La scala scultorea
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Si chiamava Serafino. Era l'ultimo ospite arrivato al Conforto, una Comunità Alloggio per anziani situata nel messinese, dove lavoravo in qualità di Operatore Socio Sanitario.
«Prima di avere problemi di deambulazione, mi dilettavo con la scultura. Tu, caro ragazzo, si nota che non hai un cuore... di pietra» mi disse una sera, mentre lo aiutavo a indossare il pigiama.
Quell'uomo mi suscitava simpatia e tenerezza, oltretutto era evidente che desiderava scambiare quattro chiacchiere.
«Massì, nell'attesa che finisca sta' mezz'ora e che giunga l'unità notturna per smontare, mi trattengo un po' con lui» pensai. Nel frattempo, le mie due colleghe del servizio pomeridiano si erano già piazzate sul balcone della struttura a fumarsi una sigaretta e a spettegolare come loro solito.
E fu così che invitai quell'anziano signore, dalla gentile e colta parlantina, a pigliare il suo girello per avviarci in salone a sederci su due poltroncine.
Serafino iniziò a raccontarmi con tanta amorevolezza della defunta consorte, soffermandosi soprattutto sui trascorsi della malattia che l'aveva resa invalida, costringendola a letto. Successivamente l'argomentazione si orientò sulla politica, definendosi egli un comunista cristiano, per poi riprendere il discorso inerente la sua passione per la scultura. Praticamente passò da falce e martello, a scalpello e martello.
«Cinque anni fa, nel giardino della casa di campagna in cui abitavamo, decisi di realizzare una piccola scala rivolta verso l'alto. Secondo il mio intento, simboleggiava la congiunzione tra Cielo e Terra.»
«Una scala rivolta verso l'alto...» ripetei, provando a immaginare quell'opera di sicura autorialità.
«Sai, quotidianamente mi cimentavo a crearla con impegno, tra l'altro con difficoltà, per via dell'età. Eh, mica avevo vent'anni come te.»
«Trentaquattro!» lo corressi.
«Ah, te ne davo dieci meno!»
Sorrisi e ricambiai quel complimento accarezzandolo con un buffetto sulla guancia.
«L'estate scorsa, feci una specie di sogno. O forse si trattava di una visione. Non so.» Si prese una pausa per soffiarsi il naso con un fazzoletto e proseguì serioso. «In una notte ventosa, mia moglie, inaspettatamente, si alzò dal nostro lettone, mi baciò sulla fronte e uscì dalla camera. Restai paralizzato dallo sbigottimento, finché non indirizzai lo sguardo sulla finestra spalancata di colpo. Lei era lì, in giardino, accanto a un lampione che proiettava sull'erba un tremolante cerchio di luce.
«Mmm...» biascicai, annuendo assai colpito.
«La scala scultorea di cui ti parlavo si era allungata vistosamente, per di più era diventata traslucida, emanando un chiarore indescrivibile» continuò Serafino con la voce rotta dall'emozione.
«Incredibile!» esclamai inebetito.
«Angela mi salutò agitando una mano e piano piano salì i gradini, fino a che non sparì tra le nuvole. Improvvisamente la finestra si richiuse bruscamente e caddi in un sonno piacevole. La mattina seguente, al risveglio, la mia dolce metà c'era ancora. Tuttavia non dava più segni di vita.»
Serafino, con le lacrime agli occhi dalla commozione, si sollevò sui braccioli della poltroncina, e, inoltrandosi nella sua stanza, mi augurò la buonanotte.
Rimasi da solo, profondamente toccato. Neanche un minuto dopo suonò il citofono. Ebbi un sussulto. Era il cambio.
Gordiano Lupi e Francesco Viegi, "La grande bellezza"
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La Grande Bellezza
Gordiano Lupi e Francesco Viegi
Edizioni Il Foglio, 2024
15,00
Un libro di contrasti, questo ultimo testo a firma Gordiano Lupi e Francesco Viegi, fatto dei bei – e romantico-decadenti – testi di Lupi e delle ottime fotografie di Viegi.
Gordiano Lupi lo conosciamo: al di là di qualche incursione nel giallo, nell’invettiva o nel romanzo, è il cantore di Piombino. Parla della sua città com’è adesso e com’era nel ricordo. Memorie personali, forse distorte dall’acuta nostalgia che, col passare degli anni, si fa più amara, venata di sconfitta e di rassegnazione. Piombino non è sfondo ma è sostanza: archeologia industriale, polvere d’acciaio che arrossa il cielo in finti tramonti, agavi spinose e tamerici piegate dal vento, voli di gabbiani che hanno la traiettoria di ciò che non sarà mai più. Come si sa, la memoria rende incantevole anche quello che era quotidiano e finanche doloroso, stemperando e addolcendo. La “sostanza” è in fin dei conti la ricerca di se stessi, di ciò che non abbiamo trovato perché è andato perso, perché c’era già e non lo sapevamo, oppure perché è solo uno scherzo della memoria.
Le foto di Viegi collegano la Piombino che è a quella che sarà, ritraendo fiorenti ragazze in abiti succinti, le quali dovrebbero simboleggiare il futuro, ma anche la “grande bellezza” nascosta nel paesaggio marino e vetero-industriale della città toscana. Le ragazze contrastano con questo vecchio mondo, logoro ma pieno di significato, di persone morte, di voci, gesti e pregnante passato, loro che sono fresche e audaci, proiettate verso il futuro, avvolte da una naturale malizia e da una forse non troppo innocente sensualità.
Questo contrasto fra i ritratti di Viegi e la Piombino di Lupi ha senz’altro una sua ragione di essere ma io, da affezionata lettrice dei libri di Lupi, li preferisco fatti solo delle sue parole, della sua prosa così vicina alla poesia di cui è cultore, preferisco il fico degli ottentotti e i campetti sterrati dove i bimbi calciavano un pallone, i canneti, lo stadio Magona e la spiaggia di Salivoli, ai tacchi a spillo e alle cascate di riccioli mori. Preferisco, insomma, la voce che canta all’occhio che vede, anche quando, oggettivamente, vede la bellezza.
Giuseppe Berton, "Time"
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Time – Forty Italian poems
Giuseppe Berton
traduzione in inglese di Luisa Randon
Guido Miano Editore, Milano 2024.
Many Italians write poems, but it is very unusual for them to write, or translate their poems into English. Congratulations to Giuseppe Berton for this Time, Guido Miano Ed., Milano 2024, a book “dedicated to all those who desire TIME TO LIVE”, as you read in the dedication. The author, in addition to writing poetry, works as a cardiologist and researcher; moreover, he loves running (including marathons), cycling and skiing. He loves music too: the Italian music of Claudio Baglioni, for example, along with the music of Pink Floyd and the Van der Graaf Generator band.
The book comprises Forty Italian poems (this is the sub-title): eight chapters of five poems each. Most of the volume offers the translation of the Italian book The Train and the Poplar (Il treno e il pioppo, Guido Miano Editore, Milano 2021), which already included English translations of some poems, revised in several points for this edition. The section Times of Universe is totally new, as are twelve poems.
Luisa Randon translated all poems but one, In One Look was translated by Elena Boni. Luisa Randon deserves special mention for her ability to communicate the feelings and the rhythm of the Italian version. To do so, she sometimes introduces line breaks different from Giuseppe Berton’s, allowing both to express their own creativity. As a result, both the original Italian poems and their English translations are very evocative; their language is fluent, simple and smooth. A language that invites reading.
The classical roots of Berton’s inspiration are evident in many poems, from mythological Hellenism to the classical style of Leopardi style and to Romantic themes – all pointing to the irremediable and radical enmity between Nature, Reason and Man.
References to Hellenistic classicism are found in poems such as A thousand Years: “… / Wonder of Hellas. / Breathing of the East. / Pain of the Soul. // Perhaps you were weaving your canvas, / enchanting girl, while the sun / was shining on the sea and on you. // Perhaps your heart throbbed in your chest / and Eros, who melts your limbs, / tormented you at night, // slave to desire / and to painful sorrows. / Sweet girl, crowned with violets. // You implored Aphrodite, / on her colourful throne, not to exhaust your soul / with pains and sorrows. / …”.
References to Leopardi’s lyrics are visible in several poems. For example: “… // The great poet / sang about you / to be relieved from his pain, / for you smiled at him. //… //… Melancholy moon, / light dropping on our eyes / and on the secret paths of the soul, / maybe you are just an illusion. // …” (To the Moon). Perhaps this is why the author writes in the autobiographical note: “The author hopes in Giacomo Leopardi’s good will if he reads it” (this note was alredy in English in Il treno e il pioppo, Guido Miano Editore, Milano 2021, p.93).
The typical themes of Romanticism appear, for example, in the last three verses of the poem dedicated to Van Gogh, Vincent: “…// I have seen the colours of your stars, / the stars of the soul, of madness, of life, / STARRY NIGHT”. Van Gogh is also mentioned at the opening of Colours: “A thousand colours are reflected / on coral and silver meadows / sand on your sweet eyes. / But in the end, at dusk // what will the colours look like? / Will blue be blue again? / And the green / and the yellow fallen from the sun, // like a drop of joy, / for you Vincent, / sweet soul, lost / in starry fields. // …”. The reader of this book will find many more.
There are frequent references to contemporary life, along the lines of Realism, as in Refugees: “Refugees are fine lines, / between the sand and the sea. / Refugees are Mike and Susie, / run away from the life they loved, // … / / We are Mike and Susie, / we are refugees, / we are lost, / we are dreams”. You can find another clear example in Homeless.
The author, as noted above, loves music, particularly the music of the English band Van der Graaf Generator. The five poems of the fourth part of the collection, by explicit admission of the author, are inspired by this band, echoing their contents and style: Refugees, The Lighthouse, Jericho, Forsaken Garden and Once I Wrote a Poem. Hence, Enzo Concardi can write in his preface to Berton’s book Il treno e il pioppo: “Berton tells us everything with a free poetic style (…) conveying to his poetry assonances that echo those of progressive rock” [my translation].
All poems can be easily read with pleasure. This is true for poems divided into stanzas and those not; for lyrics that include only three verses, as Haiku, or more than fifty, as in the case of To the Moon and A Thousand Years; for verses that are short, very short, or even single-worded, and for particularly long verses, as in the first lines of Five O’Clock at Night: “Endless night, wrapping around our thoughts. / Heartbeats, like wings in flight, brushing the skin. / Three hours, thirty years, five o’clock at night”. Berton’s language can be rich and varied as in the poem Like a Dream, or insistently repeated as in In a Sight, where the words “At the end” introduce all the twenty-seven lines of the lyric.
In this collection Berton outlines an itinerary of research; better, a searching itinerary. Search for life, for its ultimate meaning, in a path where uncertainty and confidence coexist, and where something leads our path: “A dim light, still far away, / may lead us / to a safe harbour” (last verses of The Lighthouse).
In every poem of Time you can feel the charm of discovery. Discovery of time, as in Time of Universe; of colours, as in the poem of the same name; discovery of love, as in numerous poems, from which the loving sentiment leaks gently: “While the evening fell / silently / on the restless world. // And our kisses / lightly floated on the earth, / endlessly” (last six verses of Before Calling You Love, to give just one example). Everything is watched with attentive eyes, eager to discover a meaning: eyes able to relate everything to that meaning. All of reality is described with love and reverence, arousing a desire for life. Perhaps a sign of resilient faith, surely an inner search for the meaning of time passing: “And I was thinking of time, / the time measured by physicists, suffered by poets, / considered infinite by believers. // I think time is an illusion, / only an illusion in this unknown life. / And it is less than a kiss.” (last six verses of Time). Time passing is initially seen almost as nonsense, but in subsequent lines time is revalued in comparison with something that feels eternal, that is love: “… // I was looking at my love, / and I could feel things changing all around. / I could feel space and time changing, // somehow like gravity changes / space and time, / around the universe. // …” (from One Day).
Time is, in fact, the journey of life, represented by the train, in search for the stability of the soul, whose emblem is the poplar: “… // The train seemed happy, / but nobody knew if it was true. / What matters is not what it shows. // The poplar tree seemed sad, / but nobody knew if it was true. / What matters is what it hides. // …” (from The Train and the Poplar Tree). Few, clear words; verses that spin like the wheels of the train on the tracks and that run away like wind in the poplars’ tops. Words that make us think, because the poet shares with us the awareness that ‘time to live’ is the most important thing. And poetry is indeed able to catch an instant of time and preserve it – as much to the writer as to the reader – so that it is never lost.
In short, this is a book of sincere, pleasant poetry, with a touch of Italian originality that remains in the English translation. Moreover, as the author himself writes in the note that accompanies the Italian book Il treno e il pioppo, “You don’t have to use a dictionary to understand the verses, you just have to use your heart to understand the poet’s language”.
That is true, if a poet - as Berton is - writes himself from the heart. Forgive the involuntary irony, since Berton is not only a poet, but a cardiologist by profession; but you can find some irony also among these Forty Italian poems, which makes their reading even more enjoyable.
Marco Zelioli
Giuseppe Berton, Time – Forty Italian poem, pref. Marco Zelioli, trad. in inglese di Luisa Randon, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 80, isbn 979-12-81351-42-4, mianoposta@gmail.com.
Rita Pacilio, "Cosa rimane"
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Cosa rimane di Rita Pacilio (AUGH! Edizioni, 2021 pp. 114 € 13.00) è un romanzo che cristallizza il senso dell'esistenza, consegna al lettore una testimonianza forte, dolorosa e struggente dei rapporti umani, domina l'imponente urgenza autentica di narrare la lacerazione emotiva. L'autrice, alla sua prova narrativa, presta la sua parola, sempre e comunque caratterizzata da un registro raffinatamente poetico, all'analisi intima, violenta e tormentosa, del dramma, compone un'opera complessa e densa d'inquietudine, abitata dalla sofferenza e dal disagio dei protagonisti, alle prese con la frammentaria identità di un passato che affonda l'incompletezza del presente e disgiunge il simulacro dei sentimenti. La protagonista Lorena è il personaggio determinante e lineare nello svolgimento delle manifestazioni enigmatiche e infide degli altri, contraddistinto da un percorso interiore, pieno di coraggio e di umiltà, condivide l'incessante amore per la vita, ricompensa la lotta contro il destino inesorabile nella consapevolezza del riflesso introspettivo, accerchia i fantasmi della solitudine quotidiana con la suggestione della nostalgia, alimentando i segreti indecifrabili dell'umanità tra desolazione, illusioni e desideri. Rita Pacilio illustra l'atmosfera cupa e impenetrabile degli inganni, espande lo sconcertante e oscuro segreto degli equivoci della morale, analizza il mondo imperscrutabile e sotterraneo dell'anima, scalfita irrimediabilmente dall'angoscia e dalla durezza delle ingiustizie. Dichiara il sussulto di una confessione, contro l'indifferenza, aperta al valore della responsabilità civile dei modelli sociali, confronta l'equilibrio e la consistenza della libertà con la resistenza della giustizia, contrasta la soggezione e la prevaricazione nelle vicende narrate. L'autrice dimostra la sua mirabile capacità di delineare l'intensificazione inconscia del sentire, il senso di colpa nella deriva dei personaggi attraverso gli echi evocativi del rimorso e del rimpianto, supera il confine temerario e sgomento dell'incomunicabilità, incrocia la trappola degli ostacoli, avverte l'influenza delle esperienze nella colpevolezza dei comportamenti umani, nella disperazione assorbita, nel profondo e occulto mistero del cuore, nella sfuggente e inafferrabile coscienza delle rivelazioni. I personaggi sono tratteggiati con incisiva cura e schietta lucidità, restituiscono la solidarietà nel percorso imprevedibile della sorte, rivestono lo scenario minaccioso e al tempo stesso incoraggiante della memoria, trasformano la persistente decadenza delle assenze, gli sventurati rendiconti personali, rivendicano l'amicizia e riconciliano la dignità. Rita Pacilio rievoca gli episodi con una riservatezza volontaria, dà voce alla cronaca innescando la delicatezza dell'amore e deturpando gli sfoghi della violenza, ricompone la direzione della carità, fonde l'evocativa intensità delle difficili personalità, descrive la conseguenza della paura e delle sconfitte nelle ostilità emotive. Il contesto sociale descritto dagli anni sessanta a oggi, segna la permanenza dei ricordi e della loro assistenza. La narrazione indugia sull'esito della compassione, riconosce lo scoramento, l'inevitabile sensazione della morte e la pulsione di ogni rinascita. Cosa rimane difende quello che manca, sostiene il carezzevole sguardo sulle vicissitudini umane e sulla fatalità, raccoglie il groviglio della malinconia. Se nella pagina resta sempre qualcosa di non detto, nel romanzo di Rita Pacilio cosa rimane è la prova che il “tempo della scrittura e il tempo della vita coincidono”
Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Maria Cristina Buoso, "Vorrei dirti"
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Maria Cristina Buoso
Vorrei dirti
PlaceBookPublishing Collana: I Corti
Link Acquisto: https://www.amazon.it/dp/B0DJNP28S4/ref
Copertina flessibile - Pagine 188 - ISBN-13: 9798341496354
Ci sono sempre due verità... e spesso non coincidono. Ci sono stati silenzi e incomprensioni che hanno allontanato Diva da suo padre per diciassette anni. Diva, ormai donna, capisce che per riappacificarsi con lui, prima deve farlo con sé stessa e dare un senso ai tanti ricordi che aveva rimosso del suo passato. Lo farà scrivendo una lunga lettera al padre, nella quale si racconta e spera in una risposta. Non succederà perché le ritornerà indietro con la scritta: destinatario sconosciuto. Cosa è successo? Per saperlo dovrà indagare sulla vita del padre fino alla verità finale. Un avvincente viaggio alla ricerca del significato vero degli affetti più forti, un viaggio non solo fisico ma soprattutto emotivo attraverso i sentimenti, le vicende del passato e le sorprendenti pieghe della vita. Maria Cristina Buoso scrive sin da giovanissima, fiabe e poesie, racconti brevi, copioni, romanzi, gialli, thriller … . Ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra questi il Certificato di collaboratrice della China Writers Association e del Club dei Lettori della Cultura orientale e Letteratura cinese. Gestisce un blog letterario interessante: https://mariacristinabuoso.blogspot.com/. Leggiamo un brano tratto da Vorrei dirti.
“Vorrei dirti tante cose, ma per troppo tempo ho trattenuto le parole dentro di me, forse perché mi sentivo ferita dal tuo silenzio o forse perché troppo orgogliosa per provare a capire le tue scelte. Tu non sapevi dirmi ti voglio bene e io non sapevo come fare per superare il muro che avevi alzato tra noi. E adesso, dopo tutti questi anni di lontananza, non so come riavvicinarmi a te. Tra le foglie verdi ho visto nascere le prime violette della stagione. Il freddo fra un po’ si ritirerà e lascerà dietro di sé un ricordo appena sbiadito sui petali dei primi fiori che sbocceranno. Nei miei pensieri ho tante parole da mettere in ordine e sentimenti da chiarire, come le domande senza risposta che mi sono portata dentro per troppo tempo. Indosso il cappotto ed esco. Sotto i piedi, lo scricchiolio del freddo mi ammonisce di non fidarmi di quel sole che si stiracchia nell’aria, regalandomi i primi tepori primaverili. Mi sorrido e mi avvicino alle prime violette, le raccolgo e ne faccio un mazzetto, poi te lo spedirò insieme alla lettera, racchiuso tra due fogli bianchi. È passato tanto tempo dall’ultima volta che ci siamo visti e forse tu non abiterai più là, non importa, te la mando lo stesso all’unico indirizzo che conosco. È da qui che sono partita diciassette anni fa. Ricordi? Il nostro fu un saluto formale sulla porta di casa, nessuno di noi due voleva abbassare per primo lo sguardo e neppure dire quella parola che forse ci avrebbe permesso di essere meno orgogliosi e freddi. Eravamo due testardi; io lo sono tuttora, e tu? Ti sto scrivendo questa lettera con il pensiero, poi la trascriverò sulla carta, forse cambierò qualcosa, forse niente. Fra un secondo e un altro tutto può cambiare e non solo le parole. Voglio raccontarti di me. Approfitto di questo tuo obbligato silenzio per parlarti”.
Segaiolman
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In una notte d'estate di circa venticinque anni fa, dal momento che non riuscivo a dormire, accesi la TV del soggiorno e mi misi a cazzeggiare con il telecomando alla ricerca di qualcosa di interessante, standomene spaparanzato nella poltrona reclinabile, a torso nudo e con addosso un paio di boxer da mare. Si erano fatte le tre e, dopo tantissimi zapping, mi sintonizzai su un canale privato che trasmetteva uno stuzzicante lungometraggio erotico, di produzione francese.
«Minchia!» esclamai tra me e me, inumidendo le labbra da adolescente allupato, dalla manovella sempre pronta. Non per niente, un mio compagno di scuola di allora, mi chiamava Segaiolman, un soprannome che non ritenni dispregiativo, al punto da identificarmi in un supereroe e nell'immaginarmi una S sul petto, tipo Superman.
Non appena mi fui assicurato che la porta del salone fosse chiusa, estrassi dalla tasca laterale un pacchetto di fazzoletti e mi distesi con i boxer abbassati.
Ancora oggi ricordo nitidamente alcune sequenze hot di quel film libidinoso: in un letto d’albergo, c’era una bonazza dai capelli neri a caschetto dalla frangia sexy, che si prodigava a cavalcare appassionatamente un marcantonio che le toccava e le succhiava le tette, piccole ma ben proporzionate.
Nel mentre tiravo su e giù lo sventrapapere, proprio sul più bello, udii il rumore della maniglia della porta. In maniera goffa, sollevai i boxer e, con il telecomando, pigiai un tasto a caso, finendo su un canale di televendite dove un tizio reclamizzava a gran voce dei tappeti persiani.
A passo lento, entrò mio padre, che si incamminò in direzione del tavolo da pranzo per prendere l’accendino, le sigarette e gli occhiali da vista.
Mi ritrovai così in una posizione po' buffa, ovverosia non più disteso ma seduto ingobbito, tenendo la gamba sinistra a terra per nascondere con il piede scalzo il pacchetto di fazzoletti, quella destra sul poggiapiedi, il telecomando adagiato sulla patta gonfia e le braccia arcuate appoggiate sui braccioli. Finsi di sbadigliare e cercai di guardare lo schermo con aria annoiata, difatti speravo che mio padre, per dirla alla toscana, non avesse capito... una sega di in che cosa mi stessi cimentando mezzo minuto prima.
«T'accatari un tappitu? (Ti devi comprare un tappeto?)» mi chiese il babbo in dialetto messinese con un'espressione sorniona, piazzandosi di profilo davanti all'apparecchio televisivo.
«Mah… sai… quasi quasi...» farfugliai.
«Occhio però, perché dovrai prestare attenzione a non macchiarlo» mi disse annuendo divertito e se ne andò accendendosi una sigaretta.
In quel preciso istante, desideravo per davvero un tappeto. Un tappeto volante per l'esattezza, per scappare lontano assieme al mio imbarazzo.
Hocus Porcus
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C’erano una volta, in un piccolo castello della Valle d'Aosta, due sorelle streghe di mezza età di nome Hyra e Fedora, assai pigre e indolenti. Vivevano di rendita, in quanto in passato avevano brevettato l'Antifreezee, una pozione portentosa capace di rendere per quattro o cinque ore un qualsiasi individuo immune al freddo, persino il più estremo.
Per via della svogliatezza delle due sorcières, la cattiva igiene e il disordine regnavano sovrani, tra pile di bucato, luridume e ragnatele disseminate ovunque. Praticamente le uniche attività gradite erano dormire nei rispettivi letti dai materassi ad acqua e sangue, nonché leggere, bere e mangiare su divani sgualciti in pelle umana bretone.
Per il cibo, le suddette non dovevano nemmeno scomodarsi a uscire, visto che per le compere nei vari locali di Aosta si servivano di Oark, un minorco un po' scemotto dalle sembianze più umane che animalesche, al quale veniva affidata la lista delle pietanze da asporto, denaro per saldare i conti e dei sacchi di tele di ragno in carbonio.
Un giorno, Fedora realizzò che effettivamente la dimora versava in condizioni decisamente pietose, anche perché osservò blatte, scarafaggi e topi scorrazzare tranquillamente.
«Che schifo! Dai su, muovi quel culo mollo e aiutami a pulire!» ordinò alla sorella assonnacchiata, scuotendole il braccio.
Hyra, sbuffando, si alzò lentamente dallo sdrucito divanaccio e si guardò intorno.
«Per evitare che ci venga... il colpo della strega, che ne pensi di risolverla con la magia?» propose, assumendo l’espressione di una che la sa lunga.
«Con la magia?»
«Se rammenti bene, esistono diverse formule magiche mirate a sistemare e a lustrare ambienti interni.»
«Il problema è che se sbagliamo il procedimento, saranno pipistrelli amari. Quindi, occhio al mestolo» le disse Fedora, inducendola alla prudenza.
In quell'esatto momento, pezzi di intonaco caddero dal soffitto e contribuirono ad accrescere la sporcizia.
«Hai ragione, vecchia mia. Consiglio però di dispensarci almeno per i pavimenti e per le scale. Altrimenti stendiamo un velo... polveroso» ironizzò Hyra ridacchiando. «In merito, conosco un'indicata formula in rima. Nel recitarla, gli oggetti prescelti si muoveranno e spazzeranno al posto nostro.»
Fedora, malgrado fosse poco convinta, assecondò l’idea, difatti, sotto sotto non è che avesse così tanta voglia di faticare.
«Hocus Porcus, scope, pale e palette del castello, ripulite 'sto bordello!» evocò Hyra concentrandosi a occhi chiusi e ondeggiando un bastone ricurvo a trecentosessanta gradi.
All'improvviso comparvero una luce bluastra e strali di scintille che avvolsero per una decina di secondi l'intera struttura, dalla cantina alla torre.
«Ti sei rincoglionita, per caso? Come Hocus Porcus? Hocus Pocus, semmai, brutta megera!» reagì Fedora incazzata nera.
I numerosi attrezzi per spazzare, presenti in uno sgabuzzino senza porta, si animarono all'istante. Le palette si scontravano di continuo, mentre le scope si misero a saltellare qua e là, per poi "scopare" fra loro. Dalle “unioni” nacquero le scopette le quali si divertirono a far cascare e distruggere anfore, lumi, ampolle etc.
Hyra e Fedora, non ricordando la contromagia per annullare l'incantesimo, si misero a piangere e a gridare dalla disperazione finché scope, scopette e palette, forse colte dal dispiacere per il baccano e lo scempio causato, si placarono e ritornarono inanimate.
La coppia di streghe si accapigliò, tirandosi i capelli grigi e crespi. Verso sera "magicamente" si riappacificarono, del resto c'era da rimboccarsi le maniche in tutti i sensi.
«Dove non arriva la magia, arriva la buona volontà» sospirò Fedora nel gettare i primi cocci nella pattumiera con l'assenso di Hyra, consapevole di averla fatta... sporca.
Travel on Set
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Cinzia Diddi è una scrittrice e imprenditrice di successo, nota stilista italiana, specializzata nella creazione di costumi per teatro e cinema, dove l’abito rivela il carattere del personaggio ancor prima delle parole. Esperta di comunicazione non verbale, ha collaborato con registi, sceneggiatori e scenografi per costruire personaggi attraverso i costumi, grazie a una profonda conoscenza del linguaggio filmico e a una lunga esperienza sul campo.
Proprio per queste competenze, Ermelinda Maturo, produttrice cinematografica e ideatrice del progetto unico e innovativo Travel on Set, ha scelto Cinzia Diddi come referente. Accanto a lei, la sua socia Angela Bellia e i tanti professionisti del settore, tra i quali Luca Ward, Gianni Mammolotti e tanti altri artisti che portano prestigio e qualità al progetto, selezionati con cura per la loro riconosciuta professionalità.
1. Cinzia, può parlarci di Travel on Set e del suo ruolo nel progetto?
Il progetto Travel on Set, ideato da Ermelinda Maturo, è un’iniziativa che mira a portare il cinema nelle scuole, avvicinando i giovani a questo mondo con un percorso formativo innovativo e sperimentale. Quando mi è stato proposto di assumere il ruolo di referente per la Toscana, ho accettato subito, coinvolgendo le migliori scuole del territorio. Oggi molte scuole stanno rispondendo positivamente, e ne sono entusiasta, perché credo nel valore educativo di questo progetto, ma soprattutto conosco Ermelinda e il valore che dà a tutto cio' che fa.
2. Qual è l’obiettivo formativo di Travel on Set?
Travel on Set è stato riconosciuto anche dall’Accademia Pontificia di Teologia di Papa Francesco e dal Vescovo Antonio Stagliano' per il suo valore sociale ed educativo.
Il progetto si propone di fornire ai giovani, dalle elementari alle superiori, un’introduzione pratica al cinema con lezioni di recitazione, regia, produzione, dizione e doppiaggio, tenute da professionisti. Questo percorso vuole sviluppare le loro competenze creative e relazionali, rendendoli più consapevoli e sicuri.
3. Come è organizzato il percorso e quali opportunità offre?
Il corso dura 80 ore e si terrà durante l’anno scolastico fino a maggio/Giugno 2025. Oltre a offrire un’educazione pratica, potrebbe anche portare alla firma di contratti di lavoro per i giovani più promettenti. Ogni anno, i migliori studenti saranno selezionati per un premio unico: la possibilità di lavorare su un set a Los Angeles, New York o in Italia. Inoltre, parteciperanno alla realizzazione di una serie TV internazionale che esplora temi attuali come amicizia, relazioni e salute mentale, con la partecipazione speciale di un attore di Hollywood.
4. Cosa l’ha convinta ad accettare?
Ho accettato questo ruolo perché la recitazione è uno strumento potentissimo di crescita personale. Aumenta l’autostima, supera la timidezza e insegna a gestire il confronto con gli altri. Penso sia rivoluzionario iniziare tutto questo fin da adolescenti e pre-adolescenti, poiché crea una base solida per futuri adulti capaci di fiducia e autonomia.
Il pupazzo di neve
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Devo ammettere che ho fatto un ottimo lavoro. L'ho chiamato Lumiukko, che tradotto dal finlandese significa "pupazzo di neve." Ecco una descrizione veloce e sommaria di cosa mi sono servito per realizzarlo: innanzitutto, la materia prima, cioè la neve, i due pomodori di Pachino ne ricreano gli occhi, la carota nodosa rappresenta il naso, mentre una decina di olive greche formano il sorriso. Per quanto riguarda il vestiario, ho utilizzato una sciarpa logora che ho raccattato accanto a un bidone dell'immondizia, una manciata di pezzetti di carbone sarebbero i bottoni, e infine, in testa gli ho messo un cilindro vecchio stile trovato in un baule, appartenuto a un prozio mezzo mago e mezzo medium, vissuto agli inizi del Novecento.
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Jonathan, il mio dirimpettaio, afferma che Lumiukko è indicatissimo per Halloween. Che stronzata! Semmai, il suo pupazzo di neve è un'autentico orrore.
È soltanto invidioso, ragion per cui vale un detto ideato da me: «La neve del vicino è sempre più bianca.»
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Sia i bambini che gli adulti dell'intero vicinato evitano di passeggiare nei pressi del vialetto della mia abitazione, perché gira voce che Lumiukko abbia un aspetto sinistro al punto da risultare estremamente agghiacciante.
Bah, la gente si è bevuta il cervello!
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Effettivamente il mio pupazzo di neve ha un qualcosa di strano, inoltre ho come l'impressione che si avvicini gradualmente all'uscio di casa mia. Mi manca il coraggio di distruggerlo, quindi, in attesa che si sciolga, è meglio se entro o esco dal retro.
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È passato un bel po' di tempo, dato che mi sento tranquillo, finalmente posso alzare le tapparelle e aprire le finestre, arieggiando così le stanze. Scrutando fuori, di quel dannato snowman non c'è traccia. Ottimo.
Spalanco felicemente il portoncino d'ingresso e rimango... di ghiaccio. Lumiukko si è piazzato a un metro da me. Per di più, oggi è Ferragosto!
Il sentiero
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Porco Giuda! Da qui con la macchina non è possibile procedere. Dovrei incontrarmi con una persona all'esterno di una baita per discutere i dettagli per un lavoro stagionale. Provo a contattarlo per informarmi se l'abitazione è vicina o meno. Che iella, il segnale di rete del cellulare è assente.
O la va o la spacca, dai. Proseguo a piedi, seguendo l'indicazione di quel cartello in legno marcio su cui c'è scritto "Colle Osso," sperando che il percorso non sia impegnativo. Non ho voglia di una sfacchinata.
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È da circa mezz'ora che percorro questo sentiero fangoso disseminato di sassi, tra saliscendi e svariati bivi ho perso l’orientamento. A peggiorare la situazione l'assenza di segnaletiche, per non parlare di una cavolo di nebbia che rende l'atmosfera particolarmente funesta.
Si dice che «La paura mette le ali ai piedi» e difatti inizio a correre, volgendo più volte lo sguardo all’indietro, inseguito da un'inspiegabile paranoia e oppressione.
Il percorso diventa gradualmente pianeggiante, per di più noto una serie di impronte di scarpe sul terreno, le quali certamente confermano che qualcuno è appena passato. Mi sento leggermente sollevato.
La via è giunta al termine, dinanzi a me è piazzata una moltitudine di alberi. Aguzzando bene la vista, scorgo in lontananza un uomo, accovacciato al lato di un sovrastante faggio, che respira affannosamente. Avanzo veloce e gli tocco la spalla per far sì che sì accorga della mia presenza. Il tizio, alzandosi di scatto come una molla, mi fissa con gli occhi pieni di raccapriccio. Non ci posso credere! È identico a me, praticamente una goccia d'acqua, vestiti compresi. Sto impazzendo?
Sopraffatto dall’orrore, indietreggio. Raccolgo una pietra adagiata su una coltre di foglie secche e gliela scaglio con forza sul capo. L’altro me caccia un urlo e crolla al suolo in una pozza di sangue.
Ricomincio a correre inoltrandomi in un nuovo sentiero piano, come sempre coperto di fango e sassi, nonché avvolto da un manto nebbioso. Un angoscioso déjà vu mi pervade poiché il tratto finisce presto, riproponendomi i tanti alberi, tra cui un torreggiante faggio.
Sono sfinito, mi manca il fiato, ho bisogno di rannicchiarmi proprio lì. Di punto in bianco una mano si posa sulla mia spalla e d'istinto mi rialzo bruscamente. No! Di nuovo me, cioè lui! Lo fisso inorridito e l’altro io fa altrettanto. Quest'ultimo, arretrando a debita distanza, afferra una pietra in mezzo a uno strato di foglie e senza pietà me la tira addosso centrandomi la testa. Poi, assai dolorante, stramazzo a terra.
***
Mi sveglio di soprassalto, con il cuore che mi batte all’impazzata. Si è trattato di un maledetto incubo. Cerco di rilassarmi, ovattandomi nella quiete penombra della stanza.
All'improvviso il cellulare vibra sul comodino. Toh, mi è arrivato un messaggio. Il mittente è Giorgio Romero, il signore che qualche giorno fa aveva risposto a una mia e-mail. Apro l’SMS e lo leggo.
«Salve, mi scusi per l'ora. Mi spiace comunicarle che la sua candidatura per un impiego alla baita di Colle Osso è stata respinta in quanto abbiamo già provveduto. Le auguro una buona giornata.»
Quindi, non se ne fa nulla. Beh, forse è meglio così.
Mi rimetto a letto, anche perché... ho un terribile mal di testa. Ehi, ma che è 'sto bernoccolo?