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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

franca poli

“POSSIAMO VENDERE IL NOSTRO TEMPO MA NON POSSIAMO RICOMPRARLO” (Fernando Pessoa)

18 Maggio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

“POSSIAMO VENDERE IL NOSTRO TEMPO MA NON POSSIAMO RICOMPRARLO” (Fernando Pessoa)

Lisbona ti cattura, se ci vai ci torni, avrai per sempre negli occhi il suo cielo, le sue strade, i rumori delle piazze, la nostalgia dei suoi colori e delle sue ombre e i sorrisi dei portoghesi che prendono la vita senza lasciarsi prendere.

E dopotutto ci sono tante consolazioni! C’è l’alto cielo azzurro, limpido e sereno, in cui fluttuano sempre nuvole imperfette. E la brezza lieve [...] E, alla fine, arrivano sempre i ricordi, con le loro nostalgie e la loro speranza, e un sorriso di magia alla finestra del mondo, quello che vorremmo, bussando alla porta di quello che siamo.”(Pessoa)

Così se corrisponde al vero quello che dice il poeta: “a melhor maneira de viajar è sentir” allora possiamo dire che viaggiare per Lisbona è davvero sentirla, conoscerla,viverla. Percorrendo le sue strade si viene investiti dalla sua luce, si è catturati dal suo mistero, da tutta Lisbona e dalla sua lunga storia, una città che, pur modernizzandosi con nuovi quartieri, conserva una straordinaria atmosfera di luogo antico, con strette viuzze, saliscendi, giardini, ma anche dai sapori di un tempo con gli squisiti piatti della cucina tradizionale e con i suoi gradevoli vini. Ci sono piccole taverne, dei buchi, coi muri tappezzati di azulejos , tavoli vecchi di legno tarlato con le gambe dondolanti, bettole, che sono là da tanti anni, da secoli chissà, ma dove si gusta pesce fresco cotto ai ferri, bacalhau, sardinas o arroz de peixe, una sorta di risotto in umido e i pasteis de nata, vere delizie alla crema e dove si beve un buon vino. Vini rossi, famosi nel mondo, ma anche ottimi bianchi e specialissimi vini verdi, più leggeri, poco alcolici e piacevolmente frizzanti, una vera delizia per dissetarsi senza effetti collaterali.

Há em Lisboa um pequeno número de restaurantes ou casas de pasto [em] que, sobre uma loja com feitio de taberna decente, se ergue uma sobreloja com uma feição pesada e caseira de restaurante de vila sem comboios. (Pessoa)

Lisbona è una città dove è piacevole passeggiare, raggiungere le colline su cui sorge, sette come i colli di Roma, aggrappandosi alle vecchie maniglie dello sferragliante tram numero 28 che si inerpica, strettoia dopo strettoia, verso la cima dove sorge il castello di Sao Jorge che si trova sul promontorio più alto. Da lassù si gode uno splendido panorama: Lisbona, ranquilla, dormiente, si stende ai nostri piedi, con l’Oceano a fare da immensa cornice, si vedono tutti i quartieri e, sulla riva del Tago, la statua del Cristo Re, uguale a quella del Brasile. Nel cielo si staglia una cupola, candida e tonda, è la cupola del Pantheon nazionale portoghese, la chiesa di Santa Engracia. È un luogo dove, se si presta attenzione col cuore, si sentono risuonare le note del fado, la malinconica musica tipica di Lisbona e si può udire la voce della regina di tale genere Amalia Rodriguez i cui resti mortali sono ospitati all'interno insieme a quelli di altri personaggi famosi. La cupola del Pantheon, così poderosa, preannuncia un interno solenne e sontuoso che ricorda la magnificenza delle nostre chiese. La costruzione di questo importante monumento ha una storia tormentata che passa attraverso lutti, leggende e tempeste, tant'è che il detto popolare “obras de Santa Engrácia “ sta proprio a indicare un lavoro che non conosce termine. La chiesa originaria, di cui oggi non resta nulla, fu eretta nel 1568, ma una tempesta nel 1681 la rase completamente al suolo. L’anno seguente venne posata la prima pietra dell’attuale edificio. Il progetto della ricostruzione, affidato al maestro João Antunes, vide la conclusione solo nel 1966, per ordine dell’allora Presidente del Consiglio António de Oliveira Salazar. Erano trascorsi ben 284 anni. È d'obbligo fermarsi per una foto, godersi il panorama e ascoltare una voce che, davanti a tanta meraviglia, si fa spazio dentro di noi “Siediti al sole. Abdica e sii re di te stesso.” (Pessoa)

Poco lontano si erge la chiesa di San Vincente de Fora eretta nel 1582 ad opera dell'italiano Filippo Terzi che, seguendo i canoni dell'epoca, si ispirò alle chiese romane del Rinascimento. In zona ogni martedi e ogni sabato si tiene la “fera da ladra” un mercatino dell'usato tutto speciale dove, aggirandosi in un formicaio di persone intente a osservare ogni genere di articoli, si possono comprare mobili e vestiti usati, vecchi dischi, quadri, ceramiche, lampadari, libri e persino cuccioli di ogni tipo. Il quartiere dell'Alfama è un pittoresco labirinto di stradine, piazzette e scalinate che risale all'epoca dei visigoti, anche se il definitivo attuale tracciato fu opera dei musulmani. Tutto il quartiere si veste a festa con addobbi e fiori per la ricorrenza di Sant'Antonio, il patrono, la festa più importante di Lisbona e del Portogallo intero. Sì, lui, quel santo che noi amiamo chiamare di Padova ma che proveniva proprio da Lisbona. In questo quartiere, il più popolare, il “fado” acquisisce la sua massima espressione, le migliori interpretazioni si possono ascoltare nelle taverne dei pescatori che si affacciano, con le pareti inclinate una verso l'altra, sulle strette stradine che lo attraversano. I portoghesi furono un popolo di marinai e di conquistatori e a ogni angolo di Lisbona pare di sentire l'eco ormai spento di antiche gesta che portarono i suoi abitanti a lasciare il porto sul Tago e a partire alla conquista di nuovi mondi. Fu allora che nacque il termine “saudade” quando, lontano da casa, i marinai manifestavano un sentimento così tipicamente portoghese che è interpretato come un misto di malinconia, tristezza e nostalgia. Il “fado”, vero specchio dell'anima, la canzone più genuina dell'espressione popolare, racconta perfettamente la saudade. Le parole del “fado” rivelano fondamentalmente i sentimenti del popolo: il dolore, la disperazione e la tristezza, ma anche felicità e allegria. I fadisti si vestono di nero e si accompagnano con una chitarra, a dodici corde, corta e tozza, per sgranare le note cadenzate di una musica tanto bella quanto triste. Scendendo dai quartieri di Alfama e Bairro Alto ci si trova in Praça do Rossio, situata nel quartiere de la Baixa, punto d'incontro dei cittadini e luogo di passaggio obbligatorio per accedere ai caffè più eleganti, ai negozi: si presenta ai nostri occhi un quadro pittoresco con i tanti fiorai che affollano la zona e costituiscono una suggestiva immagine che invita a fare quattro passi in piena contemplazione. Accanto si trova la praça da Figueira, sede di uno dei più importanti mercati di Lisbona, la rua Augusta si collega alla Praça do Commercio, che abbina l'armonia della sua architettura con il grande spazio che la contraddistingue. Al centro vi è il monumento equestre del re Giuseppe I che fu l'artefice della ricostruzione della città dopo il tremendo terremoto del 1775, che rase al suolo molti quartieri della città. Tre dei suoi lati sono occupati da edifici con porticato, mentre nella parte sud si affaccia sul Tago, da una bella scalinata con due colonne in stile veneziano. È solo il primo giorno, vi è ancora tanto da vedere, magari un bel panorama dall' elevador di Santa Justa, il convento del Carmen, tanti interessanti musei e poi Belem con la sua famosa torre, costruita in mezzo al fiume per controllare l'accesso delle navi in città, dichiarato patrimonio dell'Umanità, come l'antistante monastero dos Jeronimos, capolavoro costruito grazie alle ricchezze che Vasco de Gama aveva riportato dalle sue spedizioni oltremare. Tanti sono i monumenti, le opere d'arte di cui è possibile trovare notizia in ogni guida turistica che si rispetti, ma io sono venuta per godermi l'aria fine che vi si respira, quella luce rosa che pervade la città verso il tramonto, per godermi la compagnia di mia figlia e per capire il mistero di questa città e quella strana attrazione che ti pervade, che te ne fa sentire la mancanza e che ti spinge a tornare. La spiegazione l'ho trovata in questi giorni in un libro “L’anno della morte di Ricardo Reis”, di Josè Saramago, dove si legge: “Non dimenticare che siamo a Lisbona, da qui non partono strade”. Così il fantasma di Pessoa spiega a Reis perchè quando si arriva si ha l'impressione di essere giunti definitivamente a destinazione. Da Lisbona non si va in nessun posto, c'è l'Oceano intorno e davanti il Tago immenso quanto il mare, qui c'è tutto quello che ci si aspetta. È questo, forse, insieme alla mancanza della persona che più conta nella mia vita, che provoca quella profonda nostalgia che oggi mi stringe il cuore. C'è una bella poesia che il poeta Eugenio de Andrade ha dedicato alla sua città dove la vede come una “varina”, personaggio tipico di Lisbona ormai scomparso, la pescivendola che corre verso il Tago.

Qualcuno dice lentamente: La conosci, Lisbona…? La conosco. E’ una giovane scalza e leggera, un vento improvviso e chiaro nei capelli, una piccola ruga intorno ai suoi occhi, la solitudine si apre nelle sue dita e sulle sue labbra, scende le scale, tante scale, tante scale fino al fiume. Io la conosco. E tu, la conosci?” (Eugenio de Andrade)

“POSSIAMO VENDERE IL NOSTRO TEMPO MA NON POSSIAMO RICOMPRARLO” (Fernando Pessoa)
“POSSIAMO VENDERE IL NOSTRO TEMPO MA NON POSSIAMO RICOMPRARLO” (Fernando Pessoa)
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IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GAMBATESA

3 Maggio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GAMBATESA

Flaviano Testa, con le sue fotografie a volte surreali, a volte introspettive, a volte oserei dire “inquiete”, nel senso che guardandole attentamente ricevi uno scossone, forte o leggero ma che ti costringe a riflettere, a pensare, a trarre conclusioni, a reagire e questo è sempre un bene.

Nel suo giro per il Molise oggi ci porta a conoscere Gambatesa, un paese in provincia di Campobasso che conta poco più di 1500 abitanti. Il suo territorio, situato sulla collina che volge al versante adriatico, segna il confine tra Molise e Puglia e offre un'ampia vista sul lago di Occhito, un invaso artificiale ottenuto sbarrando il fiume Fortore. La più notevole testimonianza artistica del paese è il castello, (costruzione medievale poi radicalmente trasformata in palazzo feudale nel XVI secolo) importante per gli affreschi che decorano diversi ambienti dell'edificio, testimonianza pittorica di Donato da Copertino. Gambatesa non si discosta molto dagli altri paesini molisani che abbiamo avuto modo di visitare con Flaviano, una ricca vegetazione, bellissimi paesaggi, una involuzione demografica dovuta alla forte emigrazione dei suoi abitanti e al mancato sviluppo di attività artigianali o industriali, ottimi piatti della più tipica tradizione come baccalà con la mollica: piatto della vigilia di Natale, costituito appunto da baccalà condito con olio, aglio tritato, sale, prezzemolo, uva passa, noci, cosparso di mollica di pane e cotto in forno. I “ciufell” (dalla parola ciufolo, fischietto), pasta fatta in casa più conosciuta col nome di cavatelli. Le mandorle atterrate: mandorle scoppiettate nello zucchero caramellato.

Il paese conserva ancora riti e tradizioni popolari a cui gli abitanti sono legati: in agosto si organizza il festival della canzone dialettale e la prima domenica di ottobre la festa della vendemmia, ma la tradizione per eccellenza, quella di cui tutti i gambatesani vanno fieri, si tiene il 31 dicembre. Si tratta delle “maitunate” che sono canti augurali per il nuovo anno. Il palcoscenico, non importa se spesso innevato, sono le strade e le piazze del paese, gli stretti vicoli in cui gli strumenti, le voci delle comitive che escono cantando, rimbombano avvertendo del loro passaggio, le soglie delle abitazioni di concittadini presi di mira per qualche avvenimento accaduto durante l'anno e che meritano una canzoncina improvvisata. Sono diverse “squadre” quelle che escono per il pese con in testa il “cantore” e danno sfoggio di estro poetico e musicale. Alcuni testi sono documentati in pubblicazioni, altri sono tramandati nella tradizione popolare. Una componente fondamentale che determina la bravura del cantore è data dalla capacità di improvvisazione per far fronte, a volte, a vere e proprie dispute che si creano durante la “maitunata”, adattando nuove rime condite con bonaria ironia, dato che spesso riguardano vizi e virtù delle signore e signorine del luogo, dei personaggi politici, degli amministratori e, perché no, del parroco. Le porte vengono aperte e viene offerto a tutta la squadra qualsiasi cosa desiderino da mangiare e da bere. La squadre sono dotate di strumenti tipici come l'organetto abruzzese, le sonagliere, anche dei semplici coperchi da cucina che vengono usati come piatti ma quello che non manca mai è il “bufù”, cioè un tamburo a frizione. È costituito da un contenitore col fondo chiuso, il lato superiore aperto e intorno al quale è tesa una membrana di pelle d'agnello con un foro al centro dove viene inserita una canna. Lo strumento produce suono quando il bastone viene “frizionato” dal suonatore e produce un rumore cupo così caratteristico che lo strumento ha avuto questo nome “bufù” per onomatopea. E se provate a pronunciarlo con ritmo cadenzato avrete l'impressione di sentirlo suonare.

IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GAMBATESA
IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GAMBATESA
IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GAMBATESA
IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA: GAMBATESA
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IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA - CAPRACOTTA

25 Aprile 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA - CAPRACOTTA

Flaviano Testa con il suo obiettivo sceglie come racchiudere i paesaggi, i paesi che incontra in un quadrato o in un rettangolo a colori o in bianco e nero, ma sa sempre cosa vuole raccontarci e ferma “l'attimo” in cui percepisce un'emozione e ce la descrive con le immagini che ci invia. Oggi siamo in alto Molise. Capracotta è una piccola città, in provincia di Isernia, posta lungo uno sperone di roccia con vista sui crinali della Maiella. Come tanti paesi del Molise non raggiunge i mille abitanti, ma la sua particolare caratteristica è che sorge a 1421 metri sul livello del mare e questo ne fa il secondo comune più altro dell'Appennino. Poco lontano dal centro abitato si erge Monte Campo che raggiunge i 1746 m, siamo in montagna dunque e lungo la strada che congiunge il paese con Pescopennataro si può godere della refrigerante ombra del “Giardino della Flora Appenninica”. Costituito nel 1963, si tratta di un orto botanico naturale, tra i più alti d'Italia, che si estende per oltre dieci ettari, in cui vengono conservate, tutelate, protette le specie vegetali della flora autoctona dell’Appennino centro-meridionale, e si allunga per valli, boschi e praterie, fino a sfiorare una foresta di abete bianco che copre le pendici di Monte Campo. Grazie alle diverse caratteristiche del terreno, ospita numerosi habitat naturali, dal palustre al rupicolo, dalla faggeta all'arbusteto e vi si possono ammirare specie di piante rarissime o in via di estinzione. Tra le specie spontanee di maggior pregio, oltre ai faggi e all'abete, si annoverano il giglio rosso, l'orchidea palmata, lo spillone della Maiella e la stella alpina degli appennini. Sono certamente luoghi che, nel rispetto dell'ambiente, consentono di vivere in mezzo alla natura in un'atmosfera di pace più unica che rara. Durante lo scorso mese Capracotta è balzata agli onori della cronaca e su tutti i telegiornali del mondo è apparso un video in cui si vedeva il paese letteralmente sommerso dalla neve. In un giorno solo, tra il 7 e l'8 marzo, erano caduti 256 centimetri di neve, battendo così un record mondiale che la piccola città molisana avrebbe strappato a due località degli Stati Uniti. Data la posizione, l'altitudine e l'esposizione ai venti del nord, non è raro che nel paese arrivino pesanti precipitazioni durante l'inverno, tant'è che nel gennaio del 1997 Capracotta ha avuto l'onore di ospitare i Campionati nazionali di sci di fondo. E chi non è giovanissimo ricorderà come l'amena località del Molise fu portata alla ribalta dall'Albertone nazionale già nel film Conte Max con Vittorio De Sica, dove la definiva "piccola Cortina degli Abruzzi". Le emergenze dovute alla neve non sono cosa di oggi insomma, è raccontato nella storia del dopoguerra che il dottor Gennarino Carnevale, sindaco del paese, martoriato dal recente conflitto, nel 1949 scrisse una lettera al sindaco della città Jersey City in New Jersey, significando le necessità che lo affliggevano:

"Il nostro paese, situato nell'Italia centrale a 1421 mt. sul livello del mare e fiancheggiato da monti ancora più alti, ogni anno, per ben sei mesi, giace sotto le abbondanti nevicate, e spesso restiamo completamente isolati dal mondo intero. - E la bufera è così violenta, il più delle volte, che spesso, ad un malato grave è vietata l'assistenza medica e, alle volte, il conforto spirituale del nostro buon Parroco ... Noi, in questo paese, abbiamo quindi urgente bisogno d'uno spazzaneve, magari vecchio, non importa, purché ci liberi la via che conduce fuori di Capracotta. (. ...) La buona gente di Jersey City vorrebbe adottare il Comune di Capracotta? - Vorrebbe ascoltare la nostra preghiera e far sì che potessimo avere uno spazzaneve?

Gli emigrati di origine molisana e non solo, in una gara di solidarietà, si interessarono di raccogliere fondi che consentirono l'acquisto e la spedizione del mezzo richiesto.

La città di Capracotta ha origine antichissime, in località Guastre sono stati rivenuti reperti dell'età del Ferro e in località Morrone sono stati ritrovati strumenti di caccia dell'uomo di Neanderthal. Nei pressi dell'abitato, si ergono mura poligonali, appartenenti a una fortificazione sannitica. Nel suo agro, in località Fonte del Romito, fu rinvenuta la famosa tavola bronzea recante un'iscrizione in lingua osca, nota come “Tavola di Agnone” e oggi conservata al British Museum di Londra. In centro al paese è sicuramente da visitare la chiesa settecentesca di Santa Maria Assunta che all'interno conserva una statua attribuita allo scultore napoletano Colombo, oltre a pregevoli marmorei barocchi. La più grande attrattiva di Capracotta resta comunque il suo splendido territorio che permette escursioni in boschi stupendi durante l'estate e consente di dedicarsi a sport invernali quando Prato Gentile si copre di neve, usufruendo di efficienti impianti funicolari, luoghi di ristoro e piste da sci. L'appuntamento più tradizionale di Capracotta, che richiama in paese molti turisti, è la sagra della “pezzata” che si tiene ogni prima domenica di agosto nell'incantevole cornice naturale di Prato Gentile. È l'incontro di tante persone con la più antica tradizione del luogo che consente di gustare pezzi di agnello bollito e di capretto cotto alla brace, ritornando così alle originali ricette dei pastori che, costretti a stare lontano da casa per lunghi periodi, si cibavano del loro gregge. Una curiosità, leggendo “Addio alle armi “ di Hemingway sarà possibile sentir nominare un sacerdote, “l'esile cappellano “che arrossiva facilmente”, lo descrive sorridente e paziente in mezzo ai soldati che a volte lo tirano per la tonaca e lo mettono in imbarazzo con racconti piccanti. Il giovane pretino era don Placido Carnevali di Capracotta e invitava, nelle pagine dell'avvincente romanzo, Frederick Henry, il protagonista, a visitare la sua terra dove sarebbe stato accolto amabilmente dalla sua famiglia.

“Le piacerà la gente, e il clima benché freddo è sereno e asciutto… Mio padre è un gran cacciatore.”

Il tempo sembra non essere trascorso, fare visita a Capracotta è come sentirsi a casa, le persone sono gentili e ospitali e il paesaggio bellissimo proprio come raccontava don Carnevali. “Le notti sono fresche d’estate, e non c’è primavera più splendida in Italia. Ma ancor più meraviglioso è d’autunno andare a caccia nei boschi di castagni…”

IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA - CAPRACOTTA
IN GIRO PER IL MOLISE CON FLAVIANO TESTA - CAPRACOTTA
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In giro per il Molise con Flaviano Testa

10 Aprile 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

In giro per il Molise con Flaviano Testa

I click di Flaviano Testa ci portano oggi a scoprire gli angoli più segreti e nascosti di Roccamandolfi. Click che catturano le immagini donando un volto tangibile a vecchie mura, a scorci panoramici immutati nel tempo, a paesaggi mozzafiato.

Roccamandolfi si trova nell'estremo sud-est della provincia di Isernia, ai confini con la Campania, nel suo territorio comunale è compreso il Massiccio del Matese, con il monte Miletto che tocca quota 2050 m. Grazie alla sua posizione il territorio circostante è ricco di boschi di alto fusto e verdi pianori, il clima risente dell'altitudine (860m)dell'esposizione ai venti e raggiunge temperature molto rigide durante l'inverno con abbondanti nevicate e si mantiene gradevole nel periodo estivo. Il piccolo centro del Matese ha origini medievali, la sua nascita risale molto probabilmente ai primi decenni del dodicesimo secolo, quando il territorio venne occupato e dominato dai signori Mandolfus, provenienti dalla Germania che qui costruirono una roccaforte. L'origine del nome deriva dalla scomposizione di "rocca", dal latino fortezza e "Mandolfi" dal nome della famiglia che la dominò. La rocca ebbe, nel tempo, un ruolo rilevante, anche dal punto di vista strategico, soprattutto per la difesa dell'accesso a questa parte del Matese. Le mura originarie del Castello erano tipicamente mura difensive, molto spesse, e protette da ben cinque torri, una delle quali più grande ed imponente delle altre. La rampa di accesso, scavata direttamente nella roccia, immetteva in una sorta di atrio di cui oggi il piano terra è leggermente più alto rispetto a quello originale. Ciò che rimane oramai dell'antica roccaforte è purtroppo poca cosa rispetto a quello che si poteva ammirare di una delle fortezze ritenute più sicure di tutto il territorio molisano. Il centro storico si sviluppa intorno all'antico palazzo ducale Pignatelli, la Chiesa San Giacomo Maggiore e la piazza pavimentata in pietra locale. Ai piedi del borgo antico si trovano diverse sorgenti. Il paese è rinomato per la sua cordiale accoglienza riservata a tutti gli ospiti, in modo particolare ai turisti che, specialmente nel periodo estivo, amano trascorrere il tempo libero in armonia con la natura e per gustare prodotti tipici di una volta: formaggi, salumi, funghi porcini, lenticchie... Nel periodo estivo la popolazione del centro matesino raddoppia, rientrano i numerosi figli residenti all'estero o nelle varie regioni italiane, arrivano villeggianti, gruppi di escursionisti, boy scout. A loro si indirizzano manifestazioni musicali, culturali, folcloristiche ed intrattenimenti serali. Roccamandolfi vanta di avere uno dei costumi più belli del Molise che si può ammirare nelle varie manifestazioni estive, con le esibizioni del rinato gruppo folcloristico.

Per la sua posizione strategica e per la difficoltà a essere raggiunto, il paese fu per lunghi anni covo di Briganti. Nel 1812 Sabatino Maligno, capo di una delle bande locali, venne assassinato dai propri compagni e la sua testa mozzata, rinchiusa in una gabbia di ferro, fu appesa al campanile dove restò fino al 1843, senza che nessuno avesse il coraggio di toccarla. C'è una targa vicino al luogo ove venne ucciso che racconta la sua storia e quella della sua amata. L'unità d'Italia non fu bene accolta dai roccolani, abituati alla solitudine e all'autogoverno, già nell'ottobre del 1860 ebbe inizio la rivolta contadina che in armi insorse al grido di “Morte a Garibaldi! Viva Francesco II!” Dopo alcune rapine nelle case dei liberali, i ribelli furono sopraffatti e messi in fuga dalla Guardia Nazionale e dalla forza pubblica. Una tradizione molto antica di Roccamandolfi, di cui si occupò anche un documentario trasmesso dalla RAI negli anni 60, vedeva praticare dagli abitanti la "pesatura del corpo in cambio della grazia". Usanza di origine orientale che ricorda riti medio-orientali, ma che può rifarsi anche alla pesatura del cuore dei morti da parte del Dio Anubi nella cultura egizia antica. Nella piccola Chiesa dei Santi, in cui si venera ancora oggi, tra gli altri, San Donato Vescovo d'Arezzo, si pesava un bambino o chiunque richiedesse la guarigione al Santo e in cambio di questa gli si offriva una quantità di grano o di cereali pari al peso della persona per cui si domandava l'intervento miracoloso. La pratica serviva più spesso per cercare di curare le malattie sconosciute, di cui non si aveva la cura e che un tempo era impossibile "tenere a bada" in alcun modo, principalmente l'epilessia allora del tutto inspiegabile. La ricerca affannosa del popolo per curare questi disturbi ha fatto sì che i tutti i mali incurabili o dalle origini poco chiare vengano dette in dialetto: "lə malə də Sandə Dənàtə" ossia “il male di San Donato”. Il dialetto di Roccamandolfi è il roccolano, parlato dai mille abitanti del paese e dalle migliaia di roccolani emigrati in tutto il mondo. Questo dialetto, pur essendo chiaramente molisano, è basato anche su sviluppi fonetici e lessico "simili" allo spagnolo. Nacque nel 1944 a Roccamandolfi Salvatore Baccaro, un uomo dal volto veramente particolare che, trasferitosi a Roma per lavoro, dove faceva il fioraio, proprio per il suo particolare aspetto deforme, quasi animalesco, caratterizzato dal naso schiacciato, la fronte bassa e pronunciata, le mani dalle dita enormi, venne definito “l'uomo più brutto del mondo”. Tuttavia dotato di un'innata simpatia, di un carattere gentile e bonario fu notato da alcuni produttori cinematografici e per lui iniziò una brillante carriera nel modo della celluloide. Baccaro divenne in breve tempo un attore “ caratterista”richiestissimo per ruoli comici o grotteschi, partecipò a diversi film negli anni settanta recitando con Franco e Ciccio e in numerosi “spaghetti western”. A Roccamandolfi, dai briganti ai riti pagani dalle feste popolane alle sagre nei boschi, ce n'è per tutti i gusti, un paese bizzarro con tanta storia e bellezze naturali tutto da visitare.

In giro per il Molise con Flaviano Testa
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Il volo di D'Annunzio su Trieste

31 Marzo 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia

Il volo di D'Annunzio su Trieste

Intorno agli anni che videro l’inizio della guerra, Gabriele d’Annunzio, che era già un famoso poeta, stava attraversando un momento cupo della sua vita, afflitto da un periodo di crisi creativa e da problemi economici, era emigrato in Francia per sfuggire ai debiti.

Allo scoppio della Grande guerra, da Parigi iniziò a caldeggiare, per l’Italia, la discesa in campo a fianco delle forze dell’Intesa. Fervente interventista, pronunciò frequenti discorsi proclamando il “sacro” diritto di strappare all’Austria i territori dell’Italia “irredenta”. Rientrato in Italia, rifiutò la cattedra di letteratura italiana che era stata di Pascoli: avventuriero, romantico, un po’ guascone, la sua oratoria lo rendeva un fanatico animatore di folle, e incitava gli Italiani a prendere le armi contro la Germania e l’impero Austro-Ungarico.

All’entrata in guerra dell’Italia, D’Annunzio, pur avendo ormai cinquantadue anni, si arruolò nella cavalleria per poi diventare comandante di MAS e infine aviatore e non si lasciò sfuggire l’occasione per partecipare in prima persona all’azione con impeto e grande coraggio.

Insieme al tenente pilota Giuseppe Miraglia, a bordo di un aeroplano contraddistinto dalla scritta «Iterum leo rugit», il 7 agosto lanciò manifestini tricolori atti a incoraggiare le popolazioni dominate dagli austriaci: «Coraggio, fratelli! Coraggio e fede! Vi state avvicinando alla fine del vostro martirio». E il 20 settembre fu la volta di Trento, ai cui abitanti i volantini lanciati dal poeta dicevano: «Oggi il pugno bronzeo di Dante si stringe sul tuo capo chino, o popolo di Trento. Sorgi e leva lo sguardo… Il nostro amore, armato di tutto punto, avanza contro la compattezza delle tue rocce e dei tuoi ghiacciai…».

Volò più volte sul Trentino, sul Carso, sulla costa istriana, su Pola e in seguito si rese artefice del clamoroso volo su Vienna, sempre insieme a piloti dotati di altrettanto coraggio, a cui insegnò un grido di sua invenzione, «Eja, eja, alalà».

Nel gennaio del 1916, in qualità di ufficiale operatore, sull’apparecchio pilotato dal tenente Luigi Bologna, nonostante il tempo cattivo e il motore non in perfette condizioni, si preparava all’ennesimo passaggio su Trieste. Nei pressi di Grado, l’aereo, a causa di un incidente, costretto a un atterraggio di fortuna, aveva violentemente urtato sull’acqua e contro una duna sabbiosa. D’Annunzio si ferì la tempia destra e l’occhio, fu ricoverato in ospedale e, nonostante il suo desiderio di tornare immediatamente in azione, fu costretto a sottoporsi a cure per non perdere completamente la vista. Immobilizzato a letto, con gli occhi bendati e dunque immerso nell’oscurità, utilizzando delle sottili strisce di carta preparate dalla figlia Renata, compose uno dei suoi capolavori letterari “Il Notturno”, una raccolta di meditazioni e ricordi. “Ho gli occhi bendati” scriveva con mano insicura “sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi… Il lenzuolo aderisce al mio corpo come quello che involge l’annegato stillante di sale, tratto alla riva e deposto su la sabbia sinché non venga qualcuno a riconoscerlo, a chiudergli le palpebre schiumose e a ululare sul suo silenzio…”.
Data la gravità dell’incidente, il processo di guarigione fu lungo, ma nei giorni in cui ricevette notizia della cattura e dell’impiccagione di Cesare Battisti e Fabio Filzi, contro i consigli dei medici, tornò in guerra e continuò a prendere parte ad azioni aeree e di terra. Anche se cieco dall’occhio destro, il 13 settembre partecipò al bombardamento aereo di Parenzo, nuovamente insieme al pilota Luigi Bologna. Di quell’operazione il poeta scrisse: “Quando calammo nel canale di Sant’Andrea e rimontammo lo scivolo, mi parve che i miei giovani compagni aspettanti, nel sollevarmi sopra le loro spalle, mi esaltassero alla cima della loro gioventù e all’apice delle loro ali. Ero rinato.” L’impresa gli valse la citazione dal Ministero della Marina.

Il conflitto, sui campi di battaglia, ebbe termine il 4 novembre 1918, ma se ne aprì subito dopo un altro sui tavoli della diplomazia e, a guerra finita, si sentirà ancora parlare molto del Poeta Soldato, che si prodigava per il riconoscimento della città di Fiume all’Italia gridando nei suoi discorsi all’ingiustizia e alla “vittoria mutilata” e della successiva impresa che consacrarono il mito del Vate.

La guerra era finita, il Piave non mormorava più, Diaz aveva promulgato il Bollettino della Vittoria, senza lontanamente immaginare che il suo “firmato Diaz” avrebbe dato il nome a migliaia di nuovi Italiani. Scambiando “Firmato” per il nome del Generale, nell’euforia di quei giorni furono molti i genitori che battezzarono così i propri figli. Gli strascichi del conflitto furono la disoccupazione, l’aumento del costo della vita e l’impoverimento della popolazione. Gli scioperi e la paventata rivoluzione sulla scia di quella russa, diedero vita a un altro fenomeno del primo dopoguerra lo squadrismo… ma questa è un’altra pagina, io chiudo qui e spero, in queste settimane di avervi tenuto piacevole compagnia.

Il volo di D'Annunzio su Trieste
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Bombardamento aereo

29 Marzo 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia

Bombardamento aereo

L’Italia all’inizio della guerra contava su una sessantina di aeroplani, quasi tutti di tipo antiquato e di costruzione francese, e tre dirigibili. La marina aveva in linea quindici idrovolanti e due dirigibili. Tra i personaggi più importanti dell’aerostatica ci fu senza dubbio l’ingegnere aeronautico milanese Enrico Forlanini, che nel 1909 completò la costruzione del suo primo dirigibile F.1, che battezzò “Leonardo da Vinci”, ne seguirono altri e la sua fama, infatti, è legata soprattutto alla realizzazione dei dirigibili semirigidi, che vennero utilizzati nel conflitto.

L’impiego militare del dirigibile era iniziato per l’ Italia con la Guerra di Libia nel 1911 e si esaurì proprio dopo la prima guerra mondiale, quando la disputa che aveva visto contrapporsi i sostenitori del “più pesante” e del “più leggero” dell’aria, vide la completa affermazione dell’aeroplano e il definitivo tramonto degli aerostati.

Durante i primi anni della Grande Guerra si assistette, tuttavia, a un notevole sviluppo dell’uso dei dirigibili nonostante le perplessità che fin dall’inizio ne avevano accompagnato l’utilizzo. Inizialmente le aeronavi erano impiegate per la ricognizione e ancor più per i bombardamenti, ma si arrivò ben presto a constatare come i modelli disponibili risentissero troppo delle condizioni atmosferiche per essere considerati affidabili e venissero facilmente neutralizzati anche senza specifiche difese contraeree, in quanto ingombranti e poco maneggevoli. A ridurne il rendimento inoltre furono i criteri di impiego, che in un primo tempo avevano destinato il dirigibile a supporto delle forze di terra, infatti i migliori risultati si colsero quando si comprese che mezzi tanto vulnerabili e di difficile condotta dovevano essere impiegati contro obiettivi strategici, ad esempio per l’attacco contro i campi di aviazione avversari.

In questo modo, a partire dagli ultimi mesi del 1917, l’azione dei dirigibili, che si concentrava principalmente di notte e in assenza di luce lunare, si conciliò con quella delle squadriglie aeree da bombardamento, che agivano di giorno e nelle notti di luna. Nel 1918 in seguito al perfezionamento tecnico dei mezzi, all’affermarsi di metodi di utilizzo più adeguati e al migliorato livello di preparazione degli equipaggi, si arrivò a un forte incremento del numero delle missioni di bombardamento andate a buon fine e, nel contempo, si ridussero le percentuali di danni e perdite. Gli aerostati furono impiegati in azioni belliche fino agli ultimi giorni di guerra, facendo dell’Italia la sola nazione ad aver utilizzato il “più leggero dell’aria” in attività di bombardamento per tutto l’arco del conflitto.

Fu, tuttavia, l’aereo il vero mito che si sviluppò e prese corpo durante il corso della guerra, grazie al successo delle operazioni condotte, alla velocità, alla maggiore maneggevolezza, e soprattutto all’abilità e all’ardimento dei primi piloti. L’aereo divenne una vera leggenda, le cui origini si possono ritrovare nel “Manifesto del futurismo” del 1909, dove Filippo Tommaso Marinetti, esaltando l’aereo quale simbolo della modernità, scrisse:

“Noi canteremo [...] il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta”.

Non si può parlare dell’aviazione della prima guerra mondiale senza fare un breve accenno al pilota, eroe, Francesco Baracca.

Giovane di bell’aspetto, sempre curato nella persona e nel vestire, dalla personalità ricca di interessi, pieno di slanci e profonde passioni per le donne, i cavalli, le motociclette, si mostrò in ogni occasione coraggioso ed esuberante. Appassionatosi al volo, divenne l’asso del cielo durante la prima guerra mondiale e resta a tutt’oggi un mito per l’aeronautica: “Sono arrivato all’aviazione per modo di dire, (…) ed ora mi accorgo di aver avuto un’idea meravigliosa, perché l’aviazione ha progredito immensamente ed avrà un avvenire strepitoso…

(Tratto da Lettera al padre – Museo Baracca)

“Venustus et audax” indicato sotto al cavallino rampante, era il motto del suo reggimento di appartenenza, Piemonte reale. “Bello e audace”: tutto era già stato scritto dunque nel suo destino.

Il cavallino rampante era lo stemma che Francesco Baracca aveva adottato per il suo aereo, quando dopo aver abbattuto cinque velivoli nemici gli spettò di diritto scegliere un simbolo di distinzione. E così di missione in missione, di successo in successo Baracca, con il suo accattivante sorriso, tornò sempre alla base dopo aver abbattuto 34 aerei nemici diventando l’asso degli assi dell’aviazione italiana. Fu decorato con una medaglia d’oro al Valor militare, con due d’argento e con una di bronzo. Lui e il suo cavallino erano entrati nella leggenda.
Il 19 giugno 1918 nel tardo pomeriggio, tragicamente, l’aereo di Francesco Baracca si schiantò al suolo, il giovane pilota aveva appena compiuto trent’anni. E’ ancora un mistero la vera causa dell’accaduto, non si è mai stabilito se fu abbattuto, o se più verosimilmente venne colpito da un cecchino che sparava da terra contro il suo volo radente. Fu ritrovato dopo due giorni sul Montello e Gabriele D’Anninzio in persona volle pronunciarne l’elogio funebre.
I genitori del Maggiore Francesco Baracca, il conte Emilio e la contessa Paolina, affranti dal dolore, dopo qualche tempo, regalarono lo stemma del cavallino appartenuto al figlio a un pilota che avevano visto correre in auto con disprezzo del pericolo e senza freni, quel pilota era Enzo Ferrari e il cavallino di Francesco non ha mai smesso di correre.

Bombardamento aereo
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In giro per l'Italia: Morrone del Sannio

27 Marzo 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

In giro per l'Italia: Morrone del Sannio

Sono numerosi i paesini del Molise che contano meno di mille abitanti, piccoli centri arroccati su irte colline pietrose e che Flaviano Testa ci fa conoscere attraverso i suoi scatti fotografici che sanno cogliere il silenzio antico di questi luoghi sospesi da secoli fra storia e realtà. Fotografie in bianco e nero dove i contrasti fra stradine acciottolate e fili elettrici o panchine di ferro sembrano stridere fra loro, ma ci conducono dentro la vita di questi luoghi dimenticati dove le giornate scorrono tranquille e senza tempo, dove, come in altri centri, c'è una forte involuzione demografica, poiché di generazione in generazione i paesi sono stati abbandonati.

Siamo oggi a Morrone del Sannio in provincia di Campobasso, dove, agli inizi del novecento, vivevano quasi 4000 persone e dal censimento del 2011 si supera a malapena quota 600 abitanti. Il paese prende nome dall'antica Maronea, il cui etimo significa Roccia ed è giustificato dallo sperone roccioso su cui sorge il centro abitato. La storia del paese inizia con la civiltà sannita. Un popolo di valorosi guerrieri suddiviso in varie tribù che si dedicavano alla pastorizia. Il territorio di Morrone era in bilico tra le tribù dei Pentri e quelle dei Frentani.
Negli scambi commerciali la pratica più diffusa era il baratto. Fin da quegli antichissimi tempi le risorse non bastavano alla popolazione e il coraggio e la forte tempra dei suoi abitanti fecero di loro dei soldati mercenari. Come altri territori del Molise passò poi sotto la dominazione dei Romani e in seguito a quella dei Normanni, poi degli spagnoli fino all'unità d'Italia.
Molti sono i morronesi che si sono distinti per serietà e impegno nella loro professione, famosi giuristi, latinisti, ma anche poeti e musicisti come Dante Valentini, nato a Morrone nel 1920, insegnante elementare compositore della musica di oltre 300 canzoni italiane, in dialetto napoletano e molisano. La sua canzone più famosa "il passerotto" (lu passariell), cantata da Carla Boni, si classificò terza al festival di San Remo nel 1953. I laboriosi morronesi si sono fatti onore anche all'estero. dove in gran parte sono emigrati, come Nazario Colasurdo, accademico di fama internazionale iniziò la sua carriera come medico ricercatore a Denver poi divenne docente di Pediatria in Texas e nel 2007 è Preside della Facoltà di Medicina dell’università del Texas.
Un altro morronese che si è fatto strada all'estero è Pat Cocco, che all'età di dieci anni iniziò l'apprendistato come sarto nella suo paese natale, emigrò in America dove
ha lavorato per oltre venti anni con due dei più prestigiosi produttori di Vancouver, divenuto stilista affermato, decise di fondare la Seville Tailors, marchio oggi affermato in tutta America.
Morrone del Sannio è uno dei paesi che, in competizione con altri piccoli centri, si contende il primato di aver dato i natali a Pietro da Morrone , divenuto Papa Celestino V, immortalato da Dante nella Divina Commedia come “colui che fece per viltade il gran rifiuto”.
Antiche tradizioni paesane richiamano nelle occasioni i morronesi che vivono lontano: nella sera dell’ultimo dell'anno una gioiosa compagnia di giovani porta in giro “u burr” lungo le strade del paese e, accompagnandosi da fisarmonica e strumenti vari - tipico l'acciarino - augurano un buon anno a parenti e conoscenti.
Il cosiddetto " burro " è ricavato da un recipiente vuoto di legno a forma cava sul quale è stesa una pelle concia di pecora nel cui centro è fissata una cannuccia verde, che con movimento di va e vieni prodotto da una pezzuola scorrevole, manovrata da un suonatore, produce suono più o meno cupo che ben si accompagna alle canzoni cantate per l'occasione. Il giorno dopo viene ripetuta la stessa funzione e dalle varie famiglie vi è l'offerta dei doni, per lo più mangerecci, che vengono consumati a sera tardi dall'allegra comitiva.
Le specialità gastronomiche più rinomate del paese sono:
i “bucellati” Sfoglia di pasta con l'uovo, ripiena di pane integrale, mandorle, mosto cotto. I
I “calcioni” Involti di pasta frolla ripieni di purea di ceci o castagne e cioccolata.
I “fiadoni”: Rustici impastati con uova, formaggi freschi e secchi, talvolta con salsiccia e cotti nel forno
Famoso e da gustare sicuramente è il croccante di mandorle aritigianale.
La celebrazione della festa di San Giuseppe è quella che meglio di tutte conserva un sapore antico, e presenta una serie di rituali pervenuti quasi intatti attraverso i secoli. Non si tratta solo dei fuochi, che restano accesi per tutta la notte ed il giorno successivo in vari punti del paese, dei piatti tipici che vengono consumati, ma è il richiamo alla unità della Sacra famiglia. Si scelgono tre persone: un uomo, una donna ed un bambino; una volta tra le più povere del paese, e di spiccata onestà, per dar loro l'occasione di rimpinzarsi a dovere almeno una volta l' anno. I tre soggetti scelti impersonano Gesù, Giuseppe e Maria. Per loro, in una apposita stanza, chiusa, viene allestita una tavola per un pranzo "specialissimo".
Nell’area archeologica di Casalpiano , nel territorio di Morrone, sorge la chiesa di Santa Maria, con una tipica struttura in stile romanico. In questa chiesa vive già da diversi anni Fratel Giuseppe Di Lena.
Autore di icone e compositore di musiche Sacre, In questo luogo appartato, nel ritiro e nella preghiera, due anni fa ha maturato la vocazione di scegliere la difficile strada della piena solitudine e ha fatto atto di professione perpetua come monaco eremita.

In giro per l'Italia: Morrone del Sannio
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Tirate contro di noi!

25 Marzo 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia

Tirate contro di noi!

In questa illustrazione, Beltrame ricorda un episodio avvenuto sul fronte occidentale nelle fila degli alleati francesi. Mi piace ricordare questo atto di eroismo anche se non fu compiuto da un italiano, contrariamente i francesi dimenticano spesso quanto siamo stati loro vicini durante il primo conflitto mondiale e preferiscono far studiare ai loro studenti solo l’invio delle truppe francesi in Italia dopo Caporetto per arginare l’avanzata tedesca.

Fu invece in Francia, nella battaglia della Marna, che si decise il destino dell’ Europa: la velocissima avanzata tedesca attraverso il Belgio, l’immobilizzarsi del fronte, la guerra di trincea, le battaglie interminabili, e i rinforzi vennero proprio da noi.

Non si tratta certo di rifare in questa sede la conta di chi offrì più vite per la causa e vedere se furono più francesi o italiani a morire nella battaglia, si ricorda, semplicemente, un evento della nostra storia comune che spesso viene sottaciuto o ricordato con sufficienza.

Nel 1918 dalla primavera fino all’autunno avanzato, cioè fino alla vittoria, i tedeschi sferrarono attacchi in maniera continuativa e sistematica verso la linea del fronte francese, puntando, in uno sforzo finale, a raggiungere Parigi. I nostri soldati mandati a difendere la linea alleata, furono ben 40.000.

Verso la metà dell’estate il generale Ludendorff, essendo oramai giunto a meno di cento chilometri dalla capitale francese, scagliò l’ultima e decisiva offensiva impegnando tutti gli uomini a disposizione appoggiati da una possente artiglieria. I primi in linea a fronteggiare il nemico, che disponeva di forze nettamente superiori, furono proprio gli Italiani. La linea fu salvata resistendo agli attacchi per ben diciannove volte. Le truppe, agli ordini del generale Albricci, risposero con coraggio, con totale sprezzo del pericolo e portarono anche sette contrattacchi per scoraggiare il nemico dilagante. Nella regione di Champagne ove avvennero le battaglie, alla fine si contarono cinquemila morti e almeno altrettanti feriti. Una carneficina, di cui tuttora ci si può rendere conto visitando il cimitero militare di Bligny.

Pierre Milza, storico francese, racconta il significativo caso di un soldato italiano che ha combattuto al fianco dell’ esercito francese. Lazare Ponticelli, morto il 20 gennaio 2008 a 110 anni, ha ricevuto i funerali di Stato a Parigi, in presenza dell’allora presidente Nicolas Sarkozy e di Jacques Chirac. Ponticelli era nato nel 1897 a Bettola, un villaggio dell’Appennino emiliano che aveva abbandonato per emigrare in Francia. Arruolatosi a sedici anni come volontario nella Legione straniera, nel 1915 transitò nell’ esercito italiano e combattè fino al termine del conflitto come alpino. Tornato in Francia, in occasione del conferimento della Legion d’Onore, rifiutò una futura tumulazione al Pantheon dicendo “Non è giusto farmi questo onore, non per me, ma per tutti quelli che sono morti prima di me”.

E’ emblematico che la Francia, immemore del nostro “aiuto”, abbia reso onore al modesto ed eroico rappresentante italiano quale “ultimo superstite” dei veterani francesi della Grande Guerra.

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Sotto la tormenta

23 Marzo 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia

Sotto la tormenta

I rifornimenti per le truppe venivano portati in alta quota da colonne di alpini, ma pochi sanno che vi furono donne che, con grandi sacrifici e rischiando la vita, portavano i rifornimenti dalla valle fino alle montagne.

E’ la storia delle portatrici carniche, che si colloca tra l’Agosto del 1915 e l’Ottobre del 1917. La forza media dei soldati presenti in questi territori si aggirava intorno ai 10-12 mila uomini. Essi dovevano essere vettovagliati ogni giorno, riforniti di munizioni, medicinali, attrezzi e così via. I depositi militari e i magazzini erano dislocati nel fondovalle e non c’erano strade per salire che consentissero il transito di automezzi, né di carri trainati da animali. L’unico modo per raggiungere la prima linea del fronte, in alta montagna, era il trasporto a spalla seguendo stretti percorsi fatti di scomodi e pericolosi sentieri.

Furono le abitanti del posto a correre in aiuto dei loro militari impegnati in alta quota e nacquero le portatrici Carniche, così venne costituito un Corpo di ausiliarie formato da donne di età compresa tra i 15 e i 60 anni. Una forza pari a quella di un battaglione di circa 1000 soldati, che non fu mai militarizzata. Per le donne il lavoro non fu disciplinato dalle leggi, né furono mai soggette alle regole militari, ma l’ordine, il rigore, la severità che si imponevano durante le marce fu un raro esempio di ammirevole servizio.

A ogni donna veniva consegnato un libretto di lavoro personale, sul quale ai magazzini di smistamento annotavano le presenze, i viaggi compiuti, il materiale trasportato in ogni viaggio, inoltre indossavano un bracciale rosso recante lo stesso numero del libretto e l’indicazione dell’unità militare per la quale lavoravano. Per ogni viaggio ricevevano il compenso di lire 1,50 centesimi, che veniva corrisposto ogni fine mese.

La mattina si recavano a riempire la loro gerla caricata sulle spalle, poi partivano in colonna e si inerpicavano sulle montagne dirigendosi per gruppi, verso la prima linea. Affrontavano ogni giorno estenuanti marce in salita di due o anche quattro ore, superando dislivelli che andavano dai 600 ai 1200 metri. Scarsamente nutrite, sopportavano i sacrifici della guerra, il pensiero dei mariti o dei figli impegnati a combattere e arrivavano a destinazione stremate dalla fatica, un viaggio che diventava quasi insostenibile durante la stagione invernale, quando camminare richiedeva maggiore energia a causa della neve alta che impediva loro il passo. Scaricato il materiale, si fermavano qualche minuto per riprendere fiato, approfittando per parlare con gli alpini raggiunti, per consegnare loro lettere e notizie dal paese, per riportare biancheria pulita, fresca di bucato, tutti lavori extra, mai retribuiti, fatti per rendersi utili ai soldati e poi ripartivano più contente, col sorriso sulle labbra, certe di aver donato a quei giovani la speranza di non sentirsi abbandonati. Si incamminavano in discesa, per ritornare alle loro case, ai lavori di campagna, ad accudire animali, vecchi e bambini, di cui erano le sole rimaste ad avere totale responsabilità. Un lavoro continuo fino a sera e poi una nuova alba e un nuovo viaggio.

Voglio, in breve, ricordare il fulgido esempio di una di loro, Maria Plozner Mentil, che fu colpita a morte il 15 febbraio 1916. Era una donna dall’animo nobile e gentile, coraggiosa e altruista. Sempre pronta a confortare le compagne impaurite dall’artiglieria austriaca, ogni giorno in prima fila, una donna eccezionale, carismatica trascinatrice, che viene considerata la “bandiera “ delle portatrici carniche. Madre di quattro figli piccoli, mentre il marito combatteva sul Carso, si dedicava alla causa con amor patrio e spirito di sacrificio. Quando venne colpita da un cecchino austriaco appostato a circa 300 metri, a Malpasso di Pramosio, sopra Timau, aveva solo trentadue anni.

Ebbe un funerale con gli onori militari e a piangere Maria Plozner, quel giorno, c’erano non solo i paesani e i militari della zona, ma tutte le amiche con la gerla sulle spalle.

Sotto la tormenta
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Marinai d'Italia

21 Marzo 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia

Marinai d'Italia

I marinai, furono degni “assi” del primo conflitto mondiale e compirono la loro efficace opera sul mare, ma anche a terra insieme ai bersaglieri e alla fanteria. Dopo la disfatta di Caporetto, reparti di marinai furono inviati a terra, per proteggere Venezia. Al termine della guerra, il Reggimento, al quale Venezia aveva voluto dare la propria bandiera con il leone di San Marco, assunse il nome di Reggimento Marina San Marco e, ancora oggi, i Fucilieri di Marina sono inquadrati in tale reggimento.

Tra le più importanti operazioni della Regia Marina vi fu l’opera di salvataggio prestata in aiuto allo sconfitto esercito serbo. Le stime dei soldati a cui fu portato soccorso vanno dai 150.000 ai 250.000, difficile stabilirne il numero esatto, certo è che mentre i Serbi si ritiravano verso le coste balcaniche vennero raccolti dalle navi italiane che salvarono soldati e tonnellate di materiale.

La marina italiana, era forte di 13 corazzate, 25 incrociatori, 25 cacciatorpediniere, 59 torpediniere e 21 sommergibili. Le principali basi navali erano a Venezia e Brindisi, ma il grosso della flotta era concentrato a Taranto porto più riparato e protetto. Durante il primo conflitto mondiale, a differenza del secondo , furono diverse le operazioni in cui si fece onore la nostra Marina.

Nel 1917, nella notte tra il 9 e il 10 dicembre, Luigi Rizzo penetrò con due MAS nella rada di Trieste e assalì con i siluri le corazzate Budapest e Wien, quest’ultima fu colpita e affondata. A Rizzo venne riconosciuta una medaglia d’oro al valor militare e maggiore fu il riconoscimento per il successo, in quanto le stesse, circa un mese prima, erano state attaccate senza esito mentre bombardavano batterie della marina italiana a Cortellazzo.

Durante il 1918, ultimo anno di guerra, fra gli episodi di rilievo che videro protagonisti uomini della marina italiana, si ricorda:

• In febbraio tre MAS al comando di Costanzo Ciano penetrarono nella base navale di Buccari. Le reti parasiluri impedirono l’attacco e il danneggiamento delle unità ancorate in porto, ma non impedirono ai nostri di prendersi una rivalsa di grande risonanza. All’azione partecipava anche Gabriele D’annunzio, salito sul Mas di Rizzo che lasciò un messaggio di scherno:

In onta alla cautissima Flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i Marinai d’Italia, che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre ad osare l’inosabile. E un buon compagno, ben noto, il nemico capitale, fra tutti i nemici il nemicissimo, quello di Pola e di Cattaro, è venuto con loro a beffarsi della taglia”.

L’impresa denominata poi la beffa di Buccari, anche se non produsse effetti ai fini militari, ebbe grande importanza, perché ne produsse ai fini del morale delle truppe in una guerra in cui cominciavano ad acquisire gravità e peso gli aspetti psicologici. Uno dei MAS che parteciparono alla spedizione si può vedere oggi esposto nelle sale del Vittoriale degli Italiani, sul Lago di Garda.

• All’alba del 10 giugno 1918 due corazzate austriache furono inviate a forzare il blocco navale del canale d’ Otranto. Nei pressi di Premuda, furono intercettate da due Mas, sempre sotto il comando di Luigi Rizzo. Due siluri colpirono e mandarono a picco una delle due corazzate la Szent Istva. La nave, che doveva il suo nome a Santo Stefano d’Ungheria affondò in sole tre ore con a bordo 89 marinai. L’altra corazzata soccorse i naufraghi, mentre i Mas si dileguarono.

Nella notte tra il 31 ottobre e il 1 novembre Raffaele Rossetti e Raffaele Paolucci penetrarono a nuoto nel porto di Pola spingendo uno speciale ordigno chiamato «mignatta» che applicarono alla carena della corazzata Viribus Unitis, facendola saltare in aria.

E infine l’ azione che, scrissero allora i giornali italiani, fu una delle più ardite e che compare nella vignetta di cui sopra. Si deve tener presente che fu ostacolata da eccezionali sbarramenti collocati nel porto, costellato di banchi di torpedini, mine subacquee esplodenti all’urto, di potenti riflettori e vigilanza continua. Era la notte del 14 maggio 1918 quando il comandante Pellegrini con alcuni suoi compagni, superati gli sbarramenti entrò nel porto di Pola, per una importantissima missione che prevedeva l’affondamento di un’altra colossale nave da guerra nemica, del tipo Viribus Unitis. Si erano convenuti speciali segnalazioni luminose per far conoscere l’esito dell’impresa, poiché era prevedibile che il comandante Pellegrini e i suoi compagni, il secondo capo torpediniere silurista Milani, il marinaio scelto Angelini e il fuochista scelto Corrias, avrebbero potuto non fare ritorno. Avevano infatti ordine di distruggere la loro imbarcazione e di gettarsi in acqua a missione compiuta. L’operazione si svolse precisamente come stabilito, si avvertirono distintamente due cupe esplosioni e, quando iniziarono i fuochi di difesa dell’artiglieria nemica, fu chiaramente visto dal largo il razzo illuminante col quale il comandante Pellegrini comunicava “Ho silurato una nave”, subito seguito da un altro che significava: “Distruggo la mia imbarcazione, Ogni opera di soccorso è inutile”. Non vi furono dubbi che la missione avesse avuto esito positivo e solo più tardi si seppe che il comandante e i suoi valorosi compagni erano stati fatti prigionieri. A tutto l’equipaggio fu concessa la medaglia d’oro al valor militare.

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