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valentino appoloni

Matteo Giancotti, "Paesaggi del trauma"

14 Novembre 2018 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #saggi, #storia, #cultura, #recensioni

 

 

 

 

Il bellissimo saggio di Giancotti, edito da Bompiani, offre un’indagine sul rapporto tra uomo e natura nei contesti di guerra, esaminando la letteratura nata dall’esperienza vissuta. Lo studio si svolge tra Grande Guerra e Resistenza, con un capitolo dedicato ai più recenti orrori nell’ex Jugoslavia attraverso l’esame di un romanzo del francese  Mathias Énard.

Come vede il soldato il paesaggio che lo circonda? Innanzitutto, in generale il paesaggio risulta dalla relazione tra gli uomini (e le idee delle loro comunità) e natura. Il militare nella Grande Guerra vede luoghi straziati e piagati dalle armi inumane che devastano il corpo stesso del fante. Inoltre strade, trincee, gallerie, ripari piegano l’ambiente ai bisogni militari facendo della natura una vittima della violenza umana. L’ambiente, così martoriato, non offre consolazione, bellezza, riposo per gli occhi. Nella memorialistica si insiste infatti sulla sofferenza del soldato imprigionato in un contesto funzionale ai combattimenti e quindi alla distruzione; la frattura con il paesaggio è piena, anche se non mancano dei distinguo tra i vari autori. I luoghi sono zone di guerra e di morte; il vivo rigoglio delle piante sembra non poter più  tornare.

I testi che Giancotti segue sono in particolare quelli di Comisso, Serra, Lussu,  Sbarbaro, Marinetti, D’Annunzio; ci sono sensibilità differenti che portano naturalmente a declinazioni diverse del tema. Un Ungaretti si specchia nel territorio devastato; un Comisso, legato a un’idea della guerra come avventura giovanile, attraverso i positivi ricordi dell’infanzia supera il trauma di vedere il suo Veneto distrutto e saccheggiato dagli austriaci dopo Caporetto, Marinetti invece da futurista si inebria davanti a un paesaggio animato da razzi, bagliori, esplosioni di ogni tipo.

Con la letteratura sorta dalla Resistenza, si ha invece una parziale ricomposizione tra uomo e ambiente; nasce infatti la figura del partigiano che non è imprigionato in una trincea, ma si muove tra boschi e campi, col dinamismo di chi vive come ribelle. Chi combatte per la libertà contro il nazifascismo, si rifugia sulle montagne che spesso sono parte della sua biografia personale. Si vive nella natura, il rapporto è più a misura d’uomo dato che le bande sono piccole e hanno molto spazio a disposizione, inoltre il legame fisico con i propri luoghi accentua il lato patriottico di una guerra che fu anche lotta contro lo straniero. La natura è amica o addirittura madre per certi memorialisti. I testi affrontati nel saggio sono principalmente quelli di Fenoglio, Calvino, Fortini, Caproni, Zanzotto, Meneghello, Cecchinel.

Naturalmente il trauma della violenza vissuta non sempre permette questa riconciliazione tra uomo e paesaggio.

Ad esempio, nel luogo in cui un compagno è caduto ucciso dai tedeschi, sembra permanere in alcuni testi una traccia di dolore indelebile che rende impossibile staccare la bellezza della natura dall’orrore della morte. La permanenza di quanto avvenuto può impedire il godimento del paesaggio se la ferita della violenza non si è rimarginata nel ricordo di chi la visse durante la Resistenza.

Come superare tutto ciò? Per Pavese non resta che affidarsi ai tempi lunghi della natura stessa; lo scorrere del tempo, il susseguirsi delle stagioni, il rinnovarsi delle generazioni porterà un domani al riassorbire dei traumi nel grande ed eterno flusso di tutte le cose.

Un libro davvero bello quello di Giancotti; il pregio più grande è che stimola a leggere i tanti autori citati, tra i quali troviamo memorialisti, ma anche poeti e romanzieri che con la parola scritta hanno testimoniato il dolore di momenti terribili.

 

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La marcia di Radetzky di Joseph Roth

5 Settembre 2018 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni

 

 

 

 

1932

 

Parlare di questo libro significa innanzitutto parlare di un bel romanzo, ricco di sensibilità per la storia e gli uomini, grondante di attenzione psicologica per personaggi vittime di drammi che vanno oltre la loro contingente vicenda individuale. Il romanzo copre tre generazioni della famiglia austriaca dei Trotta, gente di modesta origine, nobilitata dopo che un giovane sottotenente salva la vita all’imperatore Francesco Giuseppe a Solferino, nel 1859. Da allora la corte di Vienna regala attenzione e protezione ai Trotta; il figlio del sottotenente diventa un ligio funzionario di stato, mentre il nipote Joseph è destinato alla carriera militare. La vita di quest’ultimo è ossessionata da due ritratti; quello del nonno eroe e quello del vecchio sovrano che da oltre mezzo secolo governa l'Austria-Ungheria. Il passato graffia il presente, lo rallenta, mentre l’avvenire non ha il colore della speranza semplicemente perché non ci può essere avvenire per i protagonisti del libro, vecchi o giovani che siano, in quanto troppo legati a ciò che fu un tempo.

I due ritratti a volte si sovrappongono nella mente del ragazzo, come se fossero la stessa individualità; sono ritratti di personalità forti che mettono in soggezione e impongono al modesto nipote aneliti non alla sua portata. Sente di non poter avere una vita propria; può solo cercare di emulare il coraggio del suo avo, ripetendone gli slanci. La crisi dell’impero si accompagna al tramonto dei Trotta, come se per una legge segreta dovessero seguire lo stesso percorso. Ci si avvicina alla Grande Guerra e Roth sembra descrivere un grande teatro dove i vari attori fingono che ci sia ancora un domani ignorando mille crepe; tensioni sociali, spinte nazionalistiche interne, scarso senso dello stato. A tratti qualche squarcio di consapevolezza si apre; i giovani militari si annoiano in periodo di pace ma pensano che una guerra sarebbe il collasso per la monarchia, il vecchio imperatore si muove carico di troppi anni godendosi cerimonie e parate piene solo di apparenza e in fondo nessuno ha voglia di morire per una cosa vecchia come l’impero.

Joseph, pieno di incertezza e tormentato da troppe contraddizioni, pensa spesso di lasciare l’esercito e di vestire panni borghesi, accontentandosi di una vita senza squilli di tromba ma più libera da concetti come l’onore. Le piccole esigenze individuali scavano tunnel nella coscienza di uomini normali, non all’altezza di sfide poste da un’epoca di grandi trasformazioni. Tutto gronda di passato mentre il futuro appare come una battaglia dove le vecchie armi non servono più a nulla; ciò che è stato costituisce una zavorra, non una risorsa. Il nuovo mondo avrà leggi nuove e terribili.

Si cerca di sopravvivere, mentendo a se stessi, come fa l’imperatore che in fondo non crede di essere così vecchio. Il giovane Joseph, cresciuto all’insegna dei valori tradizionali, sensibile al punto da togliere il ritratto di Francesco Giuseppe da una bettola piena di sporcizia, non ha la stoffa dell’eroe, eppure quello è il suo destino, scritto sul libro di famiglia.

Il fascino del romanzo sta nella descrizione di questo lento crollo. Roth ci appassiona soffermandosi sui mille scricchiolii, osservando come un medico i sintomi di una malattia morale e politica; c’è tutta la bellezza della decadenza di un mondo che aveva una cifra etica di spessore. Infatti, prima della guerra scoppiata nel 1914, i ritmi erano diversi, la vita di ogni singolo godeva di più rispetto,  la morte non era ancora un fatto di massa tale da rendere irrilevante ogni morte individuale. Se qualcuno veniva meno, il suo posto non veniva subito occupato da un altro; gli uomini non erano fungibili come gli oggetti. Roth ci regala un inno alla lentezza, così attuale nella frenesia di oggi:

Così era allora! Tutto ciò che cresceva aveva bisogno di tanto tempo per crescere; e tutto ciò che finiva aveva bisogno di lungo tempo per essere dimenticato. Ma tutto ciò che un giorno era esistito aveva lasciato le sue tracce, e in quell'epoca si viveva di ricordi come oggigiorno si vive della capacità di dimenticare alla svelta e senza esitazione”.

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INTRODUZIONE ALLA VITA MEDIOCRE di Arturo Stanghellini (1887 – 1948)

6 Giugno 2018 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #storia

 

 

 

 

Prima pubblicazione 1920

 

Si tratta di un memoriale di guerra scritto dall’ufficiale pistoiese Arturo Stanghellini che nella vita civile era un insegnante. È una raccolta di episodi che visse sul Carso e sugli altipiani, narrati con stile curato e atteggiamento riflessivo; non manca nel complesso un tono fortemente elegiaco, improntato a esprimere l’atmosfera luttuosa di una guerra dove molti cari amici dell’autore muoiono. Certi passi possono risultare piuttosto pesanti, anche se proprio la sua prosa dolente fotografa bene l’idea di sconsacrazione del territorio nazionale, invaso dopo il tracollo di Caporetto; a fatica lo stesso Stanghellini evita la cattura, registrando con mestizia la vergogna di uno sbandamento generale, ma anche la fermezza di alcune personalità che arginarono in parte il disastro.

In qualche caso, ma raramente, emerge una triste ironia, come quando il Duca d’Aosta, comandante della Terza Armata, interviene per ricompensare il reparto distintosi sul Monte Pecinka; a quel nome pronunciato durante la cerimonia, i soldati hanno un sussulto poiché non sapevano come si chiamasse il luogo dove si erano duramente battuti per tanto tempo. Bisogna scrivere il nome a casa, commenta qualcuno. È quindi una guerra anonima, senza luoghi e nomi noti, non si sa dove si combatte e forse nemmeno il perché.

Ma il dato saliente che spiega il titolo, è che per Stanghellini la guerra è tragedia ma è anche “vita vera” cui non può che seguire la “vita mediocre”.

Restiamo comunque lontani da ogni esaltazione vitalistica di tipo dannunziano. Nella trincea nascono amicizie, solidarietà, rapporti chiari, proprio sotto la spada di Damocle della morte: “E si pensa che la vita più forte era vicino a quella calda morte sanguinante”.

Nella pace vigono invece la mediocrità, la meschinità, la doppiezza. Quando nel novembre 1918 si conquista la vittoria, il reparto del giovane ufficiale non può sfilare nei paesi appena liberati dagli austriaci e gli viene preferito uno squadrone di cavalleria, ben più presentabile. Arturo non protesta; è la pace e quindi l’ingiustizia, commenta con rassegnazione. La stessa vittoria viene timidamente festeggiata dai suoi compagni perché il ricordo dei caduti è troppo fresco. Finita la guerra, non restano da vivere che le “ore piccine” della vita. Il lato più alto di essa è già stato speso. Inoltre, i reduci parlano solo a se stessi; come i vecchi garibaldini che sfilavano nelle ricorrenze e non capivano, secondo il memorialista, di essere inutili frammenti del passato, così i reduci non hanno nulla da dire ai più giovani o a chi la guerra non l’ha fatta. Ognuno ha avuto la sua vita, i suoi ricordi, le sue tensioni, ma il tempo invecchia presto tutto e quindi il proprio vissuto resta un patrimonio limitato a una generazione.

È un pessimismo in contrasto con la professione di Stanghellini che fu insegnante e che quindi dovette parlare alle nuove generazioni. L’autore sembra non credere nel valore del racconto di certe grandi esperienze e alla valenza didattica della testimonianza; eppure, l’aver scritto il memoriale va comunque in senso opposto rispetto al suo pessimismo. Può aver influito sulla sua visione il senso del dramma vissuto, quasi incomunicabile ai giovani per l’unicità del tributo di sangue versato. Ma il valore della sua testimonianza scritta rimane e ci parla ancora, anche dopo cento anni da quei fatti.

 

 

 

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Francesco Biamonti, "Attesa sul mare"

31 Marzo 2018 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni

 

 

 

 

Attesa sul mare

Francesco Biamonti

 

Einaudi, 1994

 

 

Un uomo di mare non più giovane, diviso tra l'amore per i viaggi e l'amore di una donna che lo aspetta con sempre maggiore impazienza. Ecco il protagonista di questo romanzo di Biamonti.

L'uomo è chiamato a fare un ultimo viaggio che gli serve per ragioni economiche; sarà un viaggio pericoloso e illegale, dovendo portare per nave un carico d'armi nell'ex Jugoslavia dove ancora si combatte. La nave è vecchia e l'affidabilità dell'equipaggio non è scontata; potrebbe finire male, oppure bene, ma col rischio che la sua donna si stanchi di attendere ancora una volta il suo ritorno.

Il libro è solcato da varie attese, da propositi più abbozzati che pianificati, da ricordi vecchi e recenti; insomma, la vita stessa con i suoi colori.

Il protagonista ricorda certi personaggi di film che si lanciano in un azzardo per togliersi dai guai e avere le basi per costruire un futuro migliore. Quando il viaggio si fa ingarbugliato, molto fa pensare a un esito tragico; i nodi non risolti del passato si intrecciano con i pericoli del presente, tanto che pare non esserci più avvenire per i compagni di questo viaggio.

Le atmosfere mediterranee, le coste della Liguria e della Francia disegnano un confronto continuo tra terra e mare; il protagonista deve decidersi a lasciare per sempre il mare che non offre sicurezza e accettare la terra dove forse qualcuno lo aspetta ancora. Rimane un libro poetico che si apre alle diversità tra persone e culture, con qualche riferimento alle guerre etniche nell'area slava; quello che piace meno è la secchezza espressiva dell'autore, forse poco interessato ad alimentare la suspense della vicenda che si fa drammaticamente avventurosa nella parte finale. I tanti personaggi provano a parlarsi, ma non riescono a raccontarsi reciprocamente. Si limitano a battute rapide, domande senza risposte, sguardi da interpretare. Anche qui deve essere il paesaggio, ossia il mare, a parlare al loro posto. Forse può bastare.

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Francesco Biamonti, "Vento largo"

10 Marzo 2018 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni

 

 

 

 

Vento Largo

Francesco Biamonti

Einaudi, 1991

 

Vento largo è un libro dello scrittore ligure Francesco Biamonti, edito da Einaudi. È un romanzo delicato, a tratti aspro, con un fondo di malinconia irriducibile. I personaggi sono prigionieri di un mondo duro, stretto da una geografia spietata tra mare e rocce dove l'agricoltura rende sempre meno e i paesini tra Liguria e Francia si spopolano. L'attività che porta qualche reddito è quella del passeur che aiuta i clandestini a raggiungere la Francia passando per i sentieri più impervi. Il protagonista Varì compie questo lavoro, iniziato per amore di una donna, Sabèl, misteriosamente scomparsa senza che ne siano note le cause. Varì la cerca come un innamorato adolescente e intanto la sua vita, come quella degli altri della zona, perde senso e forza; le borgate emanano tristi silenzi, la sera si vaga alla ricerca di svaghi passeggeri che non guariscono le ferite del vivere, mentre il vento schiaffeggia le vecchie case con gli orti abbandonati. Non ci sono luci a riscaldare le giornate; qualcuno parte per il mare cercando una fuga da una vita modesta. Tentativi sfortunati, spesso.

Anche Varì pensa a una evasione o a una fuga. Ma alla fine resta, girando inconcludentemente durante il giorno e di notte facendo il passeur in situazioni sempre più pericolose. Non sempre è facile interpretare i dialoghi minimi tra i laconici personaggi, affamati di vita vera, ma troppo deboli per riuscire a cambiare la loro esistenza. Su tutto domina il paesaggio, inospitale e cupo; forse un tempo c’era una consonanza tra uomini e terra, ma la modernità l’ha indebolita. Varì non ama il suo lavoro. Non ama nemmeno la sua terra, ora che è solo. Eppure non cambia nulla del suo vivere. È uno sconfitto, come la terra improduttiva che la gente non ha più voglia di coltivare. L'unica ragione per restare sta forse nel fascino del paesaggio ligure, selvatico, disarmonico, fonte di sfide, mai domato dall'uomo che con le terrazze ha cercato di sottometterlo.

Si percepisce in particolare che un tempo le cose erano diverse; c'era una moralità anche nell'attività illegale; ora si è rotto qualcosa per sempre, prevale il lucro puro e semplice, le persone sono avide e la violenza può esplodere. Una volta i passeur aiutavano alcune persone in difficoltà a fuggire; ora l'attività è cambiata, è nato un grosso traffico di uomini, c’è più pericolo. Rimane l’eco di questa moralità perduta ad ancorare le persone a luoghi che offrono sempre meno presente.

La scrittura esprime una poesia indimenticabile in cui ogni strada, ogni sentiero, ogni roccia davanti al mare si colora di toni lirici delicati. Il paesaggio parla più degli uomini. È un mondo al tramonto, triste e splendido allo stesso tempo.

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Le voci di Signora dei filtri: Adriana Pedicini, Nadia Banaudi, Valentino Appoloni

3 Marzo 2018 , Scritto da Chiara Pugliese Con tag #chiara pugliese, #radioblog, #interviste, #eva pratesi, #vignette e illustrazioni, #adriana pedicini, #nadia banaudi, #valentino appoloni, #redazione, #blog collettivo

 

 

 

Oggi su Radioblog scopriremo 3 voci di Signora dei Filtri: Adriana Pedicini, Nadia Banaudi e Valentino Appoloni.

Questi 3 scrittori e redattori del blog converseranno dei loro libri e delle loro letture interagendo tra di loro come in un vero e proprio salotto letterario virtuale, facendoci conoscere  la loro scrittura e invitandoci a leggere i testi che più li hanno colpiti ed affascinati.
Partiremo da Omero e James Joyce, attraversando Kafka, la Grande Guerra, approdando a temi femminili, di vita quotidiana e  lambendo addirittura il thriller. 
Un'occasione preziosa per conoscere e ascoltare le voci di chi ci allieta e ci interessa con articoli e recensioni e per scoprire meglio le loro passioni e le loro personalità.
Vi auguro come sempre buon ascolto!
 
 
Per contattarci: radioblog2017@gmail.com
Illustrazioni a cura di Eva Pratesi - www.geographicnovel.com
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L’anno della vittoria di Mario Rigoni Stern

8 Dicembre 2017 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni, #storia

 

 

 

 

 

L’anno della vittoria è un breve romanzo di Mario Rigoni Stern pubblicato da Einaudi nel 1985 e ambientato nell’altopiano di Asiago. Le vicende si svolgono nell’arco di un anno, dagli ultimi giorni della Grande Guerra fino all’inverno successivo.  Con la vittoria di Vittorio Veneto il lungo e sanguinoso conflitto finisce; la gente dell’altopiano, sfollata fin dal 1916, può finalmente tornare nei propri villaggi. Protagonista è la collettività che popola quei paesi, mentre invece in Storia di Tönledello stesso autore, protagonista era il vecchio Tönle, archetipo dell’uomo nato in terre di confine, inquieto, dinamico, amante della libertà. Il romanzo di cui trattiamo ora è la continuazione ideale dell’altra opera, già affrontata in questo blog.

In nessun momento si respira la gioia per la vittoria; non ci sono momenti di esaltazione patriottica, quasi che il trionfo riguardi un altro mondo e che per la gente comune non ci sia scampo alla quotidiana fatica del vivere. Ciò che preme agli abitanti dell’altopiano è rivedere la propria terra e occuparsi della ricostruzione. La guerra, voluta dall’alto, fatta perché si doveva, è stata una parentesi dolorosa;  ora si deve porre rimedio ai danni e ai guasti che i festeggiamenti ufficiali tendono a far dimenticare.

La vittoria vera, sembra di poter leggere chiaramente, è ridare integrità al proprio mondo culturale; rimettere in piedi case distrutte, ricostruire paesi bombardati, riprendere una vita di comunità dopo anni di profugato. Per fare ciò bisogna recuperare e usare i materiali abbandonati dagli eserciti anche se è illegale farlo, lavorare nella bonifica del territorio, lottare con la burocrazia per avere gli indennizzi previsti per chi è rimasto senza un tetto.

È un mondo di tenacia e di costanza quello descritto; famiglie ricche di sapere pratico, capaci di mille fatiche, solidali tra loro, mai disperate nonostante la povertà e l’inverno alle porte. Si affacciano anche i primi scontri politici e non mancano le tensioni sociali. Ma accanto alla gente dell’altopiano, protagonista è una natura vivissima; la scrittura di Rigoni Stern pennella un mondo ferito dagli eserciti e dalle battaglie, ma sempre ricco di colori e mai fermo. La natura va avanti, le stagioni non si fermano e questo implicitamente offre speranza; tutto il dolore può diventare un fatto di ieri e l’amore per il territorio può spingere a riprendere a vivere come prima. La gente come valori personali è in fondo rimasta uguale nonostante le pene del conflitto, passato in trincea o in lontane città come profughi. Nessuno ha imparato a odiare o ha appreso una cinica lezione di egoismo. Si ricomincia a vivere come comunità; si condivide il sovrappiù in modo naturale, si spazza la neve nella via della famiglia dove ci sarà una nascita in modo che il medico che verrà in slitta abbia la strada libera, la vecchia generazione educa senza sussiego la nuova, obbligata  a diventare subito adulta. Il giovane tenente che aiuta la gente del posto riscatta l’arroganza di altri colleghi che in modo fiscale perseguono anche i piccoli reati, compiuti per ragioni di necessità da chi ha perso tutto. Anche l’inverno, come la guerra, passa e il nonno può parlare con fiducia alla nipote: “Osserva il sole, non tramonta più aldilà di quella punta di montagna, ma aldiquà. Andiamo verso la primavera”.

È una comunità che risana da sola le sue ferite, con umiltà e senza clamore, in un colloquio continuo con la natura circostante, pilastro insostituibile nel formare l’identità di un territorio che a lungo ha avuto una tradizione di autogoverno.

Il finale della vicenda in cui la durezza del vivere è alleviata dalla poesia del paesaggio, aggiunge un po’ di favola, dando speranza nell’avvenire.

 

 

 

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Dall’Isonzo a Mladà Boleslaw di Italo Maffei

9 Settembre 2017 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni, #storia

 

 

L’Associazione Carsoetrincee propone questo memoriale di Italo Maffei, ufficiale modenese nella Grande Guerra. Il suo scritto è stato ristampato dopo la prima edizione del 1968 uscita a tiratura molto limitata; sicché ora gli appassionati possono accostarsi a un memoriale pressoché sconosciuto. Maffei fu impegnato sul medio Isonzo, sull’altopiano di Asiago e sul Carso; si distinse, infine, sulla Bainsizza nell’agosto del 1917.

Ufficiale e uomo di trincea, ci affascina con uno stile per nulla inferiore a Carlo Salsa e al suo notissimo Trincee. Il racconto di Maffei aggiunge una nota di vivacità o passione in ogni evento del logorante stare nelle prime linee. Tante cose parlano di morte, ma la distruzione è talmente costante da investire tutto, il paesaggio, i vivi e anche i caduti in un certo senso riavvicinati ai vivi da un comune patire senza fine:

 

È tutto un caos di cose morte, ma terribilmente vive e presenti che ci avvolge (..) Ci sono qua e là dei morti insepolti e anch’essi vivono una loro vita terribile nelle tragiche pose, supini, arrovesciati,  aggomitolati, protesi taluni, ancora in uno slancio felino (..) altri ancora maciullati, coi volti che pare che ridano biecamente e minaccino”.

 

La vicinanza del nemico impone vigilanza, estrema attenzione verso i subordinati, riposo minimo. Con il suo stile vivo l’autore ci trasmette questa tensione, vivacizzata dal rapporto franco con l’attendente Balestri, abbastanza simile al Benvenuto attendente di Mario Muccini, altro notevole  memorialista che ci ha lasciato lo splendido Ed ora, andiamo!. Ma sono tanti i temi affrontati; il rapporto con i civili improntato a non poca affabilità, il confronto con gli ufficiali superiori, la scarsa cura per le vite dei soldati che emerge in certi episodi. Il reparto di Maffei, ad esempio, rimane in attesa per quattro giorni per un’azione più volte rimandata e poi sospesa, esposto ai tiri nemici, perdendo uomini e vigore.

Serviva, poi, bombardare intensamente il nemico e procedere all’assalto, nella frettolosa convinzione che le difese fossero piegate? Maffei osserva un giorno un bombardamento con il suo capitano; i tiri sono micidiali e apparentemente precisi. Ma il seguente attacco cozza contro reticolati integri e le Schwarzlose dominano facilmente. Lo vede bene il disastro da lontano, il Maffei. Gli attacchi come quello erano destinati allo scacco, lo si notava vedendo i reticolati in piedi. Senza bombarde (armi decisive successivamente davanti a Gorizia nell’agosto del 1916), spiega in un altro momento e con efficacia a un superiore di buon senso, è inutile attaccare. Attacchi simili fanno eroi, non vittorie.

E sulla Bainsizza Maffei c’è ancora, pieno di energia, pronto all’undicesima offensiva che con uno spiegamento colossale di mezzi avrebbe dovuto spezzare in profondità il nemico. Il memorialista ci offre il suo drammatico punto di vista di comandante quasi sempre in prima linea in quella fase; ci parla di coraggio estremo e quasi spavaldo (a tratti sembra di leggere pagine di Ernst Jünger), avanzate mal coordinate, ufficiali inferiori costretti a prendersi fin troppe responsabilità, sacrifici fatti da poche truppe logore e senza armi pesanti.

Un memoriale intenso; parla di soldati e soprattutto di rapporti tra persone (in particolare durante la prigionia del giovane ufficiale modenese), senza dimenticare l’etica del dovere e della responsabilità.

Da leggere con cura, infine, dopo aver apprezzato le tante fotografie, le appendici all’edizione, specialmente le memorie difensive presentate alle autorità al rientro in Italia, ricche di energiche puntualizzazioni da parte dell’autore sugli scontri sulla Bainsizza.

 

 

 

 

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L’armata tradita di Heinrich Gerlach

7 Settembre 2017 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni, #storia

 

 

 

 

L'armata tradita è un romanzo di Heinrich Gerlach, pubblicato nel 1956 da Garzanti.

L’autore è uno tra i pochi sopravvissuti dei tedeschi presi prigionieri dai russi sul fronte orientale. Scrisse le sue memorie in prigionia nel 1944-45, ma nel 1949 il manoscritto gli venne sottratto dai carcerieri. Tornato in patria solo nel 1950, l’autore ricostruì l’opera tra il 1951 e il 1956, naturalmente con immensa fatica; rinacque così il testo che in forma di romanzo narra un grande dramma militare e umano. Seguendo la vecchia edizione Garzanti, diamo gli elementi della vicenda storica; circa 270 mila tedeschi restano intrappolati nella città nel novembre del 1942. Saranno progressivamente decimati soprattutto dal freddo e dalla fame, oltre che dai soldati sovietici. Circa 90 mila verranno imprigionati a fine gennaio del 1943 e solo poche migliaia torneranno a casa dopo la fine  della guerra.

Il romanzo è corale; i protagonisti sono sottufficiali e ufficiali tedeschi costretti a fare i conti con ordini sempre più assurdi in una situazione senza via di uscita. Alcuni reparti hanno persino avuto ordine di entrare nella sacca autointrappolandosi, non essendo per il comando accettabile alcun arretramento. Ma comunque il morale resta alto.  Inizialmente infatti si spera nei rinforzi; Hitler non può abbandonare un’intera armata. Arriveranno le truppe corazzate di Manstein, si ripetono i soldati. Vi saranno opportuni rifornimenti dal cielo, sperano. Ma Manstein non giunge e i rifornimenti sono limitati, mancando aerei adeguati. Le condizioni di vita peggiorano di settimana in settimana; eppure Hitler invita le truppe accerchiate a confidare in lui. Gerlach mostra un’ampia tipologia di reazioni davanti al vicino collasso dell’armata; chi ostenta apertamente le convinzioni antinaziste, chi riflette criticamente su una vita di compromessi e quieto vivere, chi cerca fino all’ultimo una medaglia, chi ripropone fanaticamente gli ordini di Berlino che impongono la lotta a oltranza. C’è del miracoloso in questa resistenza sempre più disperata; si formano battaglioni composti da cucinieri, da autisti, dal personale delle retrovie, mandati in linea con scarsa preparazione. Si riesce a procrastinare il crollo, sacrificando altri uomini  stremati. Mentre i russi penetrano nelle difese sempre più scarne, ai sopravvissuti non resta che tornare a sentirsi semplicemente uomini, animati da solidarietà e umanità, rigettando i valori del nazismo. Ma è comunque  significativo, in uno degli episodi descritti, che l’urlo “Heil Hitler” si elevi ancora in uno degli ultimi fortini tedeschi, segno che molti non rinnegavano il regime che li stava sacrificando.

Il libro fa sentire l’odore degli ospedali zeppi di feriti, la sofferenza fisica di uomini sempre più affamati e oppressi dal gelo, l’angoscia di essere chiusi da un accerchiamento micidiale. Due frasi di Hitler restano impresse; “Potete fondarvi su di me come su una roccia” (da uno dei tanti messaggi mandati da Berlino all’armata) e poi un’altra, pronunciata dopo la fine dell’assedio: “Gli uomini di Stalingrado devono essere morti”. Chi aveva perso nella grande battaglia di Stalingrado, infatti, non poteva che essere morto per non poter raccontare lo svolgimento di una disfatta e per essere utilizzabile come eroe nella propaganda di regime. Per essa Stalingrado era come le Termopili e la Germania si poneva come baluardo occidentale contro il pericolo sovietico. La resa o la ritirata non erano accettabili, nemmeno davanti all’imminenza del disastro. La massa dei caduti di Stalingrado serviva a creare un possente mito patriottico buono per motivare una rinnovata volontà di combattere contro il nemico ideologico. Irrazionalità e paranoia erano ormai di casa a Berlino e infatti pochi dei capi conoscevano realmente la situazione nei punti peggiori del fronte, ma senza problemi promettevano interventi del tutto irrealizzabili per mancanza di risorse.

Gerlach, uno dei superstiti di questi eventi, ha cercato di raccontare tutto questo, ossia l’olocausto di un’armata voluto dal suo capo supremo.

 

 

 

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L’uomo è forte di Corrado Alvaro

8 Agosto 2017 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni

 

 

 

 

L’uomo è forte è un romanzo di Corrado Alvaro, pubblicato nel 1938 da Bompiani. Il libro dovette passare attraverso le forche caudine della censura di regime che chiese inizialmente la soppressione di venti pagine; successivamente le richieste si fecero ben più limitate. Alvaro dovette sopprimere circa venti righe e specificare in un’avvertenza che la vicenda era ambientata in Russia e così il libro venne finalmente pubblicato. Ma in effetti il romanzo potrebbe essere ambientato in qualunque regime totalitario, fascista o comunista, tanto è vero che le autorità tedesche non ne autorizzarono la diffusione in Germania. Ho preso queste informazioni da una cadente edizione Garzanti del 1966, trovata per caso in libreria.

La vicenda vede protagonista l’ingegner Dale che rientra nel suo paese dopo un periodo all’estero; nel frattempo si era risolta una dura guerra civile e il nuovo regime poteva garantire pace e sicurezza. Appena arrivato, Dale viene accolto da un’amica, Barbara. Si capisce ben presto che sicurezza e pace hanno un prezzo altissimo; non c’è vera libertà, si vive nel disagio di essere colti in fallo, di destare sospetti e dubbi in chi ha il potere. Perfino un qualunque lavoratore che aiuta i due giovani a portare i bagagli fuori dalla stazione, sembra implicitamente condizionare la coppia; chiunque ha il potere di segnalare, denunciare, far arrestare. Il regime in questione è di tipo totalitario; non si accontenta genericamente di sottomissione e obbedienza, ma vuole entrare nell’anima delle persone, imporre valori e credenze con la sua capacità di pressione. Alla fine il cittadino deve sentirsi pienamente realizzato nell’obbedienza e addirittura considerare come suo dovere il denunciare ogni atto anche banale di eterodossia. Dale ha una personalità forte; non intende sottomettersi, anche se di fronte ha un regime che lo spia e che in generale crea una cappa di angoscia su tutti i cittadini. Ciascuno può pensare che in una stanza di albergo ci siano dei microfoni; oppure si può temere di essere seguiti per strada. Dale è vissuto all’estero, ha abbastanza denaro, fa acquisti che gli altri non possono permettersi; perciò non può che essere considerato sospetto. Il regime solo lentamente rende esplicito il suo volto feroce; ha forza ed efficacia sulle menti delle persone. La stessa Barbara ne è la prova; sente, infatti, in certi momenti, venerazione per  l’autorità che è una sorta di Divinità cui non si deve nascondere nulla. Si tratta di un tipo di autorità che inoltre ha bisogno di nemici. Non basta aver imposto il proprio credo con le armi; la continua sorveglianza sulle persone deve essere giustificata dalla presenza nociva di uomini dissenzienti. Senza nemici non si può mobilitare la società intorno a dei valori e tenere alta la tensione etica; quei valori sono quelli funzionali al benessere dello stato, spiega la propaganda, ma sono minacciati da una piccola minoranza che tutti devono contribuire a individuare. Il nemico è necessario. Il totalitarismo genera soggezione, ma ha anche gli  strumenti per ottenere una convinta adesione, poiché sa convincere che lo stato viene prima dei sentimenti e dell’amicizia. L’unica etica è quella dettata dall’alto.

Un romanzo di grande impatto, scritto con un linguaggio efficace e raffinato, dall’atmosfera kafkiana, per certi aspetti da accostare al successivo 1984 di Orwell. L’unico limite del romanzo è probabilmente il finale frettoloso, ma è un libro che merita di essere riscoperto.

 

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