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lorenzo barbieri

Lorenzo Barbieri, "Rione Sanità"

25 Marzo 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #lorenzo barbieri, #luoghi da conoscere

 

 

 

 

Rione Sanità

Lorenzo Barbieri

LFA Publisher, 2018

pp 167

16,00

 

Leggendo Rione Sanità, di Lorenzo Barbieri, mi è venuto naturale ricordare una visita fatta al quartiere insieme alla mia amica napoletana, scrittrice di talento, Ida Verrei, e anche ricollegare questo testo (si badi bene, solo per contenuto e non per stile, essendo quello della Verrei di molto superiore) al suo Arassusia, ambientato nei medesimi luoghi e nel famoso Cimitero delle Fontanelle.

Come il suo protagonista, anche l’autore non abita più a Napoli, ma da ragazzo ha vissuto addirittura dentro il Palazzo Reale, dove ha sede la biblioteca Nazionale.  La Napoli di cui  parla non è quella di Saviano, delle stese e della paranza dei bambini, non è quella anonima e fredda de L’amica geniale, ma è quella calda, pastosa e sanguigna della grande tradizione partenopea, di Totò, Eduardo, (e anche Ida Verrei).

La città è misteriosa, sotterranea, superstiziosa, legata al senso della morte. Il rione vive di luci e ombre, fatto di vicoli ripidi, di porte che sprofondano direttamente nell’Ade, fra  catacombe e teschi. Contiene fatiscenti palazzi settecenteschi, nobili chiese ma anche bassi poveri e bui dove vive gente misera e dura.

I vicoli sono poesia, fetore, umore di vita, giochi di ombre e raggi di sole, desideri, speranze, rumori, nostalgie e sogni in attesa di realizzarsi.” (Pag. 92)

Il protagonista, Enzo, è un anziano giornalista che rientra a Napoli dopo una lunga assenza, e lo fa solo per seppellire in fretta la madre, con l’intento di tornarsene prima possibile al suo lavoro milanese. Percorre strade, piazze, vicoli insieme al notaio Oreste, sorta di guida dantesca.

In realtà la città lo ri-cattura, l’antico rione, in cui è vissuto da bambino, lo riacciuffa col suo fascino, col gusto dolceamaro della nostalgia. Da una parte egli mantiene lo sguardo distanziato di chi ormai non fa più parte di quel mondo, dall’altra si abbandona alla memoria, ripopolando ciò che vede con figure scaturite dal passato.

A parte le consuete imprecisioni di Barbieri nell’uso della punteggiatura e dei tempi, e la sua scrittura un po’ distratta, il difetto maggiore sta nell’aver voluto, credo, inserire nel romanzo alcuni racconti precedentemente scritti, non riuscendo ad amalgamarli come si deve nella trama. Il pregio, invece, è l’aver puntato un faro sul Rione Sanità, mostrandocelo com’è ora e com’era un tempo, in una narrazione sempre in bilico fra visione attuale, riscoperta e ricordo, come se il tessuto della realtà presentasse dei vuoti che solo la memoria può riempire, ricomponendo il mosaico.

Ma sul finale del libro c’è un ribaltamento, si esce repentinamente dal sogno con una doccia gelata e la realtà ha il sopravvento sulla deformazione consolante del ricordo. Le persone che sembravano genuine, vergini, povere ma innocenti, si rivelano grette, interessate, persino truffaldine, a conferma che nessuno fa niente per niente.

È vero, il napoletano è uno di buon cuore, disponibile e altruista, ma sotto, sotto, ci deve sempre ricavare qualcosa, è nel suo Dna, non lo fa per cattiveria.” (Pag. 135)

Non solo, il malaffare prospera e la filosofia generale, l’unica possibile, è “far finta di niente e tirare a campare”. Ne esce, perciò, un ritratto della napoletanità a chiaroscuro, una specie di odio e amore, disprezzo e meraviglia, curiosità e ribrezzo. La parte migliore del romanzo è quella iniziale, quando, suo malgrado, il protagonista subisce il fascino del quartiere e riscopre le figure che anticamente lo avevano animato.

Poi, purtroppo, c’è un crescendo di delusione, di meschinità e spilorceria, di fatalismo e rassegnazione che ci lasciano con la bocca amara e coinvolgono lo stesso protagonista il quale, alla fine, non ci sembra poi tanto migliore dei personaggi da lui incontrati.   

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Natale

25 Dicembre 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto, #unasettimanamagica

                                                            

 

 

 

Alla fine è arrivato il giorno tanto atteso dal mondo intero. Il giorno dove lo spirito della festa prende corpo attraverso una esternazione ossessiva di luci, di odori di cucina, di dolci, di zenzero e cannella. La strade dovrebbero essere piene di neve per rendere suggestiva l’atmosfera, però difficilmente capita, almeno alle nostre latitudini. Non è certo il clima, però, quello che conta, quanto la festa. Nel profondo nord si dice abiti colui che è l’emblema unico, quello che oggi verrebbe chiamato il testimonial, visto che si vive solo di pubblicità. Lui si dedica ogni volta, ormai da troppi anni, alla gioia dei piccoli portando in giro per il globo la sua slitta magica che vola, trainata da renne ancora più magiche. È arrivato il giorno, dove tutti aspettano l’uomo in rosso e dalla barba bianca. I bambini preparano l’albero sotto il quale sperano di trovare realizzati i loro desideri, gli adulti cercano di adeguarsi allo spirito di festa che aleggia come una nebbia dolciastra per le strade e contamina l’animo degli uomini. Sono pochi quelli che cercano, con grandi sforzi, di tener duro per tutto il periodo, di resistere a questa smania di festa a ogni costo. Loro conoscono i sacrifici fatti per undici mesi l’anno e vederli sperperati in una settimana non rientra nei loro desideri. Altri, invece, si arrendono al fiume di euforia godereccia, di tradizioni che vengono rispolverate ogni anno,  in nome di antiche credenze che impongono riti e costumi sempre uguali.

La cerimonia della partenza dal sito lontano e innevato è pronta, l’uomo in rosso, rubicondo e ridanciano si appresta a partire:

"Andiamo amiche mie, è tempo di partire, la slitta è pronta ed è bella carica, quest’anno partiremo in anticipo per accontentare quanti più bambini possibile. Ne hanno un disperato bisogno, devono poter ancora credere in noi, prigionieri come sono di diavolerie moderne che fanno perdere di vista lo spirito del Natale che dovrebbe essere nei loro cuori. Li ho visti, durante  tutto l’anno, soli, immusoniti e, persi dietro un piccolo quadrante luminoso a bruciarsi gli occhi guardando delle cose insulse e diseducative. Non hanno fatto dei disegni, non hanno scritto le letterine, sapete, ne sono arrivate meno della metà di quante ne arrivavano fino a pochi anni fa. Se continua così, saremo destinati a scomparire nel nulla, senza quello spirito e  la convinzione della nostra esistenza nei loro cuori, noi non abbiamo ragione di esistere. Saremo solo un ricordo di quello che siamo stati e, forse, nessuno nel tempo si ricorderà più di come era il Natale e di cosa significava. Allora andiamo, forza ragazze mettiamoci in viaggio, diamoci da fare, potrebbe essere l’ultima volta  per noi."

Vola l’uomo in rosso senza età, vola sopra i tetti e i camini fumanti, lascia durante il cammino doni e scie luminose di bontà, d’amore e comprensione. Domani, purtroppo, sarà un giorno normale, uno dei tanti che si dovranno affrontare e la magia di questa notte sarà passata, come una nuvola rosa di un  tramonto, che svanisce nel buio

 

 

 

 

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Ritorno a casa

23 Dicembre 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto, #unasettimanamagica

 

 

 

 

Stavo tornando a casa. Dopo quattro anni di lontananza rivedevo le vette innevate dei monti sulla valle. Il tempo che ho trascorso lontano da casa è servito per tornare. Non mi ero allontanato molto, solo due montagne più avanti, ma sembrava che fossimo chissà dove. Per attraversare due montagne  abbiamo impiegato quattro anni. Quando sono partito c’era la neve, così come c’è adesso, non ne posso più del freddo. Ritorno a casa giusto in tempo per trascorrere il Natale a casa con i miei. Mancano ancora due gironi e ormai sono arrivato. Sto percorrendo antichi sentieri, siamo in pochi a conoscerli, io li ho appresi da mio nonno quando ero piccolo e lui mi portava in giro su per i monti attraverso questi sentieri. Percorsi scavati nella roccia nei secoli, dalla gente del mio paese, con  il salire e scendere dagli alpeggi con gli scarponi pesanti, che rendevano più faticoso il cammino. La neve copre tutto e il mio passo è reso pesante dalla fatica, il piede affonda ed è una tortura tirarlo fuori per poi farlo affondare di nuovo. Ci sono parole che non dovrebbero essere pronunciate, parole che il tempo ha reso prive di significato come quella che ci ripetevano ogni giorno: “vinceremo”. Chi dovevamo battere per vincere e, come dovevamo vincere?!  Semplicemente camminando nella neve e nasconderci nelle buche? Ci sono cose che non possono essere dette. Abbiamo combattuto contro il nemico, abbiamo lottato contro il freddo, contro la fame, tutti noi abbiamo perso qualcosa, qualcuno che era al nostro fianco, un amico, un compagno, una voce che parlava di cose che confortavano il cuore.

Ancora lunga è la strada che conduce alla mia valle, cammino sull’orlo di un crepaccio lungo la dorsale del monte, qui venivo da ragazzo a sfidare il vento. Anche allora camminavamo su un sentiero così piccolo da dover mettere i piedi uno dietro l’altro per camminare, non c’era lo spazio per metterli appaiati. Con o senza la neve era un’abitudine. Sto facendo lo stesso cammino, ma ora non lo riconosco più, qualcosa è cambiato, non ho più l’incoscienza  giovanile, perché adesso ho paura di mettere un piede in fallo, non ho la stessa temerarietà di una volta. Il passo è lento. Il cappotto militare che indosso non agevola i movimenti, vorrei liberarmene, ma il gelo me lo impedisce. Eccola laggiù la valle, le case coperte dalla neve. Ci sono ricordi che non si possono dimenticare, la fisionomia e la forma del proprio paese. La via principale che lo attraversa da un capo all’altro, i pochi vicoli che s’intrecciano lungo la via per rompere la furia del vento. La mia casa si trova all’estremo lato sud, là dove ora vedo un recinto di animali, ma senza bestie al suo interno. Il costone è finito e ora, finalmente, ho ritrovato il sentiero che comincia a scendere per arrivare al piano, la neve diventa più sottile, più leggera, il vento che entra da nord e percorre la valle la spazza via in turbini sempre più fitti. Non sento più i piedi, devono essersi congelati dentro il cartone degli scarponi, ma non importa, la vista di casa rafforza la volontà di arrivare e riabbracciare chi un giorno disse “ti aspetterò, ti amerò per sempre”.  Ci sono promesse che non andrebbero fatte. Quattro anni non sono “per sempre”, ma sono sufficienti a conservare intatte le promesse?

La neve è quasi svanita, c’è solo freddo e il vento che sbatte sulle imposte, sulle tavole sconnesse delle stalle. Mi guardo intorno e non vedo nessun riferimento al Natale che sta per arrivare. Ancora pochi passi e potrò bussare alla porta di casa mia. La strada è deserta, non passa nessuno. Il giorno sta volgendo al termine e nella penombra della sera si accende qualche luce. Candele e lumi a petrolio, sento il puzzo che esce dalle case e che si mescola con il fumo dei camini.  Sento l’odore del fumo ma non porta nessun odore particolare solo fumo di legna e aria fredda.

Ci sono cose che nessuno immagina possano accadere eppure accadono; succede quanto non te lo aspetti. Arrivo alla porta di casa mia, mi fermo per riprendere fiato, fisso la porta di legno di quercia che aveva fatto mio padre, la vedo ma non la  ricordo così corrosa e quasi marcita, un legno vecchio e pieno di schegge. In quattro anni possibile che si sia rovinata in questo modo?  Busso due colpi, poi uno poi due. Il segnale che usavo da giovane,  questo era il mio modo di bussare, mia madre capiva che ero io. Ora non apre nessuno. Riprovo ancora con la bussata particolare, ancora nessuno. Busso normalmente, insisto con rabbia, tempesto la porta con pugni violenti. Finalmente qualcuno apre, appena uno spiraglio, un viso sconosciuto che mi guarda con sospetto da dietro la fessura della porta.

Chi è quell’uomo? Non lo conosco, cerco di avvicinarmi per vederlo meglio in viso, ma lui si ritrae impaurito. Ha visto la mia divisa da militare. Teme qualche azione da parte mia. Cerco di rassicurarlo:

- Scusa, chi sei tu – gli dico con voce calma e tranquilla, non voglio allarmarlo, - cosa ci fai in casa mia!

Lui mi guarda con stupore, ha sentito bene la mia domanda, ma non capisce.

- Questa non è casa tua soldato, ci abito io già da due anni, piuttosto, tu come fai a dire che è casa tua? 

Adesso tocca a me essere stupito. Ha detto che abita qui da due anni, allora i miei parenti che fine hanno fatto? I genitori, la ragazza che aveva promesso fedeltà imperitura, i fratelli, dove sono? Non posso credere che siano tutti morti, chiedo:

-  E' la verità, prima di partire io abitavo qui con i miei genitori e i miei fratelli, sono tornato dopo quattro anni di lontananza, e non trovo più la mia famiglia: dov'è?

Il tizio comincia a capire, fa la faccia cupa, sa qualcosa, ma ha timore a parlare, mi guarda e m’invita ad entrare,

- Vieni dentro, fa freddo qua fuori e, vedo che non sei messo bene.

Entro e il caldo del camino mi avvolge in un abbraccio caloroso, esplode dentro di me tutta la fatica, la stanchezza, la fame accumulata durante il viaggio di ritorno. Crollo su una sedia e già sento nelle ossa un brivido spiacevole, quanto dovrà dirmi il tizio che mi ha aperto la porta, di certo non sarà una buona notizia.

Ci sono storie che non andrebbero mai raccontate. Quella della mia famiglia era una di queste, quando l’uomo che sta al mio fianco comincia a parlare, una strana pace si  impossessa di me. Lui parla, racconta le vicende degli ex abitanti della casa che, adesso, è sua.

Dovrei prestare più attenzione, indignarmi, commiserarmi o anche piangere, invece me ne sto lì impassibile con lo sguardo nel vuoto vicino al fuoco di un camino a lungo desiderato. Il sonno si fa strada e s’impossessa di quanto è rimasto di un giovane corpo partito quattro anni prima per andare due montagne più avanti a difendere altre valli da uomini, un tempo amici, trascurando di occuparsi della propria montagna. Voglio credere che sia stato il vento e, non qualcuno, a spazzare via le speranze dall’animo degli abitanti la casa in fondo al viale, di un paese, nascosto in fondo alla valle. L’uomo non dice più nulla ha visto che mi sono addormentato e mi copre con una coperta. Dormo per un tempo indefinito, senza sogni, senza problemi, un sonno che nasconde la delusione, la rassegnazione di non poter passare il Natale con la famiglia. Quando mi sveglio la prima cosa che sento è un odore di zuppa, la fame repressa esplode in tutta la sua virulenza, mi alzo dalla sedia vicino al camino, sento dopo tanto tempo il calore nelle mie mani rimaste gelide per troppo tempo. L’uomo mi guarda, abbozza un sorriso, al suo fianco una donna avanti con gli anni e al fianco due bambini dalla faccia smunta. Mi fissano come un oggetto misterioso, il mio lungo cappotto militare mi dà un’aria di uomo più grande di quello che sono, ho la barba lunga e gli occhi arrossati, uno spettacolo insolito per un soldato del regio esercito. Cerco di prepararmi e andare via da quella casa che non è più la mia, sono un ospite non desiderato, devo andare, non so dove ma devo uscire da quella casa, prima che perda il calore che ho recuperato e la fame non mi faccia svenire. Sto pensando come fare quando una voce mi raggiunge:

- Come ti chiami soldato?

La voce è del capofamiglia, che, dopo avermi chiesto il nome, mi fa cenno di avvicinarmi alla tavola. La donna si era alzata e sta apparecchiando, mentre penso a come rispondere all’uomo vedo con la coda dell’occhio che sta mettendo cinque coperti, loro sono in quattro, un pensiero mi corre veloce nella testa.

- Mi chiamo Giuseppe, quando abitavo qua, i miei mi chiamavano Pino, se volete potete chiamarmi così anche voi, siete delle brave persone e non è colpa vostra se adesso io non ho più una casa né una famiglia.

Tranquillo Pino, tutti noi abbiamo sofferto questo periodo  oscuro, ora sembra che ne siamo fuori e per questo dobbiamo ringraziare il Signore, domani è Natale, dobbiamo celebrare la nascita, sperando che ci porti un po’ di serenità. Resta con noi, ci fa piacere avere un giovane in casa dopo aver perso mio figlio, aveva più o meno la tua età, è caduto sui monti da dove sei arrivato tu, chissà forse era un tuo compagno d’armi. Resta, ci sembrerà di averlo ancora tra noi. Dovrai accontentarti di quello che abbiamo, siamo poveri ma tiriamo avanti, aspettiamo la fine dell’inverno per riprendere i lavori nei campi, forse potresti darci anche una mano, se ti va di restare in casa tua.

L’uomo parlava e io dovetti sedermi per l’emozione, non pensavo a nulla del genere, ma dovevo immaginarlo, la gente della valle è rustica, parla poco, ma ha un cuore enorme, capace di gesti e parole che rincuorano. Non avevo voce per rispondere, mi limitai a fare un cenno affermativo con la testa.

Mi decisi a togliere il cappotto e, da sotto quella palandrana, uscì fuori il corpo provato di un giovane di ventisei anni, ma che ne dimostrava quaranta. Senza parlare mi avviai verso la cucina, sapevo bene com’era fatta la mia casa, per darmi una  lavata di mani, l’indomani dovevo rimettermi in ordine, non potevo presentarmi al Natale così com’ero combinato adesso.

La cena con i nuovi amici fu breve e molto parca. Una zuppa d’ortica e pane e delle fette di salame uscito chissà da dove. Per il giorno dopo,  Natale, non so cosa avesse  in mente quella famiglia, io da parte mia per contribuire pensai di tornare indietro fino al punto in cui avevo nascosto il fucile in dotazione e con quello cercare di andare a caccia di qualcosa di più sostanzioso. Non dissi niente all’uomo che mi aveva ospitato, che seppi dopo si chiamava Pietro, dissi solo che volevo fare un giro di giorno per vedere il cammino fatto. Presi il fucile e m’incamminai verso la salita che portava al bosco dietro la collina, prima di arrivare alla montagna vera e propria. Ero nato in quella valle e conoscevo tutti i suoi segreti, con la neve poteva capitare anche d’incontrare un cervo o un daino scesi per cercare del cibo dove la neve era più bassa, anche qualche lepre rientrava fra la selvaggina possibile, camminai a lungo cercando le orme di animali, ma non trovai niente, ero arrivato in cima alla collina e mi accinsi a scendere, nel farlo dall’alto vidi più a valle poco distante dal sentiero che dovevo percorrere, un movimento! Cercai di vedere meglio e finalmente li vidi, erano caprioli riuniti intorno a una rientranza del terreno che non era coperto di neve, c’era dell’erba e stavano mangiando tranquilli non si aspettavano pericoli in quella zona e in quel periodo. Scesi con cautela fino a raggiungere un posto molto vicino a loro, erano in tre due giovani femmine e un maschio adulto. Decisi subito per una delle due femmine, l’altra coppia avrebbe potuto procreare. Controllai il fucile, le pallottole, avevo una sola occasione e non potevo fallire. Il colpo risuonò in un’eco senza fine rimbalzando da monte a monte, ma dovetti  spararne un altro, anche se ferita, la femmina stava cercando di nascondersi nel bosco. Quando rientrai a casa di Pietro con l’animale sulle spalle ci  furono scene di gioia specie da parte dei bambini, la moglie aveva le lacrime agli occhi. Pietro mi guardò con uno sguardo scrutatore, ma non trovò traccia di nulla. Mi strinse la mano. Fu il primo Natale dopo quattro anni per tutti noi seduti a quella tavola che mangiammo carne fino a scoppiare. La polenta nel paiolo sul camino borbottava e il viso dei bambini si fece rosso dal caldo e dal cibo. Il primo Natale passato in casa fra gente di cuore e senza il rombo opprimente dei cannoni.

 

 

 

 

 

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La cicogna

21 Dicembre 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto, #unasettimanamagica, #postaunpresepe

 

 

 

 

- Vieni Maria ancora un piccolo sforzo.

- Oh! Giuseppe non ce la faccio più, credo che sia arrivato il momento di fermarsi, capisci, dobbiamo fermarci non importa dove.

- Va bene, ho capito, ancora due passi, vedo una costruzione più avanti, vedremo di ripararci là dentro.

Giuseppe, tirando le redini dell’asino sul quale c’era la sofferente Maria, aprì la porta di quella che sembrava una stalla. In effetti lo era, un unico locale pieno di paglia nelle mangiatoie e un grosso bue che riposava disteso in un angolo. Vide entrare l’intruso ma non mosse un muscolo, rimase a sonnecchiare sdraiato nella paglia. Maria, con notevole sofferenza, scese dall’asino e andò a sdraiarsi anche lei sulla paglia, con le spalle appoggiate a una mangiatoia piena di fieno. Il calore cominciò a farsi sentire e lei ne trasse beneficio. Giuseppe, intanto, liberava il povero asinello dal giogo lasciandolo vicino al bue, che sollevò un occhio ma lo richiuse subito dopo.

Da bravo falegname Giuseppe pensò subito di preparare una specie di culla per il prossimo nascituro. Prese le misure di due pezzi di mangiatoia e, con gli arnesi che portava sempre con sé, allestì alla meglio una sorta di culla. La riempì di paglia, possibilmente quella più fine, spezzettata, per evitare spuntoni che potevano esser pericolosi per il bambino. Mentre lavorava non perdeva di vista Maria, che aveva cominciato a lamentarsi di nuovo per i forti dolori. Capì che il momento era vicino, non avendo altro da fare uscì fuori all’aperto in attesa di sentire il primo vagito. Maria, come tutte le donne sapeva cosa fare, avrebbe portato a termine il suo compito.

Passavano i minuti e l’aria diventava sempre più fredda, Giuseppe fuori la porta sentiva il freddo entrare dentro di lui come una tenaglia che tentava di strappargli pezzi di carne. In cuor suo voleva entrare e aiutare la sua sposa ma sapeva che non era permesso, doveva solo aspettare. Era intento a guardare il cielo che piano piano stava schiarendosi. Stava facendo notte ma, stranamente, il cielo diventava sempre più pulito. Le stelle uscirono a migliaia e anche l’aria gelida sembrò calare d’intensità. Vide molto lontano una luce splendente che lasciava una scia d’argento, la direzione era verso il punto dove si trovava lui. Distratto dalla meraviglia del cielo ancora non si era accorto che si stavano avvicinando alla porta della stalla diversi animali, quando se ne accorse per poco non fece un salto dalla sorpresa. Vicino a lui e tutto intorno c’era un assortimento di animali piccoli e grandi, erano arrivati in silenzio e se ne stavano lì tranquilli. Notò, fra gli altri, molti uccelli di diverse razze e dimensioni. C’erano molti passerotti, una coppia di colombe, un falco solitario, due gufi dagli occhi sporgenti che giravano di continuo la testa come dei vecchi professori. A terra cani gatti, volpi, topolini, mucche e pecore, anche un lupo e un orso arrivati chissà da dove. Erano tutti insieme prede e predatori, erano fermi insieme a Giuseppe in attesa. Volevano essere i primi a rendere omaggio al redentore.

Nel silenzio della notte improvviso si udì un vagito. Un soffio d’aria avvolse chi era fuori ad aspettare. Un vento tiepido che avrebbe portato il suo soffio d’amore in tutto il pianeta. Giuseppe si decise ad entrare andò subito vicino Maria che con aria stanca ma felice gli porse un fagottino formato con un pezzo delle sue vesti. Dopo averlo baciato, Giuseppe lo mise nella improvvisata culla e gli animali cominciarono a passare davanti alla culla. Passando chinavano la testa come un segno di omaggio, in Lui riconoscevano il Signore di tutti loro.

Quando arrivò il turno della cicogna, lei sulle esili zampe fece una specie di inchino, ma non poté evitare di rattristarsi per le condizioni precarie in cui si trovava quel piccolo. Per essere il Signore di tutti gli esseri viventi giaceva in un posto molto scomodo. Sapeva che la paglia può essere traditrice, alcuni fili sono davvero duri e il neonato ne poteva soffrire. Non si mosse da dove era e, con dolore infinito, cominciò a strapparsi tutte le piume che aveva. Soffriva in silenzio, una alla volta si strappò le piume, quelle più soffici e morbide che aveva sotto le penne, quelle che nello strappo portavano via anche lembi di pelle. Quando ebbe raccolto un bel mucchio, con il lungo becco lavoro con abilità ricoprendo il panno deve era steso il bambino. Soddisfatta e piangente per il dolore si apprestava a uscire quando il sacro bambino la guardò e il suo sguardo fu una benedizione per lei. Da quel giorno la cicogna è diventata un uccello protetto e accettato da tutte le latitudini. È il simbolo della nascita e dell’amore per i neonati.

Quando tutti gli animali furono andati via cominciarono ad arrivare persone del villaggio, pastori dal circondario, viaggiatori che avevano seguito la scia della stella cometa e in breve davanti a quella stalla ci fu il mondo in attesa di omaggiare la nascita del Messia. Arrivarono giorni dopo anche alcuni maghi dal lontano oriente portando doni a chi doveva regnare così in terra, come in cielo.

 

 

 

 

 

 

 

 

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L'ultima letterina

19 Dicembre 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #una settimana magica, #racconto

                                         

 

 

Stiamo per entrare nel periodo magico delle festività di Natale. La festa in onore di Gesù che nasce. I principali protagonisti di queste feste sono i bambini che sono ansiosi di aprire i regali la mattina del giorno di Natale. Prima di arrivare a trovare i doni sotto l’albero, però, c’è un grande lavoro da fare e a quello ci pensano gli elfi di Babbo Natale. Essi si trovano in una località del grande nord, molto vicino al polo nord, un posto freddissimo dove solo loro sono capaci di abitare. Sono tanti e ognuno di loro si occupa di qualcosa. Ci sono quelli che compilano le liste dei bambini buoni e cattivi, poi le fanno leggere al capo per decidere cosa portare in dono. Altri sono occupati a governare le renne. Come si sa sono animali fantastici, ma anche loro hanno bisogno di cure, cibo buono e riposo. Il lavoro che devono fare la notte di Natale è duro e faticoso. Devono volare intorno al mondo per recapitare i doni. Gli elfi, che preparano i giochi e i regali sono tantissimi, una vera catena di montaggio. Ce ne sono per tutte le categorie: falegnami, fabbri, costruttori di bambole, sarte per i vestitini, operai che producono palle e palloni di tutte le misure. Una grande fabbrica che in poco tempo sforna regali di tutti i tipi. Ci sono anche gli elfi meccanici che devono tenere in efficienza la slitta. Sembra una normalissima slitta, ma, essendo magica, deve poter contenere i doni per tutti i bambini del mondo. Quanti saranno? Milioni di pacchi e pacchetti stipati dentro la slitta. Gli elfi di Babbo Natale vivono insieme nella cittadina che si chiama Rovaniemi che è la città di Babbo Natale. Fra tutti gli elfi, solo tredici sono quelli che possono considerarsi come dei veri segretari del signore di quelle terre, il bonario e sorridente uomo in costume rosso e barba bianca. Il giorno della partenza c’è un gran da fare e una confusione pazzesca, è tutto un via vai di piccoli esseri che a stento si salutano. Corrono avanti  e indietro per fare in modo che Babbo Natale possa partire tranquillo.

- Ehi, Gimpy, hai controllato le letterine dei bambini? Sono state tutte portate al capo? Sai che succede se dimentichiamo qualcuna, vero?

 

- Tranquillo, Itty Bitty, ho controllato fino a un minuto fa, la cassetta era vuota, tutte le lettere sono state soddisfatte

 

- Bene, allora se hai un minuto vuoi chiedere a Sausage se ha dato da mangiare a sufficienza alle renne? Ti ricordi l’anno scorso si era dimenticata e quelle povere bestie hanno sofferto per tutto il viaggio? Ha ragione poi Rudolph ad arrabbiarsi con me, sono io che devo pensare a tutto.

 

- Già fatto, Itty, mi ha assicurato che questa volta è stata molto attenta, è riuscita a mettere anche qualcosa di riserva sotto il piano di appoggio. Certo però che quest’anno l’abbiamo riempita a dovere quella povera slitta, è piena come un uovo, meno male che abbiamo la macchina che rimpiccolisce, altrimenti come avremmo fatto a caricare tutti quei pacchetti.

I due parlavano e nello stesso tempo tenevano sotto controllo il via vai forsennato degli altri. Babbo era ancora chiuso nel suo ufficio a leggere le ultime letterine e a dare uno sguardo più attento alle liste dei buoni e cattivi. Quando le lesse storse un po’ il naso, quella dei cattivi si allungava ogni anno di più.

“Possibile - si chiedeva - che i bambini non siano più bravi come una volta? Cosa c’è che li fa diventare più monelli? Questa faccenda va chiarita al più presto, altrimenti l’anno prossimo ci troveremo in difficoltà, ho troppa gente a lavorare, dovrei licenziare qualcuno e, detto tra noi, la cosa non mi va a genio. Subito dopo Natale ci metteremo a tavolino e studieremo cosa si può fare. Sono sicuro che la colpa non è tanto dei bambini, ma dei genitori troppo teneri e di quelle diavolerie elettroniche. I cellulari, una vera piaga mondiale. Per colpa di quei cosi i bambini stanno perdendo di vista lo spirito del Natale e, senza quello, io che ci sto a fare?

Così pensava Babbo mentre compiva gli ultimi gesti, chiuse tutte le letterine e le liste nel cassetto della scrivania e si accinse a uscire.

- Allora, ragazzi, siamo pronti? Avete fatto tutto? Mi raccomando abbiamo ancora qualche minuto, fate un ultimo controllo che dopo si parte.

Gli elfi chiamati in causa si precipitarono, ognuno secondo le proprie mansioni, per gli ultimi ritocchi. In aiuto a Itty Bitty e Gimpy arrivarono anche Sausage, Door way, Pot licker, Gully e altri. Sembravano delle formiche impazzite, correvano come matti, il padrone aveva chiesto controlli e loro obbedivano come sempre avevano fatto da mille anni a questa parte. Si perché gli elfi non hanno età, ci sono da sempre e ci saranno per sempre. Quando tutti si ripresentarono davanti  al loro capo sull’attenti per dare ognuno il proprio ok, si accorsero che ne mancava uno. Sì perché quelli fidati erano tredici e, contandoli in fila, Babbo ne contò dodici.

- Allora, si può sapere chi manca, che succede? Lo sapete che se tutto  non è in ordine non posso partire, andate a cercarlo adesso, non posso fare più tardi, devo andare.

 

- Capo, credo di sapere chi manca, è Candle beggar, lui è un po’ lento ma è bravo e scrupoloso, se tarda avrà trovato qualcosa d’insolito.

 

- Lo so, è un bravo elfo, ho capito, mi toccherà aspettare.

 

- Eccolo, eccolo, sta arrivando e, da come corre, credo proprio che abbia trovato qualcosa – gridò Window Peeper

 

- Babbo, Babbo, fermatevi per carità, non ce la faccio più.

 

- Tranquillo –rispose Babbo Natale, ti aspetto! Cosa hai trovato per me?

 

- Stavo facendo il giro in ufficio quando ho sentito la stampante in funzione, mi sono fermato a vedere perché, qualcuno l’aveva lasciata accesa e, mentre stavo per spegnerla, ha buttato fuori un foglio. L’ho preso, l’ho letto e ho fatto una corsa per portarvelo. È una letterina di una bambina malata. Voleva scrivere lei la letterina ma non ce la faceva e allora… sarà meglio che la leggiate voi. Io riprendo fiato.

 

- Bravo Candle, hai fatto benissimo, ti ringrazio. Era una lettera che non poteva andare persa, ho letto cosa è successo e sai che ti dico? Che questa sarà la mia prima tappa, andiamo subito da lei, ha bisogno di sapere che noi ci siamo ancora e che non è sola. Lei è malata e dispera di poter ricevere qualche dono, i medici non hanno dato buone notizie, ma lei ha insistito tanto per farmi arrivare questa lettera, gliela ha scritta una  gentile infermiera, ma è stata spedita in ritardo. Va bene, bando alle malinconie, ora possiamo partire. Mi raccomando a voi, mettete tutto a posto e, tranquilli, ci vediamo domani e cominceremo subito a discutere su cosa fare per il prossimo anno.

Vaaai Rudolph, accendi la luce di quel tuo bel nasino e andiamo! Prima tappa questa bambina in ospedale, ho l’impressione che questi medici non capiscano niente, vedrete, ragazze mie, quando riceverà i nostri doni sono sicuro che guarirà, ci scommetto la mia barba.

Al suono dei mille campanellini attaccati ai finimenti delle renne, la slitta si allontanò nel cielo e, nel silenzio delle stelle, risuonò come un’eco la voce di Babbo che cantava:  ohhh oh oh ohhh.

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Il libro magico

17 Dicembre 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto, #una settimana magica

                                     

 

                                    

 

 

 

Oltre il regno della neve e del gelo dove vive Babbo Natale con gli elfi e le sue amate renne, andando verso oriente e camminando per giorni e giorni, si arriva in una città chiamata  Blacktown. Un posto altrettanto freddo, ma del tutto privo di luce, di alberi e di animali. In quelle terre c’è un silenzio spettrale e il colore dominante è il nero. Quella che da lontano sembra una foresta in realtà è una foresta di alberi di pietra. Sono stati ridotti così quando il mago li ha avvolti nel buio più profondo. Un’oscurità che avvolge tutto e tutti. Il signore e padrone di quella terra oscura è un nemico di Babbo Natale, il mago Negrone che odia tutto ciò che è bianco, che è luce. Vorrebbe dominare tutto il mondo e avvolgerlo nel buio. Sa che finché non troverà il magico libro degli incantesimi non riuscirà ad attuare il suo piano. Per questo motivo fa spiare sempre dai suo accoliti le mosse di Babbo Natale, è convinto che lui possieda quel libro e vuole trovare il modo di rubarlo. Ogni Natale, quando Babbo è in giro per distribuire i doni e far felici i bambini, il mago complotta contro di lui. Manda schiere di uomini neri a invadere il regno degli elfi, ma ogni volta, puntualmente, viene ricacciato indietro, gli elfi sono piccoli ma sono numerosi e furbi. Riescono a nascondersi dietro ogni sasso, ogni pianta che è nella loro foresta. Loro sanno come muoversi fra gli alberi e i cespugli, mentre gli uomini del mago, non sopportando la luce, hanno difficoltà a districarsi in mezzo alle piante che emanano bagliori scintillanti.

Questa volta il mago ha deciso di cambiare tattica, inutile mandare gli uomini neri, parte lui di persona e si avvicina alla foresta. Resta nascosto nell’angolo più oscuro e aspetta che qualche elfo passi da quelle parti. Con un incantesimo vuole soggiogarli e, tramite loro che non hanno difficoltà con la luce, introdursi nel regno del bianco in cerca del libro. Babbo è lontano e gli elfi non sono in allarme, questa volta è deciso a trovare il libro.

Aspetta e aspetta, ma dalle parti oscure dove si è nascosto il mago non passa nessuno, allora, irritato, il mago tenta il grande colpo: si traveste da pellegrino, prende una pozione, che gli permette di sopportare la luce e il bianco, ed entra nel paese di Babbo Natale. E’ sicuro di sé, come avversari ha solo un pugno di piccoli elfi che lui può spazzare via senza difficoltà, il suo principale nemico è in giro sulla sua slitta.

- Ah ah ah ah,  quell’omone grasso e stupido se ne va a perdere tempo su quella ridicola slitta a portare regali a dei mocciosi sempre più viziati. Chiedono, chiedono, non si accontentano mai, ma, quando li avrò avvolti nel buio della notte eterna, avranno poca voglia di giocare, diventeranno docili come agnellini. Devo solo trovare quel maledetto libro, sono sicuro che quel grassone lo tiene da qualche parte, magari a portata di mano per i suoi incantesimi, senza quelli vorrei sapere come fa a far volare quelle stupidissime renne piene di corna.

 

Gli elfi, messi di sentinella, avevano sentito prima, e visto poi, il mago introdursi furtivamente sul sentiero che portava a casa di Babbo. Avevano dato l’allarme e ora erano tutti nascosti nelle vicinanze della casa in attesa del nemico. Sapevano che il mago era forte e usando la magia li poteva sconfiggere, ma non per questo si sarebbero ritirati senza combattere. Molti di loro sarebbero caduti ma erano sicuri che confidando sul numero potevano avere la meglio.

- Ragazzi stiamo calmi e pronti, restate nascosti e non fatevi vedere, mi raccomando, siete tutti armati? Bene aspettiamo che sia a tiro poi ci scaglieremo su di lui senza dargli il tempo di usare le mani, se riesce a lanciare un incantesimo per noi è finita. Qualcuno di voi vada ad avvisare Gertrude, che stia in allerta, forse anche lei corre un terribile pericolo .

Vado io, disse uno degli elfi, uno più piccolo degli altri, era quasi invisibile se si nascondeva fra l’erba alta. Ci vado io perché sono piccolo e posso intrufolarmi meglio.

Detto questo si mise a correre verso la casa, passava da un cespuglio all’altro e questa operazione la faceva talmente veloce che nemmeno i suoi amici riuscivano a vederlo. Arrivò alla casa avvolta in una serpentina di luce, bianca e rossa. Riuscì ad entrare e andò dritto a parlare con la donna che era in cucina impegnata a cucinare dei biscotti per la cena di Natale. Fu il profumo dei biscotti che guidò i passi del piccolo elfo.

 - Buonasera signora Gertrude, mi vede? Sono venuto da lei per comunicarle che corre un grande pericolo. Stia attenta a chi da questi biscotti. Il servizio di vigilanza funziona a metà questa sera,  il mago Negrone è riuscito ad entrare in città e ora gira per le strade, noi le raccomandiamo di non uscire e restare in casa.

 

- Non credo una parola di quello che dici, piccolino, non credo che sia così avventato da entrare addirittura in città. Lo sa che noi abbiamo i mezzi per distruggerlo. Basta che accendiamo i riflettori del campo sportivo e qui diventa mezzogiorno. Non credo gli faccia tanto piacere un trattamento simile.

 

- Si sbaglia, signora deve aver fatto qualche sortilegio, sta camminando in città con tutta luce che c’è e sembra non fargli nessun effetto, è pericoloso. Se è venuto da noi, è chiaro che sa che lo può fare, purtroppo Babbo non c’è,  noi siamo tanti è vero, ma lui usa la magia e può sconfiggerci facilmente.

 

- Bene, mio piccolo amico, se pensa di avere vita facile ha sbagliato indirizzo, non permetterò che un tipo come quello metta a rischio il mondo intero. Prima cosa il libro che cerca è nascosto così bene che gli servirebbe una vita intera per trovarlo e seconda, visto che è venuto a trovarci bisognerà pure accoglierlo degnamente, non trovi? Adesso vai ad avvisare i tuoi compagni di mettersi tutti intorno alla casa ma di non fiatare di non fare niente. Osservate e basta, lasciate che arrivi da me, che entri pure in casa, non credo sappia che ci sono io ad aspettarlo. Solo se le cose si mettessero male, intervenite, ripeto, solo se vedete che ha la meglio su di me. Capito?

 

- Sì, signora, vado subito ad avvisarli, lei è davvero coraggiosa. Auguri,  ora scappo.

Così dicendo s’intrufolò in un buco nella parete della cucina, quello che serviva per far uscire i cattivi odori e scomparve. Gertrude si allontanò per un attimo per poi tornare quasi subito. Si mise seduta davanti alla porta e aspettò. Passarono più di dieci minuti prima che la maniglia della porta si muovesse leggermente, qualcuno stava tentando entrare, la moglie di Babbo se ne accorse e si alzò mettendosi dietro  la porta. Quando  questa si socchiuse, e poi si aprì del tutto per far entrare il mago avvolto in un mantello nero, lei, da dietro, senza nemmeno dire una parola, uscì e cominciò a calare sulla testa del mago violenti colpi con un matterello lungo un metro, era un matterello duro e pesante e ad ogni colpo che lei menava la testa scricchiolava sotto la furia della donna. Bastarono altri pochi colpi per ridurre uno straccio il malcapitato. Ora era disteso per terra svenuto, la testa era piena di bernoccoli grossi come uova. La donna, per nulla intimorita, cominciò a spogliarlo, gli tolse tutti gli indumenti neri lasciandolo seminudo.  Poi accese tutte le luci e lo mise sotto il fascio illuminato. La pelle del mago era bianca perché non aveva mai preso sole e sotto il calore delle lampade cominciò quasi a sfrigolare. Quando sentì il calore scendergli dentro, il mago si svegliò e emise un urlo disumano, cercò qualcosa per difendersi da quella luce che gli stava riscaldando il cuore e lui non voleva assolutamente. Gertrude lo aveva legato per bene e lui dovette subire quella tortura fino a quando il suo cuore nero si sciolse e si aprì al caldo tepore. Il suo viso si trasformò, da arcigno e duro, in uno completamente diverso, divenne un uomo dai lineamenti delicati, nonostante l’età adesso aveva la pelle di un giovane. Gertrude lo liberò dalle corde, ormai non c’era più pericolo e, gli offrì una cioccolata calda. Si misero a parlare come due vecchi amici. Passarono tutta la notte della vigilia di Natale a parlare. Il mattino seguente li vide ancora a chiacchierare, quando Babbo rientrò dalla sua notte magica li trovò addormentati sulle sedie con la testa sul tavolo. Del libro magico non si parlò più e il regno dell’oscurità si aprì alla luce e i diavoli neri tornarono allo stato primitivo di quando erano stati catturati e resi schiavi dal mago. Erano dei folletti dei boschi che furono felici di tornare alle loro case. La magia del Natale e le legnate di Gertrude avevano rotto l’incantesimo.

 

    

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Il sognatore

4 Settembre 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

 

 

 

Si era svegliato di soprassalto in preda a uno spavento incredibile. Gli mancava il fiato. Il sogno che aveva fatto era stato terrificante. Aveva sognato di trovarsi su un pianeta deserto, solo nell’immensità dello spazio. Lui, che era sempre stato un uomo attento a ogni gesto e tutto ciò che faceva era mirato per distinguersi fra la folla. Un gentiluomo di altri tempi elegante e raffinato, la testimonianza vivente di un’epoca che, purtroppo, stava per finire. Oltre l’orizzonte arrivavano cupi brontolii, lampi di guerra sempre più vicini. Quella che stava per finire era un’epoca dove la parola onore aveva ancora un significato, dove uomini dabbene si sfidavano a duello per un nonnulla, proprio in difesa di quella parola tanto in voga.

Gli uomini si dimostravano sempre disponibili e premurosi verso il gentil sesso, salvo poi soffrire per i loro rifiuti. Frac, tuba e bastone erano l’abbigliamento abituale, non usciva di casa se non era vestito in quel modo impeccabile. Lui, un uomo così distaccato e al di sopra delle cose del mondo, nel sogno, si trovava su un punto imprecisato dell’universo a guardare il mondo ai suoi piedi, una sensazione di potenza ma priva di quell’eleganza alla quale lui era abituato, senza un pubblico ad assistere al suo savoir faire. La sensazione lo pervadeva le prime volte che faceva questo sogno, poi, con il ripetersi quasi ossessivo della visione onirica, la cosa stava diventando una tortura.

L’ultima notte si era ritrovato non più su un pianeta ma su una  semplice scala, una di quelle adibite per salire sugli aerei. Da quel piccolo punto vedeva ancora il mondo davanti a lui e aveva l’impressione di dominare il globo, ma alle sue spalle i rifiuti si accumulavano sui gradini e salivano sempre di più, fino a sommergerlo del tutto.

Si chiedeva, nei pochi momenti di lucidità, quale potesse essere il significato del sogno; quei simbolismi così chiari cosa volevano dirgli? Perché non c’era ombra di dubbio che qualcosa dovevano pur significare.

Quando quella mattina si era svegliato sudato e ansimante, per calmarsi si era messo seduto nel letto a pensare, cercando d'interpretare l’arcano. Forse il riferimento era basato sulla sua vita inutile, fatua, senza valori concreti, quel suo atteggiamento da viveur non aveva senso, lui pensava di essere al di sopra delle parti, di dominare il mondo, mentre la dura  realtà di tutti i giorni lo voleva stringere nelle sue spire, nel suo sudicio iter quotidiano.

Gastone, l’ultimo viveurtomber de femme, era arrivato a capolinea. Il mondo per lui ormai era troppo lontano, non poteva mescolarsi con quella pletora di persone anonime, nessuno era alla sua altezza, dov’erano le gran dame dell’alta società, dov’era il suo mondo di paillettes e champagne? Stava scomparendo nelle nubi nere che si addensavano all’orizzonte. Prima se ne rendeva conto, prima quel sogno poteva scomparire. La prospettiva di un suo coinvolgimento nella vita di tutti i giorni era quanto di più nefasto potesse mai immaginare. Mai poteva accettare una conclusione  simile.

La  sera andò a dormire, come sempre, al ritorno dall’ultimo tabarin rimasto aperto. Poche ore di sonno ed eccolo, il consueto tremendo sogno che lo aspettava come tutte le notti. La mattina al risveglio non cercò di capire, né di opporsi al destino. Si vestì di tutto punto come ogni giorno e lentamente si avviò verso la parte alta della città percorrendo il viale alberato che costeggiava il fiume. Giunse al ponte e lì, finalmente, il sogno andò in frantumi, quel mondo che pensava di dominare si dissolse nelle fredde acque di un fiume sporco e maleodorante che lo accolse. Un uomo fuori dal tempo, che non sarebbe sopravvissuto oltre il suo mondo, negli schemi di una vita che non era e non poteva essere la sua.   

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Nasce Green Peace

11 Agosto 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

                                

 

 

 

La radio ufficiale di  Grunland, piccolo regno del lontano nord, aveva annunciato da pochi giorni lo stato di autarchia e la legge marziale che imponeva il coprifuoco serale. Un isolamento della nazione da ogni contatto con il mondo esterno. Le autorità del paese avevano intenzione di scoraggiare ogni rapporto commerciale con altri paesi esterni. Il loro territorio era, per la maggior parte dell’anno, soggetto a congelamento per il perdurare del periodo invernale, trovandosi a latitudini molto a nord.

La vita era già difficile in quelle condizioni, adesso, con le ulteriori restrizioni emesse dal governo centrale, per gli abitanti diventava ancora più dura. Le risorse per l’alimentazione e per il riscaldamento erano, da sempre, legate al mare, e ogni individuo, maschio o femmina, doveva essere in grado di ricavare da quelle acque gelide la scarsa quantità di cibo necessario alla sopravvivenza. Le prede più ambite e ricercate erano le balene, dalle quali ricavano sia cibo, sia provviste di olio combustibile. Le nazioni limitrofe avevano stipulato un accordo per ridurre drasticamente il numero di uccisioni di questi animali in via di estinzione, ma il governo di Grunland aveva disertato la riunione, dicendo che per loro quel trattato era nullo. Loro, senza le balene, non potevano sopravvivere, da qui le misure restrittive emanate poco dopo.

Visto il perdurare di condizioni estreme di vita, un gruppo di giovani, di estrazione ambientalista, decise di opporsi al regime e tentare un’azione sovversiva. Si riunivano tutte le notti su un isolotto ghiacciato, che si era formato al largo di un pezzo di costa particolarmente battuto da venti del nord. A ogni riunione si ribadiva la necessità di organizzare azioni di disturbo nei confronti degli enti governativi preposti alla pesca alle balene e a tutto l’indotto che seguiva. In seguito, se ci fosse stata necessità, organizzare dimostrazioni di piazza in terre non troppo lontane, dove non c’erano tutte quelle leggi nettamente in contrasto con le linee dettate dal buon senso, salvaguardare la stessa esistenza degli ultimi cetacei.

 

"Ragazzi, allora siamo decisi a compiere questo passo, ormai non possiamo più aspettare, se arriva l’inverno non saremo in grado di muoverci fino a primavera, quindi ora o mai più."

 

"Sì, parli, parli, ma di concreto cosa hai fatto tu per realizzare questa impresa? Siamo tutti d’accordo che dobbiamo tentare, ma come facciamo, andiamo a piedi?"

 

"Che vuoi dire?"

 

"Che, se non troviamo una barca, non andiamo da nessuna parte, con il ghiaccio che sta cominciando ad arrivare, la vedo dura muoversi in lungo e in largo per le isole qui intorno."

 

"Hai ragione, Olaf, ci vuole un mezzo, uno qualsiasi che sia in grado di portarci oltre lo stretto che ci divide dallo spazio esterno. Ognuno di voi si dia da fare, cerchi, domandi in giro. Dite che serve per delle battute di pesca alternativa, vogliamo dare il nostro contributo al benessere della nazione in un altro modo, evitando di uccidere balene. Potete dire che vogliamo formare una specie di cooperativa per pescare tutti noi giovani, vedete che qualcosa riusciremo a farci dare."

 

Una settimana dopo, alla consueta riunione nel loro covo, il sito era già in parte coperto da ghiaccio, ma i visi dei ragazzi erano distesi e sorridenti. Greg, quello più intraprendente, era riuscito a trovare un battello. Tutti si precipitarono fuori per andare a vedere questa barca, quando arrivarono al molo e la videro, grande fu la delusione

 

"E questa la chiami barca?" esclamò Hans, quello che faceva funzioni di capo nel gruppo. "Questo è un rottame, e, oltre tutto, lo conosco bene, lo zio di Ingrid,la mia ragazza, lo ha lasciato abbandonato sulla costa che dà sul lato nord, come hai fatto a farlo arrivare fino a qua, me lo dici?"

 

"Come ho fatto? Semplice, gli ho dato una ripulita, ho fatto il pieno e ho messo in moto, ho navigato lungo il canale e sono arrivato qua, nessun problema, ha tossicchiato un po’ ma niente di grave. Sembra vecchia e decrepita, forse lo è, ma, per quello che dobbiamo fare noi, è perfetta, basta lavorarci sopra un po’, siamo tutti bravi in qualcosa: una revisione al motore, che è la cosa più importante, e di questo me ne occupo io, una verniciata, qualche latta di vernice si trova, ne prendiamo una per ogni magazzino dei nostri padri e vedrai uscirà come nuova."

 

"Ma così, corriamo il rischio di avere lattine di colori diversi, ne verrà fuori un casino, saremo riconoscibili anche a chilometri di distanza."

 

"Bravo, sai che non ci avevo pensato? proprio l’idea giusta, vogliamo essere riconosciuti, devono sapere che, quando ci vedono arrivare, sono dolori per loro. Saremo la loro coscienza, li richiameremo a una condotta più adeguata. Ora andate a prendere questa vernice e non vi preoccupate dei colori, prendete tutto, noi intanto faremo quanto serve, se ci sono altre cose da fare sta sicuro che le faremo. Quando si vuole ottenere un risultato non si guarda tanto per il sottile. Al momento sembra che questa barca sia brutta, scrostata e malandata. Va bene così, tieni presente che è come invisibile, nessuno farà caso a lei, così noi, intanto, potremo andare dove vogliamo. Dopo, però, quando sarà visibile, ci faremo vedere e come. La libertà non la si ottiene senza sacrifici e sofferenze, anche se dovessimo spingerla a remi, vedrete che ce la faremo. Adesso basta parlare, venite, saliamo a bordo, staremo più al caldo e possiamo anche cominciare a vedere i lavori che ci sono da fare.

 

 

 

 

 

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La giustizia

9 Agosto 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

 

   

                                         

 

 

 

Il giudice Macaluso uscì di casa nervoso e assonnato, non aveva chiuso occhio per tutta la notte, aveva studiato le carte del processo, un rompicapo che gli avvocati delle due parti non riuscivano a risolvere. Si stava recando in tribunale, con la speranza di chiudere questa faccenda, ma era sicuro di dover rimandare ancora una volta la sessione, non erano emersi elementi nuovi. Lui voleva andarsene a pesca, invece doveva restare a sorbirsi i battibecchi dei due avvocati, ormai era diventato un braccio di ferro fra i due, per loro era importante solo vincere la causa, dell’imputato e del delitto ormai non importava niente a nessuno dei due.  

Arrivato nel parcheggio, lasciò la macchina e salì la grande scalinata che portava alle aule. Nel suo studio si liberò della borsa e indossò la toga, guardò l’orologio e decise di avviarsi verso l’aula.

La sala dell’udienza era gremita come sempre, il caso stava suscitando curiosità nella gente. Un processo in odore di mafia provocava sempre interesse.   

Il giudice entrò, mentre veniva annunciato il suo ingresso.

 

"Signori entra la corte!"

 

Il giudice sedette al suo scranno e, già dal tono della voce, gli avvocati capirono che era di malumore.

 

"Prima di iniziare la seduta vorrei ricordare ai due avvocati di evitare scaramucce verbali,  andiamo avanti così da mesi, se avete delle novità, procediamo, altrimenti rimandiamo a data da destinarsi, posso anche archiviare il caso."

 

"Vostro onore," rispose sollecito il procuratore "abbiamo un altro testimone e spero sia decisivo per concludere presto la questione."

 

"Bene! Chiami il suo testimone e sentiamo."

 

"Chiamo a deporre la signora  Concetta Pelliccia."

 

La teste, un'anziana signora sui settanta anni, venne al banco con lo sguardo acido e altezzoso. Dopo il giuramento di rito, il procuratore iniziò il suo interrogatorio.

 

"Bene! Ci vuole raccontare con esattezza cosa ha visto la sera in cui è stato commesso il delitto?"

 

"Certo avvocato, la sera del 10 ottobre ero alla finestra, sa, soffro d’insonnia, e ho  visto quel delinquente che veniva avanti…"

 

"Obiezione! Vostro onore, si esprime un giudizio non richiesto sull’imputato."

 

"Accolta, avvocato eviti al testimone di fare apprezzamenti, si limiti a esporre i fatti."

 

"Sì vostro onore, allora signora, dica solo quello che ha visto."

 

"Come stavo dicendo, avvocato, quel brutto ceffo, stava camminando…"

 

"Obiezione, irrilevante e non pertinente, la teste insiste, non è possibile!"

 

"Accolta, un’altra obiezione, avvocato, e dovrò annullare la testimonianza."

 

"Signora la prego,  dica cosa ha visto."

 

"Avvocato, se m’interrompono… volevo dire che… quello lì, stava passando sotto casa mia e andava nella direzione del portone della vittima, non c’era anima viva per la strada, deve essere stato per forza lui, ha la faccia dell’assassino!"

 

"Obiezione! Irrilevante, discriminatorio, Vostro onore, la teste non può esprimere opinioni e conclusioni, chiedo che questa testimonianza sia annullata, la teste è prevenuta e pertanto non attendibile. La sua dichiarazione sia stralciata dagli atti."

 

"Accolta, sospendo la seduta per trenta minuti, voi avvocati, nel mio studio subito."

 

Il giudice era esasperato, possibile che il procuratore non capisse! La sua teste era inutile e prevenuta per giunta. Tempo perso, ma la cosa che gli dava maggior fastidio era che quei du, agivano sempre a discapito della legge e della verità.

 

"Bene signori,"esordì il giudice "sapete perché siete qui, non si può andare avanti, nessuno dei due riesce a produrre prove concrete. Dopo mesi di dibattito siamo ancora a zero, a voi, forse, non importa, ma a me sì, vi do un'altra settimana di tempo poi scioglierò il procedimento e archivierò il caso, l’imputato sarà assolto per non aver commesso il fatto. Vi piaccia o no, questa è la linea che seguirò. Trovate prove sufficienti e andremo avanti, altrimenti si fa come dico io, intesi?!"

 

"Come vuole, signor giudice," disse il procuratore, "non credo di riuscire in una settimana a trovare prove utili, peccato! Rimetteremo un assassino in libertà."

 

"Non è vero, giudice," rispose l’avvocato delle difesa, il mio assistito è innocente fino a prova contraria, quindi deve essere assolto. Io non devo dimostrare niente, è il procuratore che deve esibire prove schiaccianti di colpevolezza, vuol dire che aspetteremo una settimana. Signor giudice, se è tutto, io andrei, voglio dare la notizia al mio cliente."

 

Uscito l’avvocato difensore, gli altri due si guardarono per un attimo con un lampo di complicità.

   

"Bel colpo, amico mio, come ti è venuto in mente di far testimoniare quella vecchia rimbambita? Davvero un colpo di genio, ora posso accelerare i tempi, e chiudere questo processo, è durato anche troppo."

 

"Cosa vuoi che dica? Sappiamo entrambi a chi appartiene l’imputato, non potevo fare altrimenti, si doveva trovare un modo legale di affossare il procedimento. Con la testimonianza della vecchia abbiamo fatto centro. Ora potrai chiudere il caso senza che nessuno possa gridare allo scandalo. Tutto in perfetta regola, secondo giustizia."    

"Ben fatto! Aggiungo anche che, al momento, non ci sono pentiti, mio caro procuratore, che possano smentire il nostro operato, specie il tuo, in tutti questi mesi non sei stato capace di trovare un motivo valido di incriminazione. L’avvocato difensore, poverino, è convinto che di aver vinto la causa, si vede che è giovane e inesperto."

 

"Bene! Allora d’accordo, faremo l’ultima sessione e dichiarerò l’imputato innocente per non aver commesso il fatto."

 

"Giudice, noi sappiamo che è colpevole, non credi che la giustizia possa fare una brutta figura?"

 

"Tu dici? A questo punto, cosa vuoi che faccia, tu non sei stato capace di trovare uno straccio di prova, io sono solo il giudice, che decide in base alle prove, se non ce ne sono!  Il caso è chiuso. Al limite tu non ne uscirai proprio bene, una causa persa, ma una barca nuova a mare, o sbaglio!"

 

Entrambi sorrisero a questa battuta.

 

"La giustizia trionfa sempre, anche quando sbaglia, questo dovresti averlo capito da tempo, spero."

 

"Per come la vedo io, la giustizia è imparziale, un assassino in libertà o un innocente condannato, per lei sono la stessa cosa, hanno lo stesso peso sulla sua bilancia."

 

Detto questo il giudice si tolse la toga e prese sottobraccio l’avvocato, quando uscirono dallo studio stavano ancora ridendo.

 

 

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Lo stregone

7 Agosto 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

 

 

 

 

Il Re era stato chiaro quando aveva ordinato ai suoi migliori cavalieri di andare nelle terre del mago Oblivius, dovevano cercarlo e, se possibile, ucciderlo. Sapeva bene che era un’impresa ai limiti delle possibilità, il mago era troppo potente e le spade non servivano a molto se non riuscivano ad avvicinarsi a lui. Sei cavalieri erano partiti, pronti a morire pur di portare a termine la missione.

Giunti senza troppi problemi nel regno del mago non trovarono molto. Una campagna brulla e desolata, senza dimore o castelli, solo una terra arsa, come se ci fosse passato sopra un vento di fuoco. Dopo aver percorso molta strada all’interno di quell’inferno, che ancora puzzava di fumo, videro un'enorme costruzione che si stagliava nel deserto. Erano i ruderi di un antico tempio. 

Quando arrivarono nelle vicinanze, tutti convennero che si trattava di una basilica cristiana distrutta. Quello che rimaneva era uno scheletro di pietra, alto e imponente, che dimostrava, con la sua grandezza, un antico splendore. Girarono tutto intorno per cercare il mago, si erano convinti che quei ruderi fossero la sua dimora. Avvertirono intorno a loro un’aria strana, si sentiva un odore molto intenso e forte, che sembrava avvolgere tutta al costruzione. Era un odore indefinito, un insieme fra il tanfo di una cloaca e un campo di fiori di lavanda. I cavalieri sguainarono le spade e si sparsero nell’area, dietro ogni colonna poteva esserci un pericolo. Il mago sapeva usare la magia e non aveva bisogno di avvicinarsi, loro dovevano per forza usare le spade. Dopo più di un’ora di questa ricerca alla fine si arresero e si sdraiarono per terra.

"Credo che non ci sia, abbiamo esplorato tutto il sito e non c’è niente, se avesse voluto ucciderci lo avrebbe fatto senza nemmeno che noi ce ne accorgessimo."

 

"Non credere, quello è un gran furbone, si sarà nascosto da qualche parte, doveva uscire allo scoperto se voleva ammazzare qualcuno, forse ne avrebbe uccisi due o tre di noi, poi penso che alla fine lo avremmo beccato."

Mentre parlavano sdraiati per terra, uno di loro alzò gli occhi  e si accorse di un fenomeno strano, le rovine in alto avevano una forma strana. Di quello che era stato una volta il tetto adesso restavano poche travi, mattoni e larghi squarci. Nel guardare quei vuoti, il soldato individuò due grandi occhi e, al centro, uno spazio molto più grande, come un’enorme bocca aperta per divorare chiunque si trovasse all’interno della costruzione. La vista di quella terrificante maschera gli procurò un brivido lungo la schiena. Quella visione era qualcosa di spaventoso e macabro.

Si alzò piano e, con la mano, invitò i suoi amici a fare altrettanto, ma con la massima cautela. I suoi commilitoni non capivano il senso di quella prudenza, ma, conoscendo le doti intellettive del loro compagno, fecero quanto diceva. Per prima cosa lo videro allontanarsi dal centro dei ruderi e mettersi all’aperto, poi, con colpi decisi della spada, cominciò a battere contro le colonne esterne della costruzione. A questo punto i compagni, incuriositi dalle sue manovre, chiesero spiegazioni.

"Insomma, Laerzius, si può sapere cosa ti è preso? Non vorrai abbattere le colonne con la spada."

 

"Ragazzi, per favore, abbiate fiducia in me, abbiamo corso un tremendo pericolo e, se non mi credete, basta che entrate un attimo dentro le mura e guardate in alto. Fissate bene lo spazio dove si vede il cielo e quello che resta della cupola. In quanto alle colonne, avete ragione, dobbiamo trovare un altro sistema per abbattere quanto è rimasto in piedi."

I compagni si riunirono e entrarono dentro dalla parte più corta, così potevano avere una visuale completa della navata in alto. Dopo essere rimasti un po’ di tempo a osservare, alla fine capirono il motivo e si precipitarono fuori in preda a una vera paura. Quello che avevano visto era davvero spaventoso. Insieme cercarono nei dintorni qualcosa di adatto a demolire le rovine.

Trovarono poco distante un tronco abbandonato bruciato, in parte, dal fuoco, ma ancora solido e robusto, dopo averlo sagomato con le spade, lo presero tre per lato e, come un ariete, presero a martellare le colonne portanti di quelle rovine, al primo colpo poderoso, assestato alla colonna più vicina, si udì chiaramente un cupo lamento. Era il segno che avevano indovinato la strategia per sconfiggere il mago. 

Continuarono senza sosta a martellare tutte le colonne e i muri esistenti, ma sempre dall’esterno verso l’interno. Ad ogni colpo i lamenti aumentavano d’intensità. Lo stregone, per mimetizzarsi era ricorso a quello stratagemma. Aveva  assunto quella forma, ma così non poteva reagire, per farlo doveva trasformarsi di nuovo in umano, ma, a quel punto, i cavalieri lo avrebbero  facilmente  ucciso, cosa che fecero lo stesso, quando delle maestose rovine non restò più nulla.

Quando cadde l’ultima pietra e l’interno delle rovine era, ormai, coperto solo da pietre sbriciolate, il mago si materializzò in un corpo umano, vecchio e rugoso. Era rimasto seppellito dalle stesse pietre in cui si era trasformato. Era moribondo, ma cercò lo stesso di alzare le mani per fare qualche incantesimo. Per non correre rischi, sei spade s’immersero in quella figura. A contatto dell’acciaio lo stregone si dissolse in una nuvola di polvere.

I guerrieri, dopo essersi congratulati a vicenda per la riuscita della loro missione, si accinsero a partire. Si erano allontanati di pochi metri dalle rovine quando nell’aria si udì, sinistra, una voce imperiosa e lugubre.

"Avete vinto una battaglia, poveri illusi, avete ucciso quel corpo ormai vecchio, ma il mio spirito non è morto, tornerò, potete essere sicuri, tornerò per portarvi tutti nelle viscere della terra." 

Dopo che i sei erano rimasti fermi ad ascoltare, atterriti e tremanti,si udì una grossa risata.

"Ah, ah ah ah ah, tornerò, tornerò!"

Mentre i guerrieri si allontanavano di corsa da quelle rovine, la voce dello stregone si faceva sempre più debole, più flebile, fino a svanire nel silenzio.  

 

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