Il colonnello

Il colonnello in pensione Francesco Solimene, dopo il riposo pomeridiano, si era rinchiuso nel suo studio, come succedeva ormai da cinque anni, da quando aveva deciso di scrivere le sue memorie. Era stato messo a riposo senza poter raggiungere il grado di generale, ma confidava che, fra non molto, dopo la pubblicazione del suo romanzo autobiografico, l’alto comando doveva riconoscere per forza i suoi meriti. Passava i suoi pomeriggi a scrivere, pagine e pagine, di ricordi, aneddoti, scene di battaglie da lui vissute in prima persona, una vita piena di avventure, sapeva che il libro che si stava formando era qualcosa di buono che poteva scuotere le coscienze dei futuri lettori. La moglie s’irritava nel vederlo sempre chiuso in quello studio polveroso, pieno di libri e di cimeli, la sera, quando lui usciva per la cena, la stanza era avvolta in una fitta nebbia dovuta ai pestilenziali sigari che lui fumava di continuo, si giustificava dicendo che lo aiutavano a concentrarsi e a ricordare.
"Francesco, vieni a tavola, è ora di cena!"
La moglie passava e dava dei colpi alla porta per richiamarlo alla realtà. La voce del colonnello confermava di aver sentito. Quella sera invece nessuna risposta arrivò dall’interno, era la prima volta che il rituale serale era infranto, Adele, la moglie, tornò indietro sui suoi passi e bussò ancora una volta alla porta:
"Francesco per favore adesso basta, vieni fuori, la cena si raffredda!"
Nessuna risposta, allora Adele, infastidita, senza bussare aprì per entrare, ma, nello stesso istante, il colonnello stava uscendo: i due si scontrarono e Adele, irritata, lo redarguì.
"Ti rendi di che ore sono, sei chiuso là dentro da quasi sei ore, non ti sembra di esagerare? Adesso vai a cambiarti, per favore, perché puzzi come una fumeria d’oppio, non ti voglio a tavola così conciato, sbrigati che la minestra si fa fredda."
"Calmati Adele, se oggi ho tardato è per un buon motivo, tranquilla non si ripeterà più un evento del genere."
I due si ritrovarono a tavola, cenavano sempre da soli, i figli preferivano uscire e mangiavano fuori, i giovani non intendevano passare le loro serate ad ascoltare le memorie del padre, era diventata una ossessione, racconti sentiti centinaia di volte, erano stufi.
"Bene!" esordì Adele, versandosi un bicchiere di vino: "Allora sentiamo come mai hai fatto così tardi, cosa c’è di diverso da ieri? Avevi difficoltà a ricordare qualche dettaglio che ti era sfuggito?"
"Per cortesia, risparmiami il tuo sarcasmo, donna, è fuori luogo e lo sai, io ricordo tutto e fin nei minimi particolari, il motivo è un altro ed il più importante di tutti."
"Addirittura!" esclamò lei, sorridendo "che sarà mai?"
"Voglio sorvolare su queste tue battute infantili e ti annuncio che finalmente il libro è finito! Ho terminato, da domani, spero sarai contenta, sarò libero. Ora non mi resta che passarlo all’editore e, fra non molto, il pubblico potrà godere della mia opera."
"Sei proprio sicuro che un editore voglia pubblicarlo, caro? Dopo quello che abbiamo sofferto con la guerra, credi ci sia chi è interessato a rivivere quei giorni nefasti?"
"Non fare la solita disfattista, ti prego, sarà un successo, la guerra è appena accennata, funziona da sfondo alle vicende, si parla invece d'eroismi, di coraggio, di vita militare, dell’onore dei nostri soldati e dei nostri generali."
"Ah!" fece lei con una smorfia: "Se si tratta di questo, ci sarà da divertirsi. Allora, hai deciso a chi lo proporrai, o dovrai fare tante copie da distribuire a tutte le case editrici?"
"Non c’è bisogno, ho dove mandarlo, un capitano, vecchio commilitone, ha aperto un’attività in questo settore, non potrà rifiutarmi questo favore, non farà nessun'obiezione, l’opera merita, basterà leggerla. Domani mattina stessa farò una copia e la porterò io di persona, voglio parlare con lui da vicino."
Lo studio del dottor Latessa, ex capitano di fanteria agli ordini del colonnello, era situato nella parte terminale di un grande salone, dove numerose scrivanie accoglievano gli impiegati. Al riparo della porta chiusa i due parlavano animatamente, il colonnello era agitato, non si rendeva conto delle ritrosie dell’altro nell’accettare il suo manoscritto. Possibile che non cogliesse il valore di quell’opera che era costata anni di lavoro e di sacrificio personale?
"Armando, perché continui a tergiversare? Cosa c’è che non va nel mio scritto, ha tutti i requisiti per diventare un best-seller, dovresti essere felice, potrai fare un bel po’ di soldi, non è questo il tuo intento o sbaglio?"
"Colonnello, deve capire che non è così semplice, ancora non ho letto la sua opera e quindi per logica non posso dire se vale la pena investire, perché di questo si tratta, fare un investimento al buio.
Dal suo punto di vista, i ricordi militari sono importanti per lei, ma potrebbero non esserlo per gli altri, i giovani d'oggi le risulta abbiano interesse a leggere cose di questo genere? Non sanno nemmeno cosa sia la guerra, hanno abolito anche la leva, figuriamoci. Il suo libro potrà essere anche un capolavoro letterario, ma è fine a se stesso, capisce cosa voglio dire?"
"No, non credo, se è un buon libro, perché non pubblicarlo allora?!"
"Come faccio a spiegarle, ok, diciamo che lo pubblichiamo, è ha anche un discreto riscontro di pubblico, poi che succede… che magari vogliono leggere altre cose di quest'autore, lei ha per caso un altro libro pronto o è in grado di scriverne un altro in breve tempo? Il guadagno per un editore è sulla continuità, non sul caso singolo."
"Certo che no, ho impiegato cinque anni per completare questo, poi non saprei cos’altro scrivere, non sono mica uno scrittore professionista!"
"Ecco, vede, questo è il punto, sa quanti manoscritti arrivano ogni giorno sulla mia scrivania? Centinaia! Presunti scrittori, gente che, dopo anni, come lei, crede di aver scritto chissà cosa. Tutti vogliono pubblicare, per orgoglio personale, per speranze nascoste di far soldi, per prestigio e per tante altre ragioni, se dovessi consumare carta, personale e tempo per stamparli tutti, avrei chiuso, ancor prima di aprire questa attività. Mi ascolti, colonnello, sia lieto che ha potuto mettere su carta le sue memorie, sarà un'eredità da lasciare ai nipoti, se vuole pubblicare, oggi ci sono i mezzi per poter fare da soli, basta davvero poco per avere fra le mani un bel libro. Sono stato felice d'averla rivista, ma proprio non posso soddisfare la sua richiesta, spiacente!"
Il colonnello Solimene restò seduto come impietrito, non mosse un muscolo, solo un tic all’occhio destro denotava la sua irritazione, dentro di sé sentiva salire una collera verso quel piccolo insignificante omuncolo che aveva osato rifiutare la sua opera. Dopo alcuni minuti di silenzio si alzò con sussiego, in silenzio raccolse lo scritto che giaceva sul tavolo e, a spalle dritte, uscì dalla stanza senza guardarsi indietro.
Giunto in strada, dovette fermarsi per un leggero malore che lo colse impreparato, si sentì mancare, restò ad ansimare per un po’ poi si riprese e, nel primo cestino che incontrò, buttò la cartella con il suo scritto, proseguì verso casa, ma il suo sguardo era velato da grosse lacrime.
"Così come si è" di Cecilia Bossi

Bentornati amici lettori del blog che non vi lascia mai a piedi, wow! La signora senza filtri è felice di fare compagnia a tutti voi che, presi dal tran tran, rischiate di perdere di vista la constatazione che l'arte, in tutte le sue espressioni e manifestazioni, è necessaria per la nostra esistenza. E così oggi Walter Fest avrà il piacere di descrivervi l'opera di una brava artista romana, sto andando a prendere Cecilia Bossi, in sella a una Harley Davidson Electra Glide di colore celestiale, con tonalità rosse, arancio, giallo cadmio e blu oltremare, sulle cromature può rispecchiarsi tutto un mondo, yes, mi è stata messa a disposizione dal mio amico Bombacè, un motociclista romanaccio, simpaticamente rude, dal baffo ad arte, anch'egli fine conoscitore della pittura e della scultura. Eccomi qua a tagliare il vento con in testa il casco a scodella e gli occhialoni da motociclista anni '50, gagliardamente in sella alla motocicletta più bella del mondo... ho appena caricato a bordo Cecilia Bossi, che ha infilato il casco rosa sopra la pettinatura color viola acerbo, impavida ride come una matta e le scappa pure di cantare a squarciagola canzoni stonate. Il tragitto è breve, arriviamo a meta tra una curva, una frenata e una sgommata, adesso però è meglio che mettiamo i piedi a terra, io e Cecilia Bossi, l'artista che impasta i colori con gioia e passione, un grande esempio di semplicità e creatività esplosiva, il suo sguardo è concentrato, la risata contagiosa, non è più una giovincella, eppure ha lo scatto artistico da centrometrista, lo giuro, il giudizio non è di parte ma potrebbe, per rimanere in tema sportivo, dare una pista a tanti pischelli rampanti. E per parlare con lei della sua opera indovinate un po' dove l'ho portata? Siamo per voi sulla terrazza del Gianicolo di Roma, la vista è poetica, i tetti di Roma ci regalano più di un sorriso, dalla città eterna non svettano grattaceli moderni ma senza dubbio possiamo sfiorare con le mani la storia millenaria, ora abbiamo poggiato la sua opera su una panchina vicino al teatrino delle marionette, un'opera intitolata Così come si è.
Cecilia l'ha realizzata nel 2015, nel formato 100X100, su una tela vecchia, stampata e riciclata, utilizzando per la lavorazione una tecnica mista. La nostra amica artista, come una donna saggia e pratica, sa dare valore alle cose, non spreca nulla, ogni oggetto può essere materia e trasformato in arte da lei donna libera nella testa e nella sua azione artigianale.
Cosa c'è di più bello della libertà? Ecco, io in quest'opera vedo Cecilia che, godendo della propria libertà espressiva, dialoga con la materia, impasta con amore la tinta che dà corpo alla tela e rende vivo il colore; anche dopo qualche voluta e naturale imperfezione nelle casuali colature, tutto parla di libertà. Dalla spennellata di nero in primo piano sfugge il rosso a semicerchio che si fonde con un'atmosfera ocra, avana, grigio velato; alcune parti di cartone, tornate ad arte a nuova vita, sembrano fermare il movimento, ma solo in apparenza, perché Cecilia, come a concludere l'opera soddisfatta, lascia colare a caso le ultime gocce di tinta dal barattolo, quasi in trasparenza affiorano cenni di verde che equilibrano la massa cromatica. Il verde dei prati, delle foreste, colore riposante per gli occhi e per la mente. L'opera informale di Cecilia Bossi è così grande e così musicale da lasciarti pensare una parola in lingua Inglese: "Freedom". E ora, di fronte al dinamismo delle tinte e della passione, al termine del lavoro eseguito, immagino Cecilia sedersi su una sedia impagliata, mi sembra di vederla di fronte al tramonto da favola a chiacchierare, a ridere, a fumare, a parlare, inarcando con energia le spalle esili ma forti. Il quadro è finito, l'artista riprende fiato, il cuore è gonfio di amore, la stanchezza l'artista non la sente, il suo corpo si è fuso con la sua opera, durante la sua realizzazione il tempo trascorso non è esistito, né vi era età, né passato, né futuro, l'artista era tutta se stessa con la propria anima.
Io e Cecilia, invece, adesso ci accorgiamo di non essere soli, alcuni bambini si avvicinano a noi e guardano l'opera, sono gli unici che lo fanno, dobbiamo essere precisi, ci sono delle persone adulte intorno che non ci hanno degnato di uno sguardo, troppo impegnati con tablet e smartphone, solo questo gruppetto di ragazzini si è fermato, rinunciando per un momento a Pulcinella e Balanzone per vederci ed ascoltarci .
- Chi lo ha fatto?
Ce lo chiede un bambino con gli occhiali che tiene un gelato in mano.
- L'ho fatto io, ti piace?
- A me sembra il pomodoro che è cascato sul tavolo l'altro giorno a mia madre e poi i coriandoli di carnevale e poi anche un gatto con un occhio rosso che salta sul divano di nonna.
- Cecilia, perché ci hai messo pure il gatto?
- Mi hai dato proprio una bella idea, la prossima volta ne metterò due di gatti.
- Signora, lo scambierebbe con il mio gelato?
- Walter, tu che ne dici?
- Non voglio dire che un gelato sia migliore della tua opera, però mi sembra che sia un'offerta che non puoi rifiutare.
- Accetto ma, dato che il quadro è più grande del tuo gelato, voglio pure una caramella.
- Ma, Cecilia! Toglieresti pure le caramelle al bambino?
Lui la guarda e sta cercando nelle tasche.
- Ma no, dai, tieni il gelato e le caramelle, ti regalo il quadro, basta che ti comporti bene a scuola.
Il gruppetto di bambini se la squaglia, adesso sta arrivando il momento più divertente, quello con il quale Pulcinella sta per dare un sacco di mazzate al diavolo che lo vuole portare nella tomba.
- Cecilia, vogliamo andare a prenderci un gelato?
- Direi di sì, andiamo, ma la moto la guido io.
Amici della signora senza filtri, prima che prendiamo pure noi le mazzate da Pulcinella, Walter Fest e Cecilia Bossi vi salutano e vi danno appuntamento al prossimo artista, vroooommmm!
Un mondo diverso

La telefonata mi giunse proprio nel mezzo della più importante riunione di lavoro che avessi mai avuto. Erano presenti nella sala congressi sei rappresentanti d'altrettante nazioni, ascoltai le poche e crude parole che mia madre disse al telefono: "Tuo padre sta morendo vieni subito."
Subito dopo il silenzio e il segnale d'occupato aveva già riagganciato! Sono rimasto lì in piedi sotto gli occhi stupiti dei miei ospiti che avevano visto sul viso l’accavallarsi d'ombre e il pallore che per poco non mi fece svenire. Mio padre, l’unica persona al mondo capace di capirmi, che mi aveva seguito fino al posto di prestigio che occupavo, stava per lasciarmi. Mia madre, come sempre, era stata laconica e fredda, le emozioni per lei non si dovevano esternare, in nessun modo, in nessun'occasione, era disdicevole diceva lei, sempre impettita e sicura di sé. Chiusi il telefono e, con un sospiro che riuscì a tenere dentro anche le lacrime, mi rivolsi alla platea che attendeva le mie decisioni.
"Signori! Vogliate scusare l’interruzione, una cattiva notizia non si accoglie mai con indifferenza, ma non per questo dobbiamo interrompere la nostra discussione, se non erro eravamo al momento di tirare le somme. I fatti sono stati esposti, ora la parola passa a voi."
Rassicurati dalle mie parole, i presenti si rimisero a parlottare fittamente fra loro, mentre io cercai mentalmente di isolarmi per pensare a mio padre. Dovevo assolutamente uscire da lì e correre verso casa. Mi guardavo intorno e, a stento, le riconoscevo, persone tanto importanti da decidere delle sorti di milioni d'individui con le loro manovre economiche. Io ero il collante, quello che avrebbe dovuto tenere unita quella banda di sciacalli affamati di potere. Per fortuna, nel giro di dieci minuti eravamo già alle strette di mano e ai saluti. Usciti tutti, ero già pronto con le chiavi della macchina in mano per partire.
Arrivai a casa a tempo di record, mia madre mi accolse con una faccia da funerale che non esprimeva nessun sentimento. Si limitò ad un cenno del capo e io la lasciai nella sala insieme alle signore che erano venute a far visita di circostanza. La casa era in penombra, luci soffuse e un gran silenzio opprimente mi accolsero. Uno strano odore mi colpì con violenza, un profumo dolciastro, sgradevole, mi ricordava il giorno che morì il nonno, l’odore dei fiori sparsi per la casa, tutte quelle corone avevano impregnato l’aria di un miscuglio di profumi da rendere la stessa irrespirabile. Adesso lo sentivo ancora, ma mio padre non era ancora morto, almeno speravo che non lo fosse, dovevo vederlo, volevo farmi sentire da lui, stringere la sua mano, tenergli compagnia mentre se ne andava. Non poteva andarsene da solo, con la moglie in salotto e lui solo, nell'attesa degli angeli per portarlo via. Entrai in punta di piedi in camera e lo vidi, il viso cereo, respirava lentamente, ad occhi chiusi, rialzato sui cuscini, le mani abbandonate sul letto.
Mi avvicinai e mi sedetti su una sedia accanto a lui, gli presi una mano, era gelida. Mi chiesi perché l’uomo è costretto a sottoporsi a questa tortura di una morte lenta e dolorosa. Uno strazio inutile sia per chi deve andarsene, sia per chi assiste al disfacimento e al distacco dell’anima dal corpo.
Al contatto della mia mano aprì gli occhi e abbozzò un timido sorriso verso di me.
"Ciao, figliolo, mi fa piacere vederti, spero di non averti disturbato nel tuo lavoro. Il tuo mondo non concede tregue."
"Cosa dici, papà, stai tranquillo, sono qua, vicino a te, non me ne vado."
"Lo so figlio mio, lo so! Ti conosco bene e sono sicuro del tuo affetto… Tu, piuttosto… Non devi dubitare del mio, anche se negli ultimi tempi non sono stato molto presente al tuo fianco… Non ho mai smesso di seguirti e di volerti bene.
Ascoltami figlio, non ho molto tempo, ancora… Ascolta la voce di chi sta per partire per il viaggio senza ritorno, lasciando il suo respiro fra le tue mani, gli occhi mi si velano dal dolore … le ombre della notte… si avvicinano.
Spero…. di avere il tempo per spiegare…. la delusione che spesso ho visto nei tuoi occhi, lo so… non sempre sono stato all’altezza del compito di genitore. E’…. un impegno gravoso… e spesso mi sono arreso… davanti ai mulini a vento del potere. Non ho saputo reagire… con decisione e fermezza… alle ipocrisie della vita. Ti prego… ora che il tempo… sta per finire, perdonami! Adesso e non domani, tieni la testa eretta e guardami negli occhi, non vale la pena piangere per ciò che è… per ciò che deve essere."
Qui si fermò per lo sforzo e sentii il rantolo del suo petto farsi più forte, poi riprese a parlare, mentre io non avevo la forza di aprire bocca.
"Prima di andare via, però, vorrei raccontarti, delle frustrazioni. della fame sofferta in silenzio... della rassegnazione… dei miei sforzi per spingerti avanti… con le poche forze disponibili. Perdonami, figlio mio… ecco che viene il buio, lo sento fra noi... avverto la presenza ostile, con le sue mani di gelo… strappa ad uno ad uno i fili della vita, ma non posso andarmene adesso… devo ancora parlarti del mio mondo… dove grandi e diverse erano le piccole cose. Vorrei parlarti di sogni perduti... di amici sinceri... del profumo del pane caldo e anche … di lievi carezze d’amore… ma, ma ormai… non c’è più tempo. Solo un ultimo consiglio… se posso! Cerca di usare nel migliore dei modi… quel meraviglioso dono… che ogni uomo possiede, la libertà dell’intelletto, che va oltre la vita, oltre la morte, oltre il ricordo... delle semplici parole.
Addio, figlio mio. Chiudimi gli occhi su questo mondo così… così… diverso!"
Sorrise, mentre il respiro si fermava e giacque inerte fissando il cielo che s'intuiva dietro la finestra, lo stesso cielo dove lo avrebbero portato gli angeli inviati proprio per lui.
Lucca Art fair
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Una storia molto romantica

Hotel Excelsior di Roma. Un evento speciale di grande risonanza. Sono presenti nel grande salone delle feste tutte le più alte autorità in campo politico, dello spettacolo, dell’aristocrazia e dell’alta borghesia cittadina. Una serata di beneficenza per una raccolta fondi da destinare ad una delle tante organizzazioni umanitarie sparse per il pianeta. Nella sala spiccano le donne fasciate in abiti impossibili, donne mature, vere matrone cariche di cellulite e cerone con al seguito le loro figlie che non sono da meno. Ce ne sono di ogni tipo, da quelle ossute e compunte, capelli tirati indietro e pelle pallida. Sedute sui divani con aria di sufficienza, come se per loro stare lì fosse una gentile concessione. Altre, grasse oltre il limite, che già stando ferme a chiacchierare animatamente sudano, con conseguenze nefaste per i loro vestiti. Al centro della sala poche coppie di anziani ballano, seguendo la musica di un complesso messo sul lato opposto al buffet. La serata non decolla, c’è un‘aria di stanchezza fra gli invitati, gente abituata a fare di queste serate il loro passatempo preferito. A certi livelli farsi vedere e presenziare ad avvenimenti del genere è obbligatorio. A un certo punto della serata arriva lui. Appena mette piede nella sala si nota un certo risveglio da parte delle matrone che cominciano a darsi di gomito. Indirizzano i loro sguardi verso il nuovo entrato. Un giovane dall’aspetto fascinoso, lo smoking che indossa gli sta a perfezione, mette in evidenza spalle larghe, muscolose. Su un giro vita piatto e sodo. Il viso leggermente abbronzato, la mascella squadrata volitiva, i capelli neri corvino lucidi e appena mossi. Procede con un passo lento e misurato, i suoi occhi scuri con riverberi d’acciaio scrutano l’ambiente come una pantera che cerca la sua preda. Le madri, ancor prima delle figlie, lo divorano con gli occhi e non sono poche quelle a cui sfugge un sospiro. Lui passa lentamente guardando e facendosi guardare. Ha in mano un flute di champagne. Finalmente arriva dall’altra parte della sala dove incrocia lo sguardo di un esemplare femminile che attira il suo interesse. In quel grigiore assoluto lei splende di colore e vitalità. Una ragazza alta, formosa, inguainata in un lungo abito verde smeraldo che le sta come un guanto. Non è vistoso, ma attira per ciò che copre. Una leggera scollatura evidenzia un solco fra due splendide rotondità color avorio. Ha un viso da bambola, due gote pronunciate e due meravigliosi occhi verdi. I capelli sono tirati su mettendo in evidenza un collo eburneo con degli incavi che inducono a pensieri lascivi.
I due si guardano, sono attratti uno dall’altra. Lui fa la prima mossa, si avvicina e le parla.
"Buonasera signora, vuole essere così cortese da concedermi il prossimo ballo?
Lei lo guarda per un attimo poi con un sorriso risponde: "Signorina, prego, sì, credo di poter accettare il suo invito, se intanto vuole essere così gentile da prendere ancora dello champagne."
"Lo consideri già fatto, signorina, mi perdoni,è che mi pare strano che una bella donna come lei non abbia trovato ancora un uomo degno di accompagnarla."
"È gentile a dirlo signore, ma è così."
Lui si allontana per prendere due flute, mentre lei resta pensierosa, un dubbio le attraversa la mente. Lui ritorna e lei si fa trovare pronta per un ballo. Bevono, poi si buttano in pista. Il valzer non è proprio un ballo adatto, ma si adeguano e portano a termine i loro volteggi. Lui la invita fuori al terrazzo per bere in pace.
In precedenza aveva fatto preparare, dietro lauta mancia, un tavolino in un angolo del terrazzo, dal quale si ammirava lo splendido panorama di Roma.
"Venga, mi sono preso il permesso di far preparare un tavolino apposta per noi per restare più tranquilli."
"Grazie, vedo che non perde tempo lei, mi sa che è un gran rubacuori. Comunque, preferisco restare qui all’aperto, almeno si respira, là dentro era diventato impossibile con tutte quelle cariatidi. Senti che ponentino!"
I due si siedono e lei come prima cosa si toglie le scarpe, lui ride, comprende le difficoltà femminili. Restano in silenzio per un po’, lei ha la mano sul tavolino, lui si abbassa a sfiorarla con la sua e lei non si ritrae. Le mani restano unite, poi lei dà un’occhiata al piccolo orologio che indossa e sbotta.
"Senti, che ne dici se la finiamo co sta pagliacciata, per me è durata pure troppo, se dovemo andà, andiamo e togliamoci sto pensiero."
"Cosa dice? Non la riconosco più, signorina… a proposito ancora non mi ha detto come si chiama, non posso chiamarla sempre signorina, avrà un nome."
"Certo, io me chiamo Anna Tiburzi, pe ‘ll’amici Annarella, in arte Magda. E tu, come te chiami, bel moro?"
"Vuol dire, forse, che lei è una… come dire, una escort?"
"Sì, bello, dillo pure, tanto nun m’offendo, so na mignotta e allora? Che te credevi? Ma dico io, tu pe farti na scopata stai tanto a fa er damerino! Quanto ti è costato sto tavolo qua fori, li potevi sparagnà me li devi a me, era mejo!"
Viè qua moro, fatte dà n’occhiata un po’ meglio, me sa che pure tu, sei un gran paraculo."
"Cosa dice, Magda?!"
"E falla finita, no! Mi sembravi na faccia conosciuta, quando ti ho visto mi sembravi una faccia conosciuta, ora che te vedo meglio mi sa che sei, Giggi er divo, ti sei tagliato i baffetti, perciò mi sono confusa. Tu guarda proprio te dovevo incontrà, la serata la posso dì sprecata, tutto sto lavoro per niente, che te possino!"
"A bella, credi che per me non nu è lo stesso? Un sacco de soldi spesi a voto. Se vede che attiriamo, ma lo dovemo fa con l’antri, no fra de noi. Ora però, mi sa che è mejo c’alziamo i tacchi, prima che questi ci vengono a chiedere la donazione obbligatoria pe la loro causa, che poi manco l’ho capita qual è."
"Hai ragione, damose! La serata la potemo finì da sora Titta co na bella matriciana, però famo a mezzo, eh?"
RECENSIONE/LETTERA APERTA PER MURO DI CASSE DI VANNI SANTONI

Muro di Casse
Vanni Santoni
Laterza 2015
Signor Santoni, mi devo ricredere.
Lei già mi affascinò con Personaggi precari, un libro davvero notevole, con quella ricostruzione di humanitas - un mondo che non ha molto da dire di sé, non essendo in se stesso più di quanto non lo sia con gli oggetti/emozioni in relazione – tra la poesia frammentista e il narrato da prosa. Posso dirlo con molta franchezza: beccarlo alla Citè di Firenze, fu, per un me medesimo di quasi un lustro fa, non la fortuna del secolo, ma di certo una bella sorpresa.
Purtroppo mi pareva solo per i Personaggi quella sensazione. Da lì il convincimento s’è un po' altalenato, tra confusione/disgusto/disprezzo/incomprensione/allontanamento: gli interessi in comune non mi tornavano (a metà mi dissi: la direzione, dov'è? E i personaggi parevano pure storti...).
Poi quella roba della narrativa collettiva, che l’ho rifiutata per principio personale (la mia ideologia è che l'opera sia del Solo, non di più teste pensanti; che siamo, Omero and Company?). E il fantasy, vabbé, altra questione personale. Non sono un lettore da romanzo fantasy, nah... per quanto ci sia un rinnovo del genere con richiami alla tradizione, per me è difficile credere ad un'altra realtà poco tangibile con la nostra realtà...
Ma insomma, lasciamo stare il passato. Signor Santoni, mi sono ricreduto. Lei è dannatamente bravo, per Dio!
E mi sono ricreduto con Muro di Casse (ed. Laterza Solaris, 2015, pag. 135)
… e dico Casse, perché tempo fa il cui presente sedicente Recensore l'ha trascritto Classe, semmai pensando ad un'opera sociologica, il che non è necessariamente sbagliato...
Ma orsù di che parla o codesta opera?
Già dire "Parla" non è corretto: preferisco dire "trascrive" (trascrive, mostra attraverso più voci, più mentalità...).
Trascrive il concetto di festa, o meglio di cos’era anni fa un tipo di intrattenimento, come i teknival o i freeparty o le gao o le psytrance, feste e non-feste, che nascevano in ogni città europea tra gli anni Novanta e Duemila, tra disprezzi mediatici e fulminanti e rocambolesche costruzioni in sordina, per poi concludersi dopo giorni di maratona divertissement da Generazione X. La rave culture è il cuore della storia, documentata e fatta vivere dai tre principali personaggi: il mancato romanziere Iacopo il Gori, quasi un giovane Peter Pan da educazione flaubertiana tra racconto e vita, se non proprio stomaco; Cleo, la mancata laureanda in quella che poi lei considera come una terrificante occasione sprecata di politicizzazione della sensazione psicotropa e della baldoria anarchica; Viridiana, la più picaresca e céliniana e drammaticissima dei tre personaggi, la più mancata per via della sua estrema vitalità e del suo amore per l’aspetto costruttivo delle droghe “mentali”.
È un tripudio generale, un caos davvero gustoso, tra droghe di ogni nazionalità (marocco, hashish, oppio, fumo, md francese, Viridiana ne elenca a bizzeffe…), tra evoluzioni di progettazioni e di localizzazioni tra viaggi e non viaggi alla Cerca… e questo solo per parlare delle "cose"! Nell'ambito dell'umanità abbiamo uomini della società negletta quasi miserabili; amanti ora disperse ora ritrovate per momenti di infantile ritorno al passato, veri nostalgici di tutto, specie dell'infanzia; e poi picari del ventunesimo secolo, eterni Peter Pan in attesa del Grande Ballo sotto quei muri di Casse sonore...
Tra i miei preferiti c’è il primo, in cui lo stesso Iacopo gioca all’inizio con la meta-narrazione: l'Io si alterna, ora Scrittore, ora Iacopo, monitora il romanzo che vuole far nascere, mischia ricordo e finzione e costruzione, nega le linee dialogiche. Si aggiunga l’uso del Tu per intendere l’Autore (ma il gioco dell'autofiction è abbastanza vecchio ormai).
Per certi versi torna, come una poetica, il topos di quei personaggi, inutile dirlo, precari. Ma precaria è anche l’Europa degli anni Novanta, tra fine del muro e nuove realtà politiche e sociali (tutto nasce e muore nello stesso paragrafo); solo i patimenti sempre resistenti: avanti nella storia, e vedendo tutti i personaggi, c'è da chiedersi se tutta questa corsa alla vita non odori di morte...
Certo, non mancano delle stonature; per lo più sono di natura estetica, ecco.
Per esempio, il tono più volte si attesta alla tristezza, alla polverosità, e quelle che spero non siano delle presunte cadute di stile (parlare di alba col termine "vomito" conferma la decadenza, così come alcune descrizioni un po' birichine, come le vecchie che "sbirciano").
Lei ha utilizzato uno stile tra il flusso di coscienza modernista e il parlato à la Beat, con un repertorio linguistico notevolmente più esteso e più analitico e un'eccellente capacità di espressività e di resa delle storie attorno (escursioni di poesie, tracciati di Google Maps, note enciclopediche o giornalistiche).
Ma la linea del tono non si alterna più del dovuto, rimane troppo stabile. E qualche sbalzo ne avrebbe tratto giovamento, ecco…
In più c’è quella negazione iniziale della ricerca di purezza come potenziale obiettivo del romanzo che non mi torna. Sì, è stata smentita fin dalla prefazione, ma è come se, negando questa ricerca di purezza, non si rischi di discriminare ogni tentativo di dignità all’ambiente.
Una specie di rappresentatività un po’ troppo descrittiva, in cui il lasciar parlare le cose diventa un azzardo ad ogni tentativo di rivalutazione (mi duole ammetterlo, ma a volte questi personaggi mi fanno pensare a quelli infantili raccontati dallo scrittore D.F. Wallace nel racconto La ragazza dai capelli strani). Il movimento sta scomparendo; anzi, è già scomparso, come suppone Viridiana e anche Cleopatra. Lecitamente, seguendo la linea tabucchiana del racconto come testimonianza, l’Autore cerca di ricostruirla.
E sì la nostalgia, come dice la Raimo in Rolling Stone, è un’operazione che stanno compiendo in molti, anche subdolamente, ma che questo libro evita di fare. Il problema è se, in realtà, indulgendo troppo in questi dati, in queste scene e in questi personaggi, tutto questo non sia stato in effetti contaminato da quella nostalgia, la stessa che ha minato le vite di quei figli dei rave.
Ma ora diamoci una calmata. L'entusiasmo e la reattività a delle incongruenze è il modo migliore per far intendere quanto davvero un'opera si distanzia dalle altre presenti nella contemporaneità. Una recensione è sia felicitazioni/maledizioni del recensore, sia, soprattutto, approccio critico. O almeno tentare di essere critici e non lusinghieri pseudo ruffiani.
Certo, questa recensione non è nata per stroncare un'opera che in primis funziona per bene, in secundis è profonda e ricca e potente, in terzis unisce racconto a ricerca (e chi lo fa oggi?). No, assolutamente, l'esposizione di critiche salate è solo la riprova che quest'opera chiama l'occhio affamato, e che fa reazione per bene. Poi oh, il cui presente recensore sa essere spregevole anche con i bravi ragazzi come lei.
Niccolò Mencucci
Asfalto

Patrizia abitava in una delle periferie più degradate della città. Un casermone di sei piani dove gli inquilini erano tutti degli emarginati dalla società. Un insieme di umanità che sopravviveva alle insidie della vita di tutti i giorni trovando il modo di tirare avanti, anche ai margini della legge. Al secondo piano c’era una famiglia di emigrati dal sud che dovevano trovarsi già al nord, ma per una serie di circostanze sfavorevoli si era dovuta fermare ed ora erano inchiodati in quella specie di torre di dannati aspettando il giorno di una improbabile partenza. Una vita precaria sperando in un cambiamento che tardava ad arrivare. Il primo piano era stato occupato da due donne anziane; rimaste sole senza l’apporto delle famiglie, si erano unite per dividere la loro solitudine, per quanto la vita fosse difficile in quei posti, nessuno faceva mancare un aiuto alle due sventurate vecchiette. L’ultimo piano invece era dominio assoluto di un gruppo di sbandati di varie nazioni, un marocchino, due senegalesi, un eritreo e quattro rumeni. Pur avendo lingue e usanze differenti, la necessità di avere un tetto sopra la testa aveva costretto tutti a una sorta di armistizio e, nelle loro diversità, il sodalizio razziale funzionava. Patrizia era quella che abitava con i genitori al terzo piano, un piccolo appartamento di due camere con cucina e servizio. Il padre era un tuttofare che sbarcava il lunario andando a cercare lavori che nessuno voleva accollarsi. Un brav’uomo, prigioniero di un destino che lo aveva visto soccombere quando gli era stata diagnosticata una malattia che lo aveva reso inabile per la società per la quale lavorava. La madre, isterica e complessata, si arrangiava con lavori di sartoria. La maggior parte dei suoi clienti erano gli stessi inquilini e quelli dei caseggiati limitrofi, che ricorrevano a lei per rivoltare abiti, aggiustare e salvare il salvabile. Si era assunta il compito di fare le pulizie nell’immobile, impresa ardua perché non c’era lavoro che potesse togliere le tracce della miseria e dello squallore dai muri incrostati. Le case popolari non brillavano certo per pulizia e la manutenzione era una chimera che tutti inseguivano e nessuno riusciva ad afferrare. Patrizia aveva cercato di andare a scuola, ma, arrivata alla licenza media, si era dovuta arrendere, non era stato possibile andare avanti, ora vagava fra il divano, il letto e un telefonino rimediato chissà come. Di sera usciva con quelle sue improbabili minigonne che la madre riusciva a cucirle, le t-shirt le comprava al mercatino dei neri a un euro l’una. Era ormai maggiorenne e poteva andare in locali che le davano l’illusione di vivere una vita normale. Molte volte era stata vista in compagnia dei ragazzi dell’ultimo piano andare in locali di infima classe e, giorno dopo giorno, la sua vita continuava come in una nebbia, in un sogno confuso fra illusione e realtà. Non aveva un presente degno di essere vissuto né poteva sperare in un futuro diverso. Era una ragazzotta in carne, non bellissima ma graziosa, gioviale, esuberante e sempre pronta a buttarla in caciara. Un fisico prorompente a volte volgare, ma che attirava le fantasie maschili come un fiore attira le api. Una sera fu invitata a salire con i ragazzi di colore su all’ultimo piano per stare un po’ insieme. Un bicchierino, una fumatina, uno scherzo e una mano che s’insinua fra le cosce, un rilassamento ed ecco che su di lei ombre nere si alternano, prima una sottile, evanescente, poi una massiccia e dolorosa, poi un’altra, un’altra ancora, ancora una. Il dolore prevale e il risveglio, crudo, bestiale. Un giro con lo sguardo intorno, corpi nudi, vede nero, tutto nero, la vista è ancora incerta, ma nella nebbia della sua mente una fievole luce, quella di una finestra che dà sulla strada, un pensiero veloce, un balzo, il rumore di vetri infranti e il fresco della notte che s’impossessa di lei, leggera, le sembra di volare, ebbrezza di un breve attimo poi una visione, qualcosa che conosce bene, l’asfalto. Quell’asfalto screpolato e sudicio che, da quando è nata, lei ha calpestato davanti casa sua. Lui è lì che aspetta nella sua immobilità fra rifiuti, crepe come ferite e liquidi, come quelli color rosso sangue che, escono dal suo corpo disteso sull’asfalto che, avidamente, ne assorbe la vita.
Il pianeta Papalla
Prima degli odiosi Barbapapà e dei loro barbatrucchi, c’erano gli abitanti del pianeta Papalla. Li ricordate? Semplici nel disegno, avanti anni luce a quello che propongono adesso gli spot, che sono ormai pura noia a velocità supersonica.
I tondi Papalla pubblicizzavano gli elettrodomestici Philco. In quegli anni avere una lavatrice in casa significava, non solo aver raggiunto un auspicabile benessere economico, ma anche camminare verso la modernità, l’igiene, lo sviluppo.
Eh, sì, questo mio ritorno al passato somiglia a uno sguardo sul futuro che abbiamo perso: un futuro pulito, intelligente, progressivo, nel senso delle “magnifiche sorti e progressive”. Negli anni sessanta il futuro era roseo, civile, invitante. Che cosa rimane di tutte quelle speranze? Rimangono giovani che, commentando in rete lo spot dei Papalla, lo definiscono “orribile”. Perché è orribile il mondo in cui viviamo, dove la speranza è un lusso, dove i bambini non hanno più desideri e sono annoiati, tristi e demotivati, dove le persone vengono fatte a pezzi da gente senza anima e senza stomaco. È orribile lo sguardo di questi millennals che non conoscono la poesia dei ricordi, le emozioni profonde, i valori e la tensione morale.
Un nuovo colloquio e Il tempo felice

UN NUOVO COLLOQUIO
Per non essere seppellito
Dalle suadenti parole
Di gracchianti mostri colorati
In questo mare di vacue immagini
E suoni ossessionanti
Io naufrago senza isole
Rievoco i tormentati anni
Dell’utopia sessantottina
Per dare un senso
Al tempo della mia vita
Quando il pensiero era una musica
E le parole un coro.
Per risvegliare nel cuore
Imborghesito dalla monotonia
Un nuovo colloquio
con quanto ancora c’è di buono
di concreto e di vivo
al di là del buio colpevole
dei nostri occhi silenziosi.
IL TEMPO FELICE
I poeti che hanno vissuto il sessantotto
il sessantanove
E tutti gli altri anni
Che si sono succeduti tutti uguali
Tutti inutili, inconcludenti e deludenti;
i poeti di quella generazione
che hanno sopportato anni di piombo
terrificanti e troppo pesanti
per le loro grandi e fragili idee;
questi uomini dal libero pensiero
nonostante abbiano dovuto indossare
nuovi abiti di perbenismo
sono rimasti ancora insieme
a ricordare, a dialogare, a dissertare
sul bello e sul brutto
di un tempo ormai lontano
dove nascevano sogni e utopie
fra le massime di Mao
e le canzoni di Bob Dylan.
Questi uomini
Non possono dimenticare la fiamma
Che bruciava nei loro cuori
I carri armati di Praga
Il primo uomo sulla Luna
Ma soprattutto non vogliono
Rinunciare alla nostalgia
Del loro tempo felice
Assurto agli onori della storia.
Walter Fest, "Fiori"

Fiori
Walter Fest
Libro animato
Se quello che ho fra le mani fosse un libro, scriverei una recensione. Ma quello che ho fra le mani non è un libro, è qualcosa di più e qualcosa di meno, è un pezzo unico. L’autore, Walter Fest, lo definisce “libro animato”, io lo considero un dono prezioso ricevuto da un amico. Di questo libro esiste un solo esemplare, ché Walter ne produce uno alla volta; è scritto, illustrato, dipinto e rilegato a mano, è un insieme di creatività agglomerata nello stesso manufatto. Libro come oggetto, dunque, come opera artistica non solo fatta di parole scritte.
Il contenuto è solo uno dei tanti aspetti, ed è costituito da dieci brevi racconti che hanno come argomento i fiori: di campo, di città, di Natale etc. In realtà sono pretesti per parlare di amore per la vita, di solidarietà, di bisogni, di natura, di bellezza. I personaggi sono gente comune, figure popolari che s’incontrano per strada, su una panchina, al mercato. La lingua in cui si esprimono è il romanesco, e in questo l’autore dà il meglio di sé, rispetto ai testi in lingua nazionale.
Il libro è “animato” perché, come dice l’autore stesso, c’è dentro l’anima di chi l’ha scritto e perché presuppone un’interazione col lettore, che ha a disposizione spazi lasciati in bianco apposta per lui, dove annotare le proprie riflessioni e impressioni.
Un piacere tattile, visivo, che nasce dai colori della copertina, dai disegni, dai collage, dal fruscio della carta, dall’inchiostro della penna, dai segnalibri allegati. Insomma, più che una raccolta di racconti sui fiori, una vera e propria esperienza sensoriale a tutto tondo.