floriano romboli
Come il soffio dolce del vento. La poesia di Laura Cecchetto
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Laura Cecchetto
Il canto del cuculo. Poesie
Guido Miano Editore, Milano 2025
A voler caratterizzare la ricerca lirica di Laura Cecchetto con un’annotazione generalizzante, criticamente compendiaria, ma non frettolosamente sovrapposta ai testi, proporrei quella della sentimentalità tenue e raccolta, dell’attenzione stupefatta, intensa eppur delicata, ai tanti aspetti intimamente coinvolgenti e moralmente gratificanti della vita. L’autrice, di professione medico, nutre un amore profondo per la vita, per tutta la vita, della quale apprezza con convinzione il valore inestimabile e il sovrano equilibrio: “E quando tornerò/ finito questo viaggio/ ti porterò in regalo/ i cesti di ferite/ le borse di dolore/ ma anche la saggezza/ il coraggio l’amore” (Il ritorno, corsivo mio, come sempre dopo).
L’esperienza del viaggio esistenziale riempie l’animo di sentimenti contrastanti, di stati interiori assai differenti (“E alla morte che falcia/ il soffio della vita/ porti il canto gioioso/ della vita che esplode./ E con la primavera/ aleggia nella strada/ ancora bagnata di pioggia”, Vento di primavera), il cui acuto avvertimento determina nei versi la formalizzazione antitetica dei contenuti etico-psicologici: “Dolce soffio di vento/ che porti il fresco effluvio (…) entri fresco e furtivo/ dalla finestra aperta/ del tetro e buio ospedale”(ivi).
Il bilancio dei tanti accadimenti che occorrono a ognuno è agli occhi della poetessa senz’altro positivo, pur non ignorando essa lucidamente i momenti di privazione, di delusione, di sofferenza: “Inchinati senza dire/ che amara è questa valle/ perché ogni esperienza/ di questo sacro viaggio/ è un punto di partenza/ per dare al tuo destino/ sempre una marcia in più/ e mettere più luce/ su questo tuo cammino” (Inchinati alla Vita).
L’inequivoco amor vitae proprio della scrittrice diviene nel libro nucleo generativo di spunti tematici aggiuntivi, fonte di altri motivi, quali, ad esempio, l’interesse partecipe alla dimensione naturale, còlta e rappresentata in un felice descrittivismo non alieno da precisi rilievi cromatici: “Pioggia di foglie gialle/ che danzano nel vento/ e dolcemente volano/ sull’umido asfalto/ sulle auto che passano/ e il sole sorride/ dal cielo di novembre”(Festa d’autunno); “E un cormorano osserva/ col suo collo flessuoso/ dall’altra riva il tramonto/ e gli alberi dalle rosse foglie/ danzano allegramente/ al suono della campana/ sulla riva del fiume” (Giorgia). Inoltre dalla contemplazione dell’armonia della natura originano atteggiamenti altruistici, moti di commossa solidarietà (“E la gente sotto l’ombrello…passa senza vedere/ che davanti al supermercato/ un vecchio col suo cane/ steso su un misero letto/ fatto di vecchi stracci/ chiede un pezzo di pane/ o forse solo un sorriso”, Indifferenza), tenerezze affettive (“Tutte le notti a maggio/ sotto al misterioso raggio/ della luna piena/ e tra il dolce profumo/ del glicine fiorito/ vorrei amarti nel prato/ tra la canzone dei grilli”, Maggio), corroboranti situazioni spirituali, alle quali la fugacità non toglie dolcezza e valore, importanza e “memorabilità”: “Alla nostra età/ trovi tutto lo spazio/ che conservi nel cuore/ per godere un tramonto/ e sentire il rumore/ dell’onda sugli scogli/ e raccogliere le bacche/ che crescono nel bosco/ di godere l’amicizia/ e i momenti speciali./ E la vita è più bella/ perché ora la cogli/ e la sai apprezzare.. .(“Alla nostra età); “Quanto tempo è passato/ ma se penso al senso/ di amicizia e di casa/ che dentro a quelle mura/ riceveva il mio cuore,/ vorrei tornare indietro…” (Il cortile).
Inoltre la bellezza del creato reca traccia palese di un ordine superiore: “E guarderò dal cielo/ il tuo profondo mare/ dalle onde increspate/ e le cime innevate/ dove soffia perenne/ lo Spirito divino” (Alla Terra).
Nell’autrice risulta poi pienamente coerente un linguaggio essenziale, contraddistinto dalla sintassi molto lineare e da un lessico nel complesso “medio” e colloquiale, privo di ricercatezza intellettualistica, nondimeno lontano dal semplicismo immediato e trascurato, dall’assenza di elaborazione stilistica e ritmica. Mi permetto al proposito di segnalare il ricorso alla figura dell’anafora (“Inchinati alla Vita…Inchinati anche quando…Inchinati senza dire”, Inchinati alla Vita, cit.) oppure alla rima (“Finché non sarai libero/ dovrai sempre tornare/ a contemplare l’alba/ ad ascoltare il mare”, Tornare) e all’ enjambement: “Dolce e inaspettata/ corrente di vita… Chissà da che mondo giungi,/ chissà quanti ricordi/ sopiti nel passato” (Corrente di vita).
L’omaggio ideale-culturale che Laura Cecchetto con il suo lavoro d’arte rende alla vita si basa sulla convinzione che in fondo essere venuti al mondo è stato per tutti un grande dono: “Questo è il tuo vero volto/ scolpito dal tempo/ scolpito dal dolore/ temprato nella fatica/ del quotidiano affanno./ Questo è il tuo vero volto/quello per cui è valso/ lanciarti in questo viaggio” (Il tuo vero volto).
Floriano Romboli
L. Cecchetto, Il canto del cuculo. Poesie, Guido Miano Editore, Milano 2025, pp.62.
Il sogno, la vita e la poesia nella raccolta “Epifanie” di Enza Sanna
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Enza Sanna predilige anche in questo volume di versi recentemente pubblicato dalla Casa Editrice Miano un discorso lirico ampio, diffuso, sostenuto da un abito metodicamente esplorativo e da un intento di analisi lucida e ad un tempo appassionata, che sa unire l’efficacia evocativa all’impegno conoscitivo.
La poetessa ligure nutre un indubbio, profondo amore per la vita, pur non ignorandone le asprezze e le contraddizioni tormentose, e segnatamente la precarietà dolorosa resa più evidente in quest’ultimo tempo dalla triste esperienza dell’emergenza pandemica: “Siamo nel cuore della pandemia/ ma continua a scorrere la vita/ nei giochi dei bimbi, le speranze dei giovani/ le attese dei meno giovani/ nel ricordo di chi non è più,/ felice ossimoro/ che dà vita e senso./ E intanto segna il tempo i suoi passi/ e tu declini, ma questa è la nostra condizione/ anch’essa da amare” (Condizione da amare, corsivo mio, come sempre in seguito).
L’animo umano sa comunque riplasmare gli aspetti inamabili dell’esistenza mediante l’abbandono alla sublimazione “onirica”, alla seduzione riparatrice del sogno, indagato dall’autrice quale momento prezioso di incontro fra oggettività e soggettività, realtà e idealità, delusione e speranza: “Perché la metafora del sogno,/ nei secoli piccolo genio,/ è esigenza dello spirito/ alternativa a quella detta realtà/ non fuga nel tempo/ ma pannello che apre al futuro/ uno sguardo nuovo/ capace di scorger relazioni altre/ tra cose e persone./ Sogna il mistero del nostro esistere/ il sogno, figlio della notte/ e lascia senza risposte” (L’esigenza del sogno).
Alcune risposte importanti sono suggerite dalla parola poetica, che nella sua ricchezza espressiva (“una polisemica scrittura schiusa a significati ed emozioni infinite”, In attesa d’una palingenesi sperata) è in grado di rielaborare i contenuti coinvolgenti dei sogni e farsi ponte intellettuale-morale fra finito (i dati concreti e quotidiani della condizione di ognuno) e infinito (la proiezione spirituale oltre lo spazio e il tempo): “Perché l’estro poetico non è menzogna/ parola contro ragione e coscienza/ ma secondo ragione/ la cosa come doveva essere e non è stata./ Ti fingi nel pensiero/ luoghi, eventi immaginari/ per vedere oltre l’orizzonte” (Dell’invenzione poetica).
L’evidente spunto leopardiano converge con altre “allusioni” e richiami storico-letterarî (da Calderón de la Barca a Shakespeare, da Orazio a Ungaretti al Vangelo di Giovanni) a rivendicare la forza critico-culturale e il beneficio irrinunciabile della poesia, miracolo etico e civile d’incalcolabile valore, capace di comporre le antitesi primarie proponendosi come vera e propria “preghiera”: “È vita fatta verbo (…) Fa conoscere al di là delle apparenze/ ciò che veramente conta,/ l’“invisibile e misterioso”/ nel cui alone l’esperienza di ciascuno/ trova la sua collocazione./ È chiarore d’una fiamma lontana/ che illumina ma non brucia,/ capace di portare la trama di una vita dall’oscurità alla luce” (Ripensando la poesia).
Il linguaggio dell’arte trasferisce in un sistema di segni le tante voci della natura, la cui così variegata fisionomia, i cui molteplici aspetti acquistano sovente la rilevanza di altrettanti “correlativi oggettivi” di determinate situazioni psicologico-sentimentali: “Un cielo grigio ha anticipato la sera (…) La nebbia che all’improvviso compare/ e all’improvviso si dissolve/ annulla le distanze/ cancella la geometria della realtà./ Scende nell’anima questa nebbia/ e riporta alla memoria/ le brume delle verdi vallate d’Irlanda./ Le nebbie dell’anima” (Le nebbie dell’anima); “L’arte, che rende visibile l’invisibile/ quel che nessuno riesce a scorgere/ capace sempre di reinventare la realtà;/ e la natura nei suoi colori profumati d’azzurro/ cangianti nei giorni ma anche nelle ore” (Padrone del mondo).
L’ultimo mio corsivo è in funzione della sottolineatura della raffinatezza retorica di una poetessa come Enza Sanna, che sa permettersi il ricorso alla sinestesia, nell’àmbito di un sistema di soluzioni linguistiche sempre attentamente sorvegliate, ma di solito piane e scorrevoli.
Concludo osservando che anche la trama lessicale denota una generale coerenza con tale opzione stilistico-formale, nonostante alcune eccezioni: ad esempio l’arcaismo in quel verso che si legge nel componimento Nessuno è solo: “Colman lo spazio i vanni degli alati tesi al cielo”; oppure il latinismo ricercato in Le insoddisfazioni dell’anima: “In questo tempo inconcinno al nostro sentire/nemico della nostra interiore giovinezza”.
Floriano Romboli
E. Sanna, Epifanie, Guido Miano Editore, Milano, 2025, pp.100
Iano Campisi, "Di fronte alla vita"
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Di fronte alla vita. Racconti e riflessioni
Iano Campisi
Guido Miano Editore, Milano 2025.
Mi pare che Iano Campisi assegni, in un sapiente disegno costruttivo, ai racconti compresi nella prima sezione, non a caso intitolata Di fronte alla vita, una funzione non semplicemente introduttiva, bensì specificamente e incisivamente tematizzante, compendiosamente propositiva dei motivi principali della propria ricerca intellettuale-narrativa, indicativa dei nuclei sostanziali di un discorso culturale e artistico. Innanzitutto egli dimostra uno spiccato, vivo interesse per l’universo naturale, armonioso e coinvolgente, ad un tempo energetico e pacificante, malgrado i guasti sempre più diffusamente prodotti dallo scriteriato, irresponsabile comportamento degli umani, prigionieri della «gabbia di freddo artificiale» (Vento caldo) che si ostinano a considerare la civiltà.
Talora la natura può sembrare “impazzita”: a ben vedere «è solo arrabbiata, per l’irrazionalità e gli abusi dell’uomo» (ivi); continua però a offrire un indispensabile apporto fisicamente corroborante e moralmente rasserenatore: «Stamattina mi sono dedicato un paio d’ore alla campagna. L’ho trovata sofferente, per la temperatura elevata e per la scarsità d’acqua, ma nonostante tutto viva. Mi spingevo tra rovi, sterpaglie e alberi di cui spostavo leggermente le fronde. Nelle mie elucubrazioni irrazionali, parlavo con i limoni, induriti dalle difficoltà ambientali, con l’erba secca e con dei fiorellini bianchi che emergevano dal seccume con una incredibile e miracolosa forza (…) Una natura che ti contestualizza e ti ingloba nel suo habitat, che ti affascina mentre ti immergi nel profumo degli agrumi, e sospiri del leggero movimento dei rami e delle foglie… La passeggiata è stata come riconciliarsi con la natura e con sé stessi, nonostante il solleone» (Passeggiata, corsivi miei).
Nel convinto, intenso apprezzamento della vitalità naturale è la matrice del sicuro, suggestivo descrittivismo che caratterizza le quattro sezioni del libro, d’ora in poi contrassegnate con i numeri romani. Appaiono particolarmente riuscite le pagine dedicate al mare, ora placido e riposante («Dall’alto delle dune, Stefano guarda la spiaggia e il mare che l’accarezza con onde leggere e spumeggianti. I granelli dorati assorbono l’acqua salata, si ristorano e la restituiscono, ad alimentare il continuo andirivieni. È un gioco inarrestabile che coinvolge la terra e il mare (…) Questo balletto che sembra non finire mai, lo sciabordio delle onde, non è monotonia né assurda ripetitività, ma musica soave» (Estate d’inverno, IV), ora sconvolto dai venti e impetuoso, terribile: «Il mare era in tempesta. Alte onde si infrangevano sul molo quasi a volerlo risucchiare nel proprio ventre. Anche la spiaggia sembrava che stesse per essere inghiottita dalle onde del mare. L’aria era invasa da minuscole goccioline d’acqua marina che sembravano essersi alleate con quelle delle nubi basse e minacciose, e non consentivano di guardare al di là del proprio naso (…) Quelle minuscole particelle di idrogeno e ossigeno, strettamente legate, sembravano impazzite e adesso esplodevano in una danza infernale, come sospinte da una forza imperiosa e travolgente. Era incredibile come il mare, spesso così dolce e timido e accogliente, si fosse tramutato in un essere malefico, un mostro pronto a divorare chiunque gli si fosse anche solo avvicinato» (Il piccolo delfino, II).
Non può mancare al proposito una pagina di aspra denuncia del suo crescente, rovinoso inquinamento: «Sopra tutto e tutti c’è il mare, il mare cristallino, caraibico, ma solo per poco. D’un tratto, ecco materializzarsi la ‘macchia’ di bollicine, mica quelle della coca di Vasco, sono segni di vaporosi scarichi fognari che la corrente, capricciosa, sposta a proprio piacimento. In poche parole, il mare si presenta col volto nuovo di cloaca. E pazienza se ci sciacquiamo la bocca mentre continuiamo col nostro piscio clandestino ad aumentare l’effetto cloaca (…) È scomparso l’habitat originale che rappresentava l’immagine dell’equilibrio e del rapporto secolare tra le specie viventi. In più, come se non bastasse, il mare dalle acque limpide e pulite, è diventato una fognatura a cielo aperto» (Cronaca stravagante e noiosa di quattro giorni d’estate di fine Covid, I).
Risulta poi consequenziale la scoperta polemica contro il mondo della tecnologia e la sua desolante inautenticità basata sull’esteriorità impersonale ed eterodiretta, sull’intima solitudine delle persone, sempre più “imbambolate” e mortificate, perse nel culto ossessivo dei feticci della modernità: «Ritorno con la mente al centro commerciale. Tanti turisti, tanta gente distratta, chi non rinuncia a una gita domenicale nella città dell’apparenza? Al centro commerciale si cerca di tutto, si guarda e non si compra, o anche si compra e si continua a girovagare per le viuzze del quartiere degli imbambolati esseri umani, automi. Ogni tanto ci si siede al bar o su uno degli scomodi sedili per intrattenere il rapporto con il cellulare. Lì, dentro questa macchinetta infernale, c’è la vita nuova, (…) che è solo virtuale, ma è la nuova vera vita, quella del guardone che ti permette di entrare in tutte le camere di tutti, amici, finti tali e sconosciuti» (Al centro commerciale, I, corsivi miei).
A petto della superficialità insignificante e dell’equivoca opacità di relazioni siffatte lo scrittore siciliano sottolinea e valorizza con decisione la profondità etico-sentimentale e il forte valore altresì culturale dei legami familiari e dei rapporti generazionali in racconti quali il già citato Il piccolo delfino (II), o anche La Vespa 50 gialla (ivi) e U nannu Ninu (IV): egli ama pertanto riflettere sulle radici storiche e ideali di sé e di ognuno, nel commosso recupero memoriale di figure ed episodî salienti, i quali consentono di investigare i processi sovente oscuri e tortuosi attraverso cui si è formata la nostra personalità, si è plasmato il nostro carattere: «Torno all’immagine del nannu Ninu che più mi è rimasta impressa nella mente (…) Ero curioso e volevo comprendere come mai quella persona anziana e parzialmente autonoma, avesse testardamente deciso di non allontanarsi dalla casa in cui era nato e poi vissuto con la moglie scomparsa da tempo (…). Capisco ora il vero senso del termine “radici”, quando si parla di stretti e indissolubili legami col posto in cui affondano i ricordi, belli o brutti, e le vicende che hanno contraddistinto la vita di una persona (…). La povertà non riesce ad estirpare le radici della propria identità, anzi ti rende più legato all’ambiente e ai ricordi» (U nannu Ninu, op. cit., gli ultimi due corsivi sono miei).
Vi è inoltre una peculiarità inconfondibile e ineliminabile nell’atteggiamento dell’uomo che conferisce ulteriore densità problematica alla sua esperienza di vita e che può essere ricondotta alla tenace inclinazione razionale, all’aspirazione, sempre risorgente, a comprendere interamente ed esattamente la realtà, a voler chiarire ogni aspetto dell’esistenza scandita e tormentata dal tempo, dimensione tanto manifestamente propria della “situazione umana”, costituita dalla mobile, sfuggente articolazione di passato, presente e futuro: esso, nel mentre trascorre, modifica continuamente, e dopo logora e distrugge tutte le cose. Nondimeno queste ultime rimangono un mistero, che respinge e frustra le nostre pretese intellettualistiche, come capita al professor Antonio Scapellato, protagonista di un testo quale Salvuccio (I), costretto a conclusione di un personale percorso “interrogativo” e indagatore al ripiegamento amaramente scettico, sulla falsariga dell’inquietante lezione di un prestigioso narratore e drammaturgo della sua regione, Luigi Pirandello: «Il professore meditava su quanto la vita, così variegata, fosse difficile da interpretare. “Siamo soggetti strani e incomprensibili”, pensava, “gli eventi ci modificano, ma è anche la nostra innata predisposizione che determina gli eventi, dal più banale al più complesso. Inutile porsi domande. Come diceva Pirandello: “Così è, se vi pare”». (…)
Floriano Romboli
Iano Campisi, Di fronte alla vita. Racconti e riflessioni, prefazione di Floriano Romboli, Guido Miano Editore, Milano 2025, pp. 252, isbn 979-12-81351-54-7, mianoposta@gmail.com.
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L’AUTORE
Corrado Campisi, detto Iano, è nato nel 1949 ad Avola (SR) dove risiede. Laureato in biologia, svolge il ruolo di direttore di un importante laboratorio di analisi cliniche e genetiche della Sicilia. Ha pubblicato vari libri di narrativa.
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Il fascino seducente e doloroso della vita nella lirica di Pietro Rosetta
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Pietro Rosetta
Poesie nascoste nella dispensa
Guido Miano Editore, 2024
Non è nuova l’idea della vita come viaggio, che, nella raccolta di versi di Pietro Rosetta Poesie nascoste nella dispensa, pubblicata dalla Casa Editrice Miano nel 2024, appare un itinerario accidentato eppur appassionante, fatto di tappe assai diverse, tormentoso e stimolante, portatore ad un tempo di quiete e di insoddisfazione: “Si compie inarrestabile il viaggio,/ sfiorare la quiete di un approdo e poi/ seguitare la rotta/ questo mi hai domandato” (corsivo mio, come sempre in seguito); “Mi rassegno al viaggio/ ti sveglierò solo per chiederti una carezza,/ dissetarmi e ripartire”; “Finalmente escono le parole/ a lungo rinchiuse da una assenza./ È tardi, nuovi sguardi/ mi attendono,/ devo ripartire”.
Tale immagine emblematica e pervadente è all’origine di una serie di suggestive metafore, che assicurano densità sentimentale e coerenza ideale al discorso poetico: “Essere marinai di tutte le tempeste/ nudi a volte agli occhi/ di una madre che aspetta./ Ci è costata l’esperienza”; “Dal ponte della mia nave,/ senza nostalgia,/ guardo allontanarsi i fantasmi/ che il cuore ha finalmente liberato,/ al tramonto di un incubo/ assetato di un senso/ la rotta è cambiata/ e il vento tiepido dell’estate/ gonfia di nuovi progetti/le vele dell’entusiasmo”; “Sento il rumore dei miei passi/ irrequieto presagio di un’alba ancora possibile”; “Divinità corsare,/ impadronite dell’inverno/ scorgeranno impronte/ di umanità scolpite nella sabbia,/ indovinando appunti dimenticati/ nella fretta del passaggio”.
Il percorso vitale di ognuno risulta animato da un moto duplice e contraddittorio, da una sollecitazione attiva ed energetica a cui corrispondono - in intima correlazione dialettica - un ripiegamento amaro, la mesta constatazione di un esito deludente delle attese emotive, dell’aspettativa di felicità e di amore.
Non sorprende al proposito che la figura dell’antitesi si riveli centrale nella sua valenza unificante e formalmente ordinativa, organizzando incisivamente i tanti aspetti contrastivi, che innervano la vicenda esistenziale, dall’opposizione “gioia/dolore” (“Il tempo è maturo/ e noi come cipressi saremo là/ ritti ad aspettare gioie e dolori/ con le radici abbracciate alla vita”), “buio/luce” (“Le sere d’estate l’aria umida d’insonnia/spalanca le porte della notte (…) sarà l’aurora a sbiadirne il ricordo”), “sogno/realtà” (“In riva al mare dei sogni/ il nostro amore si è fermato a morire,/ il viso riverso nella sabbia, si è fermato a morire”), al conflitto di “vita e morte” (“Varcata la soglia/ cercherò nelle tue labbra/ il presentimento della morte/ o il fiore nuovo della vita), nonché a quello – di ascendenza leopardiana e posto in risalto con la consueta lucidità dal prefatore Enzo Concardi – di “amore e morte”: “Rifugiato nel tuo corpo/ cercando protezione./ Come un fiume in piena/ allagarti, tra brandelli di vita/ per annebbiare la certezza di morire solo”.
In alcune liriche l’autore esprime la convinzione che il fremito vitalistico non soltanto preceda, ma vada oltre la riflessione intellettuale, a causa di una ricchezza e di una profondità razionalmente male inquadrabili e pertanto non agevolmente definibili: “Eppure vorrei incontrarti per caso/ e abbandonarmi nel torrente/ delle frasi mai pronunciate/ e possederti/ senza la colpa di averlo deciso/ e invece distillo brividi/ sopravvissuti alla noia/ di lucidare lo specchio dei nostri errori”; “Devo ancora arrivare o è già passato/il tuo tempo?/ Il mio tempo non lo sa e/ abbracciato ai tuoi occhi/ si ostina a non volerlo sapere”.
Ciò dà ragione delle frequenti ed efficaci similitudini naturistiche (“Il tempo è sbocciato/ figlio di gesti ritrosi,/ sogno che non si vuole realizzare/ e noi due aggrappati al destino/ come larici sbattuti dal vento di primavera/ sentirci dentro un frutto acerbo/ nostro intimo desiderio venuto/ a sfidare il presente”; “Ti parlerò ancora/ per pochi giorni,/ poi, come le onde che impetuose/ si impennano al vento e muoiono,/ anch’io mi confonderò col mare”) e soprattutto, anche dinanzi all’esperienza di un dolore intenso (“Questa notte piangerò per te lacrime disperate/ ma tu non mi sentirai/ e il tempo appassisce il fiore che/ abbiamo abbandonato all’ombra del silenzio”), del desiderio, sempre risorgente, di aprirsi positivamente all’avventura della vita, di attingere alle illimitate risorse di essa: “Non è rimorso ma preghiera/ questa luce diafana filtrata da veli (…) cerca proprio noi, inquilini di una storia/ affacciati ad aspettare il sole”; “Non so quali umori ci scuote il vento/ e fino a quando il tuo sorriso dalle/ labbra sottili dirà al mio/ di giocare con lui./ Non so dove andiamo, amore,/ ma ti prego resta qui vicino”.
La sottolineatura dell’ultima citazione non è nel testo ed è in funzione del rilievo di un’altra figura retorica, l’anafora, spesso impiegata dallo scrittore e sintomatica del suo animus indagatore, della propensione all’approfondimento critico personale delle varie situazioni etico-spirituali. Ne è testimonianza perspicua il bellissimo componimento incipitario che ha per titolo I canti delle vedove: “I canti delle vedove/ nelle vecchie chiese di periferia/ sono le voci delle nonne e delle vecchie zie (…) I canti delle vedove sono il lamento indifeso/ di chi si ostina a non capire (…) I canti delle vedove… sono disperazione (…) I canti delle vedove sono la speranza cieca/che ognuno di noi porta dentro”; la consueta antitesi (in questo caso “disperazione/speranza”) attesta l’importanza di un comportamento moralmente esemplare: “Così nella mia stanza/sono i canti delle vedove la mia preghiera”.
Floriano Romboli
P. Rosetta, Poesie nascoste nella dispensa, Milano, Guido Miano Editore, 2024, pp.88
La complessità della vita e il significato dell’esistenza nella ricerca lirica di Biancamaria Valeri
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È caratteristica saliente delle poesie che Biancamaria Valeri raccoglie nel volume Di fiore in fiore, recentemente pubblicato dall’Editore Miano, la notevole essenzialità linguistico-espressiva, come bene ha messo in evidenza il prefatore Marco Zelioli: “Da lei/ la materia è permeata/ e vive/ e sente/ e avverte/ e percepisce./ È un Paese la mia Anima./ È il luogo profondo/ dei sentimenti e dei ricordi miei” (Paese dell’anima). Ciò non è sicuramente indizio di spontaneità impressionisticamente effusiva, di approssimazione formale, giacché - lo sottolinea ancora il medesimo studioso – i testi rivelano tratti manifesti di non superficiale elaborazione artistico-letteraria, a partire dalla frequente, cόlta ricercatezza lessicale: “Algido è il cielo/ dove stormi di uccelli/ si rincorrono/in volteggi lenti e misurati/ malinconico preludio della loro dipartita/ verso altri lidi” (Vento d’autunno) ; e inoltre, citando in ordine sparso, in questi componimenti ricorrono vocaboli quali “adamantino”, “pelago”, “ratte”, “avìte”, “speme”, “fûr” e varî altri.
Per parte mia osserverei in aggiunta che la linearità e la semplicità stilistico-compositive alle quali si è fatto cenno in precedenza conoscono nello stesso tessuto verbale un’interessante sollecitazione antagonistica, una controspinta determinante indugio discorsivo, complicazione e inversione sintattiche prodotti dall’adozione sistematica del procedimento anastrofico: “Brilla/ l’azzurro ciel/ come cristallo adamantino./ Dal mare/ piatto e placido/ refrigerante brezza spira” (Estate); “Racchiuso nell’abbraccio/ di cielo e terra/ dai tuttavia dell’infinito il sentimento” (Il mare); “Di silenzio si riempie/ la sfera celeste e la terra./ Alla muta volta del cielo/ risponde/ il bagliore spettrale/ delle luci cittadine” (Falce di luna calante).
L’impiego meditato di altre figure retoriche, dalla similitudine (“Come viandanti/ andiam peregrinando,/ percorrendo una strada”, Viaggio) all’antitesi (“Piccole luci/ che lottano contro la notte/ sembrano parlare tra loro,/ chiacchierine splendenti” (Attesa); “Si capisce la gioia/ se si attraversa/ la stretta e angusta/ porta del dolore” (Dolore e vita), nonché di studiate soluzioni fonico-ritmiche come la rima (“Lì dove il caldo nasce per amore/ e nasce anche/ per l’amara esperienza del dolore”(Lacrime) o l’enjambement (“Di delizie mi sazierò/ nell’infinita pace del tuo/amore” (La tua pace), rappresenta un’ulteriore attestazione dell’origine pure riflessa e riflessiva di questi versi.
Nelle pagine della Valeri è poi palesemente attiva una strategia di “allusione” estetico-culturale a luoghi assai noti della letteratura italiana. Il rinvio intenzionale si fa occasione preziosa di emulazione intellettuale, di stimolante confronto: “La bella d’erbe e d’animal/ famiglia/ gode/ per la ricchezza/ delle messi/ che dona generosa/ la natura” (Estate), in cui appare, appena dissimulato, il richiamo all’inizio dei Sepolcri foscoliani: “Ove più il Sole/ per me alla terra non fecondi questa/ bella d’erbe famiglia e d’animali” (vv.3-5) ; e in forma più franta e diffusa a L’infinito di Giacomo Leopardi: “Non voglio staccarmi/ da questo colle/ dove affacciata sulla valle/ sto bene,/ avvolta nei pensieri miei./ Contemplo l’infinito/ e una profonda quiete/ inonda l’anima mia” (Abbandono). Potrei proseguire con le citazioni, ma mi limito a segnalare la ripresa inequivoca di un passo celeberrimo del canto XXVI dell’Inferno dantesco: “Lui scelse/ il ben dell’Universo/ e mai lasciò/ la linea prefissata/ non illusori risultati/ ma il frutto di/ virtù e conoscenza (Deriva, corsivi miei).
L’autrice riserva in particolare un’attenzione spiccata all’universo naturale, accostato e reso nella sua esuberante vitalità, nella captante molteplicità dei suoi aspetti con gli accenti di un brioso descrittivismo: “Ti affacci sulla valle/ che ampia e verdeggiante/ si apre al tuo sorriso./ Attraversata è dal vento/ questa valle./ Il signore delle nubi/ corre, vola,/ a volte leggero/a volte violento/ … Monti azzurri per i boschi/ che le pendici fino a cima ammantano” (A Ferentino mia città); “Abbracci con forte/ e appassionato legame/ tutta la grande Famiglia/ del genere umano/ che prende da te linfa e nutrimento./ Sostieni erbe ed animali/ ma anche chi appare/ lontano da forme viventi./ Tutto in te vive/ tutto in te si scioglie” (Madre natura).
La natura, oltre che nella sua dimensione autonoma, vive nella complessa valenza metaforica dell’esistenza medesima, della varietà e contraddittorietà suggestive dei tanti volti della stessa, delle gioie e dei dolori, delle aspettative fiduciose e delle amare delusioni, in una dialettica serrata e polivalente: “Metafora caduca/ della vita ingannano il passante/ con lo squillante colore/ delle fronde/ La terra odora di muschio (…) Sospinte dal vento/ sferzante/ in contrasto con la pioggia/ le foglie son cadute./ Un sospiro d’addio/le ha fatte vibrare/mentre abbandonavano il ramo” (Tappeto di foglie); “Mette le ali al cuore/ il dolore,/ che sprofonda il tuo sentire./ Come molla, però,/ ti spinge/ a risalir l’Abisso./ Speme di sopravvivenza/ al Nulla che isterilisce/ rattrappisce” (Dolore).
La speranza trova indubbio fondamento in una Presenza superiore, confortatrice e pacificante, che costantemente accompagna l’uomo nel suo cammino: “Nel tuo seno materno/ troverò pace, o Dio (…) Non m’atterrirà/ alcun male/ se s’apre/ la misericordia tua (…) Luce infinita/ e profondo amore./ Apri le braccia/ e dammi pace,/ Amore,/ nella luce del tuo amore/ quiete avrò” (La tua pace, cit.).
Floriano Romboli
Biancamaria Valeri, Di fiore in fiore, prefazione di Marco Zelioli, Guido Miano Editore, Milano 2024.
Maurizio Zanon, "Il soffio salvifico della poesia"
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Il soffio salvifico della poesia
Maurizio Zanon
Guido Miano Editore, Milano 2025.
Il soffio salvifico della poesia è il titolo generale della presente antologia poetica ed appare in contrasto con quello di questo primo capitolo, ovvero La fatica del vivere. In realtà non è così, in quanto per Maurizio Zanon – prolifico autore con profonde radici veneziane – la poesia è stata, ed è nella sua esistenza, proprio l’antidoto principale – insieme all’amore e alla natura – per superare il cosiddetto disagio esistenziale e la particolare inquietudine psicologica dell’epoca contemporanea. È un tema che la letteratura di ogni tempo e parte del mondo ha sempre trattato e cantato, sviscerato e proposto da molti punti di vista, poiché riguarda in sostanza la condizione umana, con le esperienze vissute e con le fondamentali questioni filosofiche sui perché del nostro passaggio terreno: qui Zanon si qualifica come un aedo moderno della vita e della morte, mediante un’incessante ricerca interiore che spesso e con dolore rimane irrisolta, demandando alla futurologia la soluzione di ogni problema.
Troviamo nelle liriche di questo capitolo atmosfere, immagini e pensieri che riflettono sia gli stati d’animo del poeta, che oscillano volutamente tra ottimismo e pessimismo per dimostrare la contradditorietà del nostro vivere, sia le riflessioni di carattere ontologico che nascono da un’osservazione critica della realtà odierna, riferita ora alla propria fatica esistenziale, ora alle tipologie sociali del comportamento umano e delle tendenze decadenti dei valori. In altre parole egli si fa interprete, ed assume su di sé, il destino individuale e collettivo di una umanità probabilmente in via di dispersione. Si riscontra in tutto ciò, dal punto di vista culturale, la lezione dell’Ermetismo novecentesco – più come contenuti che come stile – e una certa vena crepuscolare in senso lato, cioè la ricerca di quieti angoli dello spirito ove chiudere la parabola umana. Dunque poeta-testimone del tempo e poeta-profeta, nel senso di uno sguardo indagatore sull’avvenire. […].
Enzo Concardi
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Un vivo, profondo sentimento d’amore lega Maurizio Zanon a Venezia, la città natale, e alla sua donna. L’intenso rapporto affettivo è, come spesso accade, contraddistinto da un’intima ambivalenza, permeato da quell’acuta sensibilità che sa aprirsi contrastivamente all’apprezzamento delle situazioni positive, spiritualmente gratificanti, e all’avvertimento dei momenti dolorosi, emotivamente deprimenti.
Il fascino seducente dell’ambiente lagunare, gli impalpabili, intriganti segreti di una tradizione «portati nel cuore da chi lì è nato» (Torno a scrivere di te) hanno ancora un importante effetto rasserenante e confortatore («…Aspettando poi il tempo buono per farmi cullare/ da quelle amorevoli acque di barena,/ dai loro incantevoli silenzi» (Soffia il vento di scirocco), mentre appaiono innegabilmente suggestive talune preziose atmosfere fatte di smorzata, contenuta luminosità: «Venezia bizantina/ si stende in riflessi dorati/ rivivo memorie passate/ su carezze d’onde/ ove si posano/ gondole d’opaca luce…» (Venezia bizantina); infine però il soffocamento progressivo e il degrado sostanzialmente inarrestabile provocati dal turismo di massa e dall’invalsa mentalità affaristico-speculativa inducono l’autore ad abbozzare un quadro di triste, opprimente negatività: «…Appari sempre così malinconica, mentre vedi scappare/ ad uno ad uno i tuoi figli/ costretti ad abitare lontano da te/ perché non danno ricchezza, sono solamente un peso…» (Torno a scrivere, cit.).
Non è analogo il risultato intellettuale-morale nel caso dell’evocazione commossa della relazione amorosa con la propria compagna, nonostante che questa possa presentare pure aspetti di sofferenza: «…Un tratto t’ho seguito/ per Piazza dei Signori te ne andavi/ lasciandoti dietro quella scia che sa di ricordi e ferite» (A Padova, corsivi miei, come sempre in seguito). Ora il discorso lirico vira decisamente verso le rilevazioni positive, che giungono alla celebrazione entusiastica, enfaticamente partecipe, sostenuta tra l’altro dal ricorso a una “canonica” similitudine: «Questo amore/ maturato al passo delle stagioni/ oggi vola a ritmi cadenzati/ come ala di gabbiano/ procede in cieli al sole estesi!// Chissà mai dove arriverà questo amore:/ oltre il mare oltre il cielo/ al di là di questa luce forse/ chissà mai questo amore/ dove luna andrà a spiare!?» (Questo amore). […].
Floriano Romboli
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L’interconnessione tra segno verbale e segno grafico ha da sempre affascinato gli intellettuali di tutti i tempi ed è tuttora oggetto di dibattito. Se il primo a proporre lo stretto legame tra pittura e poesia è stato il poeta Simonide di Ceo, il principio estetico dell’ut pictura poësis formulato da Orazio nell’Ars poetica trova la sua piena realizzazione nelle poesie di Maurizio Zanon proposte in questo capitolo. L’autore ritrae con leggiadri tocchi una vasta gamma di paesaggi “pittorici”, caratterizzati dalla presenza di una natura idilliaca, colta in tutte le sue sfaccettature e nei suoi più minuti aspetti; il foglio bianco si trasforma in una preziosa tela, le parole sono come sottili pennellate, capaci di catturare luci ed ombre e i chiaroscuri rivelano gli intimi moti della propria interiorità. I testi appaiono dominati da un io lirico intento ad una fantastica rêverie, da cui scaturiscono dolci e piacevoli atmosfere oniriche, mentre una fitta rete di morbide sinestesie evoca un policromo ventaglio di sensazioni e un vortice di emozioni coinvolgenti.
La struttura a chiasmo della poesia incipitaria sottolinea il gioco fonico di allitterazioni e di assonanze, incastonate anche nelle rime al mezzo e che contribuiscono ad amplificare la musicalità dei versi: «S’alza silenzioso il magico biancore dell’alba/ inconfondibile lucore che l’animo risveglia/ e il nuovo giorno somiglia al lieto gemito/ d’un bimbo appena nato. In questa luce unica/ e profonda/ tutto ricomincia in gocciolii di rugiada./ Pian piano poi il cielo vedi schiudersi/ a un impareggiabile azzurro» (Risveglio di primavera). L’arrivo dell’alba è un momento epifanico e l’io poetico prova un ammirato stupore di fronte al passaggio dal buio della notte alla luce del giorno, paragonato ad un bambino il cui ossimorico gemito è lieto di fronte alle meraviglie del creato. La scena descritta diviene metafora di una rinascita, tema che permea di sé tutta la silloge; le gocce di rugiada suscitano una sensazione tattile di freschezza, mentre l’impareggiabile azzurro riecheggia gli interminati spazi leopardiani, richiamando la tensione verso l’assoluto e invitando a guardare oltre il contingente, in una dimensione futura, per un nuovo inizio. […].
Gabriella Veschi
Maurizio Zanon, Il soffio salvifico della poesia, prefazioni di Enzo Concardi, Floriano Romboli, Gabriella Veschi; Guido Miano Editore, Milano 2025, pp. 80, isbn 979-12-81351-50-9, mianoposta@gmail.com.
Il fascino e la pena del vivere nell’arte di Daurija Campana
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Daurija Campana
Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato
Guido Maino Editore, Milano 2024
Una caratteristica della ricerca poetica di Daurija Campana - ora antologizzata nel volume Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato, pubblicato dalla Casa Editrice Miano - è il ricorso invero frequente a un sistema di rime, talora evidenti nella loro regolarità (“Socchiudi il sole tra le ciglia scure/ e lascia che il tempo i pensieri pasca/ hic et nunc, tra prati, piane e paure/ hai nascosto le cinque lire in tasca…”, Il canto del cuculo), talora più rare e sfumate (“…Ed io restavo a casa a prepararmi/ per la scuola e pensavo/ quanto avrei desiderato destarmi/ una volta col tuo bacio”, Madre) o magari maggiormente elaborate in un sapiente gioco fonico-ritmico di lontana, ma inequivoca ascendenza dannunziana: “Non piace./ La pioggia che dice/ che tace… Che pace!/ Tra gli orti, contorti/ pensieri distorti/ su vivi e su morti/ che pace, che sensi…/ Che pensi? (…) Sembriamo/ uccelli dagli aurei capelli, fringuelli/ leggeri e soavi/ che lievi/ distendono ali/ sul cielo sereno” (Non piace).
Tale particolarità compositiva implica un effetto di stabilità, di equilibrio armonioso, di indubbia scioltezza formale, pur in presenza di procedimenti costruttivi di segno opposto, quali l’enjambement, rivolto a esiti di “spezzatura”, di frangimento disarticolante la compagine strofica: “…Le tue cangianti vesti non ingannino/ il marinaio che il tuo volto ammira/ non si neghino al folto dei cipressi:/ così lui ti vedrà dalla dimora/ eterna…” (Luna); oppure, più specificamente, come le pause indotte dall’inversione dell’ordine sintattico nell’organizzazione del discorso logico, dall’impiego della figura dell’anastrofe: “Ti alzi, soffio di vita nell’aria/ dorato grano tra spighe e respiro,/ sopra la terra leggera che varia,/ sguardo di cielo immenso blu ammiro…” (Il vento); “Il cielo è sereno, cade la pioggia,/ oggi il sorriso è turbato dal pianto,/ il viso riga scendendo la goccia,/ l’animo giace perduto ed affranto…” (Cade la pioggia); “Per te io piansi le lacrime in cuore,/ la giovanile età del gioco/ in cui la gioia dimostravo lieta/ e al sorriso spesso ricorrevo.// Ma poi ti vidi e fu in me il dolore/ che mi sussurrava il tuo sguardo fioco/ mancato sorriso lo sguardo vieta/ e nel guardarti, ricordo, piangevo…” (Amore).
Nondimeno una sollecitazione antitetica anima profondamente la struttura dei testi lirici di Campana. Una nota vitale, uno slancio positivo e proiettivo si precisano come attesa di un incontro morale-affettivo, come desiderio di piena intesa sentimentale, bisogno di integrazione con gli altri e di immedesimazione con il respiro pacificante della natura; questa istanza fiduciosa ed espansiva tende successivamente a contrarsi e a cadere, inappagata e respinta, risolvendosi in scacco emotivo, privazione, rimpianto, dolorosa solitudine: “…E spira il silenzio sopra il mio canto,/ la nuvola bella appare più rosea/ sorrisi sul sole e sui solchi scuri/ in petto il cuor mesto ora riposa” (Cade la pioggia, cit.); “…Continuo a bramar, ogni istante, ogni ora/ che il padre mio, che tanto io adoro/ ritorni da me e resti per ore/ per giocare con la sua bimba ancora” (Re Evandro); “…ma il desiderio seguiva il timore.// Giorni lontani, di gaudio e di festa/ giorni di vita, di spensieratezza/ tutto oggi è perso, come la pula/ che porta via il vento, troppo lontano…” (Mietitrebbia).
Anche nella produzione pittorica dell’autrice si alternano colori vivaci, un cromatismo esuberante e tonalità più cupe, dal blu al grigio: quest’ultimo, ad esempio, domina la rappresentazione del padre, ritratto di spalle sul trattore, figura indeterminata poiché ormai remota e perduta.
Il prefatore Michele Miano acutamente pone in risalto il fatto che la poetessa in varî dipinti “sembra prediligere la figura umana femminile”, riprodotta in atto problematico e pensoso. Aggiungerei che detta figura si staglia su un fondale uniforme e spesso nero, e concentra nello sguardo uno spirito suggestivamente enigmatico e interrogativo, pronto a misurarsi con le prove della vita, ma ad aprirsi altresì alla speranza: “Ti prenderei la mano/ tra spighe meste e campi di fieno,/ e assetata di vita/ correrei al lago, mentre i rossi papaveri/ condurrebbero i passi/ alla quiete…” (Vanessa cardui).
Floriano Romboli
Daurija Campana, Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 80, isbn 979-12-81351-41-7, mianoposta@gmail.com.
Andrea Cattania, "Amore per sempre"
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Amore per sempre
Andrea Cattania
Guido Miano Editore, Milano 2024.
“Amore per sempre” in Andrea Cattania e in Edward Estlin Cummings
“L’amore per sempre” dei nostri due poeti, come suggerisce il titolo di questa tematica, riguarda la poesia amorosa dedicata ad un’unica donna amata, al sentimento che sfida il tempo, all’eterna promessa fra due entità che s’incontrano per non più perdersi: solo la morte potrà segnare la dimensione dell’assenza, della distanza, ma forse neanche Lei, poiché il ricordo, la memoria dell’unione infranta, sopravvive spiritualmente anche agli artigli della Straniera, e ciò vale per l’esperienza umana e letteraria di Andrea Cattania. Succede a lui – l’amore non conosce differenziazioni di epoche o di mentalità – quel che capitò a Dante con Beatrice (la donna angelicata, salvatrice della sua anima, guida spirituale nel Paradiso della Commedia) e al Petrarca con Laura (la protagonista del Canzoniere, dove il poeta aretino suddivide il suo canto fra le rime “in vita” e “in morte” dell’amata). Assistiamo dunque alla sublimazione del sentimento amoroso, poiché poco importa se Beatrice e Laura non sono mai state realmente a fianco dei due poeti toscani e sono andate all’altare con altri uomini: per loro esse sono rimaste sempre la vera idealizzazione della donna perfetta o perfettibile, fino a costituire costante fonte di ispirazione poetica per tutta l’esistenza. Così anche per Cattania, che nei suoi versi esprime ora il rammarico e l’amarezza per un amore non corrisposto, poi la felicità con la donna che ha amato “in vita” e che amerà per sempre anche “in morte”: Lila» […].
Enzo Concardi
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Le problematiche dell’essere in Andrea Cattania e in Charles Baudelaire
La profonda dicotomia dell’essere che sin dai primordi turba l’animo umano e scuote gli intellettuali di ogni epoca, emerge anche nell’opera del poeta - ingegnere Andrea Cattania; un’ossimorica tensione tra ragione e sentimento, tra angoscia esistenziale e desiderio di elevazione pervade infatti le sue liriche. La poesia di apertura di questo capitolo, Il futuro dell’homo sapiens, pone subito un’accorata domanda, enfatizzata dall’apostrofe e dal rincorrersi di potenti antitesi: «Che ne sarà di te, Uomo Sapiente?// […]/ Vinci sfide impossibili, raggiungi/ le vette della conoscenza astratta.// Spingi al limite il pensiero simbolico.// Incapace di volgere in amore/ la folle ebbrezza di un sapere immenso,/ non sai se non ipotizzare quando/ si estinguerà, e come, la tua specie». L’ammirazione per i risultati raggiunti dalla mente umana, sottolineata dai verbi vinci, raggiungi, spingi, si accompagna alla triste consapevolezza della leopardiana infinita vanità del tutto: l’uomo non sa trasformare la sua conoscenza in condivisione (incapace… non sai), non si innalza al di sopra del contingente e il suo folle volo è ancora una volta fallimentare. Tuttavia i versi sono mossi da un’incessante ricerca, tesa a svelare il senso dell’esistenza e a scoprirne la bellezza, anche quando i sentieri sono impervi e le vie d’uscita lontane: «…Noi,/ piccole talpe cieche sottoterra,/ allunghiamo lo sguardo, ci illudiamo/ di scorgere un chiarore in fondo al tunnel…» (L’intuizione di Anassimandro). […].
Gabriella Veschi
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La contemplazione dell’universo e della natura in Andrea Cattania e in Paul Claudel
Non è raro il caso di una personalità dalla solida preparazione scientifica, che nondimeno riveli vivi interessi artistico-letterarî, che coltivi anche attivamente non superficiali inclinazioni estetico-culturali, una spiccata propensione alla scrittura poetica. Sono d’altronde pienamente ammissibili opzioni tematiche extra-scientifiche, svolgimenti di motivi etico-sentimentali, intimistico-psicologici o storico-sociali, confessioni di esperienze di vita sofferte e inconfondibili.
Invece la ricerca lirica dell’ingegner Andrea Cattania non sa prescindere dalle problematiche logico-matematiche, specificamente astrofisiche, che urgono alla sua mente, stimolano la sua fantasia, la quale se ne alimenta intensamente con risultati di indubbia incisività creativa: «La materia diffusa, l’energia/ che pervade/ l’intero cosmo, ovunque,/ nell’universo/ genera il campo gravitazionale./ La distorsione del mondo reale./ La curvatura dello spaziotempo» (La distorsione dello spazio); «…La luce/ si propaga intrecciando al proprio interno/ i due campi in un’unica natura/ nell’universo dello spazio-tempo./ La sua velocità costante è un limite/ irraggiungibile, esprime il rapporto/ in cui la massa diventa energia» (Vorrei conoscere i pensieri di Dio).
A un discorso imperniato sulla univocità e determinazione lessicali unite a essenzialità sintattica è immanente il rischio dell’aridità intellettualistica o comunque dell’appiattimento prosastico, mentre l’autore non si nasconde le peculiarità preziose della poesia: «La tempesta quantistica flagella/ gli elementi del brodo primordiale./ Li sfibra, li divelle, li affastella/ in seno al cono gravitazionale/ (…) Non solo lo scienziato, anche il poeta/ osa raffigurare lo scenario/ dell’Universo nell’Istante Zero./ La traccia folgorante di un pensiero./ L’origine del tempo immaginario» (La nascita del cosmo, corsivi miei come sempre in seguito). […].
Floriano Romboli
Andrea Cattania, Amore per sempre, prefazioni di Enzo Concardi, Floriano Romboli, Gabriella Veschi; Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 100, isbn 979-12-81351-46-2, mianoposta@gmail.com.
Tommaso Cevese, "Iridescenze"
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Iridescenze
Tommaso Cevese
Guido Miano Editore, Milano 2024.
I testi lirici qui pubblicati, tratti da varie raccolte poetiche di Tommaso Cevese, testimoniano una visitazione profonda delle fondamentali questioni esistenziali relative alla condizione umana metafisica, affrontando i temi chiave del nostro destino: vita, morte, anima, eterno, fede, divino, rivelazione, speranza escatologica, fine nel nulla. Da credente convinto egli si pone comunque in ascolto di chi cerca con animo sincero ma non trova risposte: «…Sola, irretita nelle pieghe/ della vita, si dibatte/ l’anima inquieta/ volta a un senso cui anela/ ma che sfugge e si cela…» (Mistero). Il suo cammino esistenziale e spirituale diventa letteratura, poesia, meditazione, spesso con formule problematiche, interrogative che pongono sul tappeto le duali risposte allo stesso quesito, segno questo di una disposizione mentale non dogmatica ed accademica, ma di una comprensione intelligente delle difficoltà del credere nel mondo moderno.
Vi è una propedeutica nella sua personale visione della spiritualità che lo porta a considerare la dimensione antropologica come base di partenza della definizione religiosa. Riscontriamo infatti, in queste liriche, numerose composizioni dedicate all’indagine sul chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Vediamo alcuni lacerti tra i più significativi. Nell’epilogo della poesia Memento il poeta afferma ciò che conferisce un significato al nostro essere: «… L’antica domanda/ che sorge dal cuore/ se il nostro destino/ racchiude il terreno/ se l’anima vive/ oppure se muore/ ognuno col corpo/ dà senso al cammino» […].
Enzo Concardi
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La consapevolezza del male di vivere come condizione esistenziale dell’umanità erompe con veemente impeto nelle poesie di Tommaso Cevese, proposte in questo capitolo, e il potere strabordante dei sentimenti straripa inarrestabile come un fiume in piena, in un succedersi ininterrotto di immagini create dalla mente del poeta: «E tu che mi siedi vicino/ ascolta la pioggia cadere/ sottile sul larice e il pino/ sommessa tra morbide dita/ le gocce su foglie di faggio/ e rocce che prendono vita…» (Insieme). La quasi totale assenza di punteggiatura, i frequenti polisindeti, il rapido fluire degli enjambement rendono incalzante e concitato il ritmo e i componimenti assumono la dimensione di vertiginose meditazioni di sapore leopardiano.
Il potere evocativo della parola poetica converge verso un continuo ritorno al passato, mentre la ricorrenza di pregnanti metafore sinestetiche designa una natura dal doppio volto, pronta a infliggere pesanti quanto inaspettati colpi. Talvolta l’io lirico, prima immerso nell’allettante e caleidoscopico sfavillio di luci, colori, suoni, precipita nell’abisso della sofferenza in un oscillare continuo tra esaltazione dei sensi e istanti di crisi di fronte al rivelarsi dell’arida realtà: «Un soffio leggero e inatteso/ o un colpo di vento furioso/ e chi camminava nei giorni/ sul filo sottile di vita/ tacendo precari equilibri/ si scopre d’un tratto sbalzato/ e cade nel gorgo improvviso/ di un male oscuro e latente…» (Fugaci equilibri). I campi semantici afferiscono ad un mondo vegetale animato e palpitante, ma una serie di coppie oppositive offuscano le speranze di un soggetto poetico in bilico tra una vita vissuta intensamente e l’angoscia provocata da eventi nefasti, tra gioia e dolore, luce e tenebra, «nel gioco apparente del caso» (Insieme). Così la perdita degli affetti più intimi o l’assenza dell’amata sovvertono inaspettatamente tutte le certezze, dilavate via dalle gocce di pioggia o dal «torrente/ che mormora piano» (Fili interrotti), emblemi del fluire del tempo che conduce ineludibilmente al tramonto della vita, poiché «Trascorre il meriggio/ e giunge la sera» (ivi) […].
Gabriella Veschi
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La poesia di Tommaso Cevese si caratterizza per un pregevole nitore formale-stilistico, per l’accattivante eleganza espressiva conseguenti da un discorso lirico essenziale, incisivo eppure organizzato con indubbia perizia elaborativa, con sapienti misure sintattiche e metriche. L’agilità delle soluzioni linguistiche si unisce a tratti di non pesante complessità ordinativa, quali risultano, ad esempio, dalla predilezione della figura dell’anastrofe: «Smarrita nei cieli lontani/ appare una punta di spillo/ che brilla la sera di vita/ e l’alba del giorno saluta./ L’addita con squillo di voce/ un bimbo con vero stupore …» (Stella solitaria); «…Sul finir del meriggio/ dissetate e specchiate/ in pozze d’acqua piovana/ tornano lente le mandrie alle stalle (…) Nel chiarore celeste/ si perde e si confonde/ l’estremo orizzonte./ Annuncia la notte imminente/ la stella che il cielo punteggia» (Monte Toraro).
Nei versi si nota altresì il ricorso frequente all’antitesi («… Così la memoria/ si posa un momento/ sull’ombra riflessa/ del buon montanaro/ sul bianco lenzuolo/ e il gregge schierato/ dal vecchio pastore/ sull’arcobaleno/ nell’ultima luce/ del giorno che muore …» (Malinconia, corsivi miei come sempre in seguito), che talora giunge a radicalizzarsi con esiti ossimorici: «… Un tempo ancor lontano/ fisserò la notte chiara/ la luce di due stelle./ Vi penserò uniti e liberi/ oltre i mondi e oltre quelle …» (Valle di memorie); non manca l’impiego dell’anafora («È tempo di salire/ la valle di memorie… È tempo di riandare/ con passo grave e lento… È tempo di ascoltare il lieve mormorio» (ivi), e, a livello ritmico, dell’enjambement («…Trascorrono silenti/ le lucciole sui prati/ pulsando intermittenti/ nel ballo dei richiami./ Movenze e vere danze/ rivelan gli animali/ intenti a corteggiarsi (…) Finché Morfeo non vince/ nel buio della stanza/ immagini e parole/s’intreccian come voli/ di rondini nei cieli…» (Danze silenti) e della rima, dall’occorrenza sporadica e raffinata: «… Trascorso è il respiro/ di brevi stagioni/ e le luci, le ombre/ di alterne vicende/ di spente illusioni/ ma il dolce ricordo/ ritorna nei giorni/ d’assenza e di vuoto/ silente e profondo/ così come allora/ quand’eri il mio mondo …» (Memoria di un sorriso); «… Aironi solitari/spiegano grandi ali/ sulla placida campagna (…) Libellule blu e ramate/ si posano su foglie/ assolate della riva …» (Alle risorgive); «… Confina in spazi lontani/ ove le genti paion fantasmi/ dal nulla emersi e subito persi …» (Trucco di natura) […].
Floriano Romboli
Tommaso Cevese, Iridescenze, prefazioni di Enzo Concardi, Floriano Romboli, Gabriella Veschi; Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 148, isbn 979-12-81351-44-8, mianoposta@gmail.com.
Franco Colandrea, "A mio figlio Paolo"
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A mio figlio Paolo – Dialoghi d’amore
Franco Colandrea
Guido Miano Editore, Milano 2024.
Non credo che sia necessario impiegare molte parole per descrivere il dolore cocente e insuperabile, la terribile deprivazione affettiva e intellettuale-morale, provocati nell’animo di un genitore dalla morte di un figlio, evento difficilmente concepibile e quindi razionalizzabile nella sua innaturalità.
Un maestro del pensiero antico, nonché grande scrittore, Lucio Anneo Seneca, nella Consolatio ad Marciam – un testo databile intorno al 40 dopo Cristo – si accinse a confortare la madre, figlia del senatore Cremuzio Cordo, la quale aveva perduto il suo Metilio, ricorrendo ai luoghi consueti della dissertazione filosofico-letteraria; riuscì tuttavia a focalizzare soprattutto la pena tenace e tormentosa («Tertius iam praeterit annus, cum interim nihil ex primo impetu cecidit: renovat se et corroborat cotidie luctus et iam sibi ius mora fecit eoque adductus est ut putet turpe desineret», 1 («Ormai sono passati tre anni, e ancora niente dell’originario sgomento è venuto meno: piuttosto si rinnova e rinvigorisce ogni giorno e la durata si è fatta diritto, sino a spingersi a ritenere disonorevole desistere, traduzione mia»), e a indicarne la causa precipua: «Nihil enim ad rem pertinent anni, quoniam nullum non acerbum funus est quod parens sequitur», 17 («Perché al riguardo non contano nulla gli anni, in quanto non c’è funerale, che abbia al suo seguito un genitore, che non sia prematuro»).
Franco Colandrea, nell’intento di definire la propria condizione etico-sentimentale, si affida alla rappresentazione accorata dell’analoga situazione psicologica di una “signora senz’anima”, tramite la felice soluzione narrativa della corrispondenza speculare, dell’individuazione di una “microstoria” entro la “storia” principale, secondo lo schema inventivo che i critici professionali chiamano mise en abîme: «Ogni pomeriggio giravi con la bicicletta ed una signora molto magra ti salutava sempre, il suo volto era molto scavato dalla disperazione. Un giorno mi domandasti cosa avesse quella donna e perché fosse sempre triste, ti risposi che aveva perso il suo unico figlio per un incidente stradale (…) Mi abbracciasti ed esclamasti: “Povera donna, papà!” Ora sono io che cammino nella stessa piazza» (La signora senz’anima, il secondo corsivo è mio).
L’episodio appena menzionato costituisce altresì un interessante momento di svolta nell’organizzazione strutturale-compositiva del racconto, ne precisa l’equilibrio formale e stilistico. La parte iniziale del testo, che lo comprende, è caratterizzata infatti dall’essenzialità e dalla nettezza del discorso, dominato da una simmetria basata sulle frequenti cadenze iterative e come bloccato da scoperte preoccupazioni cronistiche connesse all’obiettività di un accadimento tragico e ineluttabile, che ha imposto uno stato sconvolgente di mancanza, di sottrazione e quindi di autentica amputazione spirituale: «Ti ho voluto in vita con la forza della vita. Mi hai fatto vivere con quella magica forza della vita. Ti ho cresciuto con la potente forza dell’amore. Ci siamo tenuti in vita e siamo cresciuti insieme con la forza dell’amore e della vita (…) Appena viene a mancare la forza della vita, anche quella dell’amore lentamente passa nel buio dell’orizzonte» (A Paolo con forza, corsivo mio, come sempre dopo); «Di sera, nei momenti in cui ci vedevamo, il tuo sorriso mi caricava. Di giorno, al telefono, vedevo sempre il tuo silenzioso sorriso, era energia invisibile per tutti e due. Di notte la parte conscia del mio cervello comunicava con la parte inconscia, sorridevo col tuo sorriso. Mi manca il tuo sorriso» (Il tuo sorriso); «Sui Monti Ausoni – ricordo che avevi dieci anni – insieme abbiamo esplorato gli impenetrabili boschi di lecci, eravamo felici (…) Adesso non troverò più niente di simile, ma quello che manca veramente è il tuo sorriso» (Appunti di gioventù).
Il ricordo è straziante, e la terribile, profonda lacerazione suggerisce di conseguenza correlazioni antitetiche: «Avevi otto anni e la febbre che sfiorava i quaranta gradi (…) Era notte ed avevi paura del buio. Trovammo tre candele strette e lunghe (…) Era una luce flebile ma piena di calore. Ora quel pagliaio è vuoto e senza luce» (Il pagliaio).
In seguito però – grazie anche all’aiuto “terapeutico” della “scrittura” (mi sembra invero interessante lo spunto meta-letterario costituito dal capitoletto intitolato Amica penna: «Non ti stanchi mai, sei sempre disponibile, alle volte hai delle pause di riflessione, ogni tanto vieni buttata con rabbia nel pennaiolo, ma poi vieni ripresa e così sei di nuovo pronta a dare una mano») – il respiro sintattico si amplia, la costruzione dei periodi si fa più complessa, e l’ossessione memoriale diventa occasione per una sublimazione ideale, per un meditato trascendimento catartico del cupo animus luttuoso, attraverso un percorso lucidamente deliberato nella sua alterità qualitativa, carica di rigeneranti implicazioni emozionali e cognitive: «Non riesco ad avere pace, ma devo accettare il fatto compiuto. La strada che intendo intraprendere per comunicare con te attraverso il corpo eterico è nel campo della metafisica e spero tanto un giorno di riuscire a comunicare con te attraverso uno di questi canali» (La rassegnazione).
Così il rapporto padre/figlio riprende e si rinnova attraverso il sogno, un’esperienza che gli antichi greci ritenevano un dono della divinità (« Ὄναρ ἐκ Διός ἐστιν », si legge nel primo libro dell’Iliade): «In sogno, davanti al caminetto acceso che riscalda anche le più remote cellule del corpo, il pensiero è sempre costante verso di te, e ora riesco a vederti, ti vedo con gli occhi della mente nell’altra dimensione (…) Mentre ti volti, accenni ad un sorriso di compiacimento e durante il ritorno verso il tuo Paradiso sussurri alcune parole che sembrano dire: «Ba (Papà), io sono con te, sono sempre vicino a te» (Il sogno di ri…nascita).
È questo il cuore del libro di Colandrea: la comunicazione consentita dall’attingimento di un’altra dimensione, dall’ “oltrepassamento” dei “confini dell’Universo” (v. il racconto L’amore) non può che rivoluzionare ogni misura interiore, rivelando la grave inadeguatezza di ogni concezione relativistico-empirica ispirata al materialismo positivistico. Auspice pure l’influsso della sapienza vedica, la mente del genitore, che ora da maestro si trasforma in scolaro («Dopo la giornata lavorativa non vedo l’ora di andare a letto a dormire con la speranza di rivederti in sogno e ascoltarti ancora perché ho tanto da imparare da Te, figlio mio. Come vedi, ora i ruoli si sono invertiti» (L’ascolto), si apre al mistero, all’idea dell’anima immortale, alla prospettiva dell’incontro liberatorio e gratificante con una Presenza d’amore, la quale assicura infine uno scopo positivamente orientativo alle dinamiche dell’intero ordine vitale, datoché è convinzione conclusiva dell’autore che «tutto vada ‘come se’ il mondo fosse diretto a un fine da una volontà intelligente e superiore» (Il cervello del mondo).
Floriano Romboli
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L’AUTORE
Franco Colandrea, nato a Vallecorsa (FR), vive a Monfalcone (GO). Ha svolto il lavoro di Finanziere nelle Fiamme Gialle e poi dipendente pubblico alla Regione Friuli Venezia-Giulia. La sua vita è cambiata dopo la dipartita prematura del figlio Paolo. Oggi ha quattro lauree e si occupa di Naturopatia. Ha pubblicato i volumi: Le parole che ti ho detto e non ti ho detto in vita (2005), Dialogo inconscio da dimensioni diverse tra figlio e padre (2006), Dialoghi onirici tra padre e figlio - Paolo l’Immortale (2006), Senza Dio sono niente (2018), Rinascere a nuova vita dopo aver subito un dolore impossibile (2023).
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Franco Colandrea, A mio figlio Paolo – Dialoghi d’amore, prefazione di Floriano Romboli, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 80, isbn 979-12-81351-40-0, mianoposta@gmail.com.