Aldo Dalla Vecchia, "Piccola mappa della nostalgia"
Piccola mappa della nostalgia
Aldo Dalla Vecchia
Pegasus Edition, 2016
pp 114
12,00
Aldo Dalla Vecchia ci ha abituato al suo stile garbato, alla gentilezza nell’esporre, alla messa a nudo, in modo pudico, di sentimenti romantici e delicati. Con piccola mappa della nostalgia torna alle atmosfere del suo primo libro, Rosa malcontenta, senza velleità romanzesche ma con l’intento di raccontarsi e raccontare un’epoca ormai rintracciabile solo nella memoria.
L’ambiente è la provincia veneta degli anni settanta, il protagonista Aldo bambino, la struttura una serie di piccoli bozzetti, di flash minimali e gozzaniani, come afferma Francesco Lena nella prefazione, nei quali viene rievocato di volta in volta un ricordo, un’icona personalissima ma insieme universale, da Sandokan alla vanillina Paneangeli, dalla spuma ai quiz di Mike Bongiorno, dalle caramelle Rossana alle canzoni di Venditti. Una traccia da seguire, un mosaico, una mappa, appunto, da integrare a piacimento, cui aggiungere, di volta in volta, i nostri personali tasselli di nostalgia.
La nostalgia di Aldo non è straziante come quella di Gordiano Lupi, è, semmai, zuccherina e paga, poiché non si contrappone al presente, bensì lo ingloba, lo preannuncia. Piccoli sapori, odori come quello acre dell’acetone che mi ha ricordato l’ultimo libro di Sergio Costanzo. Anche qui c’è una sensualità timida ma potente, fatta di turbamenti segreti, di scoperte, di emozioni che si provano ma non si possono dire. Viene in mente anche Di giorno in giorno di Ada Negri, con quelle annotazioni istantanee e crepuscolari, o magari pure Pascoli, con la cavalla storna che portava colui che non ritorna, per Aldo una carezza fugace ad uno zaino che nessuno più indosserà. Roba da poco, si potrebbe pensare, meri appunti personali, e invece Aldo Dalla Vecchia è un autore che ha fascino, che riesce a colpirci al cuore pur nell’estrema semplicità e sottigliezza delle immagini da lui evocate: buone cose di pessimo gusto come i cartelloni con la faccia di Moira Orfei.
La figura che emerge è quella di un bambino sensibile e romantico alle prese con i terrori e le rivelazioni, i disgusti e le passioni dell’infanzia ma con un’identità sessuale tutta da scoprire, difficile da accettare e far accettare. Una fanciullezza tenera, terribile e meravigliosa, funestata dalla precoce perdita del padre in un incidente di montagna ma confortata dall’amore di una famiglia protettiva ed avvolgente. Eventi come la morte, enormi, incommensurabili, sono tratteggiati con una reticenza che dice tutto, con un’alternanza magistrale di parole e silenzi.
Il testo è scritto usando la seconda persona, Aldo parla a se stesso ma anche a tutti noi, tu siamo noi, siete voi, è chiunque possa capire perché c’era - ed io c’ero, anche se con sette anni di più.
Un piccolo libro pieno di accadimenti minuscoli e giganteschi, che si divora in una notte, che non puoi posare. Ti comunica qualcosa che neppure capisci bene cos’è ma ha il gusto dolceamaro del ricordo e il soffio tiepido della poesia.
Gianluca Pirozzi, "Nomi di donna"
Nomi di donna
Gianluca Pirozzi
L’Erudita, 2016
pp 169
16,00
È così difficile trovare una raccolta di bei racconti e questi, contenuti in Nomi di donna di Gianluca Pirozzi, belli lo sono davvero, anzi di più. Sono originali, raffinati, scritti con maestria, sembra di avere fra le mani già un classico.
Qui nomen omen, ogni racconto un nome di donna, con storie peculiari e diverse fra loro. C’è la vedova che corre all’alba per sentire ancora la presenza del marito a fianco, c’è la femme de chambre che indulge in un piccolo vizio (ci viene in mente La carriola di Pirandello) capace di scompaginarle la vita ordinata, c’è la nera che si chiama Bianca ed è sopravvissuta al naufragio di un barcone, c’è la maestra Fabiana che cambia sesso e diventa il maestro Andrea, c’è la trapezista con la crisi di panico, c’è la prostituta che muore nell’incendio doloso della sua roulotte, c’è la moglie uccisa dal marito in un raptus di violenza. Ci sono tante figure dai nomi a volte comuni, come Nadia o Diana, a volte importanti, come Galatea o Aristea.
“I nomi, Sandro, non sono un dettaglio da poco o una casualità! È vero, non ce li scegliamo, al massimo tentiamo di adattarli storpiandoli con diminutivi o surrogati, ma sta a ciascuno di noi dargli il senso che ogni nome reca in sé e a riempirli dei nostri significati e del nostro modo di essere con la nostra vita.”
E poi, quando sei quasi oltre la metà della lettura, ti viene in mente che forse quel nome l’hai già sentito e ti costringi a tornare indietro per renderti conto che sì, avevi visto giusto, quel personaggio è davvero già comparso a margine di un racconto precedente e ora c’è un reprise del motivo, uno sbalzo temporale in avanti o indietro, un nuovo ramo è germogliato a formare una chioma folta, e capisci che tutti i racconti formano un’unica - a questo punto grandiosa - trama di romanzo simil picaresco ed immaginifico che ricorda un po’ quelli dei sudamericani Marquez e Allende. Gianluca Pirozzi ha vissuto in molte parti del mondo e, se è vero che il batter d'ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas, forse c’è un senso in tutto ciò che accade, una trama invisibile e sottile lega ci lega gli uni agli altri.
Più che di realismo magico o di surrealismo, si tratta di una raffinata rappresentazione della mente umana attraverso varie patologie. Molti dei personaggi, anche se non tutti, sono affetti da manie borderline, curiosamente derivate dalle loro passioni e dal loro lavoro. Diana, etologa, ha l’abitudine di paragonare ogni persona che incontra, anche i compagni di vita, agli animali. Edda, interprete simultanea, continua a tradurre mentalmente ogni parola e situazione. Alcune di queste manie sfociano nel delirio e nell’omicidio, altre in fughe, altre ancora restano confinate nel privato. Ma dietro a codeste fissazioni eccentriche si celano metafore della comune esistenza. Diana che non riconosce più in Ottavio il capriolo cui era solita paragonarlo, è simbolo, per contrasto onirico, della fine dell’amore, di come all’improvviso chi avevamo tanto vicino ci appaia diverso, dissonante, strano, non ci capacitiamo di averlo voluto al nostro fianco e riesca difficile persino rammentare il perché dei sentimenti e degli slanci che provavamo.
Quando capita di recensire testi così interessanti, che, pur nella loro intellettualità e nel loro spessore, sono avvincenti e intriganti, torna davvero la voglia di leggere.
Alessio Piras, "Omicidio in piazza Sant'Elena"
Omicidio in piazza Sant’Elena
Alessio Piras
Fratelli Frilli Editori 2016
pp 155
10, 90
Indeciso fra il poliziesco e il romanzo intellettuale, Alessio Piras, in Omicidio in piazza Sant’Elena, mischia i due generi, affiancando al classico, e inflazionatissimo, commissario, un altro protagonista, una spalla che in realtà giganteggia, l’intellettuale Lorenzo Marino, in gran parte, sospettiamo, alter ego dell’autore. I due si trovano a collaborare sul caso di Paco, un ragazzo sudamericano ucciso da un’overdose di droga mal tagliata nei carruggi di Genova. Si scoprirà che dietro ci sono vicende personali e l’ipocrisia di un mondo borghese moralista e marcio.
I veri protagonisti di questa storia, però, sono la città di Genova e i riferimenti letterari.
Per quanto riguarda questi ultimi, si parte subito con il cliché del racconto nel racconto, per passare poi alle numerose citazioni di Sciascia, Saramago, Pessoa.
“Lorenzo, come Ricardo Reis, era tornato in patria dopo una quindicina d’anni. Era solo, come il medico eponimo di Pessoa, ed era affezionato alle vecchie abitudini dell’essere umano, non era uomo del XXI secolo Lorenzo, o ci stava entrando lentamente e con molta fatica.” (pag 20)
Lorenzo è uno che non si riconosce nella massa la quale, come ritiene Josè Ortega, il suo filosofo spagnolo preferito, “è tutto ciò che non valuta se stesso - né in bene né in male - mediante ragioni speciali, ma che si sente "come tutto il mondo", e tuttavia non se ne angustia, anzi si sente a suo agio nel riconoscersi identico agli altri.” Lui no, lui si annoia con le conversazioni ordinarie. “La banalità di certi discorsi e la mancanza di curiosità intellettuale lo annichilivano”. (pag 29) È uno scholar, un ricercatore universitario che ama il suo lavoro e non solo la posizione occupata, diviso fra curiosità intellettuale e radici, fra un andare che è sempre ritorno e un tornare che contiene già in sé un nuovo allontanamento, fra voglia di novità e nostalgia straziante. È un uomo, Lorenzo/Alessio, che vive ogni cosa con la mente e con l’anima.
“Ancora la letteratura , non è possibile, Lorenzo, devi pur trovare delle risposte nella vita reale, non puoi andarle a cercare tutte nei libri, tutte dentro queste pareti di carta, nelle sale di lettura, assetato di lettere, di parole che diano un senso.” (pag 33)
“La letteratura, Lorenzo, è nella letteratura che possiamo trovare le risposte. Sembra finzione, ti illude di evadere dal mondo con la fantasia, ma ti ci proietta dentro in profondità. E ne sei così dentro che non te ne accorgi, ti pare di starne fuori, di essere in un altro mondo.” (pag144)
Nella commistione di letteratura e vita sta il senso di questo romanzo particolare, un giallo nel quale gli accadimenti hanno lo stesso spazio delle riflessioni. Il protagonista intellettuale si tuffa nella vita, vi partecipa, solo attraverso un’indagine che lo porta a contatto con i vicoli più sordidi, con la prostituzione, con gli spacciatori, con la carne e il sangue. Ma non dobbiamo dimenticare che si tratta pur sempre di un “racconto nel racconto”, che si parte da una cornice e vi si fa ritorno, che pure il reale alla fine è finzione e letteratura, in un gioco di specchi e rimandi amplificato da sbalzi temporali addirittura all’interno di uno stesso capitolo.
Forse, l’unica cosa vera, tangibile, è Genova, la Genova dei cantautori ma anche dei panifici che sfornano focaccia unta e fragrante, dei vicoli che puzzano e, se non puzzassero, non sarebbero quello che sono, del mare spianato e scurito dalla tramontana, delle prostitute sudamericane, degli spacciatori neri, dei problemi economici, delle occasioni di rinascita perdute. I riferimenti al passato recente, a quegli anni novanta e duemila che pare strano considerare storia ed invece già lo sono - molti e strutturati con consapevolezza e competenza - si mescolano a quella nostalgia di cui parlavamo, a quella ricerca di senso che, dopo tanta letteratura, dopo tanta fuga fisica e libraria, alla fine forse aderisce al ricordo, al passato, a ciò che ci hanno insegnato i nostri nonni, a ciò che rimane di quando eravamo piccoli, e scaturisce, come una madeleine, da un odore, da un sapore, da un soffio di tramontana.
Originale e coinvolgente anche la rappresentazione del mondo universitario, con i soliti baroni di sempre attaccati alla poltrona e i soliti assistenti servili. Ecco, forse, se Piras decidesse che, tutto sommato, nonostante l’indubbia passione per il noir, non vale la pena scrivere l’ennesimo giallo e si concentrasse su personaggi come Lorenzo - con il loro bagaglio d’introspezione collegata al patrimonio di conoscenze regionali e culturali - le sue capacità narrative sarebbero, penso, valorizzate al meglio.
Carthago delenda est
Hannibal ad portas! ("Annibale è alle porte!") era diventata la frase spauracchio per i bambini. I romani avevano avuto paura quando Annibale era entrato in Italia e non ritenevano sufficiente aver sconfitto Cartagine per la seconda volta, volevano che fosse distrutta definitivamente. Carthago delenda est. Famoso l'aneddoto del cestino di fichi che Catone mostrò in Senato al suo ritorno da Cartagine: erano ancora tanto freschi da rendere evidente quanto la città nemica fosse vicina.
E così fu fatta una terza guerra (149-146 a.c.). I Cartaginesi si difesero per due anni ma poi dovettero cedere, per tutto un inverno durò l'agonia della città. Senza più viveri e attaccata perfino da una pestilenza, Cartagine soffrì la fame, vi furono casi di cannibalismo. Pur di non consegnare la loro città ai Romani, i Cartaginesi preferirono darla alle fiamme. Scipione emanò un bando che prometteva salva la vita a chi si arrendeva e usciva disarmato dalla cittadella. Cinquantamila accettarono fra cui Asdrubale Boetarca, comandante dell’esercito cartaginese. Dalle mura della cittadella la moglie, fra sanguinose ingiurie e maledizioni al marito, gridò una preghiera a Scipione di punire il codardo indegno di Cartagine, poi salì al tempio incendiato, sgozzò i figli e, come Didone, si lanciò fra le fiamme.
I Romani distrussero Cartagine, la bruciarono sistematicamente, abbatterono le mura, demolirono il porto. Infine ararono il terreno sul quale sorgeva e vi seminarono sale.
Vinta Cartagine, i Romani riuscirono in poco tempo a impadronirsi delle terre che si affacciavano sul Mediterraneo, divennero padroni di tutti i paesi allora considerati più civili. Vennero a contatto con oro e risorse che saccheggiarono a piene mani, conobbero civiltà evolute come quella greca, di cui apprezzarono le magnificenze, l’arte e la filosofia.
Roma divenne una grande città, cui tutto il mondo conosciuto pagava tributi. Dai territori conquistati giungevano migliaia di schiavi che lavoravano la terra per i patrizi e fabbricavano oggetti. Ai popoli vinti Roma dava in cambio strade, ponti, acquedotti, leggi, pace e protezione dalle invasioni esterne.
Vista l’abbondanza di schiavi, i plebei avevano poco da fare e, spesso, per vivere si arruolavano. In cambio di un’armatura, di uno stipendio e di cibo, tenevano lontani i barbari dai confini. Quando venivano congedati ottenevano un pezzo di terra da coltivare. Il latino si espandeva a macchia d’olio e tutti lo conoscevano e capivano.
I manuali delle ragazze 2.0
Nasce il nuovo progetto editoriale De Agostini Libri
dedicato alle preadolescenti,
con la partecipazione della youtuber Eleonora Olivieri:
I manuali delle ragazze 2.0
Novara, 22 settembre 2016. Escono oggi in libreria i quattro titoli della nuova iniziativa editoriale De Agostini Libri ‘I manuali delle ragazze 2.0’: pratiche guide in cui le ragazze (11+) possono trovare tutte le risposte alle domande più comuni della preadolescenza, con i preziosi consigli della youtuber Eleonora Olivieri.
I manuali delle ragazze 2.0 sono pensati per affrontare con toni leggeri ed efficaci le problematiche e gli argomenti che stanno più a cuore alle teenager: l’amicizia, l’amore, la scuola e lo specchio.
I libri si compongono di tanti consigli pratici, suggerimenti, brevi racconti a tema narrati in prima persona come fossero un diario da cui sbirciare e si arricchiscono di spazi per annotare i propri pensieri e le proprie avventure. All’inizio di ogni capitolo è presente ilconsiglio di Eleonora Olivieri, la web star contributor che ne I manuali delle ragazze 2.0 condivide la propria esperienza di teenager con le sue lettrici.
I titoli della collana (128 pp – 6,90 €):
Come sopravvivere all’amore La guida con tutto ciò che c’è da sapere sui ragazzi e sull’amore.
Come sopravvivere alle amiche La guida su tutto ciò che c’è da sapere sulle amiche e sull’amicizia. Quella vera.
Come sopravvivere allo specchio La guida con tutto ciò che c’è da sapere per sentirsi belle e felici.
Come sopravvivere alla scuola La guida con tutto ciò che c’è da sapere sullo studio e sulla vita di classe.
I manuali delle ragazze 2.0 sono pratiche guide che aiuteranno le ragazze a sopravvivere a ciò che facilmente appare come una ‘catastrofe’ nella preadolescenza.
I manuali delle ragazze 2.0 è il primo progetto di questo tipo che coinvolge una star del web.
Eleonora Olivieri è nata nel 2000 in provincia di Torino. Già da bambina dimostrava un certo feeling con la videocamera e da allora non ha mai smesso. Davanti al suo computer, spiega in modo ironico e divertente com’è la vita di una sedicenne alle prese con l’amore, l’amicizia, la scuola, raccontando le difficoltà di tutti i giorni in un canale Youtube con più di 200 mila followers:youtube.com/user/piccolaNory.
La valigia blu
Normalmente le “fescionblogghe” che si rispettano scrivono un post sulla valigia che stanno preparando. Io non ho avuto tempo prima di partire e così vi posso solo raccontare, ora che sono tornata, che cosa avevo scelto e come mi sono trovata.
Contrariamente alle mie abitudini, non ho portato abiti interi, anche se sono andata in un luogo molto caldo. Ho puntato su pantaloni leggeri e gonne fresche e mi sono concentrata su un colore, il blu, in tutte le sue sfumature, dal celeste all’indaco, con abbinamenti prevalentemente di bianco. Tessuti che non si stropicciano, camicette che vestono senza ostacolare, un paio di accessori azzeccati in tinta e il gioco è stato fatto. Molto pratica ma femminile. Mi sono trovata bene e senza sprechi, senza oggetti che non sai perché ti sei portata dietro.
Di seguito vi propongo alcuni nuovi acquisti, presi prima, dopo, e persino durante, il viaggio.
La camicetta rossa, che illumina, riveste e non si stira.
La canotta bianca lavorata, un po’ troppo larga, tende a ingrassare: ho risolto annodandola su un fianco.
La borsa da mare con àncora, in stile marinaro.
Il copricostume bianco, chic e di moda.
La maglia rosata, semplice e scivolata, a coprire i chili messi su in vacanza.
La camicia bianca, in tessuto molto easy e con cerniera, un classico rivisitato che può trasformarsi anche in capo importante e risolvere occasioni formali.
E ora vi dico che si torna volentieri anche a casa, che la stagione ha un suo fascino struggente, che ogni mese ha la sua luce da godersi, che mi piace questo periodo di morte e rinascita, i negozi che riaprono, la ripresa delle attività normali - ché non si può vivere di solo mare e divertimenti - il ricordo di quando a scuola si andava per san Remigio, non c’erano zanzare e si portavano impermeabile ed ombrello. L’autunno era autunno, allora. Ma forse tutte le cose erano quello che dovevano essere, ormai è tutto veloce, sovrapposto, globalizzato.
Pierluigi Curcio, "Artorius"
Artorius
Pierluigi Curcio
Ilmiolibro.it, 2016
Questo romanzo finisce là dove tutto inizia, col piccolo Arthnou, Artù, che estrae la spada dalla roccia. L’Artù altomedievale, quello che tutti conosciamo, compare solo nelle ultime pagine; la storia di questo ponderoso romanzo si svolge trecento anni prima, quando la leggenda comincia, quando due cattivi imperatori, Commodo e Settimio Severo, lottano per tenere insieme un impero che sta morendo e si sta disgregando fisicamente e nei suoi valori.
Artorius sostiene la tesi della storicità di Re Artù che vede in un ufficiale di cavalleria romana l'iniziatore alla leggenda. Lucio Artorius Casto è un comandante ancora imbevuto degli ideali che hanno fatto grande Roma nei secoli e che, ormai, con la decadenza dell’impero, esistono solo di nome, annegati nella corruzione e nella malvagità. Ma Artorius è uomo tutto d’un pezzo, fedele al giuramento fatto. Si trova a combattere in varie parti dell’impero e poi in Britannia accanto ai sarmati, compagni che diverranno leggenda insieme a lui. Lucio lotta dalla loro parte finché Roma gli ordina di farlo, poi li abbandona, per senso del dovere prima, per salvare la propria famiglia poi. Questo gli procurerà un continuo e sordo dolore, un senso di non appartenenza a nessun luogo, un’umanissima lacerazione di affetti e lealtà.
Egli rappresenta, per i Britanni, il Riothamus, l’Alto Re, ma non ha il coraggio di esserlo fino in fondo. A Roma lo legano una moglie e due figli, alla Britannia una donna mai dimenticata e un figlio con cui si scontrerà in una tragica battaglia finale, un rampollo che unisce in sé il sangue romano e quello di Uther Pendragon, la stirpe del drago. Tuttavia l'esempio di Lucio lascerà il segno, produrrà una discendenza che, attraverso il tempo, fluirà fino al piccolo Artù, il nuovo Riothamus.
Per chi, come me, si è sempre nutrita del materiale arturiano, (da La morte d’Arthur di Thomas Malory allo straordinario film di Boorman, Excalibur, a Le nebbie di Avalon di Marion Zimmer Bradley a L’ultimo incantesimo di Mary Stewart a La pietra del cielo di Jack Whyte) la parte più interessante di questo romanzo è proprio vedere come esso sia stato rielaborato dall’autore in modo personale. È intrigante riconoscere i personaggi, da Merlino/Dubricius a Morgana/Morana, a Mordred - qui figura positiva - alla spada Caledfwilch/Excalibur, a Nimue, a Lance ap Lot/Lancillotto, a Gwynewyar/Ginevra. Gli eroi della tavola rotonda non sono raffinati cavalieri impregnati d’ideali cortesi bensì possenti guerrieri Sarmati, Caledoni o Celti, che combattono contro i - o a fianco dei - legionari romani.
Ma è sul campo della conoscenza storica che Curcio ci stupisce. La sua competenza in materia di antichità romana appare sorprendente, con la vita del secondo secolo dopo Cristo ricostruita nei minimi particolari: battaglie, legioni, accampamenti, armi e armature, tanto vive, minuziose e perfette che sembra di essere all’ombra del Vallo di Adriano (o in un documentario di Alberto Angela.)
Non nascondo che il testo, prima uscito con le edizioni Infilaindiana e poi auto pubblicato dall’autore, abbisogna di un’ulteriore rilettura formale, soprattutto per quanto riguarda la punteggiatura. Con uno sforzo tutto sommato non eccessivo ha le potenzialità per diventare un romanzo storico di grande valore, anche se, forse, un po’ troppo per addetti ai lavori.
"Il diario di Eva" di Mark Twain
Il più dissacrante e anticonformista fra gli autori americani, Mark Twain, che disegna una storia d’amore umana e divina, la prima storia d’amore, una storia che si svolge nel paradiso terrestre, ma che trascura completamente l’aspetto religioso per scrutare quello umano.
E’ il ritratto di Eva, un ritratto che solo un ammiratore potrebbe eseguire, un ritratto che esalta la natura femminile.
Si deve dedurre allora che l’ironia e il maschilismo di Twain siano solo un altro aspetto del suo trascinante umorismo, perché se è vero che "Se una donna si guarda spesso allo specchio, può darsi che non sia tanto un segno di vanità, quanto di coraggio”, è anche vero che: "Che cosa sarebbe l'umanità, senza la donna ? Sarebbe scarsa, terribilmente scarsa" .
Eva è la voce narrante che con stupore, ma anche con precisione scientifica, registra il mondo intorno: il suo diario è un quaderno di appunti, di annotazioni, di scoperte.
Si pone delle domande a cui cerca di dare delle risposte che la soddisfano tanto che si compiace del suo istinto: ”Per essere giovane come sono, questa frase mi sembra molto intelligente”.
E il mondo che osserva le sembra quasi perfetto, la incuriosisce e la emoziona.
La luna, il cielo stellato... li guarda incantata, vorrebbe raggiungere le stelle, coglierne qualcuna per adornare i suoi capelli: ecco la donna raffinata e senza età, una donna completamente donna.
Dice: ”All’inizio non capivo a cosa ero destinata quando fui creata...”.
E viene da pensare che lei sia stata creata per la procreazione, per abbellire il mondo come un bel fiore, per riempire la solitudine di Adamo, invece no: è stata creata per cercare i segreti del mondo, per imparare, per provare e riprovare, per sperimentare a sua volta, lei che è un esperimento.
Piange, si stanca, ragiona, parla con se stessa per soffocare il silenzio, classifica e colora fiori, il mondo è una tavolozza di colori.
Ma Eva è veramente grande quando incontra Adamo, un animale sconosciuto, che la intimidisce e incuriosisce; lo cerca e lo osserva di nascosto, corre via per paura di essere inseguita, è profondamente delusa quando si accorge di non essere inseguita.
Niente di nuovo insomma: l’eterno gioco del corteggiamento, dell’apparizione e della sparizione.
Adamo l’attira e l’affascina, ma la delude anche, perché poco interessato alle cose che la interessano; non c’è sintonia nella loro visione del mondo.
Luminosa e curiosa lei, cupo, silenzioso e solitario lui.
L’universo di Eva è vasto: dolcezza, tenerezza, intelligenza vitale.
Ha la consapevolezza della sua superiorità senza sentire il bisogno di decretarlo, è materna e paziente nei confronti di Adamo, soffre per i dolori che le infligge, ha il cuore a pezzi per i suoi modi rudi e indifferenti.
Quando è triste sente la mancanza di amici e li cerca nello stagno e lì chiacchiera con la sua immagine, la sua amica, la sua unica amica, il suo rifugio nei momenti difficili, che sono sempre più frequenti da quando ha conosciuto lui.
E’ una storia dei nostri giorni, la storia eterna di una coppia che vive con le proprie diversità, che comunica in modo diverso.
Forse il segreto, almeno all’inizio di un rapporto, sono le differenze che attraggono più delle cose in comune e questo è stato il segreto anche per Adamo e Eva. Ma poi la mela, il frutto proibito, il peccato originale.
Ancora una volta è Eva che lo coglie, per curiosità, per conoscenza, per interesse culturale diremmo oggi.
Come può una creatura così giovane, inesperta e innocente, fragile e incantata, aver commesso il peccato ed essere punita? Sembra che Twain voglia convincerci dell’inesistenza del peccato originale, dell’assurdità della punizione inflitta.
Dopo aver decantato e descritto le capacità di Eva, la sua vivacità, il suo interesse per il nuovo, cogliere la mela sembra rappresentare il naturale epilogo di questo suo comportamento che abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare dalle prime pagine.
La mela, allora, dal punto di vista umano potrebbe rappresentare l’inizio della libertà, della condizione di scegliere arbitrariamente e incondizionatamente.
Twain sembra chiedersi se agire ed esistere in libertà, in modo autonomo, significhi agire contro la volontà di Dio, senza scelta.
Lei ama Adamo e continuerà ad amarlo anche dopo la caduta e continuerà a chiedersi il motivo di tanto amore, ma spererà sempre di vivere tutti i suoi giorni con lui, perché senza di lui non sarebbe vita.
Eva muore e Adamo le dedica una delle più belle dichiarazioni d’amore della storia, la più umana e la più divina, la prima:
”Ovunque lei sia stata quello era l’Eden”.
Lidia Santoro
Lumturì, il record
Una proiezione del film Lumturì, il record, lunedi 26 settembre 2016 alle ore 21 al cinema 4 Mori di Livorno.
Piccola per il risultato, ma grande per chi ha contribuito alla realizzazione - per un film indipendente locale - l'ammissione al festival internazionale "un film per la pace", considerando che essa è avvenuta per scelta fra centinaia di film provenienti da tutto il mondo e con alle spalle produzioni e coproduzioni in compartecipazioni fra nazioni, vedi http://www.unfilmperlapace.it/ammessi2016.html-
Infatti, questo film non ha usufruito di alcuna distribuzione né di marketing milionari.
Il termine "indipendente" sta, infatti, per chi realizza in proprio un progetto cinematografico, senza alcun finanziamento pubblico o privato, dall'ideazione alla distribuzione.
L'intento finale, quindi, è anche di distribuire storie filmiche, magari non di altissima qualità, che altrimenti non potrebbero mai essere raccontate e quindi visionate.
Un film richiederebbe infatti un investimento di milioni di euro, prerogativa solo degli autori più commercialmente vendibili, poiché le società di produzioni, dipendenti dalle emittenti televisive nazionali ed estere e dalle case distributrici più potenti, investono solo su chi rende loro un guadagno certo.
Finanziamenti statali e regionali danno talvolta spazio alle creatività sommerse che non trovano però in seguito una distribuzione necessaria; con sperpero non indifferente di denaro pubblico.
Precisazione doverosa: realizzare un film comporta un lavoro estenuante senza profitto, se non per le individuali soddisfazioni di chi vi partecipa.
In questa occasione, per esempio, si è riusciti ad avere la preziosa collaborazione dello storico cinema 4 Mori, a cui deve andare un meritato plauso, per una proiezione unica di questo film.
La speranza certo è che il pubblico labronico partecipi numeroso soprattutto per rendere giustificabile l'utilizzo di un cinema per un progetto livornese DOC.
E' un lungometraggio di 88 minuti, di genere drammatico, scritto e diretto da Sergio Pietra Caprina, con le musiche originali del maestro Mario Cafarelli, con numerosi partecipanti fra addetti, collaborazioni, protagonisti, coprotagonisti, ruoli grandi e piccoli, figurazioni:
Franco D'andera, Flavia Moldovan, Alessandro Andreini, Dino Chelli, Lina Ciccone, Sonia del Cistia, Massimo Di Lazzaro, Maila Giordano, Daniele Dini, Antonio Pergolese, Marco Pietra Caprina, Mario Traversi, Anna Maria Vannini, Mario Botteghi, Francesco Ceccarini, Giuseppe Ciampagna, Adriana Doros, Pietro Fornaciari, Maurizio Ieri, Assouii Maroua, Riccardo Omodarme, Fabrizia Pardi, Renzo Rossi, Lorenzo Balducci, Nicola Bandecchi, Massimiliano Bardocci, Claudia Bartorelli, Libero cavalieri, Simone Ciurli, Alavaro Dovicchi, Francesco Fusarpoli, Giancarlo Gianni, Donato Granieri, Gerardo La Rotonda, Carla Manzi, Michele Martorano, Roberto Mattioli, Filippo Mini, Paolo Moldovan, Doranna Natali, Andrea Nicpal, Fabrizia Pardi, Valeria Pergolese, Adriano Pierulivo, Carlo Ramos, Marilou Russomanno, Rita Russomanno, Dino Samaritanim Giovanni Schiano, Giuseppe Simeone, Alberto Spagnoli, Daniele Stiaffini, Tommasi Trapani, Rua Ugolini, Stefano Vullo, Corsaro di p.Cavallotti, Carolina Angeli, Monica Allegranti, Maila Banti, Francesco Barontini, Federico Bartorelli,Sergio Biagiotti, Filippo Cantini, Paolo CecionI, Ilaria Chiappini, Simone Chiappini, Graziella Cini, Simone D'andrea, Nicholas Dabal, Sara Damiani, Riccardo Degaetano, Maria Francesca D'esposito, Gaia Dibartolo, Natan Dibartolo, Gianfranco Di Lazzaro, Federico Diodati, Eugenio Discepolo, Vito Donati, Filippo Doveri, Francesco Ferrini, Silvia Frassinetti, Antonella Gasparri, Roberto Gauci, Ornella Gavagnaro, Guglielmo Genchi, Isenia Genchi, Raffaele Gnasso, Rita Gori, Mattia Guidi, Micol Ieri, Majilinda Izvira, Angelica Lo Porto, Cesare Francesco Lo Porto, Alessandra Macchi, Patrizio Magnisi, Romolo Mangone, Juliano Minetti, Massimiliano Pieri, Martina Pierdomenico, Linda Pietra Caprina, Michela Pietra Caprina, Francesca Puca, Chiara Alice Pucini, Christian Ramos Myrea, Ramos, Sara Rastrelli, Caterina Russomanno, Silvia Secenti, Anna Squillante, Alessandro Soriani, Chiara Superina, Paola Toso, Giacomo Vespignani.
Si ringrazia per la collaborazione Assicura Sas di Livorno, Compagnia Portuale di Livorno, Istituto Sacro Cuore di Livorno, Masterlight Services di Livorno, Mini Hotel di Livorno, Peschereggio Idea di Livorno, Unione Canottieri di Livorno.
Chi ha realizzato il tutto spera di poter salutare il pubblico e presentare il cast in questa particolare iniziativa
Diego Collaveri, "Il segreto del Voltone"
Il segreto del Voltone
Diego Collaveri
Fratelli Frilli Editori, 2016
pp 259
11,30
Tutti i commissari infelici si somigliano fra loro. Non è l’incipit di un inedito di Tolstoj ma la considerazione che traiamo leggendo gli odierni epigoni di Montalbano. Il poliziotto di Vigata è riproposto in tutte le salse, anche quando non parla siciliano bensì livornese, anche quando non ha una bella fidanzata ligure ma una moglie morta e una figlia che non gli parla più. Mario Botteghi opera a Livorno e si trova a indagare su un caso di omicidio del quale s’interessano persino i servizi segreti americani: un crocierista statunitense, sbarcato nella città labronica, viene trovato ucciso vicino al Voltone, alias piazza della Repubblica, alias piazza Carlo Alberto, una piazza ponte storica e affascinante. La morte del crocierista si collega a fatti del dopoguerra, a segreti nascosti che non possiamo svelare, a qualcosa di prezioso e oscuro celato nelle viscere della città, là dove i Fossi, cioè i canali di acqua salata che la attraversano, vengono a contatto con gli imbocchi di intricate e inesplorate gallerie.
La storia è avvincente ma aggrovigliata, il commissario, le sue scoperte e le scene d’azione finali un po’ scontati. La parte più riuscita dell’opera è la puntuale e veritiera rappresentazione di una città letterariamente poco raccontata. Collaveri dimostra di conoscerla in tutti gli aspetti, belli e meno belli, nel degrado di oggi e nel passato storico, nei particolari della vita quotidiana e nei documenti di archivio, e di saperne ricreare l’atmosfera unica. Dà prova di quell’amore per Livorno che anche noi sentiamo, che invade le nostre ossa, i nostri muscoli, la nostra pelle ghiacciata dal salmastro. Il racconto aggredisce tutti i sensi, ci fa odorare il profumo degli spaghetti al riccio, udire lo strido sgraziato dei gabbiani e lo sciabordio delle onde contro i moli.
Quello che gli rimprovero è – come a molti miei concittadini – l’identificare la parte “nostra” con una parte sola, quella collegata a certi ideali e a certi simboli che, pur preponderanti in città, non sono gli unici.