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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

lorenzo barbieri

L'abbazia

7 Maggio 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

 

 

 

 

La potente vettura sfrecciava, rombando, attraverso la campagna assolata. Una zona pianeggiante interamente coltivata a girasoli, ma gli occupanti della macchina non davano importanza al panorama. Lui al volante era occupato alla guida e, alla velocità con cui procedeva, non poteva distrarsi, lei invece se ne stava distesa sdraiata al suo fianco. I due erano in viaggio di nozze e, anche se stanca, Simona era felice vicino al suo sposo. Federico si voltò a guardarla, mentre affrontava una curva, i loro sguardi s’incontrarono, si sorrisero; la luna di miele continuava.

 

"Ho sete"

"E allora?"

"Come, allora, ho sete e fa un caldo tremendo, non possiamo fermarci da qualche parte?"

"Hai visto nello zaino? Ci dovrebbe essere un thermos."

"Ho visto ed è vuoto, che faccio?"

"Come fai? Aspetti, come faccio io, siamo in aperta campagna, nessun posto dove fermarci."

"Non sai cosa pagherei per una sorgente, un fiume, un lago, qualsiasi cosa purché sia liquida."

"A proposito di liquidi, Fedino, oltre a bere dovrei anche…"

"Cosa? Non capisco."

"Insomma mi scappa, è da stamani che non ci vado, dobbiamo fermarci per forza."

"Possiamo fermarci anche subito, le piante sono alte per nasconderti e poi non passa nessuno."

"No, non sono proprio capace così all’aperto, resisterò ancora un po’, però alla prima fattoria ci fermiamo, chiederemo da bere e anche il favore di usare il bagno."

"Stavo pensando a noi due. Tu sei felice?"

"Certo amore, molto felice ma stanco, è da stamattina che guido."

"E io? Ho fame, ho sete, mi scappa e sono distrutta, ma sono felice lo stesso."

 

Simona aveva preso la cartina e stava guardando se ci fosse qualcosa nelle vicinanze da poter sfruttare per le loro esigenze.

 

"Senti, ho visto che fra non molto c’è una deviazione sulla sinistra, c'è un’abbazia, possiamo chiedere asilo, so che i monaci accolgono volentieri i forestieri."

"Ti prego, i preti no, non li sopporto, magari qualche chilometro in più e troveremo un autogrill, meglio direi!"

"Non credo di poter resistere così a lungo, i monaci sono vicini, manca poco e poi non sono preti, non fanno politica come gli altri, dai, siamo arrivati ecco la deviazione."

 

Il cartello era davanti a loro e Federico dovette rallentare per riuscire a fare la stretta curva. 

Dopo un tornante, la strada saliva tortuosa circondata da un fitta vegetazione che nascondeva la visuale. Dopo una serie infinita di curve, finalmente apparve la sagoma maestosa del convento.

L’eco dei colpi sul batacchio risuonò cupo nel silenzio irreale che circondava la costruzione. Lo spioncino si aprì e una voce sottile chiese: "Pace e bene fratelli, cosa vi spinge alla nostra dimora?"

"Buongiorno," rispose Simona "abbiamo visto l’indicazione sulla via maestra e abbiamo pensato che valeva la pena salire quassù, è davvero un posto incantevole, volevamo passeggiare e visitare anche il vostro convento, ma come sempre accade la vita ha le sue necessità, è colpa mia, ho dei bisogni fisiologici che non posso più rimandare."

"Oh! Capisco," fece la voce dietro lo spioncino "noi non potremmo accogliere donne all’interno, ma credo che nel vostro caso faremo uno strappo alla regola, vedo che entrambi avete bisogno di aiuto, adesso vi apro."

La voce, aperto il portone, risultò appartenere ad un frate grassottello con i capelli bianchi, che li accolse e li condusse verso delle celle destinate ai pellegrini, l’unica raccomandazione fu di non parlare, vigeva la regola del silenzio.

La piccola stanza che li accolse era spoglia, ma aveva tutto il necessario per poter assolvere ai loro bisogni. Poco dopo il frate che li aveva accolti bussò alla porta, per condurli dal padre superiore. Lo trovarono dietro una scrivania. Il suo aspetto colpì i due sposini: sulla cinquantina, il viso pieno di verruche e cicatrici, le mani pelose e forti, si alzò dalla sedia per ricevere i due ragazzi, accennò un sorriso che non fece altro che peggiorare il suo aspetto sinistro.

 

"Benvenuti fratelli, ringrazio il cielo che mi permette di fare una buona azione, siamo lieti di poter alleviare le vostre pene, ho già dato ordini per il pranzo, una coppia di freschi sposi non ci era mai capitata, segno del cielo."

"Veramente non direi, padre," intervenne Federico "si tratta solo di una semplice necessità fisica, la vostra abbazia era l’unica soluzione possibile, in questa zona deserta."

"Capisco, ma, nonostante la sua evidente incredulità, non succede nulla che Lui non veda. Ora, se permettete, vi accompagnerò al refettorio per il pranzo, poi potete ritirarvi nella vostra cameretta per un meritato riposo."

 

Il pasto fu consumato in un silenzio irreale. Si udiva solo il tintinnio delle posate nei piatti. Subito dopo furono accompagnati nel chiostro per riposare al fresco degli alberi. Al tramonto i frati cominciarono a ritirarsi e anche i due sposi furono costretti a tornare nella cella. Erano stanchi anche loro e non tardarono a addormentarsi. La notte era tranquilla e silenziosa. Simona ebbe un guizzo nel sonno e si ritrovò sveglia seduta nel letto, Federico dormiva, lei invece sentiva addosso una strana sensazione di disagio, perché si era svegliata? Si accorse di avere freddo, l’aria nella cella era molto fresca, decise di prendere un golf, ma, mentre apriva la valigia, udì degli strani rumori. A quell’ora della notte era più che strano sentire un rumore del genere, leggero, ovattato, uno strano fruscio. Stava per svegliare il marito, ma ci ripensò, non voleva passare per una donnicciola timorosa, forse era solo frutto della sua fantasia. Si avvicinò alla porta, ma non sentì nulla, stava per tornare indietro, quando sentì  di nuovo quel fruscio. Spense la luce e socchiuse appena la porta, tutto era buio, ma in fondo al corridoio vide arrivare un fascio di luci che si muoveva in modo quasi sincrono, venivano verso di lei. Impaurita chiuse il più possibile la porta e lei li vide sfilare uno dietro l’altro ognuno munito di una torcia. Decisa a saperne di più, nonostante la paura, prese un saio trovato nel cassettone e, dopo averlo indossato, si mise a seguirli. Arrivò al refettorio e lo trovò pieno di uomini, alcuni con il saio, altri in borghese. Erano tutti in piedi davanti al tavolo dove avevano mangiato e, da alcuni contenitori posti al centro, prelevavano della polvere bianca per confezionare piccole bustine, grandi come quelle di zucchero. Simona afferrò al volo la situazione e per poco non si tradì con un grido soffocato. Capì che, in quella situazione, la sua vita valeva ben poco se la trovavano a spiarli. Tornò sui suoi passi, con il cuore che batteva all’impazzata. Scosse il marito e, una volta svegliato, gli raccontò cosa aveva visto.

 

"Dobbiamo andar via subito, se si accorgono, ci uccidono e, in questo posto deserto, non ci troveranno mai."

"Calmati, adesso, sai che non è possibile, siamo chiusi dentro, come possiamo fare, dobbiamo comportarci con naturalezza, domani mattina ce ne andiamo e al diavolo i loro traffici."

 

L’alba li colse già pronti e vestiti, con i nervi tesi e, quando il frate venne a chiamarli, sobbalzarono. Il priore li attendeva in giardino.

 

"Buongiorno, cari figlioli, spero che abbiate riposato bene, vi vedo già pronti a partire, non volete fare nemmeno colazione? Qualcosa vi turba,  forse non siete stati accolti bene? Ditemi cosa posso fare per voi."

"Non si preoccupi, padre, è stato tutto al di sopra delle nostre aspettative, ma  deve capire, siamo in viaggio di nozze e vorremmo raggiungere la nostra meta il più presto possibile. Non ci resta che ringraziarvi."

"Non dovete farlo fratelli, è nostro dovere aiutare chi ha bisogno, sono io che ringrazio voi e per farlo vi dono questa scatola, contiene un campionario delle nostre specialità di erbe medicinali, forse non ne avrete bisogno, ma così vi ricorderete di noi. Andate in pace e buon viaggio, il Signore vi protegga."

 

I due si guardarono e Federico capì che la moglie era dubbiosa, ancora non si fidava dei frati nonostante la gentilezza che il priore stava dimostrando. Non potevano fare altro che accettare il regalo e mettersi in macchina. Appena partiti, Simona sfogò tutto la sua frustrazione.

 

"Maledetti ipocriti e delinquenti, seee...  erba medica dice lui, te la do io l’erba, che faccia di bronzo. Andiamo via subito alla prima caserma dei carabinieri li denuncio!"

"Dai, amore! Stai calma, adesso, siamo fuori pericolo e questo è il necessario, e poi non è detto che hai ragione tu, anche se non mi piacciono, sembra che in fin dei conti si siano comportati in modo impeccabile, forse ti sei fatta suggestionare, ora calmati respira a fondo e godiamoci il viaggio."

 

Simona, ancora scura in volto, si mise seduta e, dopo essersi calmata, spinta dalla curiosità, aprì la scatola avuta in regalo, forse aveva ragione Federico. Poteva essersi impressionata. Nella scatola trovò una quantità di bustine, uguali a quelle che aveva visto confezionare, ogni confezione recava le indicazioni per un uso corretto del medicinale. Man mano che proseguiva nella lettura si stava rendendo conto che non c’era nessun indizio che indicasse qualcosa di diverso da quello che quei frati erano.

Ritrovato il sorriso, stava per chiuder la scatola, quando vide un sacchetto che non aveva indicazioni, incuriosita, lo aprì e assaggiò con la punta della lingua, aveva un buon sapore, di limone, ne prese ancora e ne offrì anche al marito. Dopo pochi minuti fu presa da una strana euforia e anche Federico si comportò in modo strano. La macchina cominciò a sbandare, il giovane accelerava e frenava di botto, Simona urlava ridendo ad ogni frenata. Ad un tratto apparve in direzione opposta un grosso tir, Federico gli puntò contro correndo per poi sterzare all’ultimo minuto, ma nel compiere l’operazione sbandò andando a sbattere contro un albero. I due sposi morirono sul colpo. Lui incastrato nel volante lei sbalzata fuori e schiantata sull’asfalto. Dopo  pochi minuti  una macchina si fermò per prestare i primi soccorsi. Dalla vettura scesero alcuni uomini, uno di loro aveva il volto pieno di verruche e cicatrici. Due di loro si occuparono di ricomporre i corpi, un altro si preoccupò di recuperare il cofanetto con le erbe medicinali facendolo scomparire fra le pieghe del saio che indossava.

 

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Lorenzo Barbieri, "La buona vita"

6 Maggio 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #lorenzo barbieri, #recensioni

 

 

 

 

 

La buona vita

Lorenzo Barbieri

ilmiolibro.it, 2014

 

“Da loro avevo imparato l’amore per la terra, il vero significato della parola lavoro. Una lezione di vita che nessun libro di scuola avrebbe potuto insegnarmi. Il senso dell’amicizia, della solidarietà, vissuto in quel piccolo mondo circoscritto in compagnia di gente semplice, genuina” (pag 129)

È questo, in breve, il succo de La buona vita, romanzo autopubblicato da Lorenzo Barbieri. Parla di un paio di stagioni estive, di vacanze agresti – ma anche nella città di Lucca - vissute da un ragazzino napoletano, che si ritrova nell’ambiente provinciale della campagna toscana, in particolare lucchese.

Gente rude, spiccia e bonaria, quella con cui viene a contatto, che insegna al bimbo, soprattutto con l’esempio, come si può vivere una “buona vita”, cioè una vita piena sebbene semplice, fatta di lavoro, di senso del dovere, di spirito di sacrificio, ma pure di slanci, solidarietà, fatica condivisa insieme alle ricompense, ruvida allegria. Sudore, impegno e sforzo abbondano ma anche balli nell’uva per la vendemmia, risate, vino buono e cibo saporito. La semplicità, il contatto con la terra, il senso del dovere sono le basi su cui il protagonista costruirà il suo futuro.

“Un movimento corale di gruppo, la vera forza delle corti lucchesi”. (pag 127)

La società contadina è un agglomerato umano che si muove all’unisono, il lavoro di uno diventa il lavoro di tutti, come in un alveare, e i risultati sono condivisi di volta in volta.

La cosa più interessante di questo testo è proprio l’atmosfera campestre, la ricostruzione perfettamente riuscita di un’epoca scomparsa, quella dei nostri genitori e dei nostri nonni.

Peccato che il romanzo risenta di un editing mancato e di un uso troppo casuale della punteggiatura.

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Un angelo

4 Maggio 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

 

 

 

 

 

Mary Ann aveva quindici anni. Una ragazza semplice, obbediente e studiosa. Nel quartiere dove abitava da sempre era conosciuta da tutti, e tutti avevano simpatia per lei. Era sempre sorridente e aveva gesti gentili verso le persone che la circondavano. A differenza delle sue coetanee, che andavano in giro spavalde e provocatrici, ostentando vestiti indecenti, lei non indossava mai abiti vistosi o provocanti, mai una minigonna o dei pantaloni troppo attillati che potessero mettere in mostra le sue curve. Era una bella ragazza, già donna per la sua giovane età, formosa, occhi neri, capelli scuri, un viso delicato che s’illuminava di luce ogni volta che sorrideva. Frequentava la chiesa ed era corista del piccolo coro che accompagnava la messa domenicale. Aveva una voce celestiale, cristallina e, a sentirla cantare, sembrava di ascoltare la voce di un angelo. Il parroco, in breve tempo, da semplice corista la promosse solista del gruppo e, man mano, dalle sole funzioni religiose riuscì ad organizzare delle vere e proprie serate musicali. La gente accorreva per ascoltarla. Erano estasiati da quella voce così pura e meravigliosa. La fama si stava allargando; veniva gente anche da altri quartieri della città. Ogni domenica la messa delle undici era piena di gente, molti non trovavano posto all’interno e aspettavano fuori. Dopo la messa, s’intratteneva nel giardino e nel sagrato della chiesa, proprio per ascoltare il canto della ragazza. Lei non si tirava indietro, era sempre presente. Con il coro cantava le lodi al Signore con un'intensità che riusciva a commuovere i presenti, era un vero angelo.

Venne il periodo di Natale e, nella chiesa, fervevano i preparativi per la cerimonia della vigilia. Quella sera, a mezzanotte, alla nascita di Gesù, era previsto uno spettacolo, una rappresentazione della Natività dove lei, vestita da angelo, doveva benedire la folla e, a seguire, doveva cantare un repertorio di canzoni natalizie. Era stata creata una scenografia molto intrigante dove si vedeva un paesaggio campestre e sullo sfondo una capanna. Tutto un lato della chiesa era stato adibito a questa rappresentazione canora. Tutta la comunità era in fermento, specie il parroco che già prevedeva un pienone. La parrocchia, in genere poco affollata, adesso era sempre piena. Le fortune della piccola chiesa del quartiere erano in rialzo. Lo spettacolo di Natale doveva consentire al pastore di raccogliere soldi a sufficienza per comprare un organo nuovo e, se era possibile, fare qualche restauro all’edificio. L’assidua presenza di persone d'altri quartieri, obbligava il parroco a rendere l’ambiente confortevole, così da aumentare l’interesse e il piacere del pubblico. Quella ragazza era stata la sua fortuna, in tanti anni di sacerdozio non aveva mai incontrato una voce così incantevole in una ragazzina e, inoltre,  era anche una perla di virtù. Devota e timorata di Dio, conduceva una vita irreprensibile, non creava mai problemi, né ai genitori, né a scuola, e tanto meno in chiesa o agli amici. Tutto procedeva come previsto, tutti i giorni, durante questo periodo natalizio, le ragazze del coro e Mary Ann facevano le prove delle canzoni da presentare. I canti si udivano anche all’eterno, nella strada, e tutti a quel suono si fermavano ad ascoltare la voce celestiale di Mary. Un richiamo al quale nessuno sapeva resistere.

Era il ventitré di dicembre e la mattina, come il solito, la ragazza si recò in chiesa per le ultime prove, ormai si era affiatata con  tutte le sue amiche, conoscevano i brani a memoria e formavano un gruppo molto compatto e preparato. Entrò in chiesa e, dopo diverse ore, quando fu tempo di andare a pranzo, lei non era uscita insieme alle altre amiche. Passò ancora del tempo e il prete, preoccupato, si mise a cercarla. Le ragazze del coro erano tutte andate via, la chiesa era deserta, gli addetti alle scene erano a pranzo, di lei nessuna traccia. Il parroco, sempre più in ansia e preoccupato, telefonò a casa della giovane per assicurarsi che fosse tornata a casa, ma ebbe risposta negativa dalla madre, nessuno l’aveva vista. Agitato il parroco convocò altre persone per mettersi alla ricerca della ragazza. Fu un urlo prolungato che mise fine alle ricerche. La trovarono in uno sgabuzzino che era usato come spogliatoio delle ragazze, quando dovevano cambiarsi d’abito. Fu il sagrestano che andò a sbirciare là dentro e la vide per terra. Era distesa a faccia in giù con la schiena scoperta, l’abito da angelo che indossava era calato fino alla cintola, aveva tutta la schiena nuda e, al posto delle scapole, aveva due orrende ferite. Come se qualcuno avesse tentato di tagliare la carne intorno alle spalle, due tagli profondi e slabbrati che avevano provocato un’emorragia inarrestabile. Il suo sangue era sparso per terra e l’abito bianco, sul quel rosso scuro, risaltava sinistramente. La polizia, dopo aver rimosso il cadavere, si mise subito ad indagare per scovare il colpevole. Sapeva bene che, se l’avessero trovato prima gli altri, nessuna forza al mondo lo avrebbe salvato dal linciaggio. Durante le indagini, in un cestino degli attrezzi usati per costruire la scena dello spettacolo, furono rinvenute un paio di forbici, quelle grandi da sarta, nonostante i tentativi di ripulirle, le macchie di sangue confermavano che era stata quella l’arma del delitto. Da lì a scoprire l’autore dell’efferato crimine il passo fu breve, infatti, poco dopo si videro due poliziotti che trascinavano una donna scarmigliata e urlante che continuava a scalciare e a urlare. Era  una sarta, una santa donna, dicevano in giro, devota e legata alla chiesa, oltre al suo mestiere di sarta aiutava spesso il parroco, quando questi aveva bisogno di una costumista per le sue recite.

  • “Voi non capite, ho dovuto farlo, non era possibile, lei non è un angelo, era impossibile, non poteva essere un angelo. Non potevo permettere che una come quella rappresentasse un angelo del cielo e dare la benedizione a tutti noi. Lei è solo una sporca negra, era come una macchia d’inchiostro su quell’abito candido da angelo che io stessa avevo confezionato, come osava fare la parte di un angelo di Dio, gli angeli non sono negri,  ho dovuto tagliarle le ali per non farla volare più, è una negra, capite, una negra!" 

Le sue parole ossessive si ripercuotevano per la strada rimbalzando da palazzo a palazzo. La sua furia sembrava non placarsi, continuava a strillare in preda ad un raptus emotivo. Chissà cosa era scattato nella mente di quella donna, forse l’assurda convinzione di essere lei un angelo vendicatore e sostituirsi al Signore che stava permettendo ad una ragazza di colore di interpretare un angelo.

 

   

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Sulla libertà

3 Maggio 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #il mondo intorno a noi, #lorenzo barbieri

 

 

 

 

Libertà, che bella parola! Evoca utopistiche realtà destinate a restare tali. Siamo sicuri che la libertà, quella che i popoli e gli idealisti cercano e invocano, sia un sogno veramente realizzabile? Esiste davvero nel mondo reale questa parola o è solo un desiderio, un punto di riferimento per coloro che vogliono ad ogni costo sognare? Anche se fosse possibile realizzare questa utopia, in concreto, cosa dovrebbe portare ad un popolo? Una libertà di costumi, un’anarchia senza leggi, senza religione, senza persuasori occulti. Perché questa parola è così agognata, cercata a tal punto che in molti si sono immolati per ottenerla e, anche, per poterla assicurare ad altri. La domanda è: esiste davvero?  È giusto festeggiare occasioni in cui si pensa di aver ottenuto questo privilegio o è solo una pubblicità ingannevole? Viene offerta in tutte le sue possibilità, ma di fatto non c’è, resta solo una illusione. Ci sarebbe da chiedere a queste persone cosa intendono per libertà. Forse, poter dire o scrivere quello che vogliono, libertà di espressione! Sembra che esista, ma solo in teoria! Oppure vivere senza obblighi, in uno Stato che tenga conto di tutte le possibili necessità di ogni singolo cittadino. Se non è utopia questa, allora cosa?! In presenza di dittatura si cerca di liberarsi dal giogo, per sottrarre il potere ad una sola persona, per affidarlo a più soggetti, con la libera scelta, ma nel cambio non sempre si guadagna, cambiano gli interpreti, ma non la recita. Qualcuno scambia la libertà con la visione di spiagge deserte, vette inviolate, dove spaziare con lo sguardo e sentirti  libero dagli orpelli della cosiddetta civiltà. Ecco, questa è la chiave di volta: sentirsi libero! Non esserlo veramente. Chi può affermare di essere veramente libero? Io non trovo esseri liberi nel vero senso della parola. Quelli che noi definiamo selvaggi, e conducono una vita libera senza  essere schiavi del progresso, potremmo definirli esseri liberi? Non credo che lo siano più di noi, anche loro, come tutti, sono legati a qualcosa che li imbriglia, limitandone la libertà. Pensate, c’è gente che ci crede, così tanto, che si preoccupa di esportare la sua presunta libertà in posti dove non è conosciuta, né tanto meno cercata. Vogliono imporre un concetto che in realtà non esiste. Già il fatto di volerla imporre, la dice lunga sulla effettiva sincerità degli spacciatori di libertà. Un essere umano deve la sua nascita al volere di due altre persone, quindi non è libero di scegliere. La sua vita è seguita passo dopo passo, da religione, scuola, Stato con le sue leggi, i suoi divieti, e, anche quando muore, non è libero di farlo come vuole. Dov’è questa libertà che tutti agognano? Forse la si confonde con quell’altra parola, anch’essa mitica, impalpabile e seducente da indurre molti a farne uno scudo dove nascondere il marcio che esala dal suo interno. La democrazia! Al pari della libertà è ricercata da molti, offerta da altri e imposta da altri ancora.  Non sono che due parole, ma servono per tenere soggiogati i popoli con l’illusione che un giorno possano da virtuali diventare concrete. La libertà è racchiusa nelle ali delle farfalle, dei gabbiani, dell’aquila solitaria che plana nel cielo lasciandosi portare dal vento. Sono lì, davanti ai nostri occhi, si possono vedere, evocano paragoni, scenari in cui vorremmo trovarci, ma non si riesce a toccarle. Restano soltanto un miraggio in un deserto nel quale crediamo di vivere una vita libera e democratica.   

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Voglia di prendere un treno

2 Maggio 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

 

 

                         

 

 

 

 

Piove. Sento il picchiettio della pioggia sul tetto. Sono tre giorni che non smette di piovere, un martellamento continuo, quel rotolare d’acqua sulle tegole, non mi dà pace, mi ossessiona, impedisce ogni forma di pensiero, non riesco a dormire. La mia camera è in una mansarda e da lì intuisco l’odissea della goccia che cade sulle tegole roventi di sole, sfrigola al contatto e poi, subito dopo, si riunisce ad altre per formare rivoli che si precipitano lungo le onde dei coppi, vanno sciabordando verso il vuoto, verso la madre terra. Piove ed io sono prigioniera della mia pigrizia, indolente, con assoluta mancanza di volontà. Dovrei alzarmi da questo letto dove ormai dormo da sola da troppo tempo. Non mi dà fastidio il rombo del tuono improvviso che fa tremare i vetri, o la luce abbagliante del fulmine che inonda la finestra di bagliori, quello che odio è il rumore dell’acqua. Quel suo percuotere incessante e monotono sul tetto, sulla mia testa. Mi sembra che voglia entrare da un momento all’altro, nella stanza, nel mio letto, portarmi via con quelle sue dita liquide, trascinandomi in un vortice di oblio. Odio quelle nubi oscure che impediscono di scorgere il cielo. perché in questo dannato paese piove così tanto? Perché devo starmene in questo spazio così ristretto, riparata solo da una sottile schiera di mattoni? Vorrei trovarmi, invece, dentro un buco al centro della terra, dove l’acqua non può arrivare e nemmeno il suo rumoreggiare. Vorrei solo restare in silenzio e al caldo, come sono stata fino a quando c’erano le sue braccia a proteggermi. Sono sola, sono a letto e non ho voglia di alzarmi. Piove, perché dovrei affrontare la nemica scrosciante, per andare a scuola? Se non ci vado è lo stesso, cosa posso imparare in un giorno, che già non sappia? Oggi c’è lezione d’inglese, stiamo studiando i verbi, se perdo una  lezione o due, non succede niente, alla fine non ne saprò più di adesso. Per imparare bene dovrei andare sul posto. Sì, vorrei andare proprio dove si parla inglese, circondata da gente che non mi conosce. Non sanno chi sono e, se mi vogliono, devono accettarmi così come mi vedono. Ho voglia di prendere un treno, partire, andare non so dove, solo seguendo la rotta del sole, per non ascoltare più questo borbottio di acque. Il ricordo è ancora vivo. Non posso dimenticare lo sciabordio del mare sotto la chiglia della barca che scivolava, con la vela gonfia, il mare azzurro apriva le sue braccia al nostro passaggio. Io e lui eravamo felici e ridevamo, sì ridevamo e ci baciavamo. Ci stavamo proprio baciando, quando la barca andò a sbattere contro degli scogli affioranti. Si era distratto per baciarmi e non li aveva visti. Le acque si chiusero su di lui, nascondendolo alla mia vista ed io rimasi sola, sommersa, circondata da lievi e infide onde trasparenti, aggrappata ad una tavola.

Piove, ancora acqua, ancora quella sensazione di soffocamento, disperazione e terrore, sapendo di trovarsi, senza via d'uscita, in una trappola mortale dalla quale non riesco a uscire e che ancora mi porto dietro. Non voglio restare qua, voglio scappare. Prendere uno di quei treni che percorrono la notte rumorosi. Li sento  nel buio delle notti che non dormo. Passano non lontano dal mio tetto, con quel singhiozzante rumore che somiglia al battito di un cuore tumultuoso. Li sento e il mio cuore si adegua al ritmo, lo segue fin che non passa. Spesso vedo la scia luminosa che  s'insinua fra gli alberi, fra le case addormentate. A lui non importa se piove, corre verso la sua meta, almeno lui sa dove andare, ha un punto d’arrivo. Io non so come fare, ho sempre voglia di  prendere quel treno, lui, quello delle tre e quarantacinque, quello che mi sveglia la notte. Non importa dove va, faremo il viaggio insieme, la sua meta sarà anche la mia, purché sia lontana dal mio tetto, lontano dai miei ricordi.

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Ritrovarsi

29 Aprile 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

 

 

 

                               

 

 

 

 

 

La grande terrazza dell’ hotel Vesuvio sul lungomare di Napoli era addobbata con migliaia di fiori e un lunghissimo tavolo addossato alla parete interna, adibito a buffet. Divani erano situati tutt’intorno, rivolti verso il mare. Il party era  organizzato dal mio giornale che, come tutti gli anni, intendeva premiare i suoi migliori dipendenti. Io ero tra gli invitati, ma non fra i premiati. Non ero mai stato uno che amava primeggiare. Mi aggiravo per la terrazza con l’immancabile Martini, unica mia debolezza. Il buffet era ricco, ma non gradivo molto. Io ero più ruspante, preferivo pasta, carne e pesce in particolar modo. Con un leggero ritardo il direttore si avvicinò al microfono e salutò i presenti. Le sue parole si persero nell’aria profumata di mare. Il Castel dell’Ovo illuminato spiccava come un faro nel buio. Me ne stavo da solo a bere il mio ennesimo Martini. Odiavo fare da tappezzeria a quei quattro lecchini dei miei colleghi che sprizzavano adrenalina da ogni poro. All’improvviso, guardando verso le persone accalcate vicino al palco, con la coda dell’occhio vidi una donna con la schiena nuda. Ora, le spalle di una donna per quanto belle e interessanti non suscitavano certo un interesse particolare.  Non era più tanto giovane, aveva i suoi anni, ma quello che mi colpì non fu certo la sua schiena o la sua età,  bensì uno strano disegno che aveva sulla scapola sinistra. Un tatuaggio formato da due cerchi uniti, sui quali era posata una colomba. Conoscevo quel disegno e, se non mi sbagliavo, anche la donna che lo esibiva con tanta naturalezza. Dubitavo potessi sbagliarmi, non potevo pensare che un altro avesse avuto la stessa mia idea.  Quel disegno lo avevo scelto io, molti anni prima e, quando lei si era fatta fare il tatuaggio, io c’ero. Lentamente, mi avvicinai, volevo, però, prima assicurarmi che non fosse in compagnia, avrei fatto una magra figura e magari le avrei procurato una situazione  imbarazzante.   

Restai al suo fianco, ma, distanziato da un paio di persone e leggermente più arretrato, potevo vederla di profilo.  Difficilmente lei poteva vedere me. Finalmente il discorso del capo finì e udii più di un sospiro si sollievo. La massa si  precipitò al buffet. Lei invece se la prese comoda. Senza fretta andò a sedersi a un divano decentrato, rivolto dove sapeva esserci Capri.

Io ero rimasto in piedi con il mio Martini ormai caldo. Andai al bar a prenderne un altro e mi feci dare anche un Negroni, sapevo che era il suo preferito. Mi avviai e senza dire nulla mi sedetti al suo fianco. Quando si volse verso di me per rimproverare la mia sfacciataggine non feci altro che offrirle il Negroni. Lei rimase fra l’incredulità e la sorpresa, ci mise un attimo prima di riconoscermi. Poi, sorridendo e senza parlare, accettò il bicchiere e fece un gesto di brindisi verso di me. Alzammo i bicchieri e sorseggiammo.

  • Ciao, mi disse con una voce calda e  leggermente tremante – ti sei ricordato il mio Negroni, grazie! Ti trovo bene!
  • Le gioie della vita, - risposi - sono talmente poche che non si possono dimenticare. Che ci fai in questa bolgia, non sapevo che eri nel ramo anche tu. A me tocca, ma tu!
  • Sono anche io invischiata in questa pantomima, sono la corrispondente per l’estero, ramo politico. Sono stata chiamata a far parte della squadra da pochi mesi. Tu invece che fai?
  • Io mi occupo di cronaca locale. Mi mandano sempre nei posti più infami e desolati che esistono in Italia, paesi sperduti fra le campagne, in montagna, nelle isole, dovunque ci sia qualcosa che loro ritengono interessante per i lettori.
  • Ti ricordi i nostri sogni giovanili, quando studiavamo all’Università, facevamo tanti di quei sogni! Qualcuno si è avverato, altri purtroppo no, che vuoi farci.
  • Io mi ricordo tutto, di quello che abbiamo fatto, che abbiamo visto. I momenti di gioia, di spensieratezza e anche di sconforto che abbiamo vissuto nel breve tempo della nostra gioventù. Poi le nostre strade si sono divise e da allora è rimasto solo il ricordo, anzi il rimpianto di qualcosa che avrei voluto fare allora e non ho avuto mai il coraggio di fare.

Lei mi guardò con uno sguardo incuriosito, mi fissò a lungo e lesse nei miei occhi una risposta che evidentemente conosceva già, ma che volle sentire dalla mia voce.

  • Perché non lo hai fatto, allora! Ho atteso a lungo quel tuo gesto, anche io volevo farlo, ma dovevi essere tu a fare il primo passo.
  • Eravamo amici, ma tu eri lontana per me, irraggiungibile, eri il sogno che mi accompagnava e non volevo rompere quell’incantesimo.
  • Stupido, dopo tutto quello che abbiamo condiviso e sofferto insieme ti sei fatto prendere da scrupoli assurdi. Cosa credi, che io non abbia rimpianto la tua decisione, sono andata via proprio per quello. Il mio cammino è stato arduo, come donna farsi apprezzare, in questo campo, è molto difficile, dovresti saperlo. Oggi posso dire che sono realizzata, ma non sono felice.
  • Sei single o … hai un compagno?
  • Cosa posso rispondere alla tua domanda, cosa ti aspetti che dica? Speri di riprendere i discorso interrotto? Con quel tatuaggio che ho sulla spalla cosa pensi, la colomba non è mai volata via è lì che aspetta e i due cerchi sono sempre uniti.

Non le lasciai il tempo di continuare, buttai il mio Martini in una delle piante che ornavano il giardino pensile e mi avvicinai a lei. La presi per le spalle e la fissai negli occhi. Le nostre bocche si avvicinarono e, in quel momento, dagli spalti del Castel dell’Ovo s’innalzarono nel cielo i primi fuochi artificiali. La festa era finita, ma la vita stava per ricominciare.

 

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Strane presenze

27 Aprile 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

                                               

 

 

 

 

 

La dimora avita della famiglia Strafford si ergeva imponente su una piccola collina ai margini di una vasta pianura, attraversata da un ruscello che scendeva ripido dalle non lontane montagne. Come in tutti i castelli l’ingresso era il ponte levatoio che sovrastava un fossato. Il retro confinava con l’inizio di una folta boscaglia che proseguiva fino ai piedi dei monti.

Teatro di scontri e d'assedi aveva vissuto la sua stagione d’oro fra la fine del XVII e il XVIII secolo. Passato il momento storico, le varie generazioni, che si erano succedute nella conduzione della dimora, avevano portato il maniero verso un degrado inesorabile.

Oggi il castello è meta di visite da parte di turisti frettolosi e di scolaresche distratte, l’intero complesso è passato in proprietà allo Stato che ha pensato bene di sfruttare la situazione aprendolo al pubblico, l’unico inconveniente per l’amministrazione, una clausola inserita nel contratto d'acquisizione che prevedeva la presenza  sine die, dell’ultima discendente della famiglia, la contessa Clara, che non aveva voluto lasciare la sua casa, riservandosi l’usufrutto di una piccola parte degli appartamenti nell’ala destra, quella che dava sul retro, con la vista del bosco poco distante e le montagne dietro a fare da scenografia. La donna, ormai quasi novantenne, voleva morire fra le mura amiche, aiutata dal suo fedele maggiordomo Arthur, anche lui molto avanti con gli anni.

La loro vita si svolgeva a ritmi lenti e riservati, un incaricato del comune si preoccupava di  rifornire del necessario la loro cucina, e il servitore si incaricava di preparare il necessario alla sopravvivenza. Lui, in pratica, viveva in cucina e dormiva in una camera attigua, mentre la padrona aveva due camere al piano alto e l’intera torre a disposizione. Isolati dal mondo i due vivevano in simbiosi l’uno dell’altra, non potevano immaginare una vita diversa da quella che conducevano.

Come tutti i pomeriggi, Arthur era seduto in cucina con il bricco dell’acqua sul fornello, il vassoio con le sei tazze pronte allineate, la zuccheriera e il piattino con i pasticcini. Aspettava il gracchiare del cicalino che l’avvisava di poter servire il tè. Puntuale come un cronometro, lo sportellino con il numero 22 si attivò ed emise quel suono sgraziato che lo richiamava al dovere. La sua faccia impassibile non si mosse mentre versava l’acqua in una delle tazze per preparare il tè, le altre restarono vuote, sul vassoio d’argento Sheffield. Terminata l’operazione, il maggiordomo prese il vassoio e, ondeggiando sulle gambe malferme, si avviò verso le scale tenendo in bilico il vassoio con tutto il suo contenuto.

  • Buon pomeriggio milady, disse, entrando nella stanza e posando il vassoio su un piccolo tavolino davanti il grande divano, sul quale era seduta la nobildonna
  •  
  • Grazie Arthur, servi pure, i miei ospiti sono impazienti di assaggiare la tua specialità, ho detto loro che questo tè viene direttamente dai nostri possedimenti in India, è una qualità rara e si coltiva solo in quella zona che è di proprietà della nostra famiglia. Avrai portato anche gli squisiti pasticcini che sai fare solo tu, vero?
  •  
  • Certo, madame, non avrei potuto fare altrimenti, sono a conoscenza dei gusti dei suoi ospiti e mi sono sforzato di essere all’altezza della situazione.
  •  
  • Sei troppo modesto, caro Arthur, conosciamo tutti il tuo senso del dovere e il tuo attaccamento alla famiglia, senza di te sarei persa. Bene, allora, se hai servito tutti, puoi servire anche me, oggi le mie ossa fanno i capricci e una buona tazza di tè sarà un vero toccasana.

Arthur versò il tè nella tazza della signora e fece finta di versarlo anche nelle altre. Porse la tazza piena e rimase in piedi, in attesa che la sua padrone finisse di sorbire la bevanda. Sentiva sempre di più dolore alle gambe, fare quelle scale infinite volte al giorno stava diventando una vera tortura per lui, ma sapeva bene che non c’erano alternative, il suo destino era legato alle stramberie di quella povera donna, sull’orlo della demenza senile. La signora immaginava che nel suo salotto venissero a trovarla a turno i parenti ormai defunti da tempo e gli amici di sempre, defunti anche loro. La cerimonia del tè non era la sola a cui si sottoponeva per compiacere l’anziana donna. Molte volte doveva approntare un pranzo, o una cena, all’improvviso milady chiamava e ordinava il pranzo per dodici persone, toccava a lui apparecchiare in pompa magna la tavola con tutti i servizi di piatti, bicchieri e posate per dodici, fortunatamente il cibo poteva evitarlo e preparava il menù solo per la donna e per lui. Lui, però, il suo pasto lo consumava nella cucina, come si conviene ad un maggiordomo.

Era ancora in piedi, mentre la signora aveva iniziato una fitta conversazione con alcuni dei suoi ospiti, si era immersa nel dialogo dimenticandosi del tutto del povero maggiordomo, che adesso sul serio cominciava a tentennare sulle gambe malferme.

  • Come le dicev, caro duca, lei ha ragione, sua maestà è davvero troppo indulgente con le popolazioni locali, laggiù in India il popolo è davvero ingrato, con tutto quello che stiamo facendo per loro, gli stiamo portando la civiltà, il progresso e quelli per riconoscenza si ribellano, inaudito.
  •  
  • Madame Janet, non verrà al ballo di corte? Non mi dica. È una vera jattura, se non viene lei non vado nemmeno io, mia cara, lei è la sola che vale la pena di vedere in quei balli noiosi.

Arthur, al limite delle forze, tossicchiò per richiamare l’attenzione della milady che come d’incanto si accorse di lui.

  • Scusa Arthur, hai ragione, sono proprio una sbadata, puoi sparecchiare e ritirarti, io intratterrò ancora un po’ gli ospiti. Dopo che saranno andati via farò un riposino fino ad ora di cena, forse non mangerò questa sera, questo tè e i tuoi fantastici pasticcini sono stati sufficienti, nel caso ti chiamerò per una cena frugale. Addio caro!

Arthur si affrettò a liberare il tavolo, prese il vassoio , allungando il passo strascicato, si allontanò. Era sicuro che la serata fosse finita, poteva finalmente riposarsi. Dopo la cerimonia del tè, tutte le volte la dama si addormentava e non la risentiva fino al mattino successivo. Tornato in cucina rimise in ordine le tazze. Lavò l'unica che era stata usata, ripose i biscotti nella scatola di latta per non farli deperire e, tolte le scarpe, si allungò sul divano che aveva fatto mettere nell’enorme cucina.

Era stanco, disperava di poter continuare ancora per molto quella pantomima, la donna era fuori di senno e lui, se continuava a starle dietro, correva lo stesso rischio.

Non voleva certo la morte della vecchia aristocratica, era stata una buona padrona, anche se un po’ sopra le righe per la sua eccentricità, non si poteva lamentare, aveva avuto anche lui i suoi giorni buoni. Ora la vecchiaia doveva dividerla con le bizze della donna e dei suoi immaginari compagni. Prima di addormentarsi nella sua mente prendevano forma le strane presenze che alimentavano la fantasia della sua padrona; fantasmi di personaggi che lui aveva conosciuto e servito per molti anni. 

Doveva convenire con la padrona, però, che madame Janet era sempre una bella donna, l’aveva vista prima in salotto ed era davvero in splendida forma.

 

 

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Il leone

25 Aprile 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto, #animali

                                                      

 

 

 

La radio del campo base stava trasmettendo le notizie relative lo spaventoso incidente aereo avvenuto nella prima mattinata. L’aereo leggero con a bordo il professor Smith Larson, sua moglie Eveline e la piccola Emma di sette anni, era in volo diretto a Città del Capo, quando una perturbazione improvvisa ha fatto entrare il velivolo in stallo. Il pilota non ha potuto evitare che lo stesso si avvitasse in cielo fino a precipitare al centro di vasta zona di savana. La colonna di fumo che si è alzata non dava molte speranze ai soccorritori che, partiti subito dal campo, si erano diretti verso il luogo dell’incidente. Ora al campo non era rimasto nessuno, erano tutti in marcia con le jeep verso la colonna di fumo che si stagliava nel pomeriggio assolato.

Intorno alle tende era silenzio, due portatori neri si erano addormentati, stanchi dopo il  lungo viaggio per arrivare sul posto e dopo aver montato le tende. Il ronzio delle mosche era persistente e continuo, loro trovavano sempre di che sfamarsi, intorno alle tende  c’erano i luoghi preposti per i bisogni corporali della spedizione e quelle, affamate, si erano lanciate in nugoli su quelle posizioni. Mentre il meriggio proseguiva nel silenzio, in lontananza, si udì un ruggito di leoni che stavano facendo la siesta. Quel riposo  non sarebbe durato a lungo, appena passata l’ora meridiana, si sarebbero messi in caccia come loro abitudine. Dopo due ore circa i soccorritori tornarono dal loro triste viaggio, recavano con loro due casse con i corpi del professore e della moglie, della bambina nessuna traccia. Delusi e scoraggiati per l’esito del loro intervento si misero al riparo delle tende per riposare. Nessuno aveva voglia di parlare. Non sapere che fine aveva fatto la bambina era terribile, solo a immaginarla, da sola, smarrita nella savana, dove i leoni stazionavano di norma, stringeva loro il cuore. Il ruggito tornò a farsi sentire, questa volta più vicino e più intenso, come un tuono nel cielo in tempesta. Quel verso fece accapponare la pelle anche ai più incalliti, uomini abituati ai disagi della jungla. Il loro capo si alzò con fare deciso e spronò gli altri a fare altrettanto, poi li apostrofò:

  • Ragazzi, dobbiamo darci da fare, lo so che forse non servirà a nulla, ma non possiamo starcene qua  a dormire sapendo che là fuori una bambina impaurita, forse ferita, si aggira fra i leoni. Se la scoprono sapete bene che fine farà. Forza, andiamo a perlustrare  la zona da dove arrivano questi ruggiti e che Dio ce la mandi buona.

Si avviarono in sette, cinque uomini armati di fucili e i due portatori che erano stati allertati. Percorsero un tratto di cammino riparati da baobab solitari, dove videro, sotto la loro ombra, alcune leonesse riposare tranquille. Proseguirono ancora più avanti e  fu là, al centro della savana, in una zona aperta in pieno sole, fra l’erba alta e frusciante che i loro occhi increduli assistettero a uno spettacolo che aveva del miracoloso. Un enorme esemplare di leone, maestoso e fiero, se ne stava beato a farsi abbracciare, come un semplice gatto domestico,  da una  bambina che a prima vista sembrava illesa. Lei, forse, ignara del pericolo che stava correndo, abbracciava con le sue braccine delicate quella bestia che era tre volte più grande di lei. Affondava il viso in quella massa di peli della criniera. La belva per niente ostile lasciava fare alla bambina quello che voleva, se ne stava immobile a farsi abbracciare. Il gruppo di uomini per loro fortuna era sottovento,  rimase a guardare senza saper bene cosa fare. Se l’animale avesse avvertito la loro presenza poteva accadere l’irreparabile. Considerato che la bambina sembrava non correre particolari pericoli immediati, decisero di tornare indietro e andarono a stuzzicare alcune femmine, che, infastidite dalla presenza umana, si avviarono lentamente in direzione del maschio. Poco dopo il leone fiutò la presenza delle femmine e mise fine agli abbracci della bimba. La lasciò da sola nell’erba e si allontanò insieme alle sue donne. Spesso è la paura degli uomini a trasformare gli animali in belve, la natura sa riconoscere l’innocenza e chi non rappresenta un pericolo per la propria vita.

 

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Madri di guerra

23 Aprile 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #poesia, #il mondo intorno a noi

 

 

 

 

Contateli

Contateli i vostri figli

O madri dolenti!

Guardate i vostri figli morti

Immobili e freddi

Allineati uno dopo l’altro

Come i grani del rosario

Che stringete fra le mani.

Cosa rimane

Dei vostri e dei loro sogni!

Labbra mute che vorrebbero gridare

Ancora canzoni d’amore.

Occhi chiusi su un passato

Troppo breve per essere ricordato.

Oh! Madri dolorose

Guardate quelle mani inermi

Senza più spade o rami d’olivo

O sogni, o lacrime, o attimi di vita

Che vorrebbero inseguire

In un cielo oscuro e lontano

Troppo lontano per le vostre preghiere.

 

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Angeli

21 Aprile 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

                                             

 

 

 

Ragazzi, ormai siete con noi da abbastanza tempo per conoscere quali sono le nostre finalità. Stando insieme abbiamo imparato il valore della solidarietà, del prodigarsi verso i più deboli. Aiutare gli altri rende l’animo più leggero e vedere spuntare il sorriso sul volto dei diseredati, di quelli che soffrono o hanno bisogno di aiuto, ripaga di tutte gli sforzi che andiamo a compiere. Voi siete ancora piccoli, ma con noi ci sono anche ragazzi più grandi che hanno fatto tesoro degli insegnamenti su come ci si deve comportare. Il nostro intento è cercare di infondere in voi tutti il seme della solidarietà. La storia che andrò a raccontarvi parla proprio di questo, di uno dei nostri ragazzi che ha lasciato il gruppo perché ormai grande e troppo impegnato con la famiglia. Loro hanno bisogno di lui e lui è felice di stare con i suoi e aiutarli, ma nello stesso tempo si prodiga anche verso gli altri. Questa è la sua storia e spero vi sia d’esempio morale e pratico. Quello che si fa non deve essere sbandierato come un trofeo, l’amore verso il prossimo non deve essere motivo di gloria per chi lo offre, ma deve essere donato in silenzio.  

 

Marco era un ragazzo di montagna, taciturno, scontroso e abituato ai grandi silenzi delle alte vette. La sua vita quotidiana era improntata alla massima semplicità, la coltivazione di un appezzamento di terra, proprietà della famiglia, che richiedeva solo tanta fatica e scarsi  ricavati e le interminabili giornate sugli alpeggi al seguito della mandria. Era un giovanotto alto un metro e novanta e pesava più di un quintale.  Era un vero gigante, robusto e allenato alla fatica. Come tutte le persone della sua stazza, aveva un carattere gioviale e bonario, sempre disponibile con tutti. Il suo sorriso e una innata bontà lo rendevano ben accetto da tutti. Non c’era abitante in tutta la valle che non conosceva la sua mole e la consueta generosità verso il prossimo.

Ringraziava il Signore che gli aveva dato quella corporatura da gigante, diceva che, così, poteva essere più facilmente d'aiuto ai più deboli. Non contento di quanto già faceva, decise di creare una sorta di associazione laica. Da buon friulano non desiderava aggregarsi a nessuna bandiera, a nessuna parrocchia. Non amava le chiacchiere, la pubblicità fine a se stessa. Se c’era bisogno, lui era presente, senza dare nell’occhio, lavorava lontano dai riflettori.

Dopo vari tentativi, alla fine, riuscì a mettere insieme una squadra, formata da lui, due suoi cugini e una coppia di fidanzati, giovani che facevano parte di un altro gruppo di volontari, ma che ne erano usciti perché non soddisfatti del comportamento dei colleghi nei momenti di crisi.

I cugini, valenti meccanici, riuscirono, dopo mesi di lavoro, a modificare un vecchio pulmino scolastico che il comune aveva mandato in rottamazione. Gli rifecero il motore. Chiusero tutti i finestrini lasciandone solo uno per lato, per arieggiare in caso di necessità. Due persone davanti, il guidatore e uno al fianco, altri tre subito dietro.  Tutto il resto dello spazio fu utilizzato per una sorta di magazzino, con tutto il materiale che poteva servire. Una specie d'unità di crisi che si attivava laddove ce ne fosse bisogno. Nel recente autunno appena trascorso, Genova era stata la località più flagellata dal cattivo tempo e il gruppo di Marco fu uno dei primi ad intervenire. Scelsero di proposito luoghi lontano dal centro, dove c’era più bisogno, ma nessuno ci andava perché scomodo arrivarci e poi erano poco visibili dai media. Il logo che avevano scelto da mettere sul furgone, completamente bianco erano due mani che si stringevano come in un saluto e sotto la scritta “Angeli". Dormivano sempre all’interno del furgone, non erano d’impiccio a nessuno. Arrivavano, lavoravano e ripartivano, in silenzio, a loro bastavano gli sguardi di gratitudine della gente che riuscivano a trarre d’impaccio. Marco era infaticabile, quando gli amici prendevano una pausa, lui continuava da solo, si giustificava dicendo che quel lavoro per lui non era niente di faticoso, era abituato a ben altro lassù sui suoi monti.

Rimasero a Genova una settimana, spalando fango, svuotando locali dall’acqua fetida, l'odore della morte aveva impregnato la vita di molte persone. Ripartirono con ancora nelle orecchie il grazie di quanti avevano aiutato. Furono anche i primi ad accorrere dopo il terremoto in Abruzzo, là rimasero molto tempo e lavorare fino all’esaurimento. Ci furono diverse calamità che richiesero la loro presenza e in tutte queste occasioni molti furono quelli che videro il furgone bianco degli Angeli. Il loro nome cominciò a circolare e se ne parlava anche in televisione. Quattro ragazzi autonomi che senza dare nell’occhio si rimboccavano le maniche e si davano da fare.

Ritornarono ancora una volta a Genova per l’ennesimo allagamento. Erano intenti al lavoro, quando arrivò un furgoncino con le antenne, dal quale scesero due persone, una ragazza e un uomo fornito di telecamera

  • Buongiorno ragazzi, finalmente vi ho trovati! Siete irraggiungibili, non state mai fermi! Abbiamo ricevuto molte segnalazioni su di voi, sul vostro lodevole impegno, potete fermarvi un attimo, vorrei farvi delle domande

Marco fu il primo a rispondere, mettendosi davanti alla telecamera, ma di spalle e continuando a spalare.

  • Avete sbagliato strada e anche persone, qui stiamo lavorando, se vi levate davanti forse faremo prima, senza voi che intralciate
  •  
  • Scusa, - rispose indispettita la ragazza -  io devo fare il mio lavoro, la gente vuole sapere chi sono questi angeli che stanno facendo un ottimo servizio per la popolazione. 
  •  
  • Senti, rispose Marco, prima mi devi illustrare per bene quale sarebbe questo tuo lavoro, poi, se vuoi fare un servizio alla comunità, posa quel microfono e mettiti a spalare, tu e il tuo amico, più siamo, più presto faremo, ora cerca di andar via che ci fai perdere tempo. Andate nel centro là ci sono tanti altri gruppi di volontari, vai da loro.
  •  
  • Lo sai che sei uno scorbutico scostumato, io devo intervistarvi, è il mio lavoro, non puoi impedirmi di farlo.
  •  
  • Di grazia, quale sarebbe questo lavoro, quello di importunare la gente che lavora sul serio?  Il tuo cosiddetto lavoro non serve a nessuno. Non è utile! Dire in televisione un nome, non cambia niente, come mi chiamo io, a chi importa? Quello che stiamo facendo si vede, che tipo di domanda cretina vuoi fare? Tu, piuttosto, se ti riesce, cerca di cambiarlo questo lavoro, fai qualcosa di utile per te e per gli altri, non perdere tempo in cose futili. Chi ha perso la casa, il suo lavoro, le tracce della sua vita, non ha né interesse, né voglia di stare lì a guardare una come te che parla di cose che non capisce, se proprio non lo trovi un altro impiego, vieni a trovarmi su in montagna, qualcosa da fare per i tipi come te c’è sempre. Ora scusa, ma devo proprio andare avanti. Tu non vuoi che io impedisca il tuo lavoro, però vuoi ostacolare il mio.

Così dicendo, avanzò di qualche passo davanti all’interdetta ragazza. Nello spalare Marco si girò per buttare il fango di lato, ma buona parte del contenuto della pala finì addosso al cameraman e alla donna con il microfono in mano. Li lasciò lì ad imprecare e avanzò ancora verso l’uscio di un’abitazione, dal quale una donna anziana, che aveva assistito alla scena, stava applaudendo ai giovani e a quel gigante dal sorriso buono.

A fine di giornata, quando si ritirarono nel furgone per la solita frugale cena, pane, caciotta e soppressata, annaffiata da un fiasco di vino, si divertirono a riparlare della scena di quei due imbrattati di fango dalla testa ai piedi.

 

- Sei stato grande, Marco, dissero gli amici – ci voleva proprio. Quei due damerini pensavano di fare i galletti sulle fatiche degli altri, vengono, fanno quattro domande cretine, fanno vedere qualche immagine ed è tutto lì, il loro cosiddetto lavoro.  

Noi facciamo quello che riteniamo giusto, perché vogliamo farlo, non certo perché vogliamo andare in televisione. Ognuno si comporta secondo la propria coscienza, quella gente lì è schiava della pubblicità, dell’ignoranza, dei finti valori, sono figli di una carità pelosa, che deve essere vista, spiattellata in piazza, dibattuta da altri parassiti che, pagati più dei loro meriti, se ne stanno seduti comodamente nelle poltrone e parlano, sparlano e sentenziano a sproposito, su argomenti di cui, non sanno niente. Qualcuno lo sa, ma si guarda bene dal mettersi in gioco   

Noi, fortunatamente, siamo diversi, aiutiamo il prossimo, siamo “ Angeli”.

Sì rispose ridendo Marco:  angeli senza ali!

 

 

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