso davvero questo libro che si è rivelato avvincente e mi ha tenuto sveglia qualche sera, nonostante la stanchezza, per il desiderio di portare a termine la piacevole lettura e scoprire, con non poca commozione, che in fondo i veri protagonisti di tutta la storia non sono i personaggi più o meno famosi avvicendatisi sulla scena nel corso dei secoli, ma Edera e Olmo avvinti l'una all'altro, silenziosi spettatori sempre presenti fino alla fine, quando entrambi muoiono, una uccisa da un contadino ignorante e l'altro subito dopo, di solitudine.
Andrea, complimenti e grazie davvero.
Ti insegnerò ad amare i libri
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A mio nipote insegnerò ad amare i libri.
Scrutami mentre assorta sfoglio avidamente un libro, spia il segreto della mia felicità privata e prepotente, chiediti perché sorrido, sono seria o piango, perché non sento suonare il campanello, e non bado a nessuno finché le pagine non finiscono. Non penso a vacanze perdute, a uscite mondane, a circoli intellettuali, non sento la mancanza di nulla. Capirai che questo è il modo che ho trovato per isolarmi dal mondo, dall'ipocrisia della gente, dall'egoismo e dalla superficialità. Troverai compagnia in qualunque momento, in ogni luogo, non devi prendere mezzi, per partire per un lungo viaggio basta una panchina, una poltrona, il sedile di un treno sgangherato che ti porta in provincia. Guardami mentre rivivo gli eventi leggendoli, spaziando nei secoli e nella vastità dell'infinito, vedrai la mia ansia materializzarsi di fronte a un giallo inesplicabile, la ma gioia fiorire a una storia d'amore. Ma guardandomi attentamente vedrai principalmente la mia gratitudine, la mia sconfinata ammirazione, mentre la trama si chiude in un esaltante finale. Leggi sempre, leggi tutto. Una volta compreso questo mi guarderai sconsolato, insicuro e spaventato, pensando a quanti libri ci sono nel mondo, non scoraggiarti piccolo mio, ogni libro è il solo, ogni libro è il primo, è un'emozione che si rinnova, un rituale da festa di compleanno, una scoperta di sogni e ricordi come quando da piccola guardavo mia madre cucinare per noi e io sognavo di invitare a cena Laurie Lawrence e come Jo March di scrivere un romanzo per lui.
Il Natale di Luca
“Un Natale speciale, questo sarà davvero un Natale speciale” si ripeteva Lucia guardando fuori dal finestrino.
Da piccola le avevano trasmesso il valore, l'importanza di quel santo giorno: nasceva Gesù in una calda atmosfera familiare, con il presepe preparato con cura, l'albero pieno di luci, la Messa di mezzanotte e il panettone.
I suoi fratelli, una volta cresciuti, si erano trasferiti chi in America, chi nel nord Italia, chi in Germania e lei, morti mamma e papà, era rimasta sola nella grande casa di San Polo, immersa nel verde, nel silenzio, troppa solitudine, e a volte le faceva paura. A Natale sperava sempre in un rientro dei fratelli coi nipoti e le cognate, per ricreare insieme quella atmosfera di magica allegria di quando erano piccini, invece succedeva che qualcuno declinava l'invito, chi perché il viaggio era troppo lungo, chi aveva figli che non volevano muoversi dalla città, scuse sempre scuse e quest'anno, addirittura, nessuno sarebbe tornato, nemmeno Luca, suo fratello gemello che viveva a Milano e che era quello più affezionato a lei, alla casa, al paese.
Le aveva spiegato che era soffocato da impegni di lavoro, che non poteva assolutamente scendere e lei, colpita come da uno schiaffo in pieno viso, ci era rimasta male. Poi, durante la notte, rimuginando su quelle che le erano apparse delle banali e false giustificazioni, si era resa conto che la voce di Luca al telefono era triste, tremula, vuota. Non lo aveva notato subito perché era offesa e le bruciava la delusione, ma conosceva troppo bene suo fratello e doveva essergli successo per forza qualcosa. Si convinse che almeno lui non l'avrebbe mai e poi mai lasciata sola la notte di Natale.
Così nel giro di una settimana, senza avvertire nessuno, preparò la valigia, fece il biglietto del treno, non dimenticò di comprare il torrone ai fichi secchi da “zia Carmelina”, una vecchietta che ormai era rimasta l'unica in paese a saperlo fare, e preparò i “pepatelli”, biscotti di cui suo fratello andava matto.
L'antivigilia partì alla volta di Milano, durante il viaggio ebbe tempo di riflettere, di pensare alla sua vita dedicata interamente alla famiglia, alla casa, ai genitori che erano entrambi mancati troppo presto. Non si era mai sposata, insegnava lettere e filosofia al Liceo Classico e aveva visto sfiorire la sua bellezza giorno per giorno, inseguendo il sogno di un grande amore che non era mai arrivato, o almeno per lei era arrivato, ma aveva il volto di Riccardo l'insegnante di matematica, sposato con prole. Lo aveva amato in silenzio fino a quando anche lui sembrò accorgersi dei suoi sguardi, del suo improvviso rossore se lo incrociava nei corridoi della scuola e l'aveva invitata a uscire. Si erano dati appuntamento fuori dal paese, lontano da occhi indiscreti, tutto era iniziato con un caffè al bar del corso in una città vicina, poi l'incontro divenne prima mensile, quindi settimanale e finivano sempre per fare l'amore in un alberghetto di periferia, a strapparsi i vestiti di dosso dal desiderio di toccarsi, a consumare la loro passione proibita in qualche ora di sesso. Al pensiero ancora le correvano i brividi lungo la schiena. Poi ognuno tornava a casa propria, le feste comandate lui le trascorreva con la famiglia, mai una vacanza insieme, mai una gita domenicale e lei si era abituata a vivere in attesa di quelle poche ore di felicità che le regalava. Fino a quando non aveva cominciato a trovare scuse, a incolpare la moglie di stargli addosso e così gli appuntamenti si erano diradati, fino a cessare del tutto.
La sua età migliore intanto era trascorsa, quindici anni a vivere nell'ombra, a fare l'amante segreta, l'avevano invecchiata anzitempo, le avevano soffocato lo spirito, e ora si era lasciata andare, sembrava più vecchia dei suoi quarantotto anni, in paese la chiamavano la signorina e si sentiva un'acida zitella. I suoi vivaci occhi azzurri si erano spenti, la figura slanciata, un po' appesantita, ma ormai non si guardava nemmeno più allo specchio, non avrebbe mai avuto una famiglia sua, un figlio a cui insegnare il Natale, a cui raccontare di quando bambina cantava nel coro della chiesa e suo padre si commuoveva ogni volta.
Solo Luca sapeva della sua storia, conosceva il suo segreto e l'aveva sempre compresa, mai giudicata. Così, mentre il paesaggio scorreva veloce dai finestrini, lasciando le sue montagne Lucia scendeva verso il mare, passavano veloci le città illuminate a festa, cambiando scenario di ora in ora e, per la prima volta in vita sua, si sentì felice di non essere a casa, insieme a Luca avrebbe trascorso un Natale diverso, davvero speciale.
Uscita dalla stazione fu accolta da un'atmosfera di festa, sfavillio di luci, suoni melodiosi, anche gli zampognari erano saliti a Milano per rallegrare la città con la musica natalizia di “tu scendi dalle stelle”. Li guardava curiosa camminare lenti per le strade affollate, il passo cadenzato, e sotto il cappellaccio nero le sembrò di riconoscere Peppino, il paesano che ogni anno suonava la zampogna nel presepe vivente al suo paese. Si fermò un attimo, quel costume l'aveva sempre affascinata: il mantello a ruota di panno color catrame, i pantaloni aderenti abbottonati al ginocchio e, sotto, i calzettoni chiari, di lana caprina, tenuti stretti da giri e rigiri di linguette di cuoio che salgono dai calzari. Nel loro presepe non mancava mai lo zampognaro davanti la capanna.
Quella musica acuta, strozzata, le faceva salire un nodo in gola. La gente correva indaffarata, entrava e usciva dai negozi con montagne di pacchi fra le braccia. La corsa all'ultimo regalo era forse normale per chi vive la frenesia delle grandi città, per lei no, lei preparava tutto per tempo, passava le serate a incartare, a infiocchettare, a personalizzare i doni per i suoi cari, regalando anche un po' d'amore ad ognuno con quel gesto antico.
Spaesata, frastornata, si avvicinò a un taxi e si fece accompagnare a casa del fratello.
Aveva già suonato tre volte senza ottenere risposta e l'ultima aveva tenuto pigiato il dito sul campanello con insistenza, perché iniziava a pensare che Luca le avesse mentito e fosse partito per una vacanza esotica con gli amici, quando finalmente rispose al citofono.
“Chi è?” era stanco. Lucia pensò che davvero stava lavorando troppo.
“Sorpresa...!”
Quando aveva sentito la voce della sorella era rimasto di sasso, senza parole, l'improvvisata pareva averlo paralizzato.
“Che fai scemo non mi apri?” disse Lucia in tono scherzoso
Nessuna risposta, solo un flebile ansimare dall'altra parte della cornetta poi ... tac lo scatto del portone che si apriva.
Davanti alla porta dell'appartamento, Lucia rimase in piedi inebetita, chi si trovava di fronte non era suo fratello, ma un uomo magrissimo, che si reggeva a malapena in piedi, irriconoscibile, con profonde occhiaie, il viso pieno di eruzioni violacee e una tosse violenta che non gli dava respiro. Era ormai un anno che si nascondeva dietro problemi di lavoro e non si era fatto vedere, tanto meno sentire.
Si avvicinò titubante, lo abbracciò, lui piangeva come da bambino, quando i compagni lo prendevano in giro perché era effeminato, perché era gracile e troppo sensibile per i giochi da maschi. Era lei quella forte, quella sempre pronta a menare le mani, come se nella pancia della mamma i due fratelli si fossero scambiati i ruoli. Così era sempre stata protettiva e lo aveva difeso fino a quando aveva lasciato il paese e finalmente si era sentito libero di vivere la sua omosessualità, mai apertamente confessata a nessuno.
Ora però era malato, si vedeva che era una cosa grave, e si trovava solo in quello stupendo attico col terrazzo che dominava via Montenapolene e che aveva arredato tutto da solo col buon gusto di bravo arredatore quale era diventato. Lavorava per la gente del jet set, per gli stilisti, gli attori, e aveva successo, soldi, ma mai mai, anche lui come Lucia, aveva conosciuto l'amore vero.
Si era bruciato in incontri occasionali e ora, le raccontava fra i singhiozzi, che proprio a causa di questa affannosa ricerca d'amore sarebbe morto. Lo aveva colpito la malattia terribile, quella che non si può nominare senza provare vergogna, quella che uccide gli invertiti, i debosciati, che punisce chi ha peccato. Questo secondo le regole, il comune pensiero, l'AIDS.
Lucia non sapeva cosa dire, era impreparata a un simile segreto che il fratello aveva tenuto nascosto per tanti anni, prima che l'ultimo stadio della malattia si manifestasse così violentemente, non aveva dimestichezza con queste cose e rimase per un attimo senza sapere come reagire, senza nemmeno sapere dove guardare. Il cuore si era fermato e un sudore freddo le correva lungo la schiena.
“Mio Dio" avrebbe voluto gridare, sbattere la testa al muro. No, non era possibile, non stava succedendo a loro. Poi dentro di lei ebbe il sopravvento la pragmatica donna del sud che tanto le ricordava sua madre.
“Beh!? Che ci piangi, stupido, è Natale dopodomani, rimettiti a letto che a te ci penso io.”
Luca passò la notte con febbre alta, spossatezza, mal di testa, dolori al petto, delirante alternava momenti di lucidità in cui la ringraziava e le chiedeva perdono ad altri in cui non la riconosceva nemmeno e la chiamava col nome di un uomo dicendo “Giacomo perché mi hai fatto questo.”
L'indomani era la vigilia, Lucia capì che doveva accompagnarlo in ospedale, chiamò l'ambulanza e, una volta sistemato nel letto, si sedette accanto e non gli lasciò mai la mano.
Stava scendendo la notte, la notte di Natale, era freddo. Dalla finestra si vedevano fiocchi di neve volteggiare nel cielo e scendere silenziosi sulla città in festa. Lucia non smetteva mai di parlare e di rivivere col fratello i loro natali felici.
“Ti ricordi papà che raccoglieva il muschio nel bosco per il presepe e con la segatura faceva la sabbia del deserto dove posare i Re Magi? Ti ricordi Luca il pastore di terracotta con lo zufolo? Ci era caduto a terra mentre litigavamo per posarlo davanti la capanna, una gamba si era rotta e noi da allora lo chiamavamo “Lo zoppo”. Ogni anno era il primo a essere tirato fuori dalla scatola e messo nel presepe, che Natale sarebbe stato senza lo zoppo e quante risate...”
Luca ascoltava, tremante di febbre, riscaldato dai ricordi della sorella, riusciva a sorridere e sussurrare qualcosa
“Lo zoppo e il cane cieco erano i miei preferiti.”
“Il cane te lo avevo “cecato” io, Luca, per gelosia, lo hai mai saputo?”
“Certo che lo sapevo e proprio per questo lo amavo di più.”
Un attimo di silenzio, era quasi mezzanotte, Lucia cominciò a cantare come faceva in chiesa, non aveva perso negli anni la sua voce argentina e nel corridoio dell'ospedale iniziarono a risuonare le note struggenti.
“Adeste fideles, laeti triumphantes ... venite adoremus, venite adoremus, venite, adoramus Dominum!...”
A poco a poco, con delicatezza, si affacciarono alla porta alcuni infermieri, il medico di turno, due malati in grado di muoversi e, in rispettoso silenzio, si avvicinarono al letto di Luca.
Lui era ripiombato nei ricordi, in fila coi fratelli che cantavano, stava portando Gesù tra le sue manine piccole e lo posava nella mangiatoia, accanto al bue e l'asinello.
Un ragazzo nero si era accostato più degli altri, il bianco degli occhi sgranati, risaltava sul viso emaciato come due punti luminosi, era cresciuto cattolico in una missione in Africa, giunto in Italia aveva smarrito la strada e si era ammalato prostituendosi in stazione.
"Tutti abbiamo perso la strada” pensava Lucia, “il Natale non è più il nostro Natale”, poi sospirando: “Hai visto Luca? Quanta gente intorno a noi , un vero presepe stanotte, e ci sta pure Baldassarre che porta i doni” provò a scherzare, indicando il ragazzo nero accanto al letto.
Ma suo fratello era già lontano, aveva raggiunto il cielo a mezzanotte per cantare l'Osanna con gli angeli, mentre Gesù scendeva nella grotta a portare il perdono sulla terra.
Il suo viso si era disteso, lo aveva abbandonato ogni segno di sofferenza, era tornato bello, levigato, quasi sorridente, come quando era un bambino, felice e inconsapevole.
Lucia non cantava più, piangeva, lacrime silenziose le rigavano il volto, non aveva fatto in tempo a dirgli addio come avrebbe voluto.
“Può sentirmi?” chiese al dottore
“Non so se può sentirti ormai, ma tu puoi sentire lui, cosa desidererebbe tuo fratello?”
“Vorrebbe essere amato, capito, perdonato.”
E si chinò sul suo volto, lo baciò dolcemente, poi inizio a soffiargli sulle guance sulle mani. Avrebbe voluto rianimarlo in una sorta di “miracolo di Natale”in cui ormai credono solo i bambini. Poi iniziò ad annusarlo, tutto dalla testa ai piedi, in un ultimo saluto così come fanno i cuccioli di cerbiatto quando muore un fratellino per non dimenticare il suo profumo.
“Buon Natale Luca... buon Natale.... buon Natale.”
Il pigiama verde
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Ho ritrovato il tuo pigiama verde dimenticato nel fondo di un cassetto. E' uscito fuori all'improvviso e una sferzata mi ha colpito in pieno volto, mentre lo annusavo cercando il tuo profumo sono riaffiorati ineluttabili i ricordi ostinatamente negati e tenuti nel segreto del mio cuore. Quel giorno quando lo indossavi per l'ultima volta, mi guardavi con i tuoi dolci occhi azzurri divenuti improvvisamente acquosi e vuoti, interrogandomi muta sul perché il respiro ti veniva meno e io ti chiamavo inutilmente a me. Ho voluto indossarlo nei miei giorni più bui, per sentirti vicina e mi ha dato forza, ho sentito addosso lo stesso tuo coraggio. Mi sono chiesta se io ho paura di morire. No, non ho paura di morire, ho paura di non riuscire a farlo bene, ho paura di soffrire, ho paura di vivere male, ho paura della miseria, quella che ti toglie ogni dignità umana e morale, che ti riduce in uno stato di pietoso avvilimento e desolazione, ho paura di tutto quello che non dipende da me, perché credo non sia vero che ognuno è artefice del proprio destino, ma credo piuttosto che ognuno sia parte di un tutto, che corpo e anima siano due cose distinte e separate e che l'anima sia molto più felice del corpo, così mentre lo spirito mi dice di non aver paura, il corpo fa di testa sua. E mi chiedo dove vanno a finire le nuvole nere cariche di pioggia che oscurano l'azzurro del cielo quando il vento le spazza via? Dove va il sole quando non si fa vedere? E dove si nascondono luna e stelle in una notte di tempesta? E io dove andrò quando la paura sarà certezza? Cammino lentamente mentre le ore corrono dietro i miei passi, chissà forse diverrò pioggia.
La mamma dai capelli marroni
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Oggi, mentre stavo facendo la spesa, assorta nel difficile compito di scegliere che tipo di pasta comprare, mi sono sentita sfiorare delicatamente la gonna. Una bambina bionda con due grandi occhi scuri, pieni di lacrime, mi guardava silenziosa. Per un attimo ho pensato ai soliti mezzucci che usano gli stranieri per elemosinare qualche spicciolo, ma, in un attimo, ho colto il reale terrore nello sguardo disperato di quella piccina. Mi sono chinata verso di lei e, con calma, dolcemente, le ho chiesto “che cosa succede piccola?”. “Ho perso la mamma!” mi ha risposto e a quelle parole le lacrime trattenute sono scoppiate in singhiozzi. Ho preso la sua manina e ho cercato di tranquillizzarla "la mamma ti starà sicuramente cercando, ora l’aiutiamo a trovarti, vuoi dirmi di che colore ha i capelli la tua mamma?” .“La mia mamma ha i capelli marroni…” mi ha detto in un sospiro. Allora per cercare di rassicurarla, tenendo stretta la sua manina nella mia, mi sono avviata lungo i corridoi, tra gli scaffali, sorridendo a tutte le signore che incontravo e chiedevo “avete visto una mamma coi capelli marroni?”. Mentre ci stavamo avvicinando alla cassa per chiedere di fare un annuncio, una signora è arrivata correndo: era la mamma, e la bambina mi ha lasciato in fretta per correre tra le sue braccia. E’ durato meno di un attimo il piacere di stringerla a me, di farle una carezza e di sentirmi ancora una volta come la lupa che protegge i suoi piccoli, poi mi sono guardata allo specchio, i miei capelli hanno venature d’argento: è passato ormai il tempo in cui anch’io ero una mamma dai capelli marroni. La nostalgia è una condizione strana, ti fa cercare tra vecchie fotografie le ore perdute e lì, in fondo al cuore, al confine con l'anima, scrive a caratteri cubitali la tua solitudine, quasi fosse una conquista, mentre gli occhi si vestono di rugiada.
Il bambino e il selfie
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“Narciso si sporgeva sull'acqua per meglio contemplarsi...” inventando l'idea dell'autoritratto.
Autoritratti di grandi pittori, seguirono autoritratti in fotografia, sono tecniche vecchie quanto il mondo. L'uomo ha necessità da sempre di mettere a nudo la propria personalità attraverso questa forma di “auto presentazione”.
Il selfie moderno, figlio della tecnologia, è la deriva di questa pratica. Uno sguardo attento rivela molto di una persona attraverso una semplice immagine di se stessa da dare in pasto ai social. Un selfie dice tanto di noi anche se spesso non ne siamo consapevoli, per esempio questo bambino dotato di una fantasia meravigliosa, a mio avviso, rivela grandi potenzialità per il suo futuro. A lui dedico questo breve e faceto componimento (che fa il verso a Gianni Rodari e me ne scuso)
Poesiola che viene e che va
del piccino che soldi non ha
Il bimbo al mare scorda la rabbia
e fa le foto con la sabbia,
la bimba ai monti fa foto alle cime
e sicuro non si deprime
E chi cellulare non ne ha?
Solo, solo foto non fa:
si siede sul marciapiede,
e il passante distratto non lo vede,
ma il piccolo inventa i suoi scatti più carini
in compagnia dei fratellini.
Lui sa volare con la fantasia
e scatta la foto più dolce che ci sia