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Lorenzo Barbieri, "Rione Sanità"

25 Marzo 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #lorenzo barbieri, #luoghi da conoscere

 

 

 

 

Rione Sanità

Lorenzo Barbieri

LFA Publisher, 2018

pp 167

16,00

 

Leggendo Rione Sanità, di Lorenzo Barbieri, mi è venuto naturale ricordare una visita fatta al quartiere insieme alla mia amica napoletana, scrittrice di talento, Ida Verrei, e anche ricollegare questo testo (si badi bene, solo per contenuto e non per stile, essendo quello della Verrei di molto superiore) al suo Arassusia, ambientato nei medesimi luoghi e nel famoso Cimitero delle Fontanelle.

Come il suo protagonista, anche l’autore non abita più a Napoli, ma da ragazzo ha vissuto addirittura dentro il Palazzo Reale, dove ha sede la biblioteca Nazionale.  La Napoli di cui  parla non è quella di Saviano, delle stese e della paranza dei bambini, non è quella anonima e fredda de L’amica geniale, ma è quella calda, pastosa e sanguigna della grande tradizione partenopea, di Totò, Eduardo, (e anche Ida Verrei).

La città è misteriosa, sotterranea, superstiziosa, legata al senso della morte. Il rione vive di luci e ombre, fatto di vicoli ripidi, di porte che sprofondano direttamente nell’Ade, fra  catacombe e teschi. Contiene fatiscenti palazzi settecenteschi, nobili chiese ma anche bassi poveri e bui dove vive gente misera e dura.

I vicoli sono poesia, fetore, umore di vita, giochi di ombre e raggi di sole, desideri, speranze, rumori, nostalgie e sogni in attesa di realizzarsi.” (Pag. 92)

Il protagonista, Enzo, è un anziano giornalista che rientra a Napoli dopo una lunga assenza, e lo fa solo per seppellire in fretta la madre, con l’intento di tornarsene prima possibile al suo lavoro milanese. Percorre strade, piazze, vicoli insieme al notaio Oreste, sorta di guida dantesca.

In realtà la città lo ri-cattura, l’antico rione, in cui è vissuto da bambino, lo riacciuffa col suo fascino, col gusto dolceamaro della nostalgia. Da una parte egli mantiene lo sguardo distanziato di chi ormai non fa più parte di quel mondo, dall’altra si abbandona alla memoria, ripopolando ciò che vede con figure scaturite dal passato.

A parte le consuete imprecisioni di Barbieri nell’uso della punteggiatura e dei tempi, e la sua scrittura un po’ distratta, il difetto maggiore sta nell’aver voluto, credo, inserire nel romanzo alcuni racconti precedentemente scritti, non riuscendo ad amalgamarli come si deve nella trama. Il pregio, invece, è l’aver puntato un faro sul Rione Sanità, mostrandocelo com’è ora e com’era un tempo, in una narrazione sempre in bilico fra visione attuale, riscoperta e ricordo, come se il tessuto della realtà presentasse dei vuoti che solo la memoria può riempire, ricomponendo il mosaico.

Ma sul finale del libro c’è un ribaltamento, si esce repentinamente dal sogno con una doccia gelata e la realtà ha il sopravvento sulla deformazione consolante del ricordo. Le persone che sembravano genuine, vergini, povere ma innocenti, si rivelano grette, interessate, persino truffaldine, a conferma che nessuno fa niente per niente.

È vero, il napoletano è uno di buon cuore, disponibile e altruista, ma sotto, sotto, ci deve sempre ricavare qualcosa, è nel suo Dna, non lo fa per cattiveria.” (Pag. 135)

Non solo, il malaffare prospera e la filosofia generale, l’unica possibile, è “far finta di niente e tirare a campare”. Ne esce, perciò, un ritratto della napoletanità a chiaroscuro, una specie di odio e amore, disprezzo e meraviglia, curiosità e ribrezzo. La parte migliore del romanzo è quella iniziale, quando, suo malgrado, il protagonista subisce il fascino del quartiere e riscopre le figure che anticamente lo avevano animato.

Poi, purtroppo, c’è un crescendo di delusione, di meschinità e spilorceria, di fatalismo e rassegnazione che ci lasciano con la bocca amara e coinvolgono lo stesso protagonista il quale, alla fine, non ci sembra poi tanto migliore dei personaggi da lui incontrati.   

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