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sergio vivaldi

Luciano Funetta, "Dalle rovine"

29 Novembre 2015 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #recensioni, #erotismo

Luciano Funetta, "Dalle rovine"

Dalle rovine

Luciano Funetta

Tunué

Quando Rivera se ne andò, nessuno lo vide a parte noi. Lo guardammo mentre si allontanava e scompariva tra gli alberi, lo osservammo inoltrarsi nella prigione di rami, dentro la vegetazione dove ad aspettarlo erano in due, in tre o in venti, anche se in realtà lo aspettava una persona sola. Quando Rivera uscì dal suo nascondiglio, noi eravamo pietrificati dalla paura e dalla stanchezza. Rivera invece non tremava. Sapevamo che sarebbe entrato nella foresta che divorava la casa e che qualcuno lo stava aspettando nel buio. Nessuno sa cosa successe dopo a Rivera, tranne noi.

Esistono due modi per affrontare la solitudine. Il primo è combatterla, cercare relazioni, provare a soddisfare la fame di compagnia a costo di trovarsi in situazioni insipide. L'altro è abbracciarla, uscire dal grande mondo per rinchiudersi nel piccolo universo delle proprie passioni e ossessioni. E Rivera appartiene alla seconda categoria, un uomo i cui serpenti sono l'unica ragione di vita, tanto da sceglierli come compagni di vita.

Eppure, nonostante tutto, ogni volta che li guardava, si prendeva cura di loro, ne osservava comportamenti e abitudini, Rivera provava una sensazione di compiutezza, qualcosa di molto simile alla pace. Non li aveva mai temuti e questo, pensava, doveva averli disorientati, come se la sua tranquillità fosse in grado di annullare la loro reputazione e di renderli inoffensivi.

La sua ossessione lo porta a girare un filmato amatoriale di un amplesso e presentarlo al direttore di un cinema a luci rosse. È un filmato sconvolgente, il pubblico del piccolo cinema ne rimane affascinato e terrorizzato allo stesso tempo. Perché girare il filmato? Una decisione improvvisa forse, non vanità né desiderio di fama. Ma il video diventa l'inizio del viaggio di Rivera nel mondo della pornografia d'arte, un mondo dotato di una vitalità propria ma anche una sua solitudine capace di risuonare con Rivera. Come sottolinea uno dei personaggi, “l'erotismo è ciò che non conosciamo e che tentiamo di raggiungere con la fantasia, e a costo di una profonda tristezza. Sa, quello del sesso è un mondo fatto di tristezza, anche se ci teniamo a non darlo a vedere”. Il mondo di Rivera si trasforma, passando da solitudine personale a collettiva, condivisa con le persone che incontra durante il viaggio.

Sarà l'incontro con Alexandre Tapia a spingere la sua nuova vita verso l'abisso della violenza, a smontare gli equilibri appena creati. Tapia è una figura carismatica, misteriosa, un pozzo di segreti e oscurità che si abbatte sul gruppo appena formatosi e lo guiderà verso un sentiero nuovo, un sentiero fino a quel momento inimmaginabile. Non è un burattinaio, non muove i fili di una sceneggiatura già scritta, sembra invece spingere il corso del destino verso uno scopo con la volontà e la sua ossessione per Rivera.

Due domande risuonano all'interno del racconto. In ordine di apparizione, la prima è l'identità del narratore. Chi è il “noi” narrante, che tutto vede e tutto racconta? Chi sono queste figure, questi esseri che seguono, osservano, commentano la vita di Rivera, senza abbandonarlo mai, neanche quando decide di entrare nella foresta e di unirsi al buio? Non è mai rivelato, la loro natura è lasciata all'immaginazione del lettore, ma Rivera può vederli e questo porta a considerarli come personaggi interni al racconto, figure senza nome e volto, ombre che diventano guardoni e spiano il dramma dell'esistenza di un uomo. Sono parte della storia molto più di quanto non lo sia un semplice narratore ma non intervengono mai, sono figure invisibili sullo sfondo, eppure sempre presenti.

La seconda domanda è l'identità di Tapia. Un uomo, un vecchio, residente a Barcellona, una vita di violenze subite alle spalle e ossessionato da un copione per un film pornografico che non è mai stato prodotto. Un uomo solo, senza mai amici, pochissimi sanno della sua esistenza. Nessuno poteva mai recitare quel copione, estremo persino per la pornografia snuff alla quale si ispira, espressione di una vendetta contro la vita e le sue ingiustizie. Nessuno tranne Rivera, con la sua solitudine, la volontà di sperimentare e l'ossessione per i serpenti. Ma il ruolo di Alexandre Tapia in questa storia non sarà mai chiaro fino alla fine. La sua apparizione però accelera gli eventi, la bolla in cui i personaggi si sono ritirati esplode e il mondo intorno a loro inizia a sgretolarsi rapidamente. Chi è davvero Alexandre Tapia?

Dalle rovine è un incubo, un viaggio negli anfratti più profondi del desiderio e delle ossessioni umane, un percorso fatto a testa alta, guardando negli occhi i mostri, abbracciandoli e trasformandoli in una forma di umanità terribile. Ma sarebbe ingiusto nei confronti dell'autore ridurre il romanzo a una semplice esplorazione del lato oscuro dell'uomo, per quanto eseguito in modo magistrale. I suoi personaggi sono fragili, le loro disgrazie fanno provare tenerezza e affetto. Si abbandonano consapevolmente alla discesa nell'oscurità seguendo sentimenti umani, reali; la solitudine e la violenza che li circonda e li pervade è la nostra debolezza, ed è con questo spirito che il lettore affronta il racconto, assorbendo situazioni e sensazioni dolorose come pugni messi a segno da un pugile esperto, o forse da un aguzzino il cui scopo è esaltare l'esperienza del dolore, della perdita, della mancanza, mescolati a sogni, speranze ed episodi di tenerezza e affetto, perché senza questi ultimi non possono esistere i primi.

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Niente di nuovo sotto il sole

30 Settembre 2015 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #il mondo intorno a noi

Niente di nuovo sotto il sole

Se non avete vissuto in una caverna in cima all'Himalaya, potreste aver sentito parlare di immigrazione, di diritti LGBTQ e teoria del gender. La polemica in Italia è stata molto aspra e, come accade sempre in questi casi, la voce più forte è di chi vorrebbe reprimere qualsiasi diversità e mantenere lo status quo. Queste persone si esprimono con termini discriminanti, razzisti e violenti, e rappresentano un fenomeno in forte crescita, generato dall'ignoranza e dal rifiuto di conoscenza. Il diverso è sempre stato oggetto di discriminazione in ogni periodo storico e la retorica che accompagna la discriminazione si appoggia su argomenti consolidati, basati su pregiudizi e su una differenziazione tra un noi positivo e un loro negativo.

Per supportare l'accoglienza sono stati fatti appelli alla solidarietà e a sentimenti umani o umanitari (le due cose non sono sempre correlate), ma questi appelli hanno esaurito la loro forza in poco tempo – come era lecito attendersi – e la foto del cadavere di un bambino ormai non fa più notizia. Giorni di storie strappalacrime sui due fratellini, sul bimbo morto e sul padre disperato, sui sogni della famiglia – notare il lessico, ricalcato dall'articolo ma comune a tutti i giornali, concentrato sui sentimenti del lettore e volto a stimolare empatia. Altri hanno parlato dell'indole migratoria umana, qualcuno ha confrontato il destino dei migranti con quello dei cervelli in fuga, altri hanno portato motivazioni economiche, ciniche ma capaci di dimostrare come l'immigrazione non sia il grande pericolo. Nessuno di questi messaggi è riuscito a superare la barriera noi/loro creata da chi si oppone alla presenza di stranieri sul suolo italiano.

Le ragioni sono semplici: la divisione noi/loro viene definita insormontabile, un'incompatibilità naturale tra culture diverse e si alimenta con la paura, la diffidenza e il razzismo latente. Nel momento in cui l'altro è visto come un pericolo per l'individuo, non esistono ragioni di solidarietà, di storia o di economia capaci di cambiare un'opinione tanto radicata, come dimostrato dai contro-slogan usati dai massimi esponenti della corrente anti-immigrazione (“aiutiamoli a casa loro” o “aiutateli a casa vostra”). Si potrebbe riassumere il concetto citando Lovecraft: “Il sentimento più antico e radicato nel genere umano è la paura, e la paura più antica è quella dell'ignoto”.

Stesso tipo di tensioni, e di divisione noi/loro, avviene tra eterosessuali e omosessuali. Anche qui fatti di sangue si susseguono, persone picchiate perché gay, adolescenti che si suicidano perché si sentono inadeguati. Intanto, gli estremisti fanno leva sulla diffidenza, sul sospetto, sulla discriminazione, mortificando e offendendo persone, proponendo una norma perché è la loro norma, sottomettendo il sentimento alla procreazione e generando altro odio. Sono tutte argomentazioni antiche, le stesse che portavano a bruciare le persone in piazza, o, in tempi più civilizzati, a condannarle ai lavori forzati. L'omosessualità non è più un reato, ma l'omofobia rimane e si esprime con l'emarginazione sociale, con la violenza psicologica e spesso anche fisica.

Uno degli argomenti preferiti degli estremisti è la protezione dei bambini, potenzialmente esposti e influenzati da comportamenti devianti. È lo stesso argomento da decenni, presentato in varie sfumature sia contro gli immigrati sia contro gli omosessuali. Oggi viviamo l'apoteosi della ‘teoria del gender’, una teoria inesistente, come spiegava Chiara Lalli. Se si applicasse questa teoria, i bambini si convincerebbero di poter scegliere quale sarà il loro sesso e il sesso dei loro partner una volta adulti. Il principio fondamentale della famiglia verrebbe distrutto. Non detto, il pericolo di un mondo formato solo da omosessuali e l'inevitabile estinzione della razza umana diventerebbero realtà. Quanto tutto ciò sia ridicolo lo ha capito persino il Ministero dell'Istruzione, con questa circolare, e anche il Papa, nel suo recente intervento al Congresso americano, ha dato la priorità ad altri problemi. In un passaggio del suo discorso papa Francesco dice:

Non posso nascondere la mia preoccupazione per la famiglia, che viene minacciata, come mai prima d'ora, dall'esterno e dall'interno. Vengono messe in dubbio le relazioni fondamentali, così come i fondamenti del matrimonio e della famiglia stessa. Posso solo ricordare l'importanza e, soprattutto, la ricchezza della vita familiare.

In particolare vorrei porre l'attenzione sui membri più deboli delle famiglie, i giovani. Tanti di loro sono attesi da un futuro ricco di possibilità, ma tanti altri sembrano disorientati e privi di uno scopo, intrappolati in un labirinto di violenza, abusi e disperazione.”

La prima parte è anche riferita alle unioni omosessuali, ma persino il Papa sembra ritenere più importanti altre questioni. Il Papa. Il massimo esponente del Cattolicesimo. Forse non sarà mai favorevole alle unioni omosessuali, ma indicando priorità diverse lancia un messaggio molto forte nei confronti di chi si batte con tanto ardore per la causa eterosessuale.

Per superare la divisione noi/loro l'unica via è conoscere l'altro, e in questo la letteratura dovrebbe giocare un ruolo fondamentale. Fuori dall'Italia questo in parte accade. ‘L'estero’ non è un paradiso, è pieno di contraddizioni, per ogni paese pronto ad accogliere migranti o a legalizzare i matrimoni omosessuali ci sono paesi che chiudono le frontiere costruendo muri vecchio stile, in mattoni e filo spinato o che arrestano esponenti dei movimenti omosessuali. Nessun paese si salva dalle tensioni, Stati Uniti in testa, dove non è mai stata davvero affrontata la questione della schiavitù nera, una questione fonte ancora oggi di tensioni fortissime nonostante il presidente abbia la pelle nera. E la popolazione nera negli USA è solo la punta di un iceberg composto dai milioni di “latini” e altre minoranze.

Ma in tutta la comunità letteraria anglofona qualcosa si sta muovendo, c'è una spinta evidente a cercare voci diverse nella narrativa e si è sviluppato un dibattito sulle discriminazioni, grazie ad autori che provengono da tutti i gruppi etnici. Un esempio su tutti, dei finalisti del Man Booker Prize 2015, solo due sono bianchi. E nella letteratura di genere la tensione è evidente, se un gruppo di scrittori, noto come Rabid Puppies, sostenitori di posizioni razziste, misogine e omofobe, ha truccato i voti dell'ultimo Hugo Award, costringendo gli organizzatori a non assegnare il premio in cinque categorie. La non assegnazione è una scelta corretta, ma rappresenta comunque una vittoria per i Puppies, e le reazioni nel mondo della Speculative Fiction non si sono fatte attendere. Il dibattito, tutt'ora in corso, è particolarmente acceso e la maggior parte degli autori, qualsiasi sia la loro origine, sta facendo fronte comune sulla questione.

In Italia questo dibattito è inesistente, gli unici attori sono membri del mondo politico – più attenti al ‘bene superiore’ – o blogger, come chi scrive, che non hanno intenzione di concedere una facile vittoria a posizioni conservatrici. Dove sono gli scrittori che potrebbero raccontare queste storie, suscitare un dibattito sull'argomento? Vanni Santoni, in un'intervista rilasciata in occasione del trentennale della morte di Italo Calvino, faceva questa riflessione:

Esagerando un poco, ma neanche troppo, si potrebbe dire che i lettori di narrativa contemporanea sono arrivati a essere non solo una nicchia ma addirittura una subcultura, e tanto basterebbe.

Non si può però negare che ci siano anche ragioni strutturali per la situazione attuale: gli spazi che hanno gli scrittori sui giornali maggiori, per non parlare degli altri media, sono relativamente ridotti, e anche quando se ne incontrano, la sopravvenuta legge della supremazia del venduto fa sì che vi si vedano autori midcult più spesso di altri ‘letterari’, e se questo si combina col sempre minor spazio che hanno in generale i libri sui media (pensiamo anche alla sostanziale esclusione dei critici di professione dai medesimi), l'effetto di ‘perdita di peso relativo’ degli scrittori è inevitabile.”

Involontariamente, Santoni ha risposto alla mia domanda ma, aggiungo io, se agli scrittori (e ai critici) non viene dato spazio, è anche perché non c'è interesse. Eppure il rinnovamento di una cultura, elemento fondamentale per non cadere in una stasi portatrice di arretratezza, nasce dal cambiamento e dall'ibridazione. Solo in questo modo si possono considerare nuovi punti di vista e sviluppare nuove idee in ogni campo, sociale, artistico, economico, politico etc. Dovrebbe essere argomento di discussione sui giornali e sulla rete, invece il dibattito è inesistente e i sostenitori delle due correnti parlano con appelli alla solidarietà, frasi urlate e l'immancabile ironia derisoria tipica dei social network.

E intanto, qualche sera fa passavo davanti a un elegante albergo vicino Campo dei Fiori a Roma e un distinto signore in giacca e cravatta ironizzava su come sarebbe meglio rimettere quell'ambulante, che cercava di vendere dei fazzoletti, su un gommone.

Stessi argomenti, stesse tensioni, stesso rifiuto di prendere posizione, in Italia come e più che all'estero. Niente di nuovo sotto il sole, quindi. Ma ci sono nuovi soli. E brilleranno presto, non importa quale posiziona si scelga di tenere.

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La Cerca

26 Giugno 2015 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #saggi

La Cerca

Esiste un elemento comune a ogni generazione, una trasposizione del rito di passaggio da bambino ad adulto in chiave moderna: il lavoro. È un'esperienza comune a tutti i giovani che, con la conclusione degli studi, escono dall'età dell'apprendistato ed entrano nell'età della produzione. Questo passaggio, per quanto costellato da difficoltà fisiologiche a ogni cambiamento di ruolo sociale, è rimasto fluido fino a qualche decennio fa. Ma negli anni '90 molto è cambiato.

«Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante merda del mondo!»

Così declama Tyler Durden in mezzo ai cocci di una vetrina appena distrutta da un'esplosione in Fight Club, film diretto da David Fincher e tratto dall'omonimo romanzo di Chuck Palahniuk. Le arti in generale, e la scrittura in questo caso, sono la valvola di sfogo dei disagi sociali e culturali, non sorprende quindi che la letteratura sia uno dei canali attraverso cui viene fotografato il cambiamento .

La frase sopra citata è straordinaria nella sua forza espressiva, perfetta per riassumere la filosofia anarchica intorno alla quale è costruito l'intero racconto, ma le azioni del protagonista dimostrano il contrario, almeno nella prima parte. Non siamo il nostro lavoro, ma il lavoro è parte dell'identità di ogni individuo e proprio per questo il protagonista si scaglia con veemenza contro la sovrapposizione automatica che avviene tra il lavoro svolto e lo status sociale percepito dal resto del mondo. Più di ogni altra cosa, Tyler sa che l'uomo vive da sempre una tensione a migliorarsi, mentre l'esercito di impiegati, operai, baristi, tassisti, camerieri e così via da lui reclutati sono insoddisfatti del loro lavoro e dell'identità sociale che ne deriva.

Pensate a uno sconosciuto che vi viene presentato da amici. Conoscere la sua occupazione lavorativa condurrà a consolidati stereotipi ai quali fare riferimento, strumenti che permettono di pre-giudicare – in senso letterale, privo di qualsiasi accezione negativa – la persona o di rivalutarla, in peggio o in meglio, nel caso in cui l'informazione giunga dopo le presentazioni.

Fight Club viene pubblicato nel 1996 ma è solo un esempio della narrativa di quegli anni sul tema della dissoluzione dell'identità sociale. Gli anni '90 rappresentano il periodo in cui i primi figli della cosiddetta Generazione X entrano nel mondo del lavoro, «i figli di mezzo della storia, cresciuti dalla televisione a credere che un giorno saremo milionari e divi del cinema e rockstar», per citare ancora Palahniuk. Questa generazione doveva essere speciale, ma quando si è trovata a essere normale, rinchiusa in posizioni lavorative alienanti e costrittive, sono subentrate frustrazione e malcontento.

Come ha sostenuto recentemente il sociologo polacco Zygmunt Bauman a Gorizia nel corso del festival èStoria, una delle ragioni che hanno provocato il cambiamento è stata la mancanza di un'eredità paterna come base di una spinta propulsiva. Questa differenza è visibile già con i nomi creati dalla narrativa per generazioni, il passaggio da “baby boom” alla già citata Generazione X e successive. Bauman definisce le generazioni etichettate con una lettera “ignoti matematici che stanno a indicare proprio l'ignoto di un futuro che non risponde più alle potenzialità impiegate dai singoli individui”.

È la tensione verso il futuro a essere problematica, lo è sempre stato. Ogni agitazione, ogni movimento sociale o culturale, in particolare giovanile, ragiona sempre su un'analisi del presente e su una costruzione di un futuro, spesso utopistica nelle aspettative. Niente è più importante del lavoro nel futuro di un giovane. Il lavoro occuperà una parte consistente della sua vita e gli darà una definizione sociale, quindi la sua ricerca diventa anche un tentativo di costruire un'identità soddisfacente per sé stesso. Se questa ricerca dovesse concludersi in modo diverso da quello desiderato si andrà incontro a rabbia e frustrazione, generando una ribellione che, nella sua forma più estrema e violenta, Palahniuk descrive nel suo romanzo. Non è un caso se il protagonista fa spesso riferimento a una figura paterna inaffidabile, dando un involontario supporto alla teoria di Bauman.

Le persone impegnate a picchiarsi negli scantinati dei locali e a progettare attacchi terroristici all'interno delle città erano insoddisfatte, frustrate, ipercompetenti rispetto alle mansioni svolte, ma adulte.

Oggi? Oggi trovare un lavoro non è un rito di passaggio, è una Cerca epica.

La Cerca, per definizione, può essere completata solo da veri eroi e solo dopo il superamento di prove terribili. Il suo scopo è portare un dono al popolo capace di garantire una stabilità e una soddisfazione spirituale e materiale. Prendiamo come esempio uno dei miti che più ha influenzato l'immaginario occidentale, quello del Graal. Il Graal ha avuto un valore simbolico fondamentale: dal Calice dipende il benessere della terra e dalla terra quello del popolo, è il perno tra il piano spirituale e quello materiale, mentre a livello culturale è un simbolo precedente al Cristianesimo e riadattato alla religione in un secondo momento. L'anello di congiunzione perfetto tra una moltitudine di elementi in contrapposizione tra loro.

«Dobbiamo ritrovare ciò che è andato perduto... Il Graal... Solo il Graal può risanare le piante e i fiori … Solo il Graal può redimerci» balbetta un Re Artù morente nel film Excalibur (1981), diretto da John Boorman. Morgana si muove per distruggere la pace e la prosperità stabilitasi nel regno, ma i danni devono essere prima morali: Artù è legato alla terra e finché egli prospera il terreno continuerà a dare i suoi frutti. Morgana riesce, con l'inganno e approfittando di un momento di debolezza del re, a concepire un figlio con il fratellastro, macchiando la sua condizione di prescelto con l'incesto. La salute di Artù peggiora, punito per il suo peccato, e con la sua anche quella della terra che smette di dare frutti. Sarà una visione a mostrare il Sacro Calice, e anche nelle sue condizioni il Re sa che trovarlo è l'unica speranza di redenzione.

Nella versione scritta del mito su cui è basato il film, La morte di Artù di Thomas Malory, il Graal compare in diverse occasioni per compiere il suo miracolo, ma la cerca comincia dopo una visione giunta ai cavalieri riuniti intorno alla Tavola Rotonda e i testimoni della visione si mettono in cerca, noncuranti delle difficoltà. Lancillotto, modello di ogni cavaliere, sembra l'unico in grado di avere successo nell'impresa ma, macchiato dalla sua infedeltà con la regina e dalla superbia, deve superare un periodo di penitenza e purificazione prima di poter arrivare al luogo in cui è conservato il Graal. Il suo pentimento non è comunque sufficiente e non gli sarà permesso toccarlo, solo tre cavalieri saranno degni di partecipare al banchetto, gli unici cavalieri ad aver tenuto fede ai principi della Tavola Rotonda, come predetto da un sogno di Sir Gawaine e interpretato da un eremita. Il sogno mostrava centocinquanta tori «dal manto nero e pieni di orgoglio esclusi tre, due dei quali dal manto interamente bianco e l'altro con una piccola chiazza nera». Secondo l'interpretazione del religioso, «i tori vanno intesi come la compagnia della Tavola Rotonda, il cui manto è nero per i loro peccati e la loro immoralità. Il nero rappresenta la mancanza di azioni buone o virtuose. E i tre tori dal manto bianco salvo uno con una chiazza nera: i due bianchi rappresentano Sir Galahad e Sir Percivale, perché sono puri nella carne e nello spirito, e il terzo rappresenta Sir Bors de Ganis, che ha ceduto alle tentazioni solo una volta ma, in seguito, ha preservato tanto bene la sua castità che le sue colpe sono state perdonate». Poche ore dopo il banchetto a cui parteciperanno i tre prescelti il Graal abbandonerà il mondo mortale per sempre, come preannunciato a Galahad durante il pasto da Gesù Cristo, secondo il quale «[il Graal] non è servito e adorato come merita dagli abitanti di questi luoghi, poiché essi sono stati convertiti al male, per questo li priverò dell'onore che avevo fatto loro». Le difficoltà, i tranelli e le tentazioni a cui hanno dovuto resistere per arrivare al banchetto sono interminabili, gli altri cavalieri, che non godevano della condizioni di prescelti, hanno subito clamorose sconfitte e si sono macchiati di colpe terribili nel corso delle loro avventure.

Gli ostacoli sul percorso che porta al lavoro, e all'età adulta, sono metaforicamente paragonabili a quelli del mito: disposti con machiavellica perversione e circondati da approfittatori e truffatori, sembrano il frutto di una narrazione epica volta a sfoltire le fila degli aspiranti eroi. Le difficoltà della ricerca del lavoro sono dovute all'evoluzione di un sistema economico che ha provocato una frammentazione dell'offerta e una riduzione delle prospettive, a cui si deve aggiungere le intenzioni di diverse figure, sempre esistite, di approfittare della situazione per ragioni poco oneste. Facendo qualche ricerca è facile imbattersi in annunci-truffa, in annunci scritti in un linguaggio da scuola elementare – ma con più errori –, in aziende che si negano dopo mesi di prestazioni non pagate, in avances sessuali durante i colloqui, in startup che chiedono dedizione totale senza poter pagare, in proposte degradanti già prima di arrivare al ruolo di procacciatore di like e gestore di amicizie. È un crescendo epico verso il demenziale e il grottesco, una produzione di tale qualità da rendere fiero Monthy Python. In effetti, se le teorie del complotto avessero un fondamento Monthy Python ne sarebbe la mente. Le prove esistono.

Il Graal, il fuoco, la fontana dell'eterna giovinezza, la pietra filosofale, hanno un valore simbolico, un raggiungimento di una condizione umana superiore, capace di valicare i limiti estremi della natura mortale per raggiungere lo status di perfezione divina. Aspirare a un qualcosa di superiore era valido in un mondo in cui il passaggio tra l'età della dipendenza e quella dell'indipendenza era fluido e naturale, ma anche più povero di possibilità. Da tempo si è arrivati a parlare di “scelta razionale” o “scelta adulta” per dare un significato positivo all'abbandono consapevole dell'identità desiderata in favore di una forzata dall'esterno. Considerata la situazione attuale, quando si comincerà a vedere realizzate le proprie aspettative se si continua a lavorare come procacciatori di like?

Qui dovrebbe intervenire l'eroe, la figura in grado di sfidare gli dèi, come Prometeo, o di esserne scelta, come Galahad ultimo discendente di Giuseppe di Arimatea, ottenere un dono e condividerlo con il popolo. Ma l'attesa dell'eroe è lunga e spesso costellata di impostori o personaggi che mostrano un successo temporaneo per poi vedere tutto fallire. L'eroe non ha la funzione di ripristinare un passato, l'eroe è portatore di cambiamento, è una figura rivoluzionaria, capace di riconfigurare il mondo in una nuova struttura. Il suo compito è più difficile di quanto si possa immaginare, perché si troverà a combattere anche le persone che sta cercando di salvare. O forse anche questo fa parte del suo destino: l'epica della sua vittoria è proporzionale alla grandezza del suo avversario e alla sua influenza nel mondo.

Se questa è la natura dell'eroe, allora la sua attesa è un atteggiamento passivo che non sembra poter coesistere con la società moderna. Per dirlo con le parole di Joseph Campbell, «l'eroe moderno, l'individuo moderno che osa accettare la chiamata e cercare la dimora in cui risiede la sostanza grazie alla quale il nostro destino sarà purificato, non può, anzi, non deve aspettare che sia la comunità ad abbandonare il suo manto di orgoglio, paura, avarizia sistematizzata ed equivoci canonizzati. ‘Vivi ogni giorno’, dice Nietsche, ‘come se fosse il primo, come se fosse l'ultimo’. Non è la società a dover guidare verso la salvezza l'eroe creativo, ma il contrario. Quindi, tutti condividiamo il compito supremo – tutti portiamo la croce del redentore – non nel momento glorioso della vittoria della tribù, ma nei silenzi della nostra personale disperazione». Una chiamata alle armi, un invito a creare il proprio aiuto divino, ad assumere il ruolo rivoluzionario che è proprio dell'eroe e a sommare questa volontà alla volontà di tutti gli altri per riportare il dono alla società. Non esistono eroi. Tutti sono eroi.

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#ioleggoperché?

23 Aprile 2015 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #cultura

#ioleggoperché?

Quando ho saputo dell'iniziativa #ioleggoperché mi sono incuriosito. La prima reazione è stata positiva, pensavo fosse nata da qualche blogger abbastanza fortunato da azzeccare la classica frase a effetto. Poi ho scoperto che si trattava di un progetto strutturato dietro al quale sono stati spesi molti soldi. A quel punto ho guardato l'elenco dei titoli selezionati, e mi sono sentito male. Vorrei chiarirvi cosa penso dei libri coinvolti, ma Andrea Coccia su Linkiesta lo ha spiegato meglio di quanto potrei farei io.

Ho provato a stare zitto sull'argomento, ma è il classico reflusso di acidità che sale dallo stomaco e mi fa venire voglia di urlare la quasi inutilità dell'iniziativa, e non solo perché convincere le persone a votarsi alla lettura a colpi di Casati Modigliani è da folli. E quindi eccomi qui, 23 Aprile, data del gran finale con volontari nelle piazze (inclusa una mia amica, scusa R.) e serata televisiva, a riflettere con voi sul perché in Italia non si legge e a dare la mia opinione, molesta e non richiesta come sempre.

L'utilizzo di un hashtag per pubblicizzare il progetto fa pensare a un target giovanile, qualunque sia il concetto deviato di giovane in cui vive questa nazione, o quantomeno rivolto alle persone con maggiore dimestichezza con il digitale e con la rete. Il principio, almeno sul piano teorico, è corretto: è necessario rivolgersi alle nuove generazioni per farle appassionare alla lettura. Scegliamo quindi libri validi, in grado di appassionare una fascia di età che spazia tra i 18 e i 30 anni, cose tipo Il signore delle mosche di William Golding, o Il giovane Holden di Salinger e... cosa? Non sono in lista? Forse erano un target troppo adolescenziale... Bradbury? Huxley? Orwell? No? E chi hanno scelto? ... Il resto lo lascio all'immaginazione del lettore, non vorrei costringere la nostra Signora dei Filtri a introdurre la censura.

Il problema non è solo la lista, è tutto il progetto. Il mercato editoriale è in crisi su tutti i fronti, libri, mensili, quotidiani, riviste, non si salva nulla, e persino all'estero le vendite sono in calo. Parte della colpa è dell'onnipresente crisi economica, ma non può essere l'unica ragione. Sospetto che i tagli ai fondi per la scuola, nella mia memoria di bambino trentunenne sono cominciati nel '91, quando si cercavano soldi per finanziare l'intervento militare nei Balcani, abbiano giocato un ruolo fondamentale nel declino della lettura tra le nuove generazioni, e il dirottamento di fondi pubblici alle scuole private ha dato il colpo di grazia.

Come è stato fatto notare da diversi esperti e scrittori ben prima della nascita di questo progetto, per recuperare lettori si deve educare alla lettura, e si deve partire dalla scuola e dalle case private. È necessario circondarsi di libri, circondare i bambini di libri. Ma se gli adulti per primi non sono lettori, allora non ci saranno libri in casa, e gli impulsi saranno banali e poco efficaci. Una mia conoscente continua a portare me come esempio al figlio, con una qualche variante delle parole “visto come legge? Devi farlo anche tu così diventi intelligente!”. Parole lusinghiere, ma il suo povero figliolo, che io vedo forse un paio di volte l'anno, vuole solo giocare e divertirsi. Sorprendente come un bambino di otto anni possa compiere questa scelta, non trovate? Il risultato degli sforzi della madre, non lettrice e orgogliosa di esserlo, ha prodotto un bambino ancora incapace di coniugare i verbi all'indicativo con naturalezza e con un vocabolario limitato. Si tratta di una situazione estrema? Me lo auguro, ma non ne sono sicuro (mi sono trattenuto dal mettere link ai politici, quindi vi impongo di non pensare a loro). Sono queste le persone da spingere alla lettura? Davvero crediamo che un hastag o il banchetto gestito da studenti in cerca di crediti formativi facili (e da persone genuinamente entusiaste, come R.) possa riuscire nell'impresa?

Qualche giorno fa leggevo un'intervista al filosofo Umberto Galimberti pubblicata su Wise Society, l'intervista è datata e non so dirvi quale serie di coincidenza l'abbia portata sul mio schermo in periodo di #ioleggoperché, ma è perfetta per spiegare il mio punto di vista. Si parla di educazione e bambini, alla domanda “Dove e quando si apprendono i sentimenti?” Galimberti risponde così:

“Dobbiamo convincerci che il sentimento non è una dote naturale, è una dote che si acquisisce culturalmente. Gli antichi imparavano i sentimenti attraverso le storie mitologiche. Se guardiamo alla storia greca ci ritroviamo tutta la gamma dei sentimenti possibili, Zeus il potere, Afrodite l’amore, Atena l’intelligenza, Apollo la bellezza, etc. C’era tutta la fenomenologia dei sentimenti umani. Noi invece li impariamo attraverso la letteratura, che è il luogo dove si apprende che cosa sono il dolore, la noia, l’amore, la disperazione, il suicidio, la passione, il romanticismo. Ma se la letteratura non viene “frequentata” e i libri non vengono letti, se la scuola disamora, allora il sentimento non si forma. E se la cultura non interviene, i ragazzi rimangono a livello d’impulso o al massimo di emozione.”

Come fa notare Galimberti un tempo l'educazione avveniva attraverso il mito e oggi attraverso il romanzo, entrambe forme di narrazione. Anche quando la capacità di leggere non era diffusa come lo è oggi, una realtà che consideriamo più ignorante della nostra, le storie venivano tramandate oralmente e avevano gli stessi scopi di oggi, educazione e intrattenimento. Servivano a spiegare il mondo, sia il suo lato oscuro sia quello luminoso, alle nuove generazioni. Per questo motivo una povera ragazza indifesa viene stuprata dal lupo mentre attraversa il bosco da sola, e per lo stesso motivo Eros si innamora di Psiche.

Ma l'uomo è fatto di storie, l'uomo ha bisogno di narrazioni per poter vivere e spiegare la propria esistenza. Tutte le religioni, i miti antichi, i miti fondativi degli stati, sono narrazioni e su di esse si basa l'identità sociale e culturale della persona. Se una larga maggioranza della popolazione non legge libri, dove trova le storie tanto necessarie al proprio sostentamento? Troppo facile sparare sul mucchio e incolpare la televisione, anche perché alcuni prodotti televisivi o cinematografici sono ottimi. Vogliamo incolpare i social networks, i cellulari e la tecnologia varia? Potremmo, ma è l'evoluzione della narrazione stessa. Un tempo erano Ettore, Achille e Odisseo, poi sono stati i personaggi dei romanzi, persone comuni rispetto agli eroi classici. Oggi è l'uomo comune a raccontare la propria vita, perché ha accesso immediato al pubblico, Andy Warhol lo aveva previsto con largo anticipo e senza neanche conoscere internet. Si racconta la vita “vera”, “senza filtri”, per usare frasi a effetto. Salvo poi rifare le foto cento volte prima di pubblicare e andarsi a truccare e vestire prima di un video, e se manca qualcosa allora Photoshop risolve il problema in un istante. Ma la narrazione rimane concentrata sulla vita di tutti i giorni, si parla di lavoro o della sua assenza, di persone bloccate nel traffico, di gossip, di sport, della propria vita sociale o notturna, dei propri interessi, ci si esprime per iperboli o si dice cosa si vorrebbe fare anche se non si può fare. Le narrazioni “senza filtri” funzionano solo se siamo noi a mettere i filtri, a capire il senso. E in una narrazione che spesso si esprime per immagini, è fondamentale avere dei filtri, degli schemi per interpretare il messaggio. E i filtri nascono dalla letteratura, come diceva Galimberti.

Per questi motivi la campagna di #ioleggoperché è uno spreco di risorse. Invogliare alla lettura è difficile e spesso inutile, perché manca la volontà dell'altro di impiegare il proprio tempo in un'attività di fatto solitaria. Esistono casi in cui viene trasformata in attività di gruppo, per esempio ho scoperto che qui a Roma esistono gruppi di lettura di quartiere in alcune zone della città e talvolta i membri organizzano incontri con gli autori. Sono stato, per caso, a uno di questi incontri, tenuto nell'aula magna di una facoltà universitaria in centro. Le persone sotto i cinquant'anni erano cinque o sei, e sono scese rapidamente a due, cioè io e un'amica alla quale avevo parlato del libro.

Inoltre, selezionare titoli in modo arbitrario, qualsiasi sia il motivo, non è un'argomentazione valida. Il libro deve affascinare, deve incuriosire, deve farsi scegliere. Dire “questo è il più grande capolavoro della letteratura”, definizioni tipo “il libro dell'anno” o “un caso editoriale ancora prima di essere pubblicato” (Nota a margine: come può essere un caso editoriale se nessuno lo ha pubblicato? Se non è pubblicato, nessuno lo ha letto tranne l'editor, quindi il “caso” da dove nasce?) non invogliano me a leggerlo, uno di quei lettori forti di cui il mercato editoriale è tanto orgoglioso, uno di quelli a cui puoi rifilare le peggio letture e arriveranno comunque alla fine del libro, perché dovrebbe invogliare un non lettore? La lettura, per un bambino come per un adulto, deve essere un piacere, un divertimento.

Invece, nel tentativo di promuovere la letteratura, sono stati selezionati alcuni titoli inadatti allo scopo, si è lanciato un hashtag, si sa, se uno status non contiene almeno un paio di hashtag non serve a niente, sono state scelte facce giovani e volontarie per la distribuzione nelle piazze. Non so e non voglio sapere quanti soldi sono stati spesi per realizzare questa iniziativa sconclusionata, ma so quanti nuovi lettori porterà: nessuno. Con le stesse cifre si poteva fare molto di più, magari coinvolgendo scuole elementari e medie sul territorio italiano e acquistando libri per loro, sponsorizzando librerie interne alle scuole o altro ancora. Ma tant'è. In fondo, gli organizzatori sono l'Associazione Italiana Editori, l'Associazione Librai Italiani, l'Associazione Italiana Biblioteche, il Centro per il Libro e la Lettura, il Comune di Milano per Milano Città del Libro 2015 e la Rai. Mica sanno qualcosa di libri, loro. Però ne parlano e ne fanno parlare, e c'è una sola cosa peggiore delle persone che parlano di te: quelle che non ne parlano.

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Paolo Petrillo, "Der Riss"

6 Marzo 2015 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #storia

Paolo Petrillo, "Der Riss"

Lacerazione/Der Riss

Paolo Emilio Petrillo

La Lepre

8 Settembre 1943: una data che in Italia è diventata metafora a un tempo della debolezza e della forza morale di una nazione. Che cosa ha rappresentato invece quella stessa data per la Germania, l'ex alleata, che dell'evento fu la speculare protagonista? Come hanno vissuto i tedeschi – le istituzioni, certo, ma ancor di più la popolazione civile e i milioni di soldati in divisa – il “proclama Badoglio”?

Interrogando fonti stampa, la maggior parte delle quali inedite o sconosciute in Italia, e lasciando parlare veterani tedeschi ancora in vita, l'autore cerca di ricostruire quella che, per molti aspetti, è la versione mancante del noto fatto storico e di altre vicende precedenti. A emergere è un'immagine doppia: gli italiani visti dai tedeschi, i tedeschi visti dagli italiani. Un contributo prezioso, non certo per una strumentale polemica revisionista, ma per la costruzione di una coscienza più meditata della tragedia da cui sono nate.

Questo di Paolo Petrillo è un saggio storico particolarmente interessante, così tanto, in effetti, da spingermi a parlarne nonostante non sia solito occuparmi di saggistica. L'interesse nasce da una banalissima domanda, talmente ovvia, in effetti, da sembrare sciocco che nessuno se la sia posta prima: qualcuno ha mai chiesto ai tedeschi cosa pensano dell'8 settembre del 1943? La risposta, prima di questo libro-inchiesta, è no. Esiste un'ampia letteratura sull'argomento, ma del tutto priva di voci diverse da quelle nostrane. Eppure è una data importante nella storia dell'Italia e anche della Germania, anche se per allora l'esito della seconda guerra mondiale era già segnato.

Qualche lettore potrebbe chiedersi perché è interessante parlarne oggi, a settant'anni di distanza, ma la storia, la nostra storia, è importante conoscerla. L'Italia dunque firma l'armistizio con gli alleati e, per usare una vecchia frase sarcastica, si addormenta fascista e si risveglia antifascista. Il malcontento per l'esito della guerra serpeggiava in Italia, che non era assolutamente pronta ad affrontare lo sforzo bellico come invece lo era la Germania, dunque le premesse per un salto di barricata erano già evidenti a noi e ai nostri alleati, come traspare dalle interviste qui riportate.

Più di ogni altra cosa, per capire l'importanza di questo libro, vale la pena ricordare quali sono state le conseguenze dell'esito della guerra sul piano culturale per l'Italia e per la Germania. I nostri alleati infatti, sconfitti su tutta la linea e poi aiutati nella ricostruzione dal piano Marshall, svilupparono un sistema di informazione martellante sulla guerra e sulle loro colpe, su quanto era stato commesso dalla Germania come popolo e nazione. Il risultato di questo processo, durato decenni e portato avanti con proverbiale efficienza teutonica, è pensato per coinvolgere l'individuo dal suo anno zero all'età adulta. Il risultato è evidente a tutti: una delle società più multietniche in tutta Europa, con tutti i problemi di gestione e ibridazione culturale che questo comporta, ma che, nel complesso, ha retto meglio di tanti altri paesi che si sono trovati a dover affrontare gli stessi problemi.

In Italia? Tutto nascosto sotto il tappeto, con lo stile e l'aplomb tipici del nostro paese. Non un condannato dai tribuni internazionali per crimini di guerra, pochissimi, in proporzione agli aderenti al movimento, i processi nazionali contro i criminali fascisti, tutto finì con l'episodio di Piazzale Loreto e il disfacimento della Repubblica di Salò. Eppure Italia e Germania erano alleate, possibile che nessun italiano abbia mai fatto qualcosa di sbagliato?

Una seconda domanda ha chiesto Petrillo ai reduci tedeschi della guerra, e cioè se ci fosse la convinzione che gli italiani fossero traditori. La storia ci insegna che all'inizio della prima guerra mondiale, nel 1914, l'Italia non entrò in guerra da subito, nonostante fosse alleata della Germania, ma solo nel 1915, e al fianco di Francia e Inghilterra. Neanche trent'anni dopo, l'Italia, di nuovo alleata con i tedeschi attraverso la famosa amicizia tra “uomini veri” di Hitler e Mussolini, non entrerà da subito in guerra al fianco della Germania, ma dopo qualche mese, attaccando una Francia già sconfitta dall'esercito tedesco. A questo episodio è legato la famosa frase di Mussolini, “Mi servono cinque o seimila morti per sedermi al tavolo della pace”. Quella di saltare sul carro del vincitore rimane una nostra abitudine, ma in questo caso, come sappiamo, fu l'Italia a rimetterci, perdendo su tutti i fronti militari, costretta a chiedere l'aiuto tedesco in Grecia e in Africa, è stata spesso considerata una delle più grandi cause della sconfitta tedesca. L'aiuto tedesco in Grecia causò infatti un ritardo di otto settimane sulla tabella di partenza dell'operazione Barbarossa, l'attacco tedesco alla Russia, sorprendendo l'esercito senza rifornimenti alle porte di Mosca e all'inizio del terribile inverno russo. L'8 settembre del 1943 segnò infine l'ultimo schiaffo, l'armistizio e il sostegno italiano agli Stati Uniti, trasformandosi, dal giorno alla notte, da alleati a nemici. E poi, anche se era un cambiamento atteso, un conto è arrendersi a un avversario più forte, un conto è trasformare l'amicizia del giorno in prima in imboscate e attacchi alle spalle il giorno dopo. Le basi per sostenere l'idea del tradimento c'erano tutte, cosa pensano le persone che hanno vissuto quegli eventi sulla loro pelle?

Queste domande potrebbero sembrare banali o sepolte dalla storia, o peggio ancora revisioniste, ma l'Europa di oggi, la stessa in cui la Germania ha un ruolo centrale geograficamente e politicamente, nasce dalle ceneri della seconda guerra mondiale. È quindi di fondamentale importanza capire le risposte a queste domande, perché in Italia non c'è stato un progetto educativo di critica al fascismo, come dimostrano le lacune storiche sulle malefatte italiane in guerra, e perché l'Italia è parte di questa Europa che ha dovuto imparare a relazionarsi e superare conflitti ma che, in fondo, non è riuscita a farlo, e le tensioni internazionali fra i vari paesi della Comunità Europea, in particolare fra gli stati fondatori, sono lì a dimostrarlo. La domanda quindi rimane sospesa nell'aria, cosa pensano i tedeschi degli italiani? Der Riss prova a dare una risposta, sicuramente non esaustiva, ma quantomeno sensata e sostenuta dalle voci dei protagonisti.

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Consigli di Natale

23 Dicembre 2014 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #unasettimanamagica

Consigli di Natale

È di nuovo Natale, tempo di valutare se siamo stati tutti più buoni, di addobbare l'albero, di ammirare le luminarie e di cominciare una disinfestazione anti-Elfi, fastidiosi esseri più o meno alti e con le orecchie a punta che finiscono per popolare le nostre case in questo periodo.

Molto più banalmente, è anche tempo di regali, e ogni anno la domanda che assilla tante famiglie è “cosa regalare questo Natale?”. Domanda sempre più diffusa negli ultimi tempi è diventata anche “come pago i regali?” e proprio in questo la mia soluzione può essere di grande aiuto: costa poco, garantisce emozioni, fa viaggiare nello spazio e nel tempo, dura a lungo e, se saprete scegliere con cura, vi garantirà eterna gratitudine da parte di chi lo ha ricevuto. Quindi, carta e penna e segnatevi questi titoli, poi di corsa dal vostro libraio di fiducia* e chiedete di procurarveli.

*Punti bonus se scegliete un libraio indipendente. Se scegliete una catena, invece degli Elfi questo Natale vi mando un gruppo di Goblin. E non volete avere nulla a che fare con i Goblin, fidatevi.**

**Dico sul serio. Se siete fortunati, vi distruggono la casa. Se siete sfortunati, ci rimangono.

Cominciamo quindi la lista (accuratamente disinfestata):

12 anni o meno:

Presumo che vostro/a figlio/a o nipote abbia già incontrato la santissima Trinità, ovvero Alice nel paese delle meraviglie, Il mago di Oz e Pinocchio. Se non lo ha fatto, inutile leggere oltre, uno a caso tra questi andrà benissimo. Se invece avete già completato il primo passaggio, per questo Natale consiglio:

La bambina che fece il giro di Fairyland per salvare la fantasia, Catherynne M. Valente, 278 pagine, Sperling&Kupfer

Visto il numero di pagine è un libro da considerare per i bambini dai 9 anni in su, a meno di lettori particolarmente avidi. In quel caso la soglia scende, ma nulla vieta a voi di accompagnare la lettura, per un momento di unione bambino-genitore (o chi ne fa le veci). Quella della Valente è una fiaba splendida, con tutti i topos letterari del caso: la figura magica (il Vento Verde) che visita la bambina (Settembre, 12 anni, nata a Omaha, Nebraska) a casa e la porta in un mondo incantato (Fairyland), e le chiede di trovare (da sola) il tesoro nascosto all'interno della foresta incantata per liberare il popolo oppresso dalla tirannica regina malvagia (Marchesa). Lungo la via che porta al successo troverà mille amici (umani e non) e avventure. Alice e Dorothy tutti in uno. Ho già detto che è il primo di tre libri? La serialità potrebbe essere intesa solo a scopi commerciali, ma se un bambino leggesse questo libro e ne chiedesse il seguito, mi precipiterei in libreria per accontentarlo prima che un maiale parlante gli faccia cambiare idea.

L'esilarante mistero del papà scomparso, Neil Gaiman, 149 pagine, Mondadori

Ho scelto questo titolo perché è il più recente, ma Gaiman ha scritto moltissimo per i più piccoli, basta una piccola ricerca in rete per trovare tutti i suoi titoli. Non fatevi ingannare dal classico “Età di lettura: da (inserire numero) anni”, Gaiman parte dal principio che un libro per bambini deve risultare piacevole anche agli adulti. Sono di parte, ma la cosa gli riesce dannatamente bene. Il commento lo lascio a Gaiman, a cui, va detto, non sono degno neanche di temperare le matite:

“Caro lettore, credo che tutto abbia avuto inizio una ventina d'anni fa, quando scrissi un libro intitolato 'Il giorno che scambiai mio padre con due pesci rossi'. Mi sono sentito in colpa da allora. Come padre. Come essere umano. La gente leggeva il mio libro e imparava che i padri sono svagati cumuli di distrazione che sfogliano il giornale e ogni tanto mangiano una carota. Ho deciso che dovevo fare qualcosa. Avrei scritto un libro in cui un padre faceva tutte quelle cose elettrizzanti che i padri fanno nel mondo reale. Nello specifico, sarebbe andato a prendere il latte per la colazione dei figli. E inoltre, avrebbe dovuto fare le tipiche cose che si fanno quando si va a prendere il latte. Tipo sfuggire a dei viscidi alieni verdi, camminare sull'asse di una nave pirata del Diciottesimo secolo, scamparla grazie a un professore stegosauro che viaggia su una mongolfiera e, naturalmente, salvare il pianeta. Non vedo l'ora di ricevere gli attestati di gratitudine dai padri di tutto il mondo. Non appena avranno finito di leggere il giornale, ovviamente.”

Giovani Adulti:

Categoria difficile da inquadrare, si va dalla prima adolescenza fino ai venticinque anni circa, quindi occorre una certa flessibilità nei titoli, e un piccolo sforzo da parte vostra: non comprate un libro pensando che “ormai è abbastanza grande per leggere Letteratura”: se non dimostra interesse verso un certo tipo di titoli, rischiate di allontanarlo per sempre dalla lettura.

Terra Ignota. Il Risveglio. Vanni Santoni, 414 pagine, Mondadori

Terra Ignota. Le figlie del rito. Vanni Santoni, 381 pagine, Mondadori

Insieme perché dello stesso autore, il primo è narrato dal punto di vista di una bambina di undici anni che, nel corso del romanzo, cresce fino ai quattordici, il secondo è più adulto, in parte perché i protagonisti superano i vent'anni, in parte perché la posta in palio è il destino del mondo. Sono ovviamente collegati, ma sono entrambi validi anche come lettura singola, quindi non preoccupatevi di rispettare la serialità. L'autore ha spesso definito il suo lavoro come un pastiche, una fusione tra fonti alte e basse in un prodotto in grado di riunire la narrativa più popolare a quella più letteraria. Sono entrambi un'ottima scelta se volete spingere il destinatario verso letture più elevate, un passaggio intermedio, se volete. Ho parlato parecchio di Terra Ignota, anche con l'autore, quindi farò quello che ogni blogger non dovrebbe mai fare, ovvero essere autoreferenziale, e vi rimando alla mia intervista a Vanni Santoni.

Il Mezzo Re, Joe Abercrombie, 298 pagine, Mondadori

Non ho ancora avuto il tempo di leggerlo, lo ammetto, ma lo consiglio a priori perché Abercrombie è uno scrittore straordinario. Il Mezzo Re è “rivolto a un pubblico più giovane, ma spero che dia al mio gruppo di lettori fedeli tutto quello che si aspettano da un mio libro (con un linguaggio meno volgare, forse)" (si diceva di quanto siano odiosi gli scrittori autoreferenziali, quindi non vi dico da dove viene l'intervista qui citata). La trama non sembra, a prima vista, innovativa: un giovane, Yarvi, figlio di re ma nato con un grave difetto fisico a una mano, è destinato a un ruolo di consigliere e viene avviato alla carriera sacerdotale, un destino infame per un membro della famiglia reale. Fino a quando il padre e il fratello, futuro re, vengono assassinati. Salito al trono, giura vendetta, ma cade vittima di un'imboscata e finisce venduto come schiavo. Da qui dovrà cominciare la sua risalita, con la propria intelligenza come unica arma.

Abercrombie è un caratterista e si diverte a sperimentare e innovare partendo dalla struttura classica del genere, fece la stessa cosa con la sua prima trilogia, La prima legge. Siamo al primo libro, è impossibile giudicare cosa diventerà, ma come scrittore Abercrombie ha tutte le capacità di trasformare il genere con successo, e se questo inizio è valido la metà di quanto lo era Il richiamo delle spade, allora è un ottimo inizio.

Adulti:

Quattro titoli tutti pubblicati nel 2014 a coprire (spero) tutti i gusti in termini di trama e di stile:

Il sapore della vendetta, Joe Abercrombie, 796 pagine, Gargoyle

Numero di pagine impegnativo, ma non credo sia un problema. Cose che capitano quando la protagonista è Monza Murcatto, la Serpe di Talins, la Macellaia di Caprile. Pensate davvero che una donna di tale fama sia felice di essere buttata in un burrone, dopo che suo fratello è stato pugnalato sotto il suo naso, per di più sapendo che il mandante è il suo datore di lavoro e gli esecutori i sottoposti che avrebbero dovuto difendere entrambi? Io non credo. Il problema, in questo genere di situazioni, nasce quando la donna in questione sopravvive. Non sai mai di cosa sia capace. Monza, d'altra parte, ha un'idea ben precisa di cosa fare. Sette nomi, da depennare uno alla volta. Ma con calma, perché la vendetta si serve fredda.

È il romanzo migliore di Abercrombie in Italia, a mio parere, in attesa di Red Country, in arrivo nei prossimi mesi sempre per i tipi di Gargoyle. Sangue, violenza, linguaggio volgare e tanta cattiveria in una trama di vendetta in perfetto stile Il Conte di Montecristo ambientata in un mondo ispirato all'Italia rinascimentale.

La ragazza meccanica, Paolo Bacigalupi, 408 pagine, Multiplayer.it Edizioni

Bangkok, in un futuro lontano un paio di secoli. Niente più petrolio o carbone, il carburante principale di questa nuova era sono le calorie, i computer sono alimentati a cyclette, le fabbriche da dinamo fatte ruotare da elefanti modificati geneticamente. E tutto ha un prezzo, come sempre e ancora di più in questo futuro impoverito dalla mancanza di risorse e dipendente dall'ingegneria genetica.

I temi ambientalisti sono l'asse portante di questo romanzo che si distingue non solo per il modo in cui vengono portati in primo piano, ma anche per lo straordinario lavoro di worldbuilding dell'autore: fin dalle prime pagine si è catapultati nel caos organizzato di un mercato di Bangkok e si viaggia attraverso il traffico cittadino, iniziando a familiarizzare con i luoghi del romanzo. Non è un romanzo straordinariamente letterario, ma neanche una lettura facile, ogni pagina è fondamentale allo svolgimento, ogni scena ha significati molteplici, ogni passaggio svolge almeno due o tre diverse funzioni narrative. Un romanzo molto denso e complesso, che smuoverà tutti coloro interessati al destino climatico del pianeta.

Ancillary Justice. La vendetta di Breq.; Ann Leckie; 377 pagine, Fanucci

Ho letto questo libro in lingua originale circa un anno fa e, subito dopo averlo concluso, la mia testa ha inviato due pensieri, in questo ordine: uno, "Devo rileggerlo subito" e due, "In Italia non arriverà mai". Ringrazio Fanucci per avermi smentito. Non ho ancora scritto una recensione a causa dei tanti impegni di questi giorni e quindi non voglio anticipare troppo, ma è anche un libro troppo complesso per trattarlo in poche righe.

Justice of Torren è un'astronave dotata di una Intelligenza Artificiale al servizio della cultura Radch. Justice of Torren è una nave militare il cui scopo era portare le truppe di questa superpotenza iperaggressiva in giro per lo spazio per scopi espansionistici. La cultura Radch è fortemente gerarchica, e si basa sulla totale obbedienza e sottomissione, unita a una stretta sorveglianza della popolazione. Tutto quanto non appartiene alla cultura Radch è incivilizzato per definizione e deve essere riportato all'interno dei confini per potere essere considerato umano. Molti oppositori vengono catturati e le loro personalità vengono cancellate e sostituite con quella della IA. Dopo questo processo non vengono più riconosciuti come umani e vengono definiti Ancelle.

La storia parte da una domanda semplice in apparenza ma a cui è difficile rispondere: cosa succede quando una intelligenza abituata a muovere in sincronia centinaia di corpi e svolgere centinaia di funzioni in contemporanea rimane intrappolata in un singolo corpo?

Non voglio aggiungere altro, ma è un'esperienza di lettura straniante, il punto di vista è quello della IA, e tanti comportamenti da questa osservati sono inspiegabili (per lei), tutti i pronomi usati dalla IA sono al femminile, perché la cultura Radch è priva del concetto di genere, e tanti altri particolari, non ultimo il fatto che la narrazione non ha una linearità temporale.

All'estero sono stati usati tanti aggettivi per questo romanzo, un successo enorme sia in campo commerciale sia con la critica, tutto meritato.

Cose Fragili; Neil Gaiman, 368 pagine, Mondadori

Altro nome che ritorna in questa lista, altro libro letto tempo fa, una raccolta di racconti che attraversa tutta la carriera di Gaiman, dai tributi ai grandi del passato (Uno studio in smeraldo, ispirata ai personaggi di Arthur Conan Doyle e alla mitologia di H.P. Lovecraft) fino a racconti scritti per occasioni speciali, L'uccello del sole, nato come regalo per il diciottesimo compleanno a sua figlia Holly, un racconto commissionato dai produttori di The Matrix e finito in rete una settimana prima del lancio del film nelle sale (Golia), una novella centrata su Shadow, protagonista dell'indimenticabile American Gods, (ambientata alcuni anni dopo le vicende del romanzo), e tanto altro ancora. Ogni racconto è un pezzo della magia creativa di Gaiman, mai banale, sempre in cerca di una storia da raccontare, la raccolta è il frutto di tanti anni di scrittura di uno dei più grandi autori di genere esistenti.

Se non è Letteratura io non

Conosciamo tutti persone di questo tipo, nei casi peggiori un misto di saccenteria e arroganza letteraria rinchiusi in un unico corpo, nei migliori sempre i primi a proporvi libri che non leggerete mai e poi mai. (Segue momento catartico in cui realizzo di appartenere a questa categoria.) Ai casi migliori, non importa quale libro compriate, loro lo leggeranno. Saranno anche brutalmente onesti nel dirvi quanto fosse orrendo, ma almeno il vostro regalo non sarà inutile. Nei casi peggiori, quando avete a che fare con saccenti arroganti raffinatissimi intellettuali, le difficoltà aumentano, in particolare quando scegliete il fantastico. Sono le classiche persone che non leggerebbero mai un romanzo per bambini, sono interessati al reale, non al possibile, né all'impossibile. L'unico tipo di fantastico accettabile è quello di Cortazar, Saramago, Garcia Marquez, Bolaño, Borges, un filone che, escluso proprio Borges, viene chiamato Realismo Magico. (Non pensavate che la scelta del fantastico era una forma di apertura all'irrealtà, vero?) Se dovessero protestare, ditegli che anche Nuovi Argomenti si è dato alla fantascienza, quindi anche loro potrebbero provare qualcosa di nuovo.

L'ultimo ballo di Charlot, Fabio Stassi, 279 pagine, Sellerio

Libro consigliato a priori perché scritto con una sensibilità unica, racconta l'ultima sfida di Charlie Chaplin, la scommessa con la Morte: se riesce a farla ridere, Chaplin guadagnerà un altro anno di vita, un anno da passare con il proprio figlio, ancora giovane e impreparato ad affrontare la perdita del padre. Chaplin usa il tempo così guadagnato per raccontare la propria vita in una lunga lettera, il cui destinatario è proprio il figlio tanto amato, che lentamente inizia ad accettare la futura perdita, ormai inevitabile. È un Chaplin goffo e impacciato quello che balla e canta con la Morte, ma è una Morte diversa da quello che ci potremmo aspettare, piena di compassione, di pietà, di risate e di vita.

Fabio Stassi è stato definito il più sudamericano degli scrittori italiani, e non è un caso se tanti dei suoi modelli siano proprio sudamericani (e per pura coincidenza, i nomi da me citati prima più alcuni altri). Se il destinatario del vostro regalo è un appassionato di cinema o di letteratura sudamericana apprezzerà sicuramente.

Tito di Gormenghast, Mervyn Peake, 545 pagina, Adelphi

Non poteva mancare il capolavoro della letteratura gotica del '900, in questo primo libro della saga di Gormenghast, mai completata a causa della prematura morte dell'autore. Un mondo parallelo, Gormenghast appunto, che in verità è un castello di enormi dimensioni, mai esplorato per intero dai suoi abitanti. In un turbinio di immagini Peake mostra un mondo statico e decadente, un mondo di cui non esiste un esterno ma solo un interno, dove non esiste natura e dove la nascita di una nuova vita, Tito di Gormenghast, erede del titolo nobiliare e futuro reggente del castello, porta un cambiamento inaspettato e spaventoso.

Questa serie è uno dei capisaldi della letteratura fantastica di fine '900 e ha ispirato un buon numero di scrittori negli anni successivi, in particolare quelli che si riconoscono nella corrente New Weird, una delle forme di fantastico contemporaneo più letterarie ma che non ha avuto riconoscimenti da parte della critica italiana, se non quella specializzata.

La macchina morbida, William Burroughs, 222 pagina, Adelphi

Burroughs è un mostro sacro della letteratura, Il pasto nudo è tra i più noti romanzi del '900, ma non altrettanto note sono le due trilogie scritte dallo stesso autore, The Nova Trilogy e The Red Night Trilogy. La macchina morbida è il primo romanzo della Trilogia della Nova. La linea narrativa è la stessa del Pasto Nudo, un viaggio nei più oscuri recessi dell'immaginazione umana tra odio, esaltazione, povertà, guerra, burocrazia e dipendenza, un luogo dove non esistono santi e tabù. Un titolo particolarmente indicato per i più integerrimi difensori della Letteratura.

Antologia della letteratura fantastica, Jorge L. Borges, Silvina Ocampo, Adolfo C. Bioy, 538 pagine, Einaudi

Il fantastico secondo Borges, una raccolta di settantacinque racconti, alcuni di autori che mai assoceremmo alla letteratura fantastica, pubblicato per la prima volta nel 1940 dall'idea di tre amici, Borges, Bioy e la moglie di quest'ultimo, Ocampo, la raccolta intende rompere con la tradizione realista della letteratura degli anni '30 per lasciarsi guidare dall'immaginazione ma che, allo stesso tempo, rifiuta la vena gotica che contraddistingueva il filone horror tipico dell'epoca vittoriana e poi diffusosi nel resto d'Europa nel secolo precedente, fatto da nomi anche molto noti della letteratura ottocentesca, come Guy De Maupassant ed Emile Zola. Borges, come era solito fare, rompe con questa tradizione e indica una nuova via, via che percorse poi in tutta la sua carriera narrativa in prosa. Questa antologia confezionata da lui e dai suoi due amici raccoglie molti degli autori che negli anni successivi ispirarono i suoi racconti.

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Silvia Pingitore, "Il disordine delle cose"

14 Dicembre 2014 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #recensioni

Silvia Pingitore, "Il disordine delle cose"

Ultimo anno di liceo, per tanti studenti vuol dire anche orientamento universitario, ovvero la possibilità di perdere qualche ora di lezione ascoltando emissari dalle varie facoltà in visita promozionale. Come sempre, i colleghi liceali di Lucia individuano la cosa più importante: la spilletta-gadget, distribuita fino a esaurimento scorte e dimenticata in pochi minuti. Come sempre, Lucia è in ritardo e non riesce a ottenerne una. In realtà lei vorrebbe solo restituire le carte abbandonate dai ragazzi in visita, ma questi lasciano il liceo in tutta fretta, e a lei rimane la brochure di un corso di laurea che sembra fatto su misura per lei: Scienze Comunicative & Mediazione Intercontinentale (S.C.E.M.I.). Proprio qualche giorno prima l'insegnante di religione le aveva detto, in toni piuttosto decisi, che doveva cominciare a comunicare: questo avrebbe certo risolto i suoi problemi, e forse le avrebbe procurato anche degli amici, lei che veniva sempre derisa per i suoi vestiti fuori moda e il suo aspetto poco curato.

Proprio dal corso di laurea in S.C.E.M.I. inizia la nuova vita di Lucia Fellini, cognome ingombrante e fonte di sospetti tra i suoi Tanti-Nuovi-Amici: e se fosse lei la nipote del pezzo grosso di cui tanto si parla in facoltà? Nel dubbio, le fanno immancabilmente notare quanto siano belli i suoi capi e i colori che indossa, tanto da spingerla a osare con le combinazioni. Fra i suoi tanti colleghi vale la pena citare: Nicolò, un bel ragazzo con forti legami con la camorra, vive in subaffitto con altri sette studenti e se arriva troppo tardi finisce per dormire sull'amaca perché le brandine sono già prese; Demetria, una famiglia rovinata dalle slot-machine, ha una cotta per Nicolò e il suo sogno è diventare una giornalista scomoda; e infine Ludovica, conosciuta al corso scelto tra le Discipline Affini e Integrative. Di famiglia benestante, ha un pessimo rapporto con i genitori ed esprime la propria ribellione ascoltando musica rock anni '60 e fumando canne. Ogni sua frase contiene in media almeno un paio di citazioni di Jim Morrison.

Altro personaggio di particolare rilevanza è Kelevala. Lucia non sa se si tratta di un uomo o una donna, ma lascia scritte curiose sulla porta del bagno femminile. E se fosse un uomo? Un brivido di paura la scuote all'idea che un ragazzo possa intrufolarsi nel suo bagno.

Era solo questione di tempo, anche se non sapevi esattamente con quali mezzi ti saresti trovato miliardario senza passare per uffici, fitti e mutui: era come se l'età adulta fosse il tuo regalo di Natale ancora da scartare, la magia che dai banchi di scuola ti avrebbe portato dritto fino alle stelle, gratis.

E i “grandi”, a quelle cene natalizie, te lo hanno fatto credere: i loro occhi brillavano parlando dei tuoi tiri in porta o del saggio di pianoforte di tua sorella, delle pagelle e dei disegni.

Sareste diventati calciatori, artisti, inventori; nessuno di voi sarebbe finito impiegato al Catasto.

La chiave di lettura del romanzo è tutta qui, in queste poche righe del primo capitolo. Un racconto surreale con protagonista una ragazza svampita e allucinata proveniente da una famiglia povera ma con un cognome importante. I malintesi crescono a ogni pagina, in un rovesciamento di ruoli e situazioni e i personaggi di contorno, dai colleghi al resto della sua scalcinata famiglia, sono tanto assurdi da sembrare veri.

La generazione di cui parla Silvia Pingitore è anche la mia, ho trovato migliaia di rimandi a situazioni vissute di persona, e mi trovo di parte nel commentare questo lavoro. Un esempio su tutti, l'Università la Speranza frequentata da Lucia, il corso di laurea in S.C.E.M.I. e il mio personalissimo ricordo di un insegnante al liceo intento a spiegare quali fossero le prospettive della laurea in “Ingegneria della Pozzanghera e Affini” che il malcapitato studente aveva appena nominato. Storia vera. Quell'etichetta è rimasta nel mio immaginario per anni, e ancora oggi quando vedo il nome di un corso sconclusionato e insensato, lo definisco proprio così: Ingegneria della Pozzanghera.

Altro rimando, più nazional-popolare, è quello all'assessore Palmiro Cangini, personaggio comico creato da Paolo Cevoli, il cui cavallo di battaglia era la costruzione di una grande funivia per unire il nord e il sud Italia, ma senza motore perché il percorso è in discesa. Ricordo una sua intervista in cui gli chiesero dove trovava le idee così sconclusionate che portava in scena, rispose che leggendo la cronaca locale sui giornali la realtà superava di gran lunga la fantasia.

Ecco, anche in questo caso la realtà supera la fantasia, come tanti universitari potrebbero testimoniare. Mi permetto una riflessione: la generazione di Lucia è una generazione disorientata, illusa e disillusa in passato, lanciata nel mondo armata di sogni e andata a sbattere contro i problemi che le generazioni passate avevano dichiarato risolti. Improvvisamente non sono più studenti o lavoratori, ma cervelli in fuga, bamboccioni, giovani da aiutare attraverso politiche di protezione, neanche si parlasse di una specie in via di estinzione. La scelta di Lucia, il momento quasi catartico in cui comprende la realtà e decide di rimanere in Finlandia è surreale, ma è una realtà che esiste da secoli. I cervelli sono sempre fuggiti dall'Italia, ma un tempo venivano chiamati persone.

Il disordine delle cose merita di essere letto non solo per la bontà della scrittura o per gli argomenti trattati, ma anche perché su questo tema la retorica abbonda, e l'argomento viene spesso strumentalizzato. Sono convinto che in ogni contesto sia necessario un momento per sdrammatizzare, e il momento sociale, economico e politico attuale mi sembra quello adatto per farlo. E poi, a tutti serve qualche santo in paradiso, e pare che nel libro si trovino informazioni su qualcuno in grado di procurarveli.

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Intervista a Paolo Di Paolo

15 Novembre 2014 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #interviste

Intervista  a Paolo Di Paolo

Nel fine settimana del 25 e 26 ottobre a Nemi, famosissimo borgo nella zona dei castelli romani, si è tenuto il BiblioUp Festival, la prima edizione di un evento organizzato dalle biblioteche dei vari comuni della zona e Andrea Camilleri a fare da testimonial che, non potendo essere presente, ha voluto comunque mandare un video di saluto. Trovandomi a Roma, mi sono trasformato in un blogger d'assalto, armato di un pericolosissimo smartphone, con il preciso intento di infastidire intervistare ogni scrittore che mi capitasse a tiro. Tra i vari ospiti c'era Paolo Di Paolo, con il quale sono riuscito a chiacchierare davanti a un caffè. Di Paolo era a Nemi per parlare di Mandami tanta vita, romanzo finalista al Premio Strega 2013, ispirato dalla figura di Piero Gobetti. Il risultato di questa chiacchierata lo trovate nelle righe qui sotto. (Sergio Vivaldi)

Sergio Vivaldi: Il romanzo è nato intorno al personaggio di Piero Gobetti. È un personaggio insolito, durante la presentazione spiegavi come sia stato sempre in secondo piano rispetto a Giacomo Matteotti, il cui omicidio ha segnato un punto di svolta del periodo fascista. Che valore vorresti dare al recupero della figura di un intellettuale antifascista degli anni '20 nel 2014, o 2013, anno di pubblicazione del romanzo?

Paolo Di Paolo: Tutti i personaggi storici finiscono in un pantheon, e anche Gobetti ne fa parte: quando studiavo alla Sapienza, quasi ogni mattina passavo da quella via che si chiama Piero Gobetti, è come se quasi tutte le mattine l'avessi avuto un po' nella testa. Ma non mi sono avvicinato a Gobetti a scuola né all'università, perché è una figura, non direi minore ma sicuramente più laterale, soprattutto perché muore molto giovane, e lo immagini solo come il nome di una via, come qualcosa di impolverato, di solenne. Allora lo sforzo doveva essere quello di riportarlo dentro una dimensione più affabile, più narrativa, per far capire che non sta su un piedistallo ma era un ragazzo di vent'anni. L'unico modo era non fare il saggio, perché sarebbe stato una cosa rivolta soltanto a chi già lo conosceva, ma un racconto. Questo racconto non doveva essere un romanzo biografico, perché ciò presupponeva seguire una diacronia, una biografia per intero, io invece volevo che ci fosse uno sguardo che portava il lettore a osservare quel personaggio, e lo sguardo doveva essere la mediazione narrativa. Lo sguardo, nello specifico, doveva essere quello di Moraldo, cioè di un anonimo, che guarda, che incrocia casualmente questa figura storica. In quel modo la avvicina, perché la vede, così, a un passo, come parliamo io e te.

SV: Spiegavi di non volevi fare un romanzo puramente biografico, e col non aver mai usato il suo nome hai tolto un importante elemento legato all'aspetto biografico, però la vita di Gobetti non poteva essere cambiata troppo. Ne consegue che solo Moraldo rende questo romanzo non interamente biografico.

PDP: Sì, l'immissione, dentro una storia calcata più o meno sulla realtà biografica, di un personaggio di finzione fa deflagrare l'impianto del romanzo biografico tradizionale, anche se c'è sempre un margine di invenzione. Immettere un protagonista, che è importante ai miei occhi tanto quanto quello storico, cambia completamente la prospettiva e anche il segmento di vita che scelgo è il segmento di vita dell'altro personaggio. Quindi tutti e due vengono raccontati su un piano di parallelismo, anche se a un certo punto si sfiorano, e tutta questa orchestrazione rompe l'equilibrio del romanzo biografico tradizionale, infatti dal romanzo, per esempio della nascita di Piero o dei primi anni, non sappiamo nulla, se non quello che appare qua e là perché viene recuperato in un flashback, ma è qualcosa di molto, molto meno massiccio di quello che sarebbe stato se avessi seguito una linea biografica.

SV: Il romanzo si muove su un piano storico, che è conseguenza dell'ambientazione, perché gli eventi che sono parte di quell'epoca hanno un'influenza enorme, e perché Gobetti è perseguitato dal fascismo. Ma tu durante la presentazione hai parlato di un'analisi anche psicologica dei personaggi, dicevi di volerli guardare da dentro la loro testa. È questo l'unico motivo per cui hai usato il flusso di coscienza o avevi anche qualche altra motivazione?

PDP: No, è esattamente questo. Ho usato molto il flusso di coscienza, perché mi interessava cogliere i pensieri di questi personaggi nel momento in cui si formavano quindi volevo dare proprio uno spessore psicologico. Questo è un romanzo di pensieri più che di azioni, un romanzo di idee e sentimenti, quindi credo che il modo di raccontare un po' fluido, liquido, dove conta tantissimo quello che il personaggio sta pensando, molto più di quello che fa, dava la percezione al lettore che fosse un'immersione nelle psicologie dei pensieri dei personaggi. Ma c'è anche un altro aspetto, legato al clima letterario di quegli anni. Ho voluto fare un gioco sfruttando l'impianto del romanzo modernista, sullo stile di Virginia Woolf, che esattamente in quegli anni emerge. Ho ambientato il libro tra il 1924 e il 1926, con il '26 come centro della narrazione, e Mrs Dalloway esce nel '24, Gita al faro nel '25: siamo proprio in quegli anni e volevo simulare stilisticamente certe attitudini del romanzo modernista proprio nel periodo in cui il romanzo modernista stava emergendo. Il flusso di coscienza che ho usato è molto Woolf-iano, e voleva essere un omaggio implicito a una narratrice che io amo molto e che proprio in quegli anni stava dando i suoi frutti più interessanti.

SV: Inserire il flusso di coscienza in un romanzo con una connotazione storica così forte è anche un elemento di dissonanza, perché è una contrapposizione.

PDP: Certo. Come ti ho detto prima, io non amavo molto l'idea di fare un romanzo storico tradizionale, con la solita terza persona, il solito sviluppo del fondale, mi sembrava un po' asfittica. Il romanzo doveva essere più breve rispetto al tradizionale romanzo storico, molto più intenso, molto più velocizzato, perché è una corsa contro la morte, quindi il monologo interiore aiutava ad accelerare. Era necessario dare questa accelerata forte che stringeva i tempi, li chiudeva, e questo, il flusso di coscienza aiuta a farlo.

SV: È stato definito da parecchie persone un romanzo per i giovani, anche durante la presentazione. La figura di Gobetti l'hai scelta perché era interessante, per tutti i motivi che hai detto prima, oppure perché speravi potesse anche diventare una sorta di ispirazione per le nuove generazioni?

PDP: Ho presentato tantissimo questo libro nelle scuole. Naturalmente non è semplice portare nelle scuole un romanzo che comunque ha a che fare con un tempo storico così lontano, però quando gli studenti hanno davanti una figura come quella di Gobetti, come un personaggio letterario e allo stesso tempo come personaggio storico, uno che ha l'età loro, in fondo, e fa questa quantità infinita di cose, secondo me funziona, li suggestiona. Se non lo si pone come la lezione sul personaggio storico, quindi qualcosa che, già di per sé, mette gli studenti nella condizione di pensare che non stiamo facendo un approfondimento del loro programma scolastico, allora si cominciano a chiedere come abbia fatto a diciassette anni a fondare una rivista. Questo attivismo, questo slancio, questa energia, comunque affascinano, così come quell'epigrafe che ho messo, che è di Dylan Thomas e recita «Vado avanti quanto dura il sempre», da una poesia che si chiama Ventiquattro anni, perché secondo me anche in una giovinezza che può apparire a tratti inerte, disincantata, ci sono sacche di resistenza e di volontà e un personaggio così, che sulla volontà basa tutto e sente che le cose si cambiano soltanto quando uno veramente vuole cambiarle, riesce ad avere ancora un'attrattiva. L'impegno non significa fare gli ammaestratori, però ho cercato di avvicinare una figura che secondo me ha un valore al di là della sua fine così drammatica. Non è tanto la sua condizione di esiliato o di vittima del fascismo, ma vedere come in un tempo che è ben più cupo del nostro è riuscito a scavarsi uno spazio di manovra. Allora nel momento in cui si dice, nel 2014, che non si ottiene niente, che in Italia fa tutto schifo e va tutto male, proviamo a pensare che cosa significava vivere nell'Italia del '24 con il questurino che veniva a casa e ti dava la diffida dal pubblicare qualunque articolo e ti bruciavano la tipografia. Fino a prova contraria siamo in un paese ancora libero, no? Poi le difficoltà sono oggettive, le esperienze all'estero sono formative e a volte anche necessarie, ma non mi piace questa idea per cui chi resta è inferiore. Sembra proprio che chi rimane è un perdente, ma non è così, bisogna anche ribellarsi a questa idea che chi resta è vittima di un paese senza speranza, non voglio fare politica però...

SV: Sì, e questa cosa non nasce soltanto da quelli che vanno all'estero e dicono che è meglio, nasce anche da chi rimane. Il concetto stesso di “fuga dei cervelli”, implica che se hai un cervello vai fuori...

PDP: E invece quelli che restano sono senza cervello...

SV: Esatto...

PDP: È allucinante, non è così, intanto perché le cose non sono così semplici neanche fuori, e poi il più delle volte ti accorgi che i nostri coetanei stanno fuori e lavano i piatti, allora se si vogliono lavare i piatti a Londra, benissimo, però li si poteva lavare pure a Nemi. Un conto è avere un orizzonte di vita in cui è possibile affermarsi, o esiste una necessità, per esempio per ragioni di studio, o in certi ambiti tecnico scientifici dove esistono più opportunità all'estero, però se si parte con una serie di ambizioni un po' confuse, perché si pensa che tanto in Italia non si ottiene nulla e lì si lavora come commesso o lavapiatti, non ho nulla contro questo, però non mi piace neanche che poi si dia la lezione a chi è rimasto. Allora mi sembra che questa figura ti dimostra che, fino a che le condizioni non sono quelle della negazione della libertà, a qualunque latitudine se si vuole veramente qualcosa si riesce a farla, il punto è quanta volontà hai. Poi questo non nasconde le difficoltà, che ci sono, e quando fai questi ragionamenti arriva subito chi ti dice che le difficoltà ci sono: è vero, ma c'erano anche allora le difficoltà, e molto maggiori.

SV: Grazie del tuo tempo.

PDP: È stato un piacere.

Piero Gobetti

Piero Gobetti

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Intervista ad Aurelio Picca

13 Novembre 2014 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #interviste

Intervista ad Aurelio Picca

Nel fine settimana del 25 e 26 ottobre a Nemi, famosissimo borgo nella zona dei castelli romani, si è tenuto il BiblioUp Festival, la prima edizione di un evento organizzato dalle biblioteche dei vari comuni della zona e Andrea Camilleri a fare da testimonial che, non potendo essere presente, ha voluto comunque mandare un video di saluto. Trovandomi a Roma, mi sono trasformato in un blogger d'assalto, armato di un pericolosissimo smartphone, con il preciso intento di infastidire intervistare ogni scrittore che mi capitasse a tiro.

L'ultimo ospite nella mia lista è Aurelio Picca, che si trova a Nemi per presentare il suo Un giorno di gioia, pubblicato nel 2014 per i tipi di Bompiani. Il tempo è poco, la sala serve per uno spettacolo musicale e l'organizzazione provvede ad accordare gli strumenti, non le condizioni migliori per un'intervista. È sera, il vento imperversa e sarebbe freddo anche senza, l'idea di spostarci fuori non è entusiasmante. Prima che le condizioni audio impediscano qualsiasi conversazione si riesce comunque a scambiare qualche battuta.

Il romanzo:

Dopo la scomparsa del padre il giovane Jean vive con la madre Tilda nel “castello”, la residenza di famiglia che la Tilda ha ereditato dai genitori. La famiglia materna è un concentrato di anomalie, tramandate ai molti figli. I privilegiati sono Tilda e Attila, il più piccolo, ma gli altri fratelli, capitanati dall'avido primogenito Marcello, per non impugnare un testamento che li taglia fuori dalla proprietà della sontuosa dimore di famiglia, ottengono da Tilda la promessa di un rimborso, che le costa caro e cambia radicalmente la sua vita. Tilda infatti entra in un altro mondo, quello della malavita. Una follia, la sua, che si manifesta anche nel modo che ha educato il figlio, vestendolo e truccandolo come una femmina, come una maschera. Il piccolo Jean assiste alle imprese della madre, comprendendo solo in parte ciò che avviene. La sua visione del mondo è parziale e infantile, deformata dai miti familiari di lusso, ricchezza, perfezione. Lui ama i profumi, i fiori, i colori. Ma quando i crimini di Tilda cominciano a venire a galla, la situazione precipita sul giovane, imponendo una sequenza allucinata in cui la realtà si impone con tutta la sua forza.

L'intervista:

Sergio Vivaldi: Ciò che mi ha colpito maggiormente è il castello, sembra un personaggio a sé stante, quasi a formare un triangolo con la madre e il figlio.

Aurelio Picca: Sì, è vero. Diciamo che il castello rappresenta la mia casa dei miei sogni, ma è anche una casa che ho abitato da bambino, una casa enorme e disabitata, sfondata, abbandonata, antica, che io ho fatto crescere e lievitare in un castello. Abitare questa grande dimora abbandonata è una delle mie ossessioni felici, una ossessione un po' ricorrente, perché anche in Tutte stelle il bambino protagonista abitava in una casa enorme all'ultimo piano, dove entrava vento, luce, le rondini. Il castello è un protagonista, così come altre volte è successo lo stesso con i paesaggi, in altri miei lavori.

SV: E poi diventa un modo per ritrovare una patria, come dicevi durante la presentazione, che manca, perché ci si sente sradicati quando non si ha un luogo da chiamare casa.

AP: È un luogo protetto, un nido, dove c'è il sogno, dove si può ricordare, dove si può mangiare, si può vivere, si può essere amati.

SV: Interessante anche il rapporto tra madre e figlio. Riprendendo l'idea del triangolo, il castello è la terza punta, perché la madre vuole conquistare il castello, lo vuole tutto per sé, e lo trasforma in un ostacolo nel loro rapporto.

AP: No, diciamo che è un po' una conseguenza del desiderio della madre, è un processo inevitabile, fisiologico. Per averlo lei deve combattere, quindi sembra che il figlio sia vittima, però poi nello stesso castello lui trova la forza per riappropriarsi di sua madre, vendicandola, di viverlo, di trovare il suo maestro, e poi di abbandonarlo quando è un uomo libero..

SV: Infatti lui, dopo che lo hanno riconquistato, riesce a emanciparsi dalla madre...

AP: Esattamente, quindi era necessario.

SV: E in questo luogo lui trova delle figure genitoriali che prima non aveva.

AP: Sì, trova anche Teresa dentro il castello, trova il suo futuro, non è di ostacolo. Apparentemente il castello diventa il prezzo da pagare per la sua crescita, la sua emancipazione e la sua libertà. Perché da una parte è gabbia ma dall'altra è libertà.

SV: Lui è adulto quando racconta questa storia...

AP: No lui è bambino!

SV: Scusa, intendo che lui la racconta quando è cresciuto, ma dal punto di vista del bambino. Però il fatto che lui lo racconti attraverso gli stilemi della fiaba dà l'idea che questa esperienza da bambino non sia stata completamente superata.

AP: Non è la fiaba, qui non c'è fiaba, attenzione. All'andatura sembra una favola, perché il bambino ingigantisce o rimpicciolisce come i bambini fanno. Ha una ipersensibilità, di conseguenza restringe o dilata, è quello che dà il favolistico.

SV: Quindi non è in sé una fiaba ma è la visione del bambino che la rende fiabesca...

AP: Esattamente. Favola, proprio favola. Favola nera, perché poi accadono cose molto difficili...

SV: Infatti. Una cosa sull'ambientazione: è stata definita noir, ma durante la presentazione citavi la famosa frase di Chanel quando dice: «Alcune persone pensano che il lusso sia l'opposto della povertà. Non lo è. È l'opposto della volgarità». L'ambientazione noir, unita a questo lusso, questi luccichii che mostri...

AP: Lusso perché il lusso è anche sinonimo di gioia, e sono elementi estremi rispetto alla ricchezza e alla felicità, è quello il gioco.

SV: Di solito questo tipo di associazione viene fatta quando si vuole raccontare qualcosa di decadente, tu invece fai l'opposto, quindi rovesci determinati canoni, fai crescere il protagonista anziché farlo perdere.

AP: Assolutamente, non c'è decadentismo. Ho scelto di arrivare fino al kitsch per esasperare questa atmosfera, usando anche i colori, le lacche, gli smalti... È un'idea estrema, che tocca anche il modernismo, il kitsch.

SV: Ultima domanda: c'è questo tema ricorrente del bambino, del rapporto della madre con il figlio, hai citato Tutte stelle ma è presente anche in altri, quanto c'è di autobiografico in questo romanzo?

AP: L'interiorità è tutta vera, l'emotività, il resto è tutto inventato, quindi è tutto vero e tutto falso.

SV: Grazie per il tuo tempo.

AP: Figurati, è stato un piacere.

Intervista ad Aurelio Picca
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Patrizia Poli, "Signora dei filtri"

25 Ottobre 2014 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #recensioni, #poli patrizia

 

 

 

Signora dei filtri

Patrizia Poli

 

Marchetti Editore, 2017

 

 

Signora dei filtri è la rivisitazione del mito degli Argonauti. Dico rivisitazione perché Patrizia Poli fa una cosa a mio parere giustissima: lo umanizza. Il mito classico presenta un mondo fatto di divinità ed eroi in cui non c'è posto per l'essere mortale. Le Argonautiche, così come l'Iliade, l'Odissea, non fanno eccezione a questa regole, e tutto il pantheon gioca un ruolo particolare nell'evolversi delle disavventure dei protagonisti. L'autrice elimina questi elementi con abilità, trasformando il tutore di Giasone, il centauro Chirone, in un uomo deforme e sfigurato, o convertendo il viaggio di Orfeo nell'Ade in cerca dell'amata Euridice in un sogno. Con questi semplici passaggi l'autrice elimina le componenti sovrannaturali e riporta al centro della scena gli uomini e le donne di questa storia.

Ecco quindi Giasone, figlio di re, spodestato dallo zio, cresciuto in una caverna con un essere dall'aspetto ripugnante e più simile a un cavallo che a un uomo a fargli da tutore. Spinto da quest'ultimo, ritorna nella città natale per rivendicare il trono del padre, ma senza convinzione. Percepiti i dubbi del nipote, lo zio gli propone quindi un patto, un modo per guadagnarsi la gloria e il rispetto del popolo, oltre alla possibilità di ottenere un grande tesoro con il quale finanziare il suo futuro regno: conquistare il tesoro della città di Ea, governata dal ricchissimo re Eeta.

Nella città di Ea Giasone troverà Medea, figlia testarda e poco amata con la passione per le erbe, il culto della dea e un buona dose di rispetto per una straniera che diventa tutrice e madre adottiva e le insegnerà ogni cosa, almeno fino al giorno in cui il padre, nei suoi eccessi di avarizia e xenofobia, la fa lapidare. Distrutta dalla perdita dell'unica persona da cui si sentiva amata, Medea troverà in Giasone uno strumento per la sua vendetta, ma anche qualcuno da amare in modo viscerale, al di là di ogni ragione.

Ovviamente Giasone e Medea si muovono in mezzo a una moltitudine di personaggi secondari, e sarebbe impossibile dare spazio a tutti. Per questo motivo solo Eracle e Orfeo nelle pagine in cui il punto di vista è Giasone, Eeta e Morgar in quelle dedicate a Medea sono sviluppati, mentre tutti gli altri sono ridotti al ruolo di comparsa o poco più. La ricostruzione storica è buona, compresa di folklore, superstizioni, sacrifici agli dei e lettura degli auspici nel volo degli uccelli. Ma sono i personaggi a brillare più di ogni altro aspetto, ognuno dotato di un proprio carattere, a volte molto complesso e stratificato in molte sfumature, nelle quali è facile riconoscersi.

Altra cosa apprezzabile, e diretta conseguenza del tentativo di umanizzare il mito, il linguaggio semplice e diretto della narrazione, senza cercare inutili complicazioni ma senza affidarsi a un linguaggio troppo basso e inappropriato a personaggi per la maggior parte provenienti dalle fasce nobili della società, per i quali un lessico troppo basso sarebbe sembrato fuori luogo.

L'unica nota negativa è la rappresentazione degli spazi e degli ambienti. In un mito si ha sempre l'impressione che le vicende si svolgano in un non-luogo al di fuori dalla realtà, nel processo di umanizzazione del mito sarebbe importante dare una definizione accurata della scena, così da permettere al lettore di creare un'immagine mentale delle città e, in questo caso, della nave. Purtroppo gli unici due luoghi dove questo viene fatto bene sono la zona selvaggia dove è cresciuto Giasone e la città di Ea con i suoi dintorni, fino alla palude. Tutti gli altri luoghi rimangono in un alone di mistero tipico del mito che rovina parzialmente l'umanità dei personaggi. In particolare mi sarebbe piaciuto vedere una descrizione migliore della nave Argo, sia perché il gruppo passa molti mesi a bordo, sia perché Giasone prova un grande affetto per la nave.

Un dettaglio all'interno di un lavoro comunque ottimo, scorrevole e facile da leggere, in una rivisitazione molto umana di uno dei più famosi miti della storia greca. I nomi sono quelli di eroi leggendari, ma i personaggi vivono passioni comuni a tutti gli uomini e le donne, e in questo si trova la bellezza degli Argonauti del XXI secolo: gli eroi non sono poi così diversi da noi.

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