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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Drip. Drip. Drip.

30 Giugno 2024 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

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Drip. Drip. Drip.

Cesare, un ragazzino dell'Esquilino, uno dei quartieri più disagiati di Roma, se ne stava sdraiato sul letto con l’intento di dormire, ma, a causa di un fortissimo temporale, il gocciolamento continuo dal soffitto in un secchio di metallo sul pavimento gli rendeva il sonno difficoltoso. Inoltre, pur avendo svuotato il contenitore poco prima di coricarsi, presto esso sarebbe stato pieno di altra acqua piovana, costringendolo a scomodarsi per smaltirla nuovamente.

«Li mortè, ma proprio ‘sta stanzaccia me doveva capità» borbottò a bassa voce. 

Drip. Drip. Drip.

A Cesare venne poi l'idea di sostituire il secchio con una damigiana vuota in vetro da trenta litri con bocca larga, e di immettere una serie di stracci al fine di attutire il rumore da sgocciolamento. Funzionò. 

«Porca mignotta! Che genio che sono! E bonanotte ar secchio!»

 

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Terradimandorla, "Divento di vento"

29 Giugno 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #racconto

 

 

 

Divento di vento

Terradimandorla

Gli scrittori della porta accanto

Pubme, 2024

pp 93

14,00

 

Una raccolta di racconti molto ben scritti, molto letterari. Spaziano dalla fantascienza all’onirico, passando per il surreale. Illustrati con disegni scomposti, quasi liquidi, dai colori pastello. A scriverli e dipingerli è Terradimandorla, pseudonimo di Cristina Basile, autrice expat in bilico fra Francia e Sicilia.

Donne (ma non solo) protagoniste di storie difficili da raccontare, trasfiguranti e trasfigurate, dove è in atto un’alterazione. Il cambiamento non spaventa neanche più poiché è ineluttabile, ci si lascia andare alla sua azione scompaginante, si diventa “vento”, a nostra volta portatori di mutazione.

Storie anche crude, dilanianti, dure da digerire, raccontate come se niente fosse, senza apparente pathos ma con molta tensione sottesa. Ragazzine orfane, padri scomparsi, uomini violenti, fatti di cronaca. Personaggi e trame che partono in un modo e si rivelano tutt’altro, tempo che scorre a balzi in modo straniante, luoghi che assumono significati archetipici, come il cimitero delle Fontanelle di Napoli o la tonnara di Favignana. Gli eventi più semplici, più quotidiani, come fare la baby sitter o indossare un vestito col fiocco, assumono significati fantastici, si addentrano nell’inconscio, trascolorano in concetti comprensibili più con l’intuito che con la ragione, intrisi di sessualità rimossa o violenza. Portano con sé la necessità di “sciogliersi nell’acqua”, liberarsi, “scomparire a se stessi”, come afferma l’autrice spiegando l’istinto che l’ha portata a lasciare la propria terra.

Uno stile studiato, parole soppesate, scelte fra mille a creare un accostamento non immediato che è già metafora di per sé.  Una prosa talmente connotata da divenire poesia ermetica, forse più da accettare che da comprendere.

In mezzo a tanta narrativa d’evasione, ogni tanto si sente il bisogno anche di letture ricercate come questa.

 

 

 

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Daniela Burroni Giannoulidis, "Sfogliando il calendario"

26 Giugno 2024 , Scritto da Maria Rizzi Con tag #maria rizzi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

 

Sfogliando il calendario 

Daniela Burroni Giannoulidis

 Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

La poetessa pavese Daniela Burroni Giannoulidis, dopo gli anni trascorsi ad Atene con il marito greco, e l’impegno nella ricerca biotecnologica, ha deciso di donarsi ai versi con assiduità, e ha ricevuto, a ragion veduta, apprezzamenti da parte di critici letterari della levatura di Giulio Panzani, Fulvio Castellani, Marcella Mellea ed altri.

In quest’occasione presenta un calendario lirico dei trecentosessantacinque giorni dell’anno, progetto copioso, di rara originalità. La genialità della poetessa non sta solo nel proposito, ma nella capacità di sfogliare il tempo senza ricorrere a tecnicismi, con luminosa, incandescente ispirazione. Leggendola si pensa a un’autentica vocazione, intesa nel senso letterale di ‘chiamata’. Non vi è dubbio, che come disse Marcel Proust «i giorni sono forse uguali per un orologio, non per un uomo», ma nel caso di Daniela Burroni l’arida clessidra dell’esistenza, che concede lampi di eternità, si trasforma in uno spartito di note quotidiane, che consentono di leggere l’attimo terreno come infinita melodia. Si parte dal 1 gennaio con versi tratti dalla lirica Saliscendi: «…Ho messo il saliscendi alla coscienza / e illumino d’un tratto / gli istanti della vita…», e si è trafitti dall’eco dei grandi della nostra letteratura, grazie al soffio purissimo di endecasillabi spezzati da settenari, da un metro classico utilizzato in modo moderno, vitalistico, dal ritmo assordante e dal timbro che varia in modo inesausto.

Nessun esercizio, una capacità di pensare in poesia, di suonare in versi, di non dare confini all’immaginazione, e al di là di ogni espediente lirico, quest’autrice pavese, imbevuta del sole e del mare greco, si distingue per l’assenza di atmosfere cupe, di oscuri presagi. Pur visionaria, come tutti i poeti, è fresca come acqua sorgiva, scorre tra i ricordi e il presente senza la sindrome della nostalgia malata. «È gioia pura / rispolverare i ricordi / ritrovare gli oggetti dei miei bambini / che sono ormai cresciuti…» (7 febbraio). Più che esaustiva in merito al concetto espresso la lirica Carnevale del 25 febbraio: «Maschera triste / sui violini d’inverno / piangi i tuoi lamenti / spegni nelle fresche mattine / i singulti di sole // vattene vecchia / la vita è adolescente adesso / freme la pelle / al palpito biondo / di una chioma». Non esiste nella Nostra la malinconia di ciò che ha lasciato e l’attesa di ritrovarlo ancora, ma un senso dolce di gratitudine verso le isole del passato e di attenzione al presente e a ogni domani.

Lo sguardo che posa sulla Natura è intriso di un sentimento panico, e la lunga permanenza ad Atene ha senza dubbio influito sulla sua percezione del paesaggi e dell’esistenza. Sono numerose, infatti, le liriche dedicate alle atmosfere, ai giorni e ai sentimenti vissuti nella repubblica ellenica. Vi si colgono tratti intimistici, spunti riflessivi, che riportano al genere ‘idillico’, all’ambiente inteso come amoenus, nel senso di sereno, e a quadri familiari, mutevoli come è ovvio che siano, ma privi di tormenti, Il 22 marzo recita: «Io so dove abita il vento: / nei pensieri che scompiglia ogni momento / e riaggiusta e riprende e solleva / a suo piacimento / incurante degli anni vissuti / e dei giorni che stiamo vivendo…», versi che sembrano accompagnati da un’arpa celtica e confermano che ci troviamo di fronte a una partitura alla quale corrispondono le melodie del cosmo, a un prisma che svela le sfumature della luce.

La solarità dell’Autrice non corrisponde a una forma di indolenza verso gli stimoli esterni. Ella si cala nel sociale, nella consapevolezza che l’unico specchio che conta è quello che ci restituisce la dignità del nostro essere uomini, ed è conscia che ogni forma d’amore cominci in famiglia. Ha saputo tessere la tela di una casa dove regna l’armonia con fili di pazienza, di dedizione e di fede e ha imparato il segreto per volgere lo sguardo misericordioso verso il prossimo. Il 7 aprile si leva il canto: «…questo lutto silente / grave opaco / che ammutolisce il cuore / che sia pietra / da cui sgorghi di nuovo / la vita» (2003, guerra in Irak), e pur nello spaesamento, nello strazio per i conflitti, per le ingiustizie, le liriche palesano la certezza che la pace vada cercata innanzitutto in noi stessi e che è indispensabile coltivare la speranza.

La ricerca dell’equilibrio individuale e la verticalità rappresentano le fondamenta della vita. Devo confessare che i versi di Daniela Burroni mi hanno procurato una sorta di formicolio interiore, di tenera inquietudine. Ho pensato a Jacques Brel e a La canzone dei vecchi amanti che «ce ne vuole del talento per invecchiare senza diventare adulti», e ovviamente non mi riferisco ai dati anagrafici, ma alla capacità di quest’artista di conservare in sé il fanciullino, inteso non nella rigorosa accezione pascoliana, ma come una maturità di pensiero che non uccide il senso della meraviglia e del mistero. Ho compreso, leggendo più volte la silloge, che quel formicolio altro non era che il riflesso della mia anima nella sua.

Devo ammettere che è la prima volta che mi trovo a scrivere di una coetanea con un modo di intendere l’esistenza, il rapporto con gli altri, con la natura e con la fede tanto simili al mio. «…Soffio del Divino / sentito creduto / (e in altri istanti / tristemente perso, / poi ritrovato)…» (La mia Pentecoste, 1 giugno). I versi citati ed altri esprimono il dubbio, che non rappresenta un sentimento sterile e non rende colpevoli, ma è una grazia, una componente ineludibile della spiritualità. Lo stesso Sant’Agostino asseriva «una fede che non sia pensata è niente», perché le certezze rendono superbi e diminuiscono la tolleranza.

Le liriche che presentano una tensione verso il cielo sono permeate dall’apertura d’ali che contraddistingue tutti gli aspetti dell’esistenza di Daniela Burroni, non rivelano forme ascetiche di chiusura, di distacco dalla realtà. Ella, con la sapienza, data solo alle persone eccezionalmente sensibili alla bellezza, capaci di creare, accosta i mesi e i giorni ad anniversari, viaggi, feste consacrate e all’inevitabile srotolarsi delle stagioni dell’esistenza: «L’argento delle chiome, / che dice il passare dei giorni, / trattiene, distillato da ogni amarezza, / un brillio di vivida forza…» (26 settembre). Tramite il carattere teso ad arco verso il sogno e tramite la Poesia, prima freccia dell’arco, Daniela Burroni Giannoulidis vive l’argento come una nuova gradazione di colore della gioventù. La cifra stilistica vede alternarsi liriche di ampio respiro, ad altre più brevi, ad alcuni aforismi splendenti come dardi di fuoco, forse le note più alte dell’intera partitura.

Nel congedarmi da questa Poetessa in eterno levare, con due patrie nell’anima e un perenne viaggio nel cuore, avverto una dolce saudade e nuova gratitudine verso la vita che mi ha concesso il dono di incontrarla e di trascorrere un anno lirico con lei…

Maria Rizzi

 

 

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L’AUTRICE

 

Daniela Burroni Giannoulidis è nata nel 1957 a Pavia. Nel 1982, dopo la laurea in scienze biologiche e dopo il matrimonio, si è trasferita con il marito greco ad Atene, dove è nata la sua prima figlia, e dove è restata per cinque anni lavorando presso il laboratorio biotecnologico di un’azienda chimica. Poi con la famiglia è tornata in Italia, a Pavia, dove sono nati altri due figli, quindi a Certosa di Pavia, attuale residenza. Pur scrivendo poesie fin da giovanissima, ha iniziato a farle conoscere solo dopo aver lasciato il laboratorio per dedicarsi alla famiglia. Ha pubblicato due libri di poesie: Passano i giorni (1997), Tra il balcone e la cucina (2004), e due brevi sillogi in volumi antologici: I riflessi dell’esistere (2003), La poesia della luce (2021).

 

 

Daniela Burroni Giannoulidis, Sfogliando il calendario, prefazione di Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 210, isbn 979-12-81351-34-9, mianoposta@gmail.com.

 

 

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Il mio nuovo romanzo: GALEOTTO FU L'INFERNO

25 Giugno 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia

 

 

 

#galeottofulinferno

 

Ecco a voi il mio nuovo romanzo!

 

Un angelo caduto.
Una giovane donna in lutto.
Una natura diabolica con cui fare i conti.
L’eterna lotta tra il bene e il male. Tra amare ed essere amati.

 

 

GALEOTTO FU L'INFERNO

Patrizia Poli

                                                                                Literary Romance , 2024

 

 

Il mondo sta andando a rotoli, fra pandemia e terza guerra mondiale. Confuso e incolpevole, Samael, ovvero Lucifero, stella del mattino, sale sulla terra per capire le motivazioni degli umani e l’imperscrutabile volontà di suo padre, Dio.

Incontra una giovane madre che ha appena perso il suo bambino per il Covid. Lei è BUONA, perbene e angelica, non ha potuto studiare per la morte dei genitori e ha vissuto fino a quel momento una vita semplice e onesta. È divorziata da un marito infantile e stupido. Samael ne rimane folgorato, decide di osservarla, per carpirne l’innocente mistero. Decide anche di aprire un’agenzia di pompe funebri all’ultimo grido, la Oltretomba Starlight.

Samael è il Lucifero degli gnostici, il portatore di conoscenza e verità, in lotta con un Dio  indifferente ai drammi dell’umanità. Giorno dopo giorno, viene catturato dalla bontà e gentilezza di Angela, vorrebbe lenire la sua sofferenza, e la propria natura diabolica lo spinge a punire sulla terra tutti coloro che le hanno fatto del male, mettendoli di fronte alle loro responsabilità. Per rendersi degno di lei, inoltre, tende a redimere chi ha peccato in modo non grave, e prova gusto a sentirsi buono nel farlo. Questo, però, non piace a Dio, per il quale gli umani vanno giudicati e puniti solo dopo la loro morte, senza interferire prima. 

Ma qualcuno di inaspettato metterà le cose a posto.

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Antonino Stampa, "Fiori di calendula maritima"

24 Giugno 2024 , Scritto da Tito Cauchi Con tag #tito cauchi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Antonino Stampa

FIORI DI CALENDULA MARITIMA

 

Antonino Stampa, siciliano, laureato in filosofia, ha insegnato Lettere, innamorato della sua terra ha voluto dedicare al Trapanese, dove ha avuto i natali, la raccolta Fiori di Calendula maritima (Guido Miano Editore, Milano 2024). Come meglio spiega in chiusura Angelo Troia, i fiori di calendula maritima sono in pericolo di estinzione; unici al mondo crescono sulla costa trapanese. Essi mi suggeriscono la metafora del terremoto del 1968, argomento del libro, che sconvolse i territori della Valle del Belice, quando l’Autore allora aveva 22 anni. Rimane un ricordo indelebile in tutti i siciliani, soprattutto in coloro che appartengono alla generazione del Nostro.

Il volume comprende cinque sezioni (Come un battito d’ali, Noi e gli altri, Quel che lasciamo, Universo, Belice 1968-2018); i primi quattro sono contrassegnati da una numerazione romana progressiva fino a XXXI, la quinta sezione è espressamente orientata al terremoto e i suoi componimenti hanno numerazione autonoma fino all’XI. Ricordiamo che la Valle del Belice (con l’accento aperto sulla i) comprende i Comuni di Gibellina che è quello maggiormente colpito, Partanna, Salemi e Castelvetrano, tutti in provincia di Trapani. Antonino Stampa si presenta con un andamento piano, sciolto e leggero, dovuto al garbo espressivo e all’etica dei temi toccati. Lo stato d’animo che lo avvolge gli consente solo barlumi di luce e sprazzi di gioia, di gioia vissuta e lontana.

Marco Zelioli (Monza, 1951) ha dedicato la sua vita alla scuola risalendone i massimi gradi nella carriera e occupandosi dei più disagiati; ha pubblicato una decina di libri tra poesia e saggistica. Nella prefazione si avvale anche dei saggi di Enzo Concardi che incontreremo, confermando la dolcezza dell’espressione, quasi una carezza dopo le ferite e le sofferenze, come i versi brevi suggeriscono. Meditazioni sulla condizione umana accostata alla natura, entrambe paragonate alla storia eterna del conflitto tra il Bene e il Male, sembra che si vanifichi il sacrificio di Cristo. Le ferite alla terra e alle case sono simili a quelle sui corpi che, cinquant’anni trascorsi, non riescono a cancellare; ma la speranza non muore mai, pronti a riemergere. Per chi ama i propri luoghi del cuore, mi piace riportare quanto viene citato nella prefazione: Goethe diceva della bellezza: «La poesia / non è nelle cose, / ma negli occhi / di chi / le guarda».

Antonino Stampa rivive quell’evento tragico. L’evocazione del sisma è chiara e immediata, è Come un battito d’ali: «Un giorno di sole / nel pieno dell’inverno // e capisco / che questa mia vita / è cogliere il sole / prima che la tempesta / mi scuota» (I, Gennaio). Evoca alcuni episodi degli abitanti, degli incontri fra i giovani corpi, sente su di sé la sicilianità fatta di mille storie che hanno attraversato l’Isola. «Canto / questa terra arsa / che mi asciuga, / questo vento / che mi leviga, / questo mare che s’alza/ in tempesta» (XIII, Siciliano). Evoca la storia e le antiche abitudini, ora in contrasto con gli abusi di ogni genere; si avverte il suo ritorno nell’Isola. Le sue soste sono anche in altre parti della Sicilia, come per esempio di fronte a Ortigia (Siracusa) in compagnia di Emilia, «Ora, in pensione». Non si riconosce nella nuova realtà, si sente smarrito. Cita il Leopardi: «profondissima quiete io nel pensier mi fingo…» (XXIX), ma dubita che il pianeta continuerà in eterno.

Belice 1968-2018, la quinta e ultima sezione, come aveva avvertito il prefatore, si presenta simile a un poemetto; il primo componimento, brevissimo, è più che lapidario: «Quella notte / morì una Sicilia. / Dopo / nulla è nato, / qualcos’altro / è venuto» che rende il senso della scossa inaspettata. Il giovane Antonino Stampa allora era dedito ai lavori dei campi, con la mula; in seguito ha cambiato vita. Non indugia nella descrizione sulle ferite, bensì abbozza appena un cenno, direi, cronometrico al momento cruciale del 15 gennaio 1968. «Nel nero della notte s’aprì la terra», le case sventrate «…svelano / pudori d’affetti. / Sotto le pietraie / giace la memoria» (V sez., V componimento). I morti vengono coperti di calce viva per spegnere i cattivi odori, non c’è il tempo per fare di più. A malapena riconosce i luoghi ove muti ci si interroga.

In chiusura i due saggi di Enzo Concardi, relativi ad altrettanti precedenti opere da cui risaltano le comparazioni di poetica di Antonino Stampa, ci presentano un uomo di meditazioni, come preannunciato nella prefazione. Il Nostro si è nutrito dello spirito della Magna Grecia e dei miti omerici. Così lo sguardo rivolto all’orizzonte del mare e ai profili della montagnola (cioè al monte di Gibellina, nome di derivazione araba), ce lo accostano allo spagnolo Juan Ramón Jiménez (1881 - 1958) e al poeta e filosofo portoghese Anthero de Quental (1842 - 1891) sul legame con il mare e con il tema della morte. Gli orizzonti della natura sono come una preghiera per chi nasce e lavora a contatto di quei luoghi dove la vita stessa è preghiera. Poetica che somiglia spesso a quella ungarettiana. Ogni altro commento rischia di apparire retorico.

Tito Cauchi

20 giugno 2024

 

Antonino Stampa, Fiori di Calendula maritima, prefazione di Marco Zelioli, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 84, isbn 979-12-81351-29-5, mianoposta@gmail.com.

 

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Alla posta

23 Giugno 2024 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

Immagine generata con PicFinder AI

 

 

 

Ore 10:00

In un angusto ufficio postale di un piccolo comune della provincia di Messina, la coda viene bloccata da un anziano signore che ha dei problemi a ritirare la pensione a causa di una dimenticanza.

La gente sbuffa, c’è chi addirittura bestemmia sottovoce, per di più il caldo estivo peggiora ulteriormente le cose, considerando il condizionatore guasto.

Improvvisamente, una signora, che agita nervosamente un ventaglio, decide di cantarne quattro al pensionato.

«Minchia, si rendi cuntu chi avi mezz'ura che semu appressu a lei? Si ni annassi! (Minchia, si rende conto che è da mezz'ora che siamo appresso a lei? Se ne vada!)» gli ringhia inviperita.

«Non mi muovo di un passo. Non esiste proprio che rincaso per prendere il documento di identità, ritornare qui e rifare la fila» le risponde a tono.

«Come le ripeto, non è sufficiente il libretto. È la prassi!» interviene la spazientita addetta dell'unico sportello disponibile.

«Dai, su, mi conoscete da anni, non perdiamoci in formalità!» insiste l'utente, levandosi la coppola. 

«Signor Milone, adesso basta! Chiamo la vicedirettrice!» sbotta l'impiegata alzandosi di scatto dalla sedia per incamminarsi in direzione di una stanza sulla destra. 

«Ecco brava, chiami Margherita!»

La vicedirettrice, una donna di origine campana dall'aria scocciata, si piazza dinnanzi all'ottantenne.

Ne segue un breve e concitato botta e risposta, finché il pensionato percepisce che potrebbe spuntarla, giocando la carta dell’umorismo.

«Margherita, non faccia la Capricciosa e nemmeno la Diavola, lei lo sa che di Norma vengo qui tutte le Quattro Stagioni. Per favore, da buona Napoletana, si stenda, pardon, si distenda... i nervi.»

Scoppiano le risate tra gli astanti, persino la vicedirettrice si lascia travolgere da quelle frasi "farcite" di spiritosità.

«Per questa volta passi. Regina, puoi procedere, ti autorizzo io» dice rivolgendosi alla collega dallo sguardo serioso da signorina Rottermaier.

«Regina? Per caso di cognome fa Cameo?» scherza compiaciuto il cliente camurriusu.

L’impiegata, senza proferire parola, elargisce con freddezza varie banconote al Mel Brooks della situazione che lestamente ripone nel portafoglio. Dopodiché saluta e con un'espressione soddisfatta, si avvia per uscire attraversando la porta blindata antisfondamento. 

«Simpatico quel tipo, la sapeva davvero lunga!» afferma sorridendo uno dei presenti.

«Simpatico un corno! Che pizza che era!» esclama Regina acidamente.

In un batter d'occhio, la coda di quel "forno" di ufficio postale, finalmente riprende a scorrere. 

 

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Milan Kundera, "Praga, Poesia che scompare"

22 Giugno 2024 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

 

 

 

 

Milan Kundera
Praga, Poesia che scompare
Adelphi – Pag. 106 – Euro 12

 

Mi ripeto. Adelphi è un grande editore. Uno dei pochi che restano in questo cimitero degli elefanti che è l’editoria italiana. Merito di Roberto Calasso che l’ha impostata su solide basi culturali. Merito di una redazione che lavora seguendo le sue tracce anche dopo che se n’è andato, lasciandoci tutti un po’ più soli. Tra le cose meritevoli che fa Adelphi c’è la ristampa (con traduzioni curate da Giorgio Pinotti) di tutta l’opera di Milan Kundera, che occupa un intero settore della mia biblioteca, adesso pure negli agili volumetti della Piccola Biblioteca (106 pagine, euro 12) con Praga, Poesia che scompare, due testi brevi del grande boemo (non cecoslovacco, a lui non sarebbe piaciuto!). Il primo lavoro, per me del tutto inedito, uscito in Francia su Le Débat, dà il titolo al volumetto, una riflessione dedicata a Praga, vista come una sorta di Atlantide che si allontana nelle nebbie dell’Europa, una città remota, dotata di una lingua poco conosciuta e poco accessibile che rende la sua cultura isolata, distante, poco fruibile per gli stranieri. Kundera cita Kafka e Hašek, il primo discreto e vegetariano, l’altro eccentrico e beone, la letteratura del primo criptica ed ermetica, quella del secondo popolare ma non considerata vera letteratura. Sono due artisti figli di una stessa società eppure così diversi, così come è importante Karel Čapek con la sua storia dei robot costruiti dall’uomo che si mettono a combatterlo, una metafora fantastica del totalitarismo. Kundera si sforza di far capire che la cultura di Praga è occidentale e che la sua letteratura è antica come l’Occidente, solo l’invasione russa del 1968 ha spazzato via la generazione degli anni Sessanta e la cultura moderna che l’ha preceduta, distruggendo la vera cultura boema. Il secondo testo, Ottantanove parole, l’avevo già letto ne L’arte del romanzo, dove era uscito in forma ridotta mentre in questo volume lo possiamo apprezzare integrale. Si tratta di una sorta di filippica colta contro le traduzioni libere, contro i traduttori che vogliono migliorare lo stile dello scrittore (e finiscono per rovinarlo). Kundera compone un personale dizionario composto da ottantanove parole chiave per capire meglio i suoi libri e per tradurre meglio certe espressioni ceche in francese e in altre lingue. Per fare un esempio, alla voce stupidità compie una breve dissertazione filosofica sulla differenza con il più violento e aggressivo idiozia. Altro concetto importante per Kundera: il non essere non è il nulla, sarebbe errata una simile traduzione, il nulla e il non essere sono due cose completamente diverse. Il non pensiero, al tempo stesso, non è assenza di pensiero, secondo il grande scrittore boemo. Non fate a meno di questo libro, se amate Milan Kundera, ci sono le chiavi per capirlo meglio e per non tradire il suo pensiero filosofico.

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Pietro Nigro, "Opera Omnia"

21 Giugno 2024 , Scritto da Enzo Concardi Con tag #enzo concardi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

 

Opera Omnia (vol. 1 – poesie)

Pietro Nigro

 Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

Esiste un legame particolare tra il poeta siciliano Pietro Nigro, nativo di Avola poi residente a Noto, e la Casa Editrice Guido Miano: nel 1982 venne pubblicato a Milano il suo primo volume Il deserto e il cactus, al quale ne seguirono altri, fino all’attuale Opera Omnia. Tale rapporto non è stato soltanto professionale, fra editore e scrittore, ma soprattutto umano e ideale fra Guido e Pietro, un’amicizia e una stima reciproche a distanza, fra scritti e conversazioni telefoniche. Essa si nutriva di memorie comuni, come la frequenza al Liceo classico “Di Rudinì” di Noto, il primo come studente, il secondo, più tardi, come professore di lingua inglese. C’erano poi le stesse origini siciliane nella terra siracusana; l’amore per la cultura classica della Magna Grecia; la comune passione per le lettere; un’intesa intellettuale e culturale che li contraddistingueva come figli ed eredi del grande patrimonio antico. Senza dubbio la scomparsa recente di Guido Miano ha costituito per lui una perdita dolorosa, così come, ancor maggiormente e più vicina nel tempo, la scomparsa dell’amatissima moglie Giovanna lo ha lasciato, come dice nella dedica, con il cuore straziato e senza “musa ispiratrice” di tanti suoi versi.

È dunque con siffatta premessa biografica che ci accostiamo a presentare questa raccolta di liriche, che comprende tutte le tematiche dell’autore, la quale, tuttavia, non contiene la totalità delle sue composizioni, bensì un ampio ed esauriente “florilegio, adatto comunque a sviscerarne i contenuti e lo stile. Infatti i capitoli nei quali è suddivisa l’opera rappresentano altrettanti motivi ispiratori dell’ars poetica di Nigro, così come sono apparsi ad una stringente analisi critica. Si succedono allora i vari aspetti della sua scrittura, così delineati: Trinacria e Magna Grecia; Chiaroscuri della natura; I labirinti della memoria; Amore è vita; Tra la vita e l’oblio; Dal dolore all’anima, dall’essere all’infinito. Ma il libro, nell’epilogo, ha un ultimo capitolo inedito: Alla fine del tragitto, emblematica titolazione voluta dall’autore per significare chiaramente la probabile chiusura di un cammino esistenziale ed artistico. In generale il suo canto si sviluppa dai vissuti soggettivi, dalle suggestioni dell’isola nativa, da indagini sulla condizione umana, attraversando il mondo dei sentimenti familiari e amorosi, conoscendo il dolore, la gioia e la speranza; esprimendo senza limiti l’aspirazione dell’essere all’infinito, all’eterno, alle dimensioni metafisiche, con metamorfosi di andata e ritorno dal pessimismo cosmico e antropologico a visioni possibiliste sul destino umano dopo la morte, tema che, in ultima analisi, è quello che più l’assilla, poiché non trova certezze ma solo domande senza risposta.

In lui materia e spirito sono talvolta realtà antitetiche, talvolta categorie filosofiche alleate nella ricerca del miglior modo per vivere: certo è che il vero dio che ci governa risponde al nome di ‘mistero’. Affermare e negare allo stesso tempo mortalità e immortalità dell’uomo sembra essere una verità duplice, poiché la prima è evidente, mentre la seconda pur non essendo tangibile è fortemente desiderata. Germi, valori ed elementi di Cristianesimo s’affiancano e s’intrecciano nella sua visione ad un certo fatalismo della cultura mediterranea di origine classica, forse stemperato dagli afflati ideali e solidaristici. Poeticamente si riscontrano nei suoi testi influssi stilistici, estetici e contenutistici provenienti dell’ermetismo, amalgamati ad un neoclassicismo sobrio e levigato nel linguaggio. Lo scavo in profondità lo accomuna alla poesia d’impegno umano, intellettuale, etico, civile che tanto manca nel panorama contemporaneo. Si potrebbe dire che Nigro va al fondo di ogni questione fondamentale dell’esistenza, volendo indicare all’umanità il giusto cammino verso la libertà, la civiltà, la pace; la sua è anche una poetica ricca di messaggi rivolti al bene comune: possiede quindi una concezione dell’arte di tipo finalistico e non rispondente al famoso dettato dell’arte per l’arte del decadentismo.

Più in particolare nel primo capitolo – Trinacria e Magna Grecia – sono cantate le tematiche delle migrazioni delle genti siciliane: lontano dalle trazzere si perdono le proprie radici e l’originaria identità si affievolisce sempre più. L’attaccamento alla terra nativa da parte del poeta è tenace e i suoi versi si distendono nella contemplazione naturalistica fra i Monti Iblei e il mare: così com’è arido il paesaggio in alcuni tratti, tale è la povertà secolare dei suoi abitanti. In Terra di Sicilia ecco il contrasto tra antico e nuovo: «Odo levarsi dai rovi / della mia terra dimenticata / il canto soffocato di uomini duri / come scorza d’ulivi / tra la fuliggine di sedicenti civiltà di ciminiere…». E il richiamo della Magna Grecia è sempre vivo: le orme degli antenati posseggono ancora la loro suggestione, gli ideali della grecità perduta sono rimpianti, i miti rievocati: Eschilo, Pindaro, Teocrito, Simonide e Bacchilide (Indefiniti confini).

Nel capitolo secondo, dedicato ai Chiaroscuri della natura, emerge il poliedrico rapporto del poeta con l’elemento naturale, che assume sia valenze contemplative che aspetti filosofici. Proprio in riferimento a questi ultimi le liriche più significative sono: Tu, materia, muovi la mia mente e Soffre lo spirito. Qui l’autore assegna alla natura il ruolo di suo simbolo ed essenza, perché «... commuovi il mio spirito / e i miei sensi elaborano il pensiero / per scoprirti e capirti», mentre spirito e materia convivono in una visione osmotica. C’è dunque una immedesimazione tra uomo e natura, desiderio di metamorfosi, ideale di vita: «Sei tu la mia ambizione: / libertà di goderti, / natura» (Sei tu la mia ambizione).

La poliedricità continua mediante la consonanza fra stati d’animo soggettivi e tonalità del paesaggio, attraverso i legami affettivi con l’ambiente naturale, nei momenti contemplativi delle campagne del Sud, dai quali nasce un forte desiderio di pace interiore, come in Odoranti campi di zagara, dove Nigro cita un verso di Goethe: «Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni?».

Si presentano ora I labirinti della memoria come terzo capitolo del libro. La funzione del passato, secondo il poeta, è tutta concentrata nella lirica Ricetta: «Non mi umilia il sole: / anche se mi porta il nuovo / il passato non cancella. / Per far morire la nostalgia / risuscita il passato / rievoca le vecchie cose / rinnovale / mischiale al presente / e vivi». Così emergono i ricordi della giovinezza, il pianto degli anni lontani, le nostalgie dei soggiorni a Parigi, le visitazioni alla ‘teca della memoria’, i viaggi nella millenaria storia collettiva, ovvero Alfa e Omega.

La poesia amorosa di Nigro è raccolta nel quarto capitolo: Amore è vita, interamente rivolta all’unico, grande amore della sua vita, a cui - come già detto – è dedicato il libro. È un canto, talvolta melico, con reminiscenze stilnovistiche per la donna dei sogni; leggendo queste liriche o solo anche i titoli, recepiamo la totalità dell’innamoramento del poeta, attraverso immagini estasiate: Quanto t’amo dirti vorrei («questo senso di mutuo perderci»); Lontananza («Dov’è l’amor mio»); Il mio ruscello («Mi bagnerò in eterno nella tua purezza»); A te («Scava nel mio cuore / e vi troverai perle per te»); Sogno d’amore («È un sogno incantato / la mia vita accanto a te»); Oh, i tuoi occhi («I tuoi occhi / luce ai miei») … E poi gli incanti romantici dei soggiorni parigini con lei, avvolti da magiche atmosfere bohèmiennes.

Brusco è il passaggio alle problematiche esistenziali (capitolo quinto: Tra la vita e l’oblio), ma è palese in Nigro la consapevolezza della caducità umana, raffigurata efficacemente in La sigaretta: «... Così la vita! Una sigaretta che s’accende / allorché si nasce e che man mano / cenere lascia sul percorso cammino, / finché scompare». Quindi egli celebra l’esistenza, la luce, la speranza (Canto alla vita) e allo stesso tempo s’accorge che tutto è vanità (Futilità) e, con immagini foscoliane e leopardiane, ci conduce al trapasso, ricordandoci che il senso della vita è il suo mistero.

Il capitolo successivo, il sesto, vede l’affacciarsi di tematiche che avvicinano Nigro alle dimensioni divine e trascendenti, al bisogno di credere nella vita eterna, a considerare non chiusa la partita della vita dopo la morte: Dal dolore all’anima, dall’essere all’infinito contiene liriche nelle quali si rivolge al Dio dei suoi padri affinché interceda per un destino di oltrità, di infinito, di vita escatologica; altre in cui afferma che il bene dell’anima va nutrito con la luce e la liberazione; altre ancora dove appare l’immagine delle Astronavi dell’anima su cui navigano uomini e dèi. Infine, epilogo significativo, Gesù e la storia pone il sigillo sulla verità ultima: «Padre nostro che sei nei cieli» (in corsivo nel testo).

L’aggiunta del settimo capitolo, Alla fine del tragitto, non cambia nulla a quanto già esposto: vi è altresì un richiamo all’attualità storica riferito alla guerra nel Medio Oriente (Morte nel deserto del Negev e a Gaza) che contiene i condivisibilissimi versi: «…Solo l’amore sanerà la terra, / mentre l’efferata brama di potere / vi darà la morte».

Enzo Concardi

 

 

Pietro Nigro, Opera Omnia. Volume 1 - Poesie, prefazione di Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 208, isbn 979-12-81351-28-8, mianoposta@gmail.com.

 

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L’AUTORE

Pietro Nigro è nato ad Avola (sr) nel 1939 e risiede a Noto (sr); laureato in Lingue e Letterature Straniere all’Università di Catania, ha insegnato inglese presso varie scuole superiori. Ha iniziato a scrivere poesie fin da ragazzo; la sua ispirazione trae origine dai luoghi siciliani della sua infanzia e dagli ambienti francesi e svizzeri visitati durante le vacanze estive, in particolar modo Parigi (la sua città d’elezione), dove si recava spesso per perfezionare la conoscenza della lingua francese. Il primo libro di liriche, Il deserto e il cactus, è stato pubblicato da Guido Miano nel 1982 e gli è valso il 1° Premio assoluto per la poesia edita, Targa “Areopago” (1983, Roma). Sono seguite molte opere poetiche, testi di saggistica e altri lusinghevoli riconoscimenti, tra cui il prestigioso Premio “Luigi Pirandello” per la Letteratura (Taormina, 1985) e il Premio “La Pleiade ‘86” «per la produzione letteraria e poetica già riconosciuta a livello critico» (sala del Cenacolo di Montecitorio, Camera dei Deputati, Roma 1986).

 

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Daniele Cargnino, "L'antidoto al morso dei poeti"

20 Giugno 2024 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Daniele Cargnino
L’antidoto al morso dei poeti

Il Leggio Libreria Editrice - Euro 12 - pag. 80
www.leggioeditrice.it - https://www.ibs.it/antidoto-al-morso-dei-poeti-libro-daniele-cargnino/e/9788883202063

 

Daniele Cargnino (1987) è un giovane poeta torinese che ha già pubblicato diverse sillogi (La Sposa nella Pioggia, Blu Oltremare, I Depressi Odiano l’Estate) e alcuni racconti. La sua ultima opera poetica è Fallimentare Urgenza Creativa, che precede il recente e compiuto L’Antidoto al Morso dei Poeti. Il volume di Cargnino ha come sottotitolo (molto indovinato) Cinemalinconie delle periferie, il suo incedere per fotogrammi conferma la felice scelta, così come l’ambientazione delle liriche non poteva essere migliore. Il breve motto introduttivo definisce le opere che il lettore sta per leggere: poesie da tasca, una serie di note, slogan pubblicitari, storie messe al bando, schegge di dialoghi, aforismi e epigrammi. Tutto questo, infatti, sono i versi di Cargnino, dedicati alle case perdute e a chi vi abbiamo dimenticato dentro, agli amori che fanno male, ai denti e ai corpi spezzati d’amore, alla malinconia, che ha bisogno di musica e poesia. Tutto molto bello. L’opera del poeta risente della sua formazione musicale, nel caso mi capitasse di ascoltare un giorno una sua canzone forse potrò dire il contrario, per il momento leggere le sue liriche equivale ad ascoltare un vecchio vinile degli anni Settanta che continue i brani del cantautore preferito. Molti riferimenti d’autore sottolineano la cultura poetica di Cargnino - che legge poesia, da vero poeta, e si fa influenzare, come dev’essere -, si va da Magrelli a Straub, passando per Whyte e Cortazar, senza dimenticare Weril e Lyacos. Poesia racconto ma non alla Pavese, poesia moderna, onirica, psichedelica, divisa in due tempi (due lati dell’album in vinile), ripartiti ciascuno in tre atti, per terminare con un bonus track e una playlist musicale che comprende Ciampi, Cohen, Smith, Neffa, Conte, Lennon e non abbiamo citato tutti. Dicono di me che sono acqua sporca. / Senza resa. / La felicità sta negli anfratti. / Tienili stretti, scrive il poeta in una sorta di diario delle sconfitte dove annota tutte le sue nevrosi, vivendo un’esistenza che sembra un panno sporco dentro una lavatrice. Intuizioni geniali come Abitiamo il vento che ci disegna / come una gabbia in movimento lasciano il posto ad altre come l’obiettivo è far parlare la poesia dicendo il meno possibile, non meno folgoranti. I miei sensi di colpa da scrittore non li auguro a nessuno, recita un aforisma del poeta che non raccoglie mai i pensieri per paura di star male e non vuol perdere il contatto con i dischi e con il pop per non perdere la gioventù. Per concludere che le poesie e i poeti non salveranno il mondo / ma forse lo potranno mantenere in buono stato. L’Antidoto al Morso dei Poeti è un libro che ti resta dentro, pubblicato da una piccola Libreria Editrice di Chioggia che diffonde vera poesia a prezzi accessibili.

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Mariangela Cutrone, "Canzoni per anime elette"

19 Giugno 2024 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Mariangela Cutrone
Canzoni per anime elette

Pubme – Collana Versi - www.versiedizioni.it
Pagine 110 – Euro 15

 

Mariangela Cutrone parla al cuore del lettore con grande sensibilità, le sue parole affascinano, non sono mai consuete, parlano d’amore, si rivolgono ad anime elette, capaci di ascoltare in silenzio e di comprendere il significato di una lirica. Il solo messaggio che l’autrice vuol far passare con le sue poesie è che l’amore è l’unica soluzione per restare a galla, mentre l’esistenza quotidiana dispensa trappole per farti affondare, grazie al sentimento possiamo costruire un mondo migliore. Poesia intima che racconta l’amore in tutte le sue sfumature, come forza necessaria per affrontare le sfide della vita, sentimento che trascende il tempo e lo spazio, che vince sopra ogni altra cosa e che si esprime soprattutto grazie alla poesia. Scrivere d’amore non è per niente facile, si rischia di cadere nelle banalità, nell’ovvio, nel già detto, pericoli che la poetessa non corre quando racconta l’amore come flusso energetico vitale che non deve essere tagliato fuori dalla nostra esistenza. A te che ogni giorno /  mi regali un sorriso / risveglia il mio cuore / quando uno stato letargico / intorpidisce le geniali idee / che tu sai mantenere vive / con la curiosità inedita / mi contagia nel profondo. Amore come spinta motrice ad agire, come motore propulsivo delle nostre azioni, non certo amore contemplativo di chi si pone fuori dalla realtà e vive nel suo mondo onirico. L’amore di Mariangela Cutrone è soprattutto azione, come spiega la poetessa in alcune brevi prose che costituiscono il momento riflessivo della raccolta. Resta spazio anche per la nostalgia del tempo perduto, di un luogo lontano negli anni che resta inossidabile nella memoria: La nebbia scende fitta / sul paese della tua adolescenza / c’è un posto incantato / lontano dalla tua quotidianità / è un posto misterioso / aspetta solo noi. Una playlist finale consiglia il tipo di musica da ascoltare mentre gustiamo questa splendida quanto atemporale silloge di poesia d’amore. Mariangela Cutrone - in arte Mary Empatika -, esperta in scienze dell’educazione e formazione, cura diversi blog culturali e collabora con molte testate; la sua prima raccolta poetica è Le parole empatiche (Rossini editore). Canzoni per anime elette è il suo secondo libro. La raccolta è arricchita da ottime illustrazioni in bianco e nero realizzate da Davide De Brita.

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