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franca poli

In giro per l'Italia: Riccia

6 Agosto 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

In giro per l'Italia: Riccia

Sul finire dell'estate in Molise si assiste a uno degli appuntamenti più amati “la festa dell'uva di Riccia”. Una sagra voluta per celebrare la vendemmia, che attira ogni anno migliaia di visitatori per vedere sfilare i carri fatti con chicchi d'uva, ballare, cantare e stare in allegra compagnia. Flaviano Testa ci conduce, attraverso l'obiettivo della sua macchina fotografica, lungo le vie del paese per goderci lo spettacolo.

E ora un po' di storia e origine della festa preso dal Sito Ufficiale del Comitato Sagra dell'Uva di Riccia
www.sagradelluva-riccia.net

“La "Sagra dell'Uva" di Riccia è passata attraverso più di mezzo secolo, dalle sue prime edizioni, agli inizi degli anni trenta, fino ai nostri giorni, testimone dell'impegno e del sacrificio di molti riccesi che, grazie ad essa, hanno raccontato di questa piacevole terra e della sua gente cordiale. Riccia è infatti l'unico paese della nostra regione che ancora conserva intatta la suggestiva tradizione della Festa dell'Uva, organizzata nel passato anche in centri quali Campobasso, Agnone e Casacalenda. La celebrazione della vendemmia, tenuta da ormai diversi decenni nella seconda domenica di settembre, cade in concomitanza con la festività della Madonna del SS. Rosario.
L'origine della sagra cittadina si colloca, come già ricordato, agli inizi del 1930, quando, in conseguenza delle direttive del governo fascista, furono adottate misure affinché si svolgessero Feste dell'Uva in tutti i Comuni d'Italia, allo scopo di esaltare il lavoro dei campi e di valorizzarne il prodotto: "… in ogni città o grossa borgata dovrà formarsi un Comitato, sotto la guida del potestà, del quale facessero parte le autorità civili, militari ed i rappresentanti delle associazioni produttive e di partito", come ci ricorda Antonio Santoriello in "La Sagra dell'Uva a Riccia tra passato e presente".
La festa diventa subito spettacolo tra le strade del paese con giovani e giovanissime che ballano con costumi folcloristici, mostrando cesti pieni di uva e distribuendo dell'ottimo vino rosso autoctono, il cui vitigno, oggi, sembra quasi essere del tutto scomparso: a saibell. Nettare di Bacco così scuro da lasciare sulla bocca e nel bicchiere il rosso intenso e profumato del proprio carattere. Dopo un periodo di relativa immobilità, l'innovazione della festa arriva sul finire degli anni '60, grazie alla presenza del parroco della Chiesa del Rosario, Don Ciccio Viscione: non più una semplice devozione nella parrocchia dei prodotti viticoli, ma una vera e propria sagra con l'allestimento dei carri allegorici a sfilare per le strade cittadine, che diventano così protagonisti e motivo predominante della Sagra di Riccia.
Il Carro dell'Uva, piccola opera d'arte realizzata con chicchi di uva che vengono pazientemente incollati uno ad uno, dopo un'accurata selezione per grandezza e sfumatura di colore per realizzare l'effetto policromo, assume significati diversi. Il Carro diventa il simbolo del duro lavoro nei campi, con la rappresentazione di scene di vita contadina abilmente ricostruite, nella cornice fatta di mezzi e di strumenti della civiltà rurale di un tempo e non più in uso; lo stesso si trasforma in generoso e complice traguardo per tutti coloro che si accalcano nella fiumana di gente pronta e desiderosa di ricevere un assaggio dei tanti prodotti tipici della campagna riccese, dai grappoli di uva alla piacevole carne sulla brace, dai piatti colmi di cavatelli al sugo di salsiccia alla pizza di grano duro, tutti preparati come si faceva una volta, durante il tragitto della sfilata. E, naturalmente, l'intenso e prelibato vino locale. Ed infine il carro si adatta all'originalità del presente, alla trasgressione e all'ironia alternativa dei più giovani che vogliono entrare nella tradizione popolare con le proprie immedesimazioni. Diversi sono infatti i carri ritenuti "fuori tema" che sfilano ogni anno, ma che comunque conquistano per simpatia e genuina teatralità.
Della sfilata fanno parte anche numerosi gruppi folcloristici, sbandieratori, majorettes, e, in alcuni anni, anche pistonieri. Il ballo al seguito del carro non è solo spettacolo ma coinvolge gran parte della gente, proveniente da tutta la regione e anche da quelle limitrofe, specie giovani e ragazze che si lasciano volentieri trasportare dalle antiche tradizioni popolari; i canti poi, quelli che si facevano nei campi e che riecheggiavano nelle contrade cittadine al tempo dei raccolti, sono eseguiti oggi con gli strumenti di allora, la fisarmonica e l'organetto.
La festa della vendemmia è ormai divenuta una tradizione tramandata di generazione in generazione, testimonianza di valori che hanno sfidato il tempo e che hanno confermato, da parte dei riccesi, le qualità umane e di attaccamento alla propria terra. Ogni anno la Sagra dell'Uva di Riccia coglie l'occasione di arricchire il nostro animo della sua storia e cultura, ma anche dei suoi solidi valori.”

In giro per l'Italia: Riccia
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Al tajadel

2 Agosto 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #ricette

Al tajadel

Forse non tutti sanno che il campione ufficiale del metro, costituito da una barra di platino-iridio è custodito a Parigi, mentre sicuramente tutti i bolognesi sanno che alla Camera di Commercio della nostra città è depositato il campione ufficiale della tagliatella. Bisogna essere precisi per la larghezza onde evitare di fare delle pappardelle o dei tagliolini. È assai facile fare una tagliatella della giusta dimensione basta tenere presente che per essere perfetta deve essere pari alla 12.270esima parte dell'altezza della torre degli Asinelli, un semplice calcolo che vi porterà a una larghezza di 6,5-7 mm, misura valida per la sfoglia cruda.

Chiaramente occorre la giusta attenzione e precisione, sono tutti bravi a dire tagliatelle bolognesi, ma la tagliatella è un'arte e come tale la si deve rispettare. Dunque anche per lo spessore occorre essere “sdoura” bolognese per produrre certamente una tagliatella perfetta. Infatti occorre impastare la sfoglia e “tirarla” col mattarello in una cucina che affacci verso il colle di San Luca Quando lo spessore vi sembra quello giusto allora sollevate la vostra sfoglia e guardateci attraverso, se riuscite a scorgere la sagoma del santuario lo spessore sarà perfetto altrimenti occorrerà darsi da fare un altro poco col mattarello stando bene attenti a non fare buchi, né a lasciare parti più grosse. Se proprio non riuscite a trovare una cuoca bolognese che vi presti una cucina affacciata su san Luca, prendete un centimetro e misurate sapendo che lo spessore esatto è inferiore al millimetro.

Ora che sapete tutto sulla tagliatella perfetta ecco un po' di consigli: per l'impasto usate un uovo ogni etto di farina (a occhio direi una manciata) che deve essere assolutamente di grano tenero. Si sbatte l'uovo all'interno della farina disposta a fontana sul tagliere e si impasta fino a ottenere una massa morbida al punto giusto, non troppo, ma tanto da poter essere tirata col mattarello. Le tagliatelle perfette richiedono un unico condimento, lasciamo perdere funghi porcini e varianti comunque ottime, per imparare a cucinare la tagliatella occorre per prima cosa saper fare il ragù alla bolognese.

La ricetta originale, anche questa depositata alla Camera di Commercio, è la seguente: dosi per 4 persone:

300 gr di cartella di manzo macinata grossa

150 gr di pancetta dolce

50 gr di carota

50 gr di sedano (costa)

50 gr di cipolla

20 gr salsa di pomodoro estratto triplo (5 cucchiai di concentrato di pomodoro)

½ bicchiere di vino rosso

1 bicchiere di brodo di carne

Per preparare un buon ragù con questi ingredienti, tritare finemente con la mezzaluna la pancetta e metterla a soffriggere in un tegame possibilmente di terracotta, lasciarla andare fino a che ha sciolto tutto il grasso poi aggiungere le verdure tritate e rosolare il soffritto così ottenuto. Aggiungere la carme rossa e lasciare insaporire mescolando mentre rosola con un cucchiaio di legno (sempre lo stesso), quindi aggiungere il vino e il pomodoro concentrato sciolto con il brodo. Lasciare bollire per almeno due ore aggiustando di sale e pepe nero a piacere.

Dunque questo è il menù di oggi a casa mia buon appetito a tutti e viva Bologna!

Quella che segue è una modesta composizione poetica in vernacolo, con traduzione per chi non mastica il dialetto, ispirata proprio alla regina della tavola:

AL TAJADEL

Còsa aran avù ed speziel

Cal quater tajadel?

A gli eran d’ov ed galeina

Impasté con fior ed fareina

Lunghi e sutili al pont giost

Madona mì com a li ho magné ed gost!

Avevan e savour di bi temp pasé

Quand l’ira la mama che a li aveva preparé

E po’ condidi con de bon ragò e con

Tot l’udour di arcord ed chi n’i en piò

A son vanzè a bocca averta

Quand a tevla la scudela a jò squerta

E a pans cl’è un anzal mi fiola

Ch' ed su nona l’à tolt so totta la scola!

(Franca Poli)

(traduzione)

Cosa avranno avuto di speciale

quelle quattro tagliatelle ?

Erano fatte con uovo di gallina

impastato con fior di farina

lunghe e sottili al punto giusto

madonna mia come le ho mangiate di gusto!

Avevano il sapore dei bei tempi passati

quando era la mamma che le aveva preparate.

E poi condite con del buon ragù e con

tutto l'odore dei ricordi di chi non c'è più

son rimasta a bocca aperta

quando a tavola la scodella ho scoperta

e penso che è un angelo la mia figliola

che della nonna ha imparato tutta la scuola.

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IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: CERCEMAGGIORE

19 Giugno 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: CERCEMAGGIORE

Oggi le fotografie di Flaviano Testa ci portano a Cercemaggiore, comunemente Cerce, e non ci parleranno solo di un paesino del Molise che sorge in provincia di Campobasso, ma racconteranno anche di un luogo che vive ancora dei prodotti della terra, avendo un elevato numero di contrade rurali dove si pratica l'agricoltura.

l nome del paese deriva proprio dal latino volgare cercea o quercia, con l'aggiunta dell'aggettivo maggiore per distinguerlo da Cercepiccola, altro centro che sorge poco lontano. L'abitato di Cerce si eleva a circa 950 metri di altitudine e la sua felice posizione gli ha meritato l'appellativo di “sentinella dei Sanniti”, ampio è il panorama che si può godere: Cercemaggiore domina la vallata del Tammaro, volgendo lo sguardo si vedono tutte le alture del Molise fino alle montagne d'Abruzzo e nei giorni di sole, quando nelle pianure sottostanti non è presente foschia, si arriva a scorgere l'azzurro del mare Adriatico.

Un paesaggio tutto da godere e respirare perchè a Cerce si vive bene e a lungo. I dati Istat del censimento 2011 registrarono nel Molise la più elevata percentuale di ultra centenari. I rilievi del territorio comunale garantiscono la presenza di numerose falde acquifere che sgorgano in superficie in varie zone, consentendone un buon utilizzo ai fini agricoli, nelle colline che degradano fino ai 4-500 metri si possono ancora notare i frazionamenti effettuati durante il periodo fascista per l'intensificazione delle colture, allora si trattava maggiormente di grano, oggi si coltivano principalmente foraggi destinati al consumo regionale interno dei bovini allevati per la produzione di mozzarella.

Il Molise è terra antichissima e anche qui sul territorio sono venuti alla luce reperti archeologici che risalgono al Neolitico. Interessanti resti di fortificazioni sannitiche rimangono sul monte Saraceno dove, all'interno della suggestive Grotte delle Fate, sono stati rinvenuti materiali litici, punteruoli, frecce...

Nei dintorni di Cercemaggiore si ergono: la chiesa di S.Maria a Monte, di cui il primo impianto può essere datato tra l'XI e il XII secolo, mentre il bel portale è trecentesco e ancora il santuario di Santa Maria della Libera sorto, secondo la tradizione, sul luogo dove nel 1412 un contadino rinvenne un vaso di terracotta contenente una statua lignea della Madonna, notevolissima scultura del XV secolo. All'interno della chiesa e dell'attiguo convento sono conservate importanti opere di artisti locali, come un affresco e una tela di Nicola Fenico e una scultura di Paolo di Zinno, famoso per la costruzione dei “Misteri” di Campobasso.Giordano Pierro, frate domenicano priore del Convento nella prima metà del '900, ha pubblicato studi storici sul paese e sul santuario.

Ogni anno i paesani per la ricorrenza della festa, accorrono numerosissimi ad assistere e seguire la processione dei devoti che recano fiaccole con l'Effige della Madonna, portata a spalla dalle volontarie che indossano, per l'occasione, abiti tradizionali della cultura popolare. Al termine dei riti religiosi le persone si spostano in località Pianello, dove si trovano giostre, bancarelle, stands gastronomici e dove, per allietare la serata, vengono allestiti palchi per l'esibizione di complessi o cantanti in attesa del gran finale con un suggestivo spettacolo pirotecnico.

Tra sacro e profano le feste continuano a essere celebrate per conservare usi popolari e tenere unito il popolo nelle proprie radici, che vede, spesso, scomparire piano piano le antiche tradizioni in favore di ricorrenze dal sapore esotico che importiamo e che sempre più e tendono a soppiantare le nostre usanze.

Una tematica seguita ancora oggi e tornata alla ribalta in occasione dei festeggiamenti per il 150° dell'Unità d'Italia, è il Brigantaggio del Sud su cui vorrei aprire una piccola parentesi. Fu un fenomeno diffuso anche se in gran parte ignorato dalla storiografia ufficiale, perchè non sempre si trattò di delinquenza comune, anzi, nella maggior parte dei casi fu espressione di una sottaciuta rivolta popolare. La povera gente, dopo l'unificazione si trovò ad affrontare una realtà molto triste:le terre demaniali non erano state espropriate e divise fra i braccianti come nelle promesse della vigilia, ma vendute all'asta e i nuovi compratori scesi dal nord sfruttavano i contadini come e più di prima, erano state vietate le pratiche di uso civico, cioè poter raccogliere in modesta quantità prodotti dai fondi demaniali (legnatico, erbatico). Lo stato sabaudo, tra abbandono, incuria e corruzione morale crescenti, triplicava le tasse, imponeva la leva obbligatoria, togliendo alle famiglie anche il sostentamento delle giovani braccia dei figli che, per non adempiere al dovere militare, diventavano disertori e poi briganti.

La storia è lunga e meriterebbe un ampio capitolo, ma qui mi fermo per raccontare fatti che coinvolsero, nel bene e nel male, personaggi vissuti anche nel piccolo paese di Cerce. Nello specifico, mi riferisco a una donna rimasta quasi sconosciuta per oltre un secolo, Maria Luisa Ruscitti.

Nata a Cercemaggiore il 5 maggio del 1844, giovanetta, fu catturata, durante una delle sue incursioni in paese, da Michele Caruso, brigante. La ragazza era di povera famiglia, versava in umili condizioni, ma era dotata di fascino e bellezza; forse costretta, in un primo tempo a subire i capricci di Caruso, in seguito si donò anima e corpo alla sua causa e, in breve tempo, da lui addestrata all'uso delle armi, divenne un soldato della banda molto più in gamba di altri di sesso maschile. Aveva intuito che la violenta lotta condotta dal suo aguzzino, che forse era divenuto il suo uomo, agognava il riscatto dei contadini molisani dalla schiavitù, una vita civile e più umana per i poveri. Così Maria Luisa divenne una “capitana”, partecipava e guidava le azioni, durante uno scontro a fuoco uccise un ufficiale. Catturata nel 1863, fu condannata dalla Corte di Assise di Trani a 25 anni di reclusione. Uscì dal carcere nel 1888 e, tornata in paese, a Cerce, evitata da tutti, trovò lavoro come domestica soltanto presso la famiglia Salvatore. Condusse da allora vita ritirata e di moralità impeccabile, ma qui nasce la leggenda che la vuole ancora protagonista. Nei si dice delle comari si sussurrò che fu proprio la domestica a portare ricchezza nella famiglia che l'aveva accolta, svelando i nascondigli dei tesori dei briganti. In realtà il Salerno capostipite fu uomo laborioso e ingegnoso che aveva impiantato un negozio di generi vari in paese e serviva tutto il circondario, essendosi impegnato in un commercio di scambio con Napoli. Portava in città con fatica e sacrifici i prodotti della campagna e riportava in paese tessuti e manufatti da rivendere. Così si costituì per la famiglia, dopo quarant'anni di attività, il gruzzolo che consentì loro l'acquisto di parte di un vasto podere, Feudo della Rocca, “invidia” di molti, che alimentò chiacchiere e leggende.

(Alcune notizie inerenti questa storia sono state attinte dal sito di Stefano Vannozzi)

IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: CERCEMAGGIORE
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PENSIERI SPARSI

15 Giugno 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli

PENSIERI SPARSI

Oh luce terapeutica per l’animo mio stanco, ti aspetto con trepidazione quando nel prematuro risveglio sono impaurito dalle ombre che mi circondano, massacrato da fantasmi tenaci che hanno fatto delle mie pareti la proiezione concreta delle loro ombre. Brevi lassi di tempo vi rendono padroni senza cuore, non mi avrete mai: stupide interiorità che s’illudono di poter detenere appieno il mio pensiero, vi ripongo con brutale soddisfazione nelle buie tenebre dalle quali emergete. M’è compagna fedele, in tale conflitto quotidiano la salvifica alba, naturale fustigatrice delle angosciose paure. Come in ogni fatale e stolta verità che s’accompagna al meschino vivere dell’uomo, Tu luce prodigiosa però, rechi il fastidioso rombare dei motori, l’acuto fischio di compagni di lavoro, lo stridere delle persiane, le rumorose saracinesche del bar. Ed è così che mi ritrovo nel perenne dissidio dell’uomo, a rifugiarmi nelle ombre che mi sono più favorevoli. Vita, sgualdrina ingioiellata sapientemente mascherata, non ti lasci mai penetrare, mantieni SEMPRE immutata, la tua enigmatica VERGINITA’!

G.Campagna.

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“SUIS ITALIA MILITIBUS”.

4 Giugno 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia

“SUIS ITALIA MILITIBUS”.

Dedico questo racconto al mio conterraneo Alfredo Bacchelli, soldato nel 2 reggimento Genio, compagnia 179, nato a Casalecchio nel 1884, residente a Casalecchio di Reno (Ceretolo), morto per enterite in prigionia a Sigmundsherberg il 18 dicembre 1917 e sepolto nel cimitero di Sigmundsherberg.

“SUIS ITALIA MILITIBUS”.

In questo periodo si parla tanto di commemorazione però non tutti i caduti della prima guerra mondiale vengono ricordati in modo dignitoso. Vi è un cimitero di guerra in cui sono custodite le salme di 2398 soldati italiani. È il cimitero del campo di prigionia di Sigmundsherberg che si trova a Waldviertel in Austria. Il campo era stato costruito verso la fine del 1914 per ospitare i prigionieri russi, ma in seguito, specialmente dopo la disfatta di Caporetto, divenne un luogo di detenzione di soli prigionieri italiani. Il centro era progettato per 40.000 uomini, ma ne ospitò sempre un numero maggiore fino a contarne oltre centomila. Gli internati, proprio per evitare l'affollamento, venivano inviati al lavoro esterno e alloggiati in centri di raccolta fuori dal campo, in uno di questi erano rinchiusi gli ufficiali italiani. Sigmundsherberg era servito da una buona rete ferroviaria, cosicchè divenne ben presto un punto di smistamento per la posta diretta non solo ai detenuti del campo ma a tutti i prigionieri dell'Austria-Ungheria, arrivando a selezionare migliaia di pacchi e di lettere ogni giorno, all'interno dell'ufficio postale stesso erano impiegati oltre 500 prigionieri. Altri erano adibiti, come detto, al lavoro esterno, molti (50.000 circa) furono destinati alla costruzione della ferrovia sopraelevata di Vienna, altri vennero inviati presso famiglie delle campagne austriache al fine di sostituire nei lavori dei campi gli uomini impegnati al fronte, altri ancora furono addetti al lavoro in officine, costruite nelle baracche del campo, ove venivano portati gli aerei abbattuti per recuperarne pezzi di ricambio. La vita dei prigionieri era garantita dal rispetto delle norme internazionali: il vitto era assicurato e sufficiente, almeno all'inizio, e vi erano ore dedicate allo svago, allo studio e al riposo, la sanità era curata da quattro medici austriaci coadiuvati da medici e infermieri italiani, (scelti sempre fra i prigionieri) comandati dal colonnello Ettore Castoldi. Il momento più critico si ebbe quando dopo lo sfondamento del fronte italiano a Caporetto furono condotti al campo migliaia di soldati feriti o stremati dalla vita di trincea, poiché coincise con l'aumentare delle restrizioni sia alimentari che di igiene, dovute alla crisi degli ultimi mesi di guerra che colpiva anche la popolazione civile austriaca. Fu in quel periodo che il numero dei decessi aumentò notevolmente. Il comandante cercò di impiantare una coltivazione di prodotti della terra per cercare di soddisfare il fabbisogno interno, purtroppo con scarsi risultati, dato il notevole numero di prigionieri e di soldati addetti alla custodia. Mancava la legna da ardere, mancavano cibo e medicine e in quel periodo la vita dei soldati italiani detenuti divenne davvero dura. Il cimitero costruito dagli stessi prigionieri si riempì e alcune opere funerarie, che si possono ancora oggi vedere all'interno della cappella che affianca il camposanto, furono eseguite da prigionieri che poi non sopravvissero e il loro nome compare oggi nell'elenco dei caduti.
Nel 1922 ebbe inizio il recupero del cimitero per offrire dignità e decoro a quei ragazzi morti lontano da casa e il cippo su cui era stata incisa la scritta “SUIS ITALIA MILITIBUS” fu trasportato all'interno della cappella, con lo scopo di ovviare al degrado dovuto al tempo e alle intemperie. Ai piedi del corpo marmoreo si può vedere che sono state portate due corone, entrambe con la bandiera austriaca, nessuna ghirlanda recante il tricolore invece è stata deposta in quel luogo sacro alla Patria. Lo stato italiano dimentica i suoi caduti anche nel centenario della commemorazione e non c'è da meravigliarsene vista la cura che si prende dei suoi cittadini vivi e vegeti.
Questo mio scritto vuole essere un fiore posato sulle tombe di Sigmundsherberg, un modesto omaggio in ricordo dei nostri soldati dimenticati.

“SUIS ITALIA MILITIBUS”.
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Alessandro Alberti, "Radio alternative. La destra che comunicava via etere"

2 Giugno 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #giacinto reale, #alessandro alberti, #recensioni

Alessandro Alberti, "Radio alternative. La destra che comunicava via etere"

RADIO ALTERNATIVE

LA DESTRA CHE COMUNICAVA VIA ETERE

ALESSANDRO ALBERTI

ECLETTICA EDIZIONI

EURO 16,00

A cura di Franca Poli e Giacinto Reale.

Un libro ben scritto, con stile chiaro e scorrevole, ricco di notizie davvero interessanti e sconosciute ai più, esposizione circostanziata, un libro che mancava insomma, e del quale si sentiva l’esigenza. Si tratta del primo lavoro di Alessandro Alberti, che inizia la sua carriera di scrittore, con un esordio davvero buono, cercando di dar voce a quella parte di giovani che vissero esperienze ignorate dalla cultura ufficiale. Non è solo cronaca, né tanto meno cronaca limitata ad una iniziativa di quella giovane Destra che negli anni settanta e ottanta, pur tra mille difficoltà ed ostilità, seppe ricavarsi un suo spazio. E’ la narrazione di un pezzo del costume italiano, degli “anni di piombo” e di quell’impazzimento generale che costò tante giovani vite. Storia di cultura e militanza, nella quale compaiono nomi di politici destinati a un brillante futuro e di volenterosi giovanotti destinati a restare nell’anonimato.

Tutto cominciò con le due sentenze della Corte Costituzionale che nel ’74 stabilirono la “libertà di antenna”: bastavano pochi mezzi e tanta buona volontà per mettere su una “radio libera” (come allora si chiamavano), un mixer, due piastre, un revox, con impianto di diffusione e antenna e si poteva partire ... il pubblico non mancava. Un tentativo di abbattere il muro di gomma della comunicazione gestita fino ad allora esclusivamente dalla rete pubblica. Il vero problema, piuttosto, era trovare una frequenza che non fosse già occupata, nell’affollamento che subito si ebbe nell’etere, e innescò - come è stato detto - “un fenomeno che ha avuto conseguenze straordinarie sulle tecniche di comunicazione, sul costume, sulla politica del nostro Paese”.

La prima, a destra, fu Radio University di Milano (dicembre ’75), che, fin dall’inizio, individuò i canoni ai quali poi tutte le altre si sarebbero attenute: alternanza di parlato e brani musicali, professionalità dei responsabili dei due settori, libertà massima nella interpretazione delle notizie e nella scelta dei brani musicali. Rispetto alle radio “commerciali” preesistenti, l’ascoltatore che si fosse sintonizzato per caso avrebbe notato subito una differenza: lì c’era una ripartizione dei programmi che vedeva prevalere il “musicale” (65%) sul “parlato” (35%), qui predominavano le voci, le notizie, i commenti, le segnalazioni di libri ed iniziative e la partecipazione diretta degli ascoltatori ai dibattiti, ai programmi culturali. Queste furono le caratteristiche distintive delle radio “alternative”, più delle loro dirimpettaie “di sinistra”, dove i vincoli ideologico-settari erano molto forti, ed anche le selezioni musicali erano condizionate da precise scelte fatte “a monte”. Il tutto, però, senza trascurare una funzione essenziale – in tempi di ghettizzazione - voluta dagli organizzatori, ma reclamata a gran voce dall’utenza: quella della controinformazione. In un periodo nel quale logiche di “arco costituzionale” volevano relegare nel cattiverio “senza se e senza ma” tutto il mondo della destra, sintonizzarsi sulla radio alternativa della propria città e sentire le notizie voleva dire, per molti, rompere la sensazione di isolamento e sentirsi parte di una comunità. Questo un po’ dovunque, perché radio alternative sorsero dappertutto, nelle città più grandi, come (per citarne solo alcune) Torino, Roma, Bologna dove Radio Alternativa, ubicata in vicolo Posterla,18, provava a rispondere a radio Alice che spopolava in città e che, prima di essere messa sotto sequestro, con l'accusa di aver guidato la guerriglia urbana, il giorno della manifestazione in cui venne ucciso Francesco Lorusso aveva segnalato gli spostamenti delle forze dell'ordine e trasmesso in diretta tutte le telefonate che giungevano in redazione inerenti i disordini in città. Le registrazioni delle ultime fasi, con la concitazione dei momenti dell'arresto dei redattori, furono trasmesse a lungo da molte radio libere sia di destra che di sinistra.

La voce delle radio alternative non toccò solo le grandi città, ma giunse anche in piccoli centri, come, (sempre con una scelta assolutamente casuale) Rieti, Montesarchio, Massa e Viterbo. Non sempre le cose filavano lisce: i tentativi di mettere a tacere queste radio che erano “libere”, ma soprattutto “alternative” non mancarono. A Milano via Mancini, dove Radio University aveva sede (anche se solo pochi sapevano esattamente in quale stabile), era presidiata, nelle giornate “calde” dagli sprangatori della Statale e non solo, che controllavano i documenti ai passanti per identificare i non residenti, i quali avrebbero potuto essere potenziali redattori. A Roma, Radio Alternativa, animata da Teodoro Buontempo, ebbe sede nello stesso stabile di via Sommacampagna, dove c’era il Fronte della Gioventù e, solo per caso, una pentola a pressione imbottita di dinamite, posata sul davanzale di una finestra da mano “ignota” non provocò una strage. Anche a Torino fu la federazione del MSI ad ospitare la sede di Radio Blitz, e così avvenne un po’ dappertutto. Va però detto che, in genere, si trattò di ospitalità e basta, poichè (sia pure con qualche tentativo forse nemmeno troppo convinto) il mezzo sembrava ancora troppo “nuovo” ad un Partito i cui vertici non si distinguevano certo per giovanilistici entusiasmi. Infatti, sia pure in contemporanea con la crisi dell’intero settore, dovuta soprattutto all’emergere del più coinvolgente mondo delle tv “libere”, quasi tutte le Radio chiusero per mancanza di mezzi, non potendo contare, un po' per scelta, un po' per necessità, sul supporto “commerciale” di inserzionisti a pagamento. Finchè trasmisero, comunque, furono strumento divulgatore di idee, cultura, attività per tutto il mondo giovanile di destra, e consentirono l’approdo ai grandi numeri di vendita e notorietà di una musica “alternativa” che, per l’originalità dei testi, l’armonia dei suoni e la personalità degli interpreti avrebbe meritato successo maggiore. Qui la scelta si fa ardua, e non può non risentire dell’esperienza e dei gusti di ognuno: per quel che ci riguarda, di comune accordo, in cima alla classifica abbiamo scelto due complessi: La Compagnia dell’Anello (“Padova, 17 giugno 1974”) e gli Amici del Vento (“Vecchio ribelle”) Poi c’è solo la difficoltà di ricordarli tutti: gli ZPM, gli Janus, il Vento del Sud, e, tra i solisti: Fabrizio Marzi, Michele di Fiò, Francesco Mancinelli, Gabriele Marconi e con particolare affetto ricordiamo l’indimenticato Massimo (“Massimino”) Morselli (“Nostri canti assassini”)…e chiediamo scusa a tutti quelli che abbiamo dimenticato.

Un’ultima cosa c'è da dire: all’interno di queste radio, nonostante i pericoli e le difficoltà, regnava, incontrastata, un’atmosfera di allegria, di giovanile spensieratezza, che non incideva sull’impegno e la professionalità davanti al microfono e alla consolle. Questo emerge dalle molte testimonianze dei protagonisti riportate nel libro, che hanno conservato un ricordo incancellabile di quella esperienza, dei fatti, delle emozioni, e degli aneddoti. Chiudiamo proprio con uno di questi: tutti hanno ben presente la spiritosa invenzione di Fiorello di “Gnazio”, riferita a La Russa… ebbene pochi sanno - e il libro ce lo racconta - che il futuro Parlamentare di AN fu il primo a ridere della sua accentuata “sicilianità”. A Radio University andava in onda una trasmissione satirica che era una specie di “Alto gradimento”, e al microfono si alternavano vari personaggi che, con voce buffa, commentavano, a modo loro, i fatti del giorno. Uno di questi era “Siculio” il cantastorie stonato e dal marcato accento isolano interpretato - con grande successo, va detto - dal futuro Ministro della Repubblica. Questo lo abbiamo scoperto nel libro di Alberti, ma c’è molto altro….non vi resta che sfogliare la vostra copia.

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IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GILDONE

31 Maggio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GILDONE

Girovagando con Flaviano, debbo dire, ho scoperto tante facce del Molise, che sfuggono ad un visitatore poco attento. Con le sue fotografie apre una finestra sulla realtà, sui paesaggi, sui personaggi e abbiamo così potuto ammirare scorci panoramici stupendi, monumenti, palazzi medievali, castelli e vissuto tanta storia. Questa piccola regione è come un diamante grezzo e ogni volta ne mettiamo a nudo un pezzo importante. Oggi ci troviamo a Gildone, un'altra piccola realtà in provincia di Campobasso.

Il borgo antico sorge su un colle da cui si gode un'ampia veduta e il paesaggio è quello tipico della collina molisana con campi coltivati alternati a boschi che coprono buona parte del territorio. Il centro del paese è rappresentato dal classico borgo medievale con stradine strette e ben tenute, dove è facile incontrare persone anziane, sole, sedute in attesa di un figlio lontano, perse nei ricordi di un tempo quando tutto intorno erano bambini schiamazzanti, chiasso, vita

Le prime notizie del paese risalgono al XII secolo quando era “Celidonia” divenne poi Celdrone e infine Geldone nel XII secolo. Fra le principali attrattive del paese senz'altro la chiesa parrocchiale di San Sabino, edificio di antica origine trasformato nella struttura attuale in epoca barocca, interessanti opere di scuola napoletana si possono ammirare all'interno della chiesa di Sant'Antonio Abate. Lungo una strada del centro, una particolare cappella, una Edicola sacra, mostra ai passanti l'affresco di cinque santi: San Pietro, San Cristoforo col bambino sulle spalle, San Paolo e nelle due lunette San Rocco e San Sebastiano. In località Morgia della Chiusa è venuto alla luce un sepolcreto sannitico cronologicamente collocato tra la fine del V e gli inizi del III secolo a.C., composto da 23 tombe disposte su tre raggruppamenti diversi.

Le tombe sono tutte a fossa, senza copertura... riempite di terra e pietre; Lo scheletro è disteso supino talora con testa reclinata... la maggior parte delle tombe presenta uno o due vasi deposti ai piedi... Le tombe maschili sono caratterizzate da un piccolo coltellino posizionato sulla spalla, da rasoi, da piccole asce, in tre casi da cinturoni di bronzo e in tre casi da punte di giavellotto. Le tombe femminili hanno le fibule (i fermagli per i vestiti) sia di bronzo che di ferro, talora con decorazione a filigrana...” (Fonti e bibliografia: Di Niro A., "Gildone. Necropoli sannitica, in Conoscenze V", Campobasso, 1989 )

Salendo sulla collina che sovrasta il paese, in zona “Montagna” si arriva a un'altezza di circa 1000 metri sul livello del mare e si trovano i resti di una lunga struttura muraria che costituisce la “fortificazione di Gildone”. Le mura sono visibili per ampi tratti e sono realizzate con grossi blocchi, sovrapposti e intercalati con pezzi di minore grandezza, purtroppo lo stato di conservazione non è ottimale e la parte visibile non supera il metro di altezza. Dalla sommità si gode una splendida vista sulla valle del torrente Carapelle e sul percorso del tratturo Castel di Sangro-Lucera.

Un'importante festa si tiene ogni anno a Gildone il 13 giugno in onore di Sant'Antonio di Padova, patrono del paese. La “devozione del pane”, è una ricorrenza particolarmente suggestiva che vede, durante la processione del santo, portato a spalle per le vie del paese, tutte le donne sfilare in corteo reggendo in equilibrio sulla testa grandi cesti di vimini ornati di gigli e ricolmi di pane. Le massaie più esperte riescono a trasportarne fino a 15 kg, sfilando con passo sicuro. La pratica di tale tradizione risale agli anni '30, quando fu inviata in paese una levatrice che veniva da Rovigo, tale Amabile Tezzon, la quale, nel giorno della processione, fece trovare, al passaggio del santo, una cesta di pane e dopo la benedizione lo distribuì ai poveri, in ricordo del gesto compiuto dalla madre del piccolo Tommasino miracolato dal Taumaturgo. Da allora la commissione organizzatrice adottò questa iniziativa e divenne consuetudine. Ancora oggi il pane benedetto, preparato il giorno prima con la farina (un tempo donata dai paesani) ora offerto dai fornai del paese, viene distribuito a tutti i partecipanti. Queste tradizioni popolari legate alla fede servono a tenere uniti i gildonesi che di generazione in generazione mantengono vive le loro usanze e nell'occasione di queste ricorrenze cercano di rientrare in paese o di osservarle anche se si trovano all'estero, per quel senso di comunanza e vicinanza che, più si è lontani, più si fa forte. Da Gildone sono emigrate migliaia di persone, i primi partirono già nel 1880, il paese è passato da una popolazione media che sfiorava 3000 abitanti agli attuali 850 circa. Il fenomeno fu intenso fino al 1915, quasi si esaurì durante il ventennio fascista, per ricominciare verso la fine degli anni 40. L'origine di tale fuga dalle proprie case fu la diffusa povertà e il grande desiderio di migliorare le condizioni economiche della famiglia. I gildonesi, e i molisani in generale, partivano dal porto di Napoli per affrontare lunghi viaggi che li portavano negli Stati Uniti, in Brasile, Argentina, Canada e Australia. Erano viaggi verso una “terra promessa” ignota, spesso senza progetti concreti di ritorno in Italia. Diverso era invece il sogno di chi emigrava verso altre regioni italiane o in Europa, almeno all'inizio lasciava al paese la famiglia sperando di tornare e potersi costruire una casa, in realtà pochi poi hanno fatto ritorno definitivo, col tempo le famiglie li hanno raggiunti e si sono stabiliti nel paese di emigrazione.

Poesia di Gianni Rodari Il treno degli emigranti.

Non è grossa, non è pesante la valigia dell'emigrante... C'è un po' di terra del mio villaggio, per non restar solo in viaggio... un vestito, un pane, un frutto e questo è tutto. Ma il cuore no, non l'ho portato: nella valigia non c'è entrato. Troppa pena aveva a partire, oltre il mare non vuole venire. Lui resta, fedele come un cane. nella terra che non mi dà pane: un piccolo campo, proprio lassù... Ma il treno corre: non si vede più.

IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GILDONE
IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GILDONE
IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GILDONE
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IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GILDONE
IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GILDONE
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Stelutis alpinis

29 Maggio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia, #musica

Stelutis alpinis

“Stelutis alpinis” è un canto scritto e composto da Arturo Zardini (1869-1923) durante la Prima Guerra. L'autore, profugo a Firenze, era un maestro di Pontebba, paese che allora si trovava sul confine italo-austriaco. La canzone è una sintesi di sentimenti profondi: sofferenza, fedeltà, affetto, intimità, una canzone semplice che ha fatto presa sull'anima popolare ed è diventata l'inno degli alpini e del Friuli intero, anche durante l'altra guerra.
Il testo originale scritto in dialetto friulano è ricco di diminutivi, vezzeggiativi specifici del parlare friulano, molte sono le versioni tradotte in lingua italiana, pregevole quella del poeta Chino Ermacora che la pubblicò nella rivista “PICCOLA PATRIA” nel 1928.
In seguito, nella traduzione, anonimamente, qualcuno ha aggiunto due strofe che non appartengono al canto originale, prezzo da pagare quando un successo diventa popolare. Anche Francesco De Gregori ne ha tratto una sua versione con una canzone compresa nell'album ”Prendere lasciare”
Qui di seguito riporto una versione di Emilio Maria Boria, molto conosciuta, forse la più nota e che, anche se perde un po' della metrica originale, cerca di rispettare la semplicità del testo e soprattutto di non perdere nella traduzione il ritmo che permetta di "cantarla" in italiano. Ovviamente comprende anche le due strofe apocrife

STELLE ALPINE

Se verrai qui fra le rocce
Dove lor mi han sotterrato
C'è uno spiazzo pien di stelle
Dal mio sangue fu b
agnato.
Come segno una crocetta
È scolpita nelle rocce.
Fra le stelle c'è l'erbetta
Sotto loro dormo in pace.
Prendi su, prendi una stella
Che ricorda il nostro amore.
Dalle un bacio, è così bella.
Poi nascondila sul cuore.
Quando a casa tu sei sola
E di cuor tu pensi a me
Il mio spirito a te vola
Io e la stella siam con te.
Ma un bel dì quando la guerra
Farà parte dei ricordi
Nel tuo cuore là dov'eran
Stella e amore saran morti.
Resterà per me la stella
Che il mio sangue ha già nutrito
Perché splenda sempre bella
Sull'Italia all'infinito.

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INGIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: PESCOPENNATARO

27 Maggio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

INGIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: PESCOPENNATARO

Le fotografie con cui oggi Flaviano Testa ci presenta questo piccolo paese dell'alto Molise, raccontano meglio di altre la solitudine e l'abbandono che vive questo luogo incantevole per la natura che lo circonda. Oggi in paese si contano poco meno di trecento abitanti e..... due gatti. Sul suo territorio sono venuti alla luce reperti risalenti al Paleolitico. Al museo civico della Pietra “Chiara Marinelli”, si può ammirare un'importante collezione Preistorica, frutto di una ricerca trentennale e di uno studio costante ed appassionato, vi sono esposti oltre 1600 manufatti in selce e calcare, molti dei quali di straordinaria fattura. Vi è una sezione interamente dedicata ai numerosi scalpellini pescolani, che si sono resi famosi in tutto il mondo per la loro maestria, realizzando opere in pietra finemente lavorate.

L'abitato sorge a oltre 1200 metri di altitudine e soffre di forti nevicate durante l'inverno, precipitazioni a cui gli abitanti sono abituati e i cui disaggi sanno affrontare con tranquillità. Si ricorda un episodio accaduto durante la seconda guerra mondiale nei pressi del paese. Le truppe inglesi avevano occupato il territorio e impiegavano alcuni soldati indiani che, per approvvigionamenti e altro, aiutandosi con dei muli, facevano la spola fra Pescopennataro e Agnone. Successe che, durante uno dei viaggi, una squadra composta da circa venti uomini venisse sopraffatta da una bufera di neve e perdesse l'orientamento, poiché la strada era completamente coperta di neve e non si vedeva niente intorno. Giunta la sera, mentre vagavano in quel deserto di dune bianche, stremati dal freddo e dalla fame, decisero di accendere un fuoco per scaldarsi e di uccidere i muli per sfamarsi. Quando oramai avevano perso le speranze di potersi porre in salvo, furono raggiunti da alcuni soccorritori partiti da Pescopennataro, così sotto l'abbondante coltre di neve rimasero solo i muli, che nei giorni successivi divennero una riserva di carne fresca per gli abitanti del paese.

Fra i monumenti più importanti che si possono ammirare in centro al paese, la chiesa di San Bartolomeo Apostolo, la porta arcuata medievale, detta "Porta di sopra" e la fontana di Piazza del Popolo, opera dell'architetto De Lallo.

La vera attrattiva resta comunque lo splendido scenario naturale: le località Rio Verde e la Pescara con piste per lo sci di fondo, l'area boschiva che si estende fino a monte San Luca, ricca di rare specie arboree come l'abete bianco, fanno di Pescopennataro, chiamato anche “il paese degli abeti bianchi”, la piccola Svizzera del Molise. Un tempo i maestosi boschi di abete bianco erano ricchezza di tutto l'Appennino, oggi, a causa delle mutate condizioni climatiche, dello sfruttamento del territorio, la specie è divenuta rara e deve essere preservata per consentire ai visitatori di godere ancora di uno scenario affascinante e suggestivo attraverso una rete di sentieri naturalistici che si snoda all'interno delle abetaie esistenti. Dalle sorgenti di Rio Verde sgorgano fresche acque oligo minerali e a fine inverno si possono ammirare panorami mozzafiato con le cime circostanti ancora innevate mentre i prati si tingono di verde intenso e si coprono di candidi bucaneve. Di recente sono state attrezzate in zona vie per l'arrampicata sportiva e per l'alpinismo, che richiamano appassionati da ogni parte d' Italia.

La notte di sant'Antonio Abate, fra il 16 e il 17 gennaio, si accende un grande fuoco in piazza attorno al quale, da tutti i partecipanti, vengono consumate patate e salsicce cotte alla brace, mentre durante il mese di agosto si tiene un'importante serie di festeggiamenti con intrattenimenti musicali, sagre ed eventi che richiamano turisti e paesani emigrati. Per circa quindici giorni il paese torna vivo, pieno di gente, le strade si fanno rumorose e le finestre e le porte delle case abbandonate si aprono... poi tutto torna nel silenzio.

INGIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: PESCOPENNATARO
INGIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: PESCOPENNATARO
INGIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: PESCOPENNATARO
INGIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: PESCOPENNATARO
INGIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: PESCOPENNATARO
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IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: TUFARA

20 Maggio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: TUFARA

TUFARA è un piccolo centro del Molise simile a tanti altri che abbiamo visitato attraverso l'obiettivo curioso e attento di Flaviano Testa, si stende sulla valle del Fortore a un'altezza di circa 400 metri sul livello del mare, conta meno di mille abitanti e soffre una emigrazione emorragica costante.

Territorio collinare e clima sufficientemente mite offrono la possibilità di coltivazioni di cereali e ulivi che si alternano a pendii boschivi fino al centro del paese che si trova arroccato su una rupe di tufo. Il toponimo deriva infatti dal tipo di roccia sulla quale è edificato il paese. Nei pressi si trova uno dei boschi più belli e conosciuti della zona: il bosco Pianella, noto soprattutto per la varietà delle specie arboree che vi dimorano. Un'area che in passato è stata dotata di un camping, e attrezzata alle esigenze turistiche con campi da tennis e piazzali attrezzati per pic-nic.

'abitato di Tufara è dominato dal castello medievale edificato dai Longobardi, che originariamente doveva servire alla sorveglianza militare del territorio ed era considerato di notevole importanza strategica, perché posto sulla via di collegamento fra la Puglia ed il Ducato di Benevento, in prossimità del tratturo Celano-Foggia. Oggi appare come un imponente edificio che domina la piazza antistante il centro storico, si trova infatti nel cuore dell' abitato. Le cortine murarie si alzano su tre lati e sul quarto, dove si apre l'attuale ingresso, vi sono due torri. L'accesso è ubicato sul lato più corto a nord ed è preceduto da una scalinata molto ripida ricavata nella roccia. All'interno presenta due splendide sale, una adibita a piccolo museo e l'altra a sala consiliare del Comune.

Stabilire con precisione quando sia sorta Tufara è molto difficile, comunque chiare testimonianze archeologiche, mostrano come il territorio sia stato abitato sin dal III-II sec. a.C. Si presuppone che le origini dell'attuale abitato non vadano oltre il X secolo. Chiara testimonianza sono alcuni ritrovamenti di vasi in ceramica e di una particolare ascia, chiamata “bipenne”, risalenti al periodo alto medioevale.

A Tufara, come in altri centri del Molise, il 17 gennaio, festa di Sant'Antonio Abate, vengono accesi i tradizionali “fuochi” , un'usanza di origini pagane che aveva la funzione di propiziare i raccolti. La manifestazione più caratteristica del paese però è anche una delle più antiche di tutto il Molise: rituale che ha luogo l'ultimo giorno di carnevale di ogni anno. Nel pomeriggio ha inizio il corteo con al centro il diavolo, una maschera nera, con le corna, la lingua penzolante e vestito con una casacca formata da sette pelli di capra. Cammina, in catene agitando un tridente, con movimenti invitanti, seducenti che suscitano timore e superstizione, scortato da tre uomini vestiti da frati. Lo precedono due figuranti con lunghe falci, con il viso dipinto di bianco, che gridano a ogni passo “Ah la morte!”. Il corteo si dipana per tutte le vie del paese e a sera,all'interno del castello, viene allestito un tribunale che giudica tutte le gravi colpe di Carnevale , un fantoccio dalle sembianze umane. Durante il processo i giurati, aggirandosi tra la folla, chiedono al pubblico quali colpe addebitare al Carnevale, mentre un altro figurante, che rappresenta la madre, si dispera e giura che si sta compiendo un’ingiustizia. Giunge inevitabile la condanna a morte. Dopo l'esecuzione per fucilazione, il fantoccio viene gettato dal torrione del castello e afferrato dal diavolo che lo scaraventa poi nel vuoto da un'altra rupe. Muore il pupazzo ma non la speranza, poiché la madre con in mano il filo del destino, conocchia e fuso, ha già pronto un altro neonato che darà continuità al rito.

Il significato di questa importante tradizione si è in parte perduto, rappresentava un tempo la passione e morte di Dioniso, Dio della vegetazione, un dio che ogni anno moriva e rinasceva come i raccolti. In seguito, con l'avvento del Cristianesimo, venne banalizzata e declassata a semplice maschera carnevalesca. Una manifestazione che merita sicuramente di essere vist , molti emigranti ritornano in paese attirati da uno speciale richiamo al quale non sanno sottrarsi, poiché assistere al rito risulta davvero emozionante e suggestivo, riporta in un mondo arcaico, in armonia con la natura, chiara espressione di riti atavici, rozzi, misteriosi e magici.

IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: TUFARA
IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: TUFARA
IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: TUFARA
IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: TUFARA
IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: TUFARA
IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: TUFARA
IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: TUFARA
IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: TUFARA
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