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Tommaso Tommasi, "Poesogni"

16 Luglio 2024 , Scritto da Michele Miano Con tag #michele miano, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Poesogni

Tommaso Tommasi

Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

Io con Tommaso Tommasi mi sento in colpa per due motivi. Primo motivo: mi occupo di editoria da trent’anni; ho iniziato verso la fine anni degli anni Ottanta ancora studente liceale con i primi articoli su riviste locali e con i preziosi consigli di mio padre Guido che dirigeva la nostra Casa Editrice. Confesso anche di avere stilato centinaia di prefazioni, saggi, monografie su autori e artisti contemporanei; e tenuto conto della mediocrità dei tempi di oggi, si tratta spesso di espressioni artistiche ormai livellate su canoni estetici e formali consueti e scontati. Mai come in questo caso mi sono imbattuto in un autore sui generis che mescola brani (forse derivano da sogni interrotti?) o meglio brandelli di racconti di vita vissuta spesso dal sapore autobiografico con stralci di liriche in un vortice caotico apparentemente senza senso. E solo ora mi rendo conto della complessità del dettato poetico di Tommaso Tommasi.

Sepolto dalle urgenze redazionali, mi accingo a scoprire un autore di caratura unica. Una scrittura, la sua, che si avvale di un mosaico di frammenti, episodi, immagini, brevi accadimenti slegati tra loro. Pensieri e riflessioni in un magma di sentimenti e osservazioni, racconti e aneddoti spesso senza una logica consequenziale. Lo stesso titolo della raccolta Poesogni è frutto della fantasia dell’autore come i titoli Ripamaro (2020) e Lamodeca (2022) pubblicati da questa Casa Editrice (e non prefati da me ma dal nostro valido e storico collaboratore Enzo Concardi) e che costituiscono una sorta di triade. Tre volumi che racchiudono un percorso di vita e sperimentazione linguistica già intrapreso con la pubblicazione del primo volume Il vento dell’anima nel 1977.

Come giustamente ha notato da Enzo Concardi nella prefazione a Lamodeca «… ne risulta una sorta di zibaldone di motivi, temi, generi letterari, stili i quali sono tuttavia uniti da un principale filo conduttore: stralci di vita dell’autore tratti dalla memoria e proposti oggi come una retrospettiva di vissuti tradotti in forma letteraria in cui vi sono occasioni perdute, esperienze giovanili, prove narrative e sogni interrotti da risvegli».

Proprio in Poesogni (G. Miano Editore, 2024), in uno stato di immaginario dormiveglia, il nostro poeta alterna brani lirici con sogni o meglio brandelli di sogni in una girandola di riflessioni, episodi di vita, memorie macerate intimamente. La dimensione del sogno sempre presente nella sua produzione, qui diventa elemento catalizzante e se vogliamo un processo di “catarsi” dai mali del mondo.

Il rifiuto di una società sempre più alienata e disumanizzata con i suoi falsi miti del progresso e con le sue idolatrie lo portano a isolarsi e a costruire un’interiorità sensibilissima per cui la poesia diventa l’unico approdo “al mal di vivere”; la poesia come tutta l’arte in generale diventa l’unica corazza per difendersi da un mondo ostile e nel quale non si ritrova.

La massificazione della società moderna con la distruzione dei valori più autentici rende il mondo dominato dal caos senza più una gerarchia di valori o principi morali. Il poeta percepisce questo disagio, si sente sopraffatto e questa dolorosa osservazione del mondo rende ancora più difficile il dialogo con l’umanità. Ma Tommaso Tommasi rimane impassibile a volte; la realtà continua a conservare il carattere dell’enigma, dell’illusione, le cose rimangono prive di chiari contorni e di colori. Quasi un caos calmo, un ossimoro di morettiana memoria, dove in una dimensione caotica il poeta trova quasi una rassegnazione senza via di fuga.

La sua complessa e articolata personalità ci induce a una particolare valutazione dell’opera letteraria; oltre a dedicarsi alla poesia, Tommaso Tommasi si dedica al teatro, alla fotografia e alla pittura. Poesia sintetica nell’espressione, dotata di una notevole cadenza ritmica, che non ignora certo la frequenza con i classici, strutturata sostanzialmente tra l’immagine lirica e un ripiegarsi acuto e dolente nell’interiorità; un’interiorità che è resa più aspra dalla solitudine e dallo scorrere del tempo.

Perciò al primo impatto sembra essere una poesia caratterizzata da una visione fatalista e pessimistica della vita dove regna il caos o il disordine e i sogni aiutano ad evadere da questa realtà dolente: «I sogni non sono inutili / se poni tra le mani / un sipario di vetro. / E l’abisso risale / verso volti di uomini / che nascondono la rabbia / della palla del mondo».

Ma anche nella cupa disperazione e sensazione di angoscia si apre uno spiraglio: «Mi hai incantato col tuo caldo corpo / verso confini sconosciuti. / Suonerò il tamburo della mia vita / come il bambino che è in me. / Quel giorno sarà un sogno / e come il sogno sarà senza dimensioni. / Non potrà essere collocato / nello spazio e nel tempo. / Come un sogno / non potrà avere né un inizio né una fine. / Quel giorno sarà come una vita intera».

Ma cos’è poi l’arte, se non un tentativo di recupero del mito di quell’innocenza perduta a cui noi tutti tendiamo e di cercare di scovare negli abissi della propria coscienza quel poco di pace che tutti cerchiamo e che solo pochi raggiungono. E Tommaso Tommasi questo lo sa bene: «Libero, avrei voluto / confessare la mia malinconia. / ma il mondo lontano / abbandona le case del povero / senza graniglia di marmo / o finestre colorate di luce; / e le braccia ricadono stanche / senza le parole incantate / di un mago di bottega».

Il suo non è un canto illusorio poiché sogno, realtà e illusioni si fondono in una identità presente con il pensiero e l’azione. La poesia del nostro autore rivela anche la preoccupazione per quanto dell’uomo rimane di ciò che egli ha vissuto e sofferto nell’iter terreno e comprende che solo l’opera del pensiero individuale può continuare a vivere dopo l’annullamento fisico. Ma ecco che forse «(…) ci sarà sempre / un sorriso di donna / che guarderà felice / lontani orizzonti». Il che non è poco e lascia aperto comunque qualche barlume di speranza. Ed è in questo che risiede l’intima essenza della poesia per Tommaso Tommasi.

 

Il secondo motivo per cui mi sento in colpa è non avere letto prima gli altri suoi volumi precedenti.

Michele Miano

 

 

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L’AUTORE

 

Tommaso Tommasi è nato a Ripatransone (AP) nel 1948 e vive a Seriate (BG). Laureatosi a L’Aquila, ha insegnato teatro, fotografia, poesia, lingua italiana. È stato bibliotecario presso il Liceo Scientifico di Bergamo. Ha collaborato come pubblicista con giornali e riviste; ha pubblicato varie raccolte di poesie. Tommasi è anche pittore ed ha allestito diverse mostre personali e collettive. Nel concorso “Opera Uno 2011” si è classificato tra i vincitori.

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Tommaso Tommasi, Poesogni - Poesie e sogni, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 80, isbn 979-12-81351-36-3, mianoposta@gmail.com.

 

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Adriana Deminicis, "8 Infinito 8 - L'arrivo del gabbiano"

10 Luglio 2024 , Scritto da Enzo Concardi Con tag #enzo concardi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

8 Infinito 8 – L’arrivo del Gabbiano

Adriana Deminicis

 Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

Dopo la pubblicazione de La gemma di giada nel 2023 – che ha visto sempre la mia prefazione – ecco ora l’apparizione de L’arrivo del Gabbiano, seconda opera di Adriana Deminicis, appartenente al ciclo dedicato all’Infinito: ne è sicuramente la prosecuzione poetica ed ideale, riprendendone i motivi di fondo e la tecnica letteraria. La poesia incipitaria del libro cerca di illustrare al lettore il lungo cammino che l’aspetta per raggiungere mete e traguardi di spiritualità e benessere, nell’unione con il Tutto: porta lo stesso titolo simbolico della raccolta ed è una sorta di dichiarazione programmatica del significato della presenza dei gabbiani, ovviamente metafora da svelare. I versi chiave mi sembrano i seguenti: «… Il Gabbiano in volo rappresenta / il mio pensiero che ha trovato la via / per poter uscire ed intraprendere / il cammino, nel respiro liberato / che fluttua nell’Aria, ondeggia / ed a ogni batter d’ali / fa imprimere parole sentite, / sgorgano fluttuanti senza remore e paure / e dicon ogni cosa, / tutto quello che il mio cuore in questo momento sente...».

La mente e il sentimento della poetessa agiscono quindi all’unisono, investendo tutta la personalità, l’essere, l’anima, i sensi per compiere un cammino di liberazione e di guarigione, simile alla funzione dell’antica “vis medicatrix naturae. Qui potremmo già citare - come esemplificazione – le liriche Il quarzo citrino («Non era un vezzo / senza significato / portare un ciondolo / di quarzo citrino /…/ lo vedevo luccicare / lo tenevo a me vicino / e i suoi effetti e benefìci / si imprimevano ben presto / sul mio corpo…»; La gemma di giada («Scompariva il dolore dal corpo / grazie alla preziosa gemma di giada /…/ erano il cielo stesso, l’aria, le acque del mare / a volere tutto questo...»; La gemma corniola («... / indossavo una collana al collo / avvertivo una energia diversa /…/ per non parlare della carnagione / che assumeva un colore diverso ringiovanito / grazie anche alla gemma corniola, / che portavo al collo»).

Gli elementi della Natura sono quindi protagonisti in questa poesia i cui contorni vanno gradualmente definendosi nel suo sviluppo e che incontreremo nell’analisi critica, elementi che sempre interagiscono con l’io dell’autrice, svolgendo un ruolo di alter-ego nel dialogo colloquiale, immaginato e vissuto nell’interiorità ed esternato attraverso il linguaggio poetico. Si tratta dunque di una poesia soggettiva, in definitiva auto-centrata sull’universo personale, una sorta di lunga confessione, un monologo che letterariamente assume la forma di una poesia-fiume che scorre nelle sue vene, trasformandosi in poesia-narrazione e sublimandosi in poesia visionaria, dove la realtà fa solo capolino, in attesa di trasfigurarsi in altro da sé.

In certi frammenti è come l’osservare i particolari di un quadro impressionista, poiché taluni versi ricreano quel tipo di atmosfere: «Vidi passare un fiore di canna rosso / nel cestino di una bici, / ho visto ancora un gioiello rosso / nella via del mercato ed un occhio blu, / si respirava finalmente un sorriso / nel viale del pigneto /.../ C’era anche una farfalla bianca, / quell’abitino senza maniche / mi faceva ancora sognare…» (La via del pigneto).

Ovviamente i richiami alla presenza dei gabbiani nei testi della Deminicis sono numerosi, per cui non possiamo esimerci dal proporne alcuni anche al lettore. Dapprima ci soffermiamo su Entrare nel flusso, lirica nella quale tutto è teso alla ricerca dell’armonia, della comunione vitale con l’energia dell’universo, dove l’arrivo del gabbiano porta al superamento delle contraddizioni, crea alchimie con tutte le creature viventi: la poetessa si alza in volo con lui e sogna l’isola immaginaria, ovvero il regno dell’Amore, la possibilità di un nuovo benessere. Significativa anche Il gabbiano, dove assistiamo ad un flusso ininterrotto di immagini legate ad associazioni di ricordi liberamente rivissute ed espresse, e dove i luoghi concreti si trasformano in contesti irreali senza nomi, tempi, storie, come se la poetessa si fosse seduta sul lettino di uno psicanalista e parlasse a ruota libera dei suoi sogni; così il mare ed il cielo l’avvolgono completamente fino a godere la pienezza del vivere, una completa felicità e le altezze dello spirito, grazie alle lezioni impartite dal gabbiano.  Ne I Gabbiani. Arrivarono in tanti, accogliamo un altro messaggio d’infinito e di rinascita, poiché – dice il testo – i loro sguardi andavano oltre i limiti del tempo, presagivano l’arcobaleno all’orizzonte dopo i tuoni del temporale, indicavano la ricchezza della gamma dei colori naturali.

Ed ancora La baia dei Gabbiani, tecnicamente un acrostico basato sul vocabolo poesia, con il chiaro incipit: «Nella baia dei Gabbiani si viveva di poesia…». Un altro sito onirico dove si attendeva la metamorfosi della vita, ma dove: «... Dovevamo essere aiutati, / dovevamo aiutarci perché qui vigevano / ancora la malattia e la vecchiaia / e c’era ancora tanta dipendenza / così da annullare le proprie ricchezze personali...». La poetessa usa il verbo al passato in quanto si tratta di sogni o visioni e quindi eventi già avvenuti, oppure perché sono stati esistenziali preesistenti ed ora superati: vige la legge della dinamica nel nostro vivere.

Nel complesso la poetica del libro sembra rispecchiare talune acquisizioni della filosofia conosciuta come New Age (“Nuova Era”), vasto movimento culturale che comprende diverse correnti psicologiche, sociali e spirituali di natura alternativa sviluppatesi negli ultimi decenni del secolo scorso, come certi concetti e pratiche quali la meditazione yoga, il ‘channeling’, la cristalloterapia, la medicina olistica, l’ambientalismo, l’astrologia, la cabala, la teosofia, le sincronicità numeriche... Tale visione sovente accomuna gli elementi della Terra, del Mare, del Sole, della Luna, dei Pianeti, e degli altri corpi celesti come fonti di energia per la vita umana. Le liriche della Deminicis che rispondono a queste caratteristiche sono numerose ed è interessante scoprire dai loro versi le affinità esistenti; ne segnalo alcune al lettore.

Leggiamo L’energia di Gaia (Gea, la Terra) e vi troviamo il desiderio di connessione con l’energia universale, guaritrice e benefica, apportatrice – dice la poetessa – di quel grande Amore che ha sempre ricercato nella sua vita. Visitiamo L’orizzonte e il mare dove si dispiegano vaste dimensioni spirituali, ontologiche, oniriche – e conosciamo l’influsso positivo del mondo delle acque, degli oceani con la voce del mare che parla a lei con tutta la sua forza. Così anche in Una conchiglia emergono i bisogni dell’anima, la necessità di una rigenerazione antropologica, dell’incontro con l’amore vero, di una sconfitta della solitudine perché siamo fatti per vivere evangelicamente riuniti ed accedere al Tutto. Ecco poi la divinizzazione del grande astro (L’amore del Sole) che ci regala la vita con i suoi raggi, ai quali non si può rimanere indifferenti: essi parlano e la loro voce ha molte cose da dirci. Il tema è ripreso e sviluppato anche in Una canoa. In tali visioni scontato è uno sguardo diverso verso la Luna: non la gelida ed ostile luna leopardiana, ma la calda, amica e benefica luna, poiché «...Luna eri venuta / per rimanere con me per sempre…». Accanto alla Luna ecco Marte, pianeta bellissimo che, come tutti gli altri corpi celesti, richiama il pensiero dell’Infinito. Infine la poesia astrale dell’autrice si sofferma su Gli anni dei Numeri, dai poteri magici e taumaturgici: «... Ogni numero mi avrebbe accompagnato / con il cuore in mano, ogni numero / mi avrebbe portato giorni generosi / pieni di Amore e di Felicità».

Per consegnare ora al lettore ulteriori chiavi di lettura chiare e sintetiche, ovvero fuor di metafora, come si suol dire, de L’arrivo del Gabbiano, ne enunciamo le più importanti. L’umanità, la vita, l’universo, il cosmo, sono spiritualmente interconnessi per cui partecipi della stessa energia: Dio è uno dei nomi di questa energia. La mente umana ha poteri profondi e vasti che possono modificare la realtà: ognuno crea la sua realtà. Ciascun individuo ha uno scopo sulla Terra e una lezione da imparare: la lezione più importante è l’amore. C’è un nucleo mistico comune in tutte le religioni, orientali ed occidentali: i dogmi, l’identità religiosa, l’intolleranza sono ostacoli al progresso della specie. Tutto ciò che accade ha uno scopo: in ogni momento siamo nel posto giusto per imparare la propria lezione. Il nostro obiettivo è diventare capaci di amare tutto ciò con cui entriamo in contatto, scoprire il divino in ogni cosa e l’unione dell’Uno con il Tutto.

Il poemetto finale dal titolo Un occhio blu vuole insegnare tutto ciò con il risveglio del terzo occhio, la guarigione interiore, dopo la prigionia kafkiana in un castello e l’alienazione psicanalitica con un dottore in camice bianco: l’incubo finisce e nella storia – che sembra un sogno sconnesso – il protagonista ritrova se stesso e la propria felicità.

Enzo Concardi

 

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L’ATRICE

 

Adriana Deminicis è nata a Montegiorgio (FM) nel 1958. È docente nella Scuola Secondaria di II grado. Attualmente insegna presso l’I.T.T. Montani Fermo. Ha pubblicato le raccolte di poesie: Il mio tempo a che ora è arrivato? (2012), Il mio domani non è mai uguale (2013), Oggi così, domani in altro modo (2013), Momenti di vita quotidiana (2013), Quando (2015), Da un Poemetto alla Luna. I fiori di gelsomino (2022), 8 Infinito 8 – La gemma di giada (2023). Altre sue poesie sono pubblicate in vari volumi antologici.

 

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Adriana Deminicis, 8 Infinito 8 – L’arrivo del Gabbiano, prefazione di Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 152, isbn 979-12-81351-33-2, mianoposta@gmail.com.

 

 

 

 

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Il nuotatore

9 Luglio 2024 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

Immagine generata con PicFinder AI

 

 

 

Sprint sfortunato. Gara. Un buco nell'acqua.

***

 

 

 

Nota dell'autore: negli anni Venti, uno scrittore e giornalista americano di nome Ernest Hemingway, scrisse un romanzo in sei parole nel mentre si gustava un Mojito.

Invece, nel mio caso, ho realizzato questo racconto in sei parole, nel momento in cui sorseggiavo un bicchierone di chinotto siciliano.

 

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Il fotografo

8 Luglio 2024 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

 

All'improvviso, l'ignaro soggetto dai lunghi capelli rossi come il melograno, nel mentre cammina sorridendo con le braccia alzate verso il cielo tramontante, si ritrova in una posa non voluta. È il momento perfetto per il click di una Polaroid da cui seguirà la magia di uno scatto.

Il timido fotografo, da sempre innamorato della sua migliore amica, porterà dentro il marsupio a tracolla, regolato all'altezza del cuore, l'intimità di quell'istante che sarà soltanto suo.

 

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Vincenzo Meo, "Oggetti preziosi"

6 Luglio 2024 , Scritto da Michele Miano, Romeo Iurescia, Vincenzo Bendinellii Con tag #michele miano, #romeo iurescia, #vincenzo bendinelli, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

 

Oggetti Preziosi

Vincenzo Meo

 Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

La poesia di Vincenzo Meo, dotata di semplicità compositiva, assume i connotati di un atteggiamento introspettivo continuo e di analisi della propria dimensione meditativa. Affronta la scrittura letteraria come affronta la vita di ogni giorno con forza, dignità e fiducia e con lo sguardo pulito e profondo dell’artista che non teme di scontrarsi con lo squallore della violenza, della degradazione dei valori etici, di una società ormai alla deriva. La sua ispirazione artistica si snoda attraverso i binari dell’angoscia esistenziale dove alla solitudine e alla precarietà dell’esistenza umana non sembra esserci rimedio se non ripiegarsi in se stessi. È consapevole che solo la poesia e l’arte nella sua accezione generale può e deve essere strumento salvifico per le future generazioni. Si legga la breve e incisiva lirica Un poeta: «…Un poeta… / qualcosa in più, / qualcosa di diverso». E la lirica L’Artista: «È un uomo senza forma, / senza dimensione, / senza struttura, senza età, / senza confini».

In altri testi il poeta canta gli affetti familiari, l’amore per i genitori e la famiglia, le bellezze del Creato. Il sentimento della natura si direbbe poi essere un altro elemento catalizzante della sua ispirazione con la descrizione di felici e delicati quadretti agresti della sua Trivento e della terra d’origine. Il poeta soffre per l’amara consapevolezza dell’aridità dei tempi odierni, soffre per le guerre fratricide, per i soprusi, per le ingiustizie.

Rimpiange il tempo perduto, una vita agreste povera e sincera. Rimpiange gli insegnamenti del padre e dell’adorata madre: «… Mi avevi insegnato / a credere in qualcosa…/ Ora, tutto è cambiato! / Non c’è più giustizia; / i valori sono stati distrutti, / la favola è finita. / Ed io, / che ti avevo sempre / dato retta… / oggi devo lottare / in un mondo / corrotto». (Tuo insegnamento. I suoi versi si ispirano spesso alla memoria di malinconiche suggestioni del passato, a rievocazioni e rimpianto di una civiltà patriarcale e agricola. Prevale nei suoi testi la ricerca nostalgica e struggente di un’epoca perduta, di certe idealità, e valori ormai dissacrati dalla civiltà tecnologica e da un mondo sempre più individualista (…).

Michele Miano

 

* * *

 

Di fronte all’angoscia del vivere umano, alle tremende vicende cui l’uomo assiste quotidianamente, Vincenzo Meo contrappone il suo peso interiore, anzi propone la sua intima personalità fatta di azioni, sentimenti e immagini genuine, pure, semplici, che calmano il cuore del lettore in ogni suo più nascosto anfratto.

Il suo pensiero, che tramuta in azione morale, rappresenta il suo iter comunicativo, la pace interiore ed esteriore che ognuno dovrebbe ricercare per “vivere” i giorni di questa vita terrena. L’autore di queste liriche sintetiche, chiare, precise vuole porgere all’umanità la speranza di un mondo migliore, le sue intime emozioni con una soavità, una delicatezza di spirito stupefacente, rivestita al tempo stesso di una corazza talmente coriacea che respinge i soprusi, le violenze, la guerra ed è permeabile al dolore, alle grandi sofferenze dell’umanità, alla solidarietà, al vero amore che solo potrà salvare e riscaldare l’uomo in questa valle di lacrime (…).

Romeo Iurescia

 

* * *

Poeta della meditazione e dei ritorni Vincenzo Meo, poiché si immerge nei ricordi denunciando una certa tristezza di fondo, tristezza di un tempo che passa, un tempo che lo ha deluso perché simbolicamente legato al concetto del bene e del meglio, della morale e quindi dell’onestà che per una vita lo ha reso integro ai propri principi educativi lasciandolo però povero di mezzi e di soddisfazioni che invece altri riescono ad ottenere. Tormento d’uomo questo, ma un giusto come Vincenzo Meo ha in sé la più grande conquista: il mondo spirituale, che non ha limiti di ricchezza e di gioia profonda.

Da questi presupposti si diparte una poesia carica di forza a riscattarlo da quel dolore sordo che lo fa fortunatamente reagire, riuscendo a scrivere il proprio testamento spirituale in una chiave di tutto riguardo letterario. La qualità della sua poesia porta il marchio della migliore ispirazione; infatti il poeta è sorretto da una chiarezza mentale eccezionale, in quanto le immagini che formano i versi appaiono di un nitore formale e di un pensiero veramente incredibile. Anche se descrittiva la sua poesia assurge a trasfigurazione metaforica, questo significa che egli ha compreso che la poesia è tale se la forza del verso la qualifica nel contenuto e nella carica emotiva, carica impressa da un attimo che trascende la stessa realtà che il poeta intende enunciare. Soltanto così è possibile una realizzazione consona ai canoni che sostengono il concetto di poesia, anche se i modi per realizzarla possono essere diversi e legati alla sensibilità individuale (…).

Vincenzo Bendinelli

 

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L’AUTORE

 

Vincenzo Meo è nato a Trivento (CB) dove attualmente risiede. Ha iniziato a scrivere poesie dall’età di sedici anni; ha pubblicato le raccolte di liriche: Cielo grigio squarci azzurri (1979), Una luce diversa (1985), e il libro di pensieri in versi: Riflessioni (1993). Ha partecipato a rassegne letterarie ricevendo consensi e segnalazioni. Sue poesie sono inserite in numerose antologie letterarie.

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Vincenzo Meo, Oggetti Preziosi, prefazioni di Michele Miano e Romeo Iurescia, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 128, isbn 979-12-81351-35-6, mianoposta@gmail.com.

 

 

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Daniela Burroni Giannoulidis, "Sfogliando il calendario"

2 Luglio 2024 , Scritto da Enzo Concardi Con tag #enzo concardi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Daniela Burroni Giannoulidis

SFOGLIANDO IL CALENDARIO

 

 

   Il calendario della poetessa pavese Daniela Burroni scorre di giorno in giorno su binari essenzialmente autobiografici, rispettando rigorosamente un ordine cronologico da diario o agenda, ma per libere associazioni di pensiero e stati d’animo per quanto riguarda i contenuti e le tematiche. Ergo, inizia dal 1 gennaio, data nella quale ella colloca una lirica dal titolo Saliscendi, che rappresenta in sostanza ed in estrema sintesi il suo piano dell’opera e che quindi il lettore dovrebbe ben meditare per capirne gli scopi: “Aveva il saliscendi / la lampada del nonno / poteva illuminare l’intera stanza / o un piccolo lavoro da osservare… // Ho messo il saliscendi alla coscienza / e illumino d’un tratto / gli istanti della vita / qua e là / a quindici o a trent’anni / a sette a venti o l’altro ieri / e scopro all’infinito le emozioni / ritrovo / nello sfogliar degli attimi passati / il senso di una vita tutta intera”. Sfogliando dunque il suo calendario percorreremo con lei una cronaca familiare con innumerevoli spunti e particolari della vita quotidiana: c’è quasi un’apologia delle piccole cose che costituisce un ‘trait d’union’ con certi modi della poesia crepuscolare e, per altri aspetti, con il ‘modo di fare letteratura’ degli scrittori frammentisti del Novecento.

   Se memoria ed emozioni sono tra gli ingredienti principali della sua recherche, alla poetessa non sfugge l’implacabile scorrere del tempo, scolpito da diversi pensatori d’ogni epoca in frasi rimaste memorabili: panta rei (Eraclito), tempus fugit (Virgilio), carpe diem (Orazio)… Ed è forse per tali motivi che Daniela Burroni coniuga con forza ed energia altri due concetti racchiusi nei termini: radicamenti e legami. I radicamenti sono con i paesaggi della sua terra pavese, con la città antica capitale longobarda, con il suo piccolo mondo degli affetti domestici; i legami sono quelli tenaci e gelosamente conservati con il passato ed in particolare con l’infanzia, i quali costituiscono un altro filone dominante del suo humus poetico. Tutto ciò nasce da una attenta e diuturna speleologia della vita interiore, dalla quale trae vissuti, sensazioni, immagini, suggestioni. Si rivela qui probabilmente il bisogno pressante di mettere ordine in tutti gli eventi dell’esistenza, oggi divenuti ricordi relegati nel passato, ma che lei non abbandona perché indelebili, soltanto suoi, che nessuno può violare o scippare. Il suo calendario, in conclusione, non contiene appuntamenti per il futuro, ovvero nuovi progetti di vita, ma rivisitazioni del passato che tiene compagnia al presente.

     La poesia scritta nel foglio del 16 febbraio è un esempio paradigmatico di quanto l’analisi critica sta rilevando: “Lontano dagli spazi e dai tempi / del vivere quotidiano / l’esistenza è un filo sottile / che si nutre di cose amate / di ricordi di sogni // Infiniti segni del passato / danno la forma ai luoghi odierni / giorni e ore / storie e pulsare di sentimenti / infinite generazioni / susseguitesi prima che io nascessi / sono in me / anima stessa del mio pensiero / e poi saranno in voi / figli da me generati”. E, se vogliamo concretizzare possiamo citare, tra i tanti, i ricordi più cari: l’Epifania in famiglia, ma anche il vuoto dell’adolescenza, i ricordi della vita trascorsa ad Atene in Grecia, le fiabe raccontate da mamma e papà, le presenze nel giardino di casa, la poesia dedicata al Ticino, i luoghi dell’infanzia come Zavattarello, la sua casa vissuta come un monastero, il Duomo di Pavia, i vecchi traslochi dei contadini nell’estate di San Martino, i piccoli oggetti compagni di vita, gli scorci paesaggistici svelanti il suo amore per la natura, l’amore per il compagno anche se spesso lontano per lavoro… Importante il suo rapporto con la poesia: “Nel tumulto degli affetti / e dei tempi / ciò che desidero di più / è un pezzetto di carta / e una matita o penna / per buttar giù due parole: / la mia sintesi della vita” (17 febbraio); per esprimere, dice altrove, “la gioia di essere vivi / di esserci in questo momento”; oppure: “Resta la poesia / amica dei giorni tristi / ove annegare / pensiero e dolore / in fondo ad un verso”.  Ma nel suo calendario Daniela Borroni scrive d’un evento che forse supera tutti gli altri: “Come per Paolo / sulla strada di Damasco / è stato un attimo / una folgorazione / il mio riconoscerTi“. Da qui la Sua presenza negli altri, nella pace ritrovata dell’anima, nella Resurrezione per abbandonarsi fra le Sue braccia, nelle bellezze del Creato, nell’Amore per l’umanità.

Enzo Concardi

 

 

Daniela Burroni Giannoulidis, Sfogliando il calendario, prefazione di Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 210, isbn 979-12-81351-34-9, mianoposta@gmail.com.

 

 

 

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L'aprimitili

1 Luglio 2024 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti

 

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Quando ero un adolescente, prevalentemente nei mesi estivi dacché libero dagli impegni scolastici, da lunedì a sabato mi prodigavo come commesso magazziniere in un negozio di articoli casalinghi. Il lavoro non mi dispiaceva, ma c'erano vari aspetti negativi, tra cui la scarsa paga, che si attestava sui duecentoquaranta euro al mese, e i clienti seccanti, impertinenti o comunque difficili da trattare. In proposito, la storia dell'aprimitili merita di essere raccontata.

Ricordo che in una vigilia di Ferragosto, intorno alle venti e trenta, a ridosso dell'orario di chiusura, entrò un'occhialuta avventrice di mezza età dall'espressione immodesta. Indossava un tailleur grigio, lo stesso colore dei suoi cortissimi capelli, e un paio di scarpe aperte decorate di perle. La etichettai una borghesotta anche per via dell'andatura, come se tenesse un palo piantato nel culo.

Cominciò a gironzolare per il negozio, finché tre espositori di utensileria per cucina catturarono la sua attenzione. Lo confesso: pregai mentalmente che non mi rompesse i coglioni.

«Salve, cercavo un aprimitili!» esordì, rivolgendosi a me.

«Un apri...?»

«Un aprimitili!»

«Un aprimirtilli?»

«Un aprimitili!» mi corresse antipaticamente.

«Un aprimitili» ripetei a bassa voce alzando gli occhi al soffitto alla Leo, personaggio interpretato da Carlo Verdone in Un sacco bello.

Visto che non ne venivo a capo, decisi di affidarmi all’aiuto di Ada, l'anziana proprietaria. In verità, avrei preferito evitare, in quanto, al pari del marito (in quel momento assente), tendeva a lamentarsi o a rimbrottarmi se non riuscivo a servire adeguatamente i clienti.

«La signora desidera un aprimitili. Non so...» le dissi un po' in ansia, senza completare la frase.

«E che è?» esclamò sbuffando.

Nel frattempo la donna in grigio ci squadrava con aria sdegnata, probabilmente pensava che in quel negozio di casalinghi l'ignoranza regnasse sovrana. La esortammo così a spiegarci in soldoni che cosa fosse esattamente l'arnese in questione. Niente, la "menosa" insisteva a oltranza con quella maledetta parola. Aprimitili, appunto. Sembrava farlo apposta.

All'improvviso, la tiritera fu interrotta da Pino, il figlio dei titolari, che, nonostante stesse telefonando a un rappresentante, in qualche modo aveva seguito la vicenda.

«Mi scusi, resti un attimo in linea. Giuseppe, la cliente vuole semplicemente un apricozze. Ah, per la cronaca: i mitili sarebbero i molluschi» mi informò acidamente, appoggiando la cornetta del telefono sulla spalla.

La noiosa attempata venne servita e finalmente si levò dalle scatole, tuttavia quel cacchio di coltellino ineluttabilmente mi fece collezionare l'ennesimo cazziatone.

Provai inutilmente a giustificarmi sostenendo che nessuno "nasce imparato", per di più non potevano pretendere che conoscessi l'intero e vasto repertorio di merce. Sindacare poi che, prima dell'intervento di Pino, nemmeno Ada sapeva in che consistesse un aprimitili, avrebbe sicuramente peggiorato la situazione, quindi lasciai perdere.

Mezz'ora dopo, quando rincasai, mia madre si accorse immediatamente che ero stizzito.

«Peppe, com'è andata la giornata? Hai fame?» mi domandò preoccupata. «Per cena ho preparato l'impepata di cozze.»

«Cozze? Mamma, non ti ci mettere pure tu!» sbraitai.

«Che è successo?»

«Guarda, un pomeriggio finito di merda. Da tagliarsi le vene con un... aprimitili.» 

 

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Drip. Drip. Drip.

30 Giugno 2024 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

Immagine generata con PicFinder AI

 

 

 

Drip. Drip. Drip.

Cesare, un ragazzino dell'Esquilino, uno dei quartieri più disagiati di Roma, se ne stava sdraiato sul letto con l’intento di dormire, ma, a causa di un fortissimo temporale, il gocciolamento continuo dal soffitto in un secchio di metallo sul pavimento gli rendeva il sonno difficoltoso. Inoltre, pur avendo svuotato il contenitore poco prima di coricarsi, presto esso sarebbe stato pieno di altra acqua piovana, costringendolo a scomodarsi per smaltirla nuovamente.

«Li mortè, ma proprio ‘sta stanzaccia me doveva capità» borbottò a bassa voce. 

Drip. Drip. Drip.

A Cesare venne poi l'idea di sostituire il secchio con una damigiana vuota in vetro da trenta litri con bocca larga, e di immettere una serie di stracci al fine di attutire il rumore da sgocciolamento. Funzionò. 

«Porca mignotta! Che genio che sono! E bonanotte ar secchio!»

 

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Terradimandorla, "Divento di vento"

29 Giugno 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #racconto

 

 

 

Divento di vento

Terradimandorla

Gli scrittori della porta accanto

Pubme, 2024

pp 93

14,00

 

Una raccolta di racconti molto ben scritti, molto letterari. Spaziano dalla fantascienza all’onirico, passando per il surreale. Illustrati con disegni scomposti, quasi liquidi, dai colori pastello. A scriverli e dipingerli è Terradimandorla, pseudonimo di Cristina Basile, autrice expat in bilico fra Francia e Sicilia.

Donne (ma non solo) protagoniste di storie difficili da raccontare, trasfiguranti e trasfigurate, dove è in atto un’alterazione. Il cambiamento non spaventa neanche più poiché è ineluttabile, ci si lascia andare alla sua azione scompaginante, si diventa “vento”, a nostra volta portatori di mutazione.

Storie anche crude, dilanianti, dure da digerire, raccontate come se niente fosse, senza apparente pathos ma con molta tensione sottesa. Ragazzine orfane, padri scomparsi, uomini violenti, fatti di cronaca. Personaggi e trame che partono in un modo e si rivelano tutt’altro, tempo che scorre a balzi in modo straniante, luoghi che assumono significati archetipici, come il cimitero delle Fontanelle di Napoli o la tonnara di Favignana. Gli eventi più semplici, più quotidiani, come fare la baby sitter o indossare un vestito col fiocco, assumono significati fantastici, si addentrano nell’inconscio, trascolorano in concetti comprensibili più con l’intuito che con la ragione, intrisi di sessualità rimossa o violenza. Portano con sé la necessità di “sciogliersi nell’acqua”, liberarsi, “scomparire a se stessi”, come afferma l’autrice spiegando l’istinto che l’ha portata a lasciare la propria terra.

Uno stile studiato, parole soppesate, scelte fra mille a creare un accostamento non immediato che è già metafora di per sé.  Una prosa talmente connotata da divenire poesia ermetica, forse più da accettare che da comprendere.

In mezzo a tanta narrativa d’evasione, ogni tanto si sente il bisogno anche di letture ricercate come questa.

 

 

 

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Daniela Burroni Giannoulidis, "Sfogliando il calendario"

26 Giugno 2024 , Scritto da Maria Rizzi Con tag #maria rizzi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

 

Sfogliando il calendario 

Daniela Burroni Giannoulidis

 Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

La poetessa pavese Daniela Burroni Giannoulidis, dopo gli anni trascorsi ad Atene con il marito greco, e l’impegno nella ricerca biotecnologica, ha deciso di donarsi ai versi con assiduità, e ha ricevuto, a ragion veduta, apprezzamenti da parte di critici letterari della levatura di Giulio Panzani, Fulvio Castellani, Marcella Mellea ed altri.

In quest’occasione presenta un calendario lirico dei trecentosessantacinque giorni dell’anno, progetto copioso, di rara originalità. La genialità della poetessa non sta solo nel proposito, ma nella capacità di sfogliare il tempo senza ricorrere a tecnicismi, con luminosa, incandescente ispirazione. Leggendola si pensa a un’autentica vocazione, intesa nel senso letterale di ‘chiamata’. Non vi è dubbio, che come disse Marcel Proust «i giorni sono forse uguali per un orologio, non per un uomo», ma nel caso di Daniela Burroni l’arida clessidra dell’esistenza, che concede lampi di eternità, si trasforma in uno spartito di note quotidiane, che consentono di leggere l’attimo terreno come infinita melodia. Si parte dal 1 gennaio con versi tratti dalla lirica Saliscendi: «…Ho messo il saliscendi alla coscienza / e illumino d’un tratto / gli istanti della vita…», e si è trafitti dall’eco dei grandi della nostra letteratura, grazie al soffio purissimo di endecasillabi spezzati da settenari, da un metro classico utilizzato in modo moderno, vitalistico, dal ritmo assordante e dal timbro che varia in modo inesausto.

Nessun esercizio, una capacità di pensare in poesia, di suonare in versi, di non dare confini all’immaginazione, e al di là di ogni espediente lirico, quest’autrice pavese, imbevuta del sole e del mare greco, si distingue per l’assenza di atmosfere cupe, di oscuri presagi. Pur visionaria, come tutti i poeti, è fresca come acqua sorgiva, scorre tra i ricordi e il presente senza la sindrome della nostalgia malata. «È gioia pura / rispolverare i ricordi / ritrovare gli oggetti dei miei bambini / che sono ormai cresciuti…» (7 febbraio). Più che esaustiva in merito al concetto espresso la lirica Carnevale del 25 febbraio: «Maschera triste / sui violini d’inverno / piangi i tuoi lamenti / spegni nelle fresche mattine / i singulti di sole // vattene vecchia / la vita è adolescente adesso / freme la pelle / al palpito biondo / di una chioma». Non esiste nella Nostra la malinconia di ciò che ha lasciato e l’attesa di ritrovarlo ancora, ma un senso dolce di gratitudine verso le isole del passato e di attenzione al presente e a ogni domani.

Lo sguardo che posa sulla Natura è intriso di un sentimento panico, e la lunga permanenza ad Atene ha senza dubbio influito sulla sua percezione del paesaggi e dell’esistenza. Sono numerose, infatti, le liriche dedicate alle atmosfere, ai giorni e ai sentimenti vissuti nella repubblica ellenica. Vi si colgono tratti intimistici, spunti riflessivi, che riportano al genere ‘idillico’, all’ambiente inteso come amoenus, nel senso di sereno, e a quadri familiari, mutevoli come è ovvio che siano, ma privi di tormenti, Il 22 marzo recita: «Io so dove abita il vento: / nei pensieri che scompiglia ogni momento / e riaggiusta e riprende e solleva / a suo piacimento / incurante degli anni vissuti / e dei giorni che stiamo vivendo…», versi che sembrano accompagnati da un’arpa celtica e confermano che ci troviamo di fronte a una partitura alla quale corrispondono le melodie del cosmo, a un prisma che svela le sfumature della luce.

La solarità dell’Autrice non corrisponde a una forma di indolenza verso gli stimoli esterni. Ella si cala nel sociale, nella consapevolezza che l’unico specchio che conta è quello che ci restituisce la dignità del nostro essere uomini, ed è conscia che ogni forma d’amore cominci in famiglia. Ha saputo tessere la tela di una casa dove regna l’armonia con fili di pazienza, di dedizione e di fede e ha imparato il segreto per volgere lo sguardo misericordioso verso il prossimo. Il 7 aprile si leva il canto: «…questo lutto silente / grave opaco / che ammutolisce il cuore / che sia pietra / da cui sgorghi di nuovo / la vita» (2003, guerra in Irak), e pur nello spaesamento, nello strazio per i conflitti, per le ingiustizie, le liriche palesano la certezza che la pace vada cercata innanzitutto in noi stessi e che è indispensabile coltivare la speranza.

La ricerca dell’equilibrio individuale e la verticalità rappresentano le fondamenta della vita. Devo confessare che i versi di Daniela Burroni mi hanno procurato una sorta di formicolio interiore, di tenera inquietudine. Ho pensato a Jacques Brel e a La canzone dei vecchi amanti che «ce ne vuole del talento per invecchiare senza diventare adulti», e ovviamente non mi riferisco ai dati anagrafici, ma alla capacità di quest’artista di conservare in sé il fanciullino, inteso non nella rigorosa accezione pascoliana, ma come una maturità di pensiero che non uccide il senso della meraviglia e del mistero. Ho compreso, leggendo più volte la silloge, che quel formicolio altro non era che il riflesso della mia anima nella sua.

Devo ammettere che è la prima volta che mi trovo a scrivere di una coetanea con un modo di intendere l’esistenza, il rapporto con gli altri, con la natura e con la fede tanto simili al mio. «…Soffio del Divino / sentito creduto / (e in altri istanti / tristemente perso, / poi ritrovato)…» (La mia Pentecoste, 1 giugno). I versi citati ed altri esprimono il dubbio, che non rappresenta un sentimento sterile e non rende colpevoli, ma è una grazia, una componente ineludibile della spiritualità. Lo stesso Sant’Agostino asseriva «una fede che non sia pensata è niente», perché le certezze rendono superbi e diminuiscono la tolleranza.

Le liriche che presentano una tensione verso il cielo sono permeate dall’apertura d’ali che contraddistingue tutti gli aspetti dell’esistenza di Daniela Burroni, non rivelano forme ascetiche di chiusura, di distacco dalla realtà. Ella, con la sapienza, data solo alle persone eccezionalmente sensibili alla bellezza, capaci di creare, accosta i mesi e i giorni ad anniversari, viaggi, feste consacrate e all’inevitabile srotolarsi delle stagioni dell’esistenza: «L’argento delle chiome, / che dice il passare dei giorni, / trattiene, distillato da ogni amarezza, / un brillio di vivida forza…» (26 settembre). Tramite il carattere teso ad arco verso il sogno e tramite la Poesia, prima freccia dell’arco, Daniela Burroni Giannoulidis vive l’argento come una nuova gradazione di colore della gioventù. La cifra stilistica vede alternarsi liriche di ampio respiro, ad altre più brevi, ad alcuni aforismi splendenti come dardi di fuoco, forse le note più alte dell’intera partitura.

Nel congedarmi da questa Poetessa in eterno levare, con due patrie nell’anima e un perenne viaggio nel cuore, avverto una dolce saudade e nuova gratitudine verso la vita che mi ha concesso il dono di incontrarla e di trascorrere un anno lirico con lei…

Maria Rizzi

 

 

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L’AUTRICE

 

Daniela Burroni Giannoulidis è nata nel 1957 a Pavia. Nel 1982, dopo la laurea in scienze biologiche e dopo il matrimonio, si è trasferita con il marito greco ad Atene, dove è nata la sua prima figlia, e dove è restata per cinque anni lavorando presso il laboratorio biotecnologico di un’azienda chimica. Poi con la famiglia è tornata in Italia, a Pavia, dove sono nati altri due figli, quindi a Certosa di Pavia, attuale residenza. Pur scrivendo poesie fin da giovanissima, ha iniziato a farle conoscere solo dopo aver lasciato il laboratorio per dedicarsi alla famiglia. Ha pubblicato due libri di poesie: Passano i giorni (1997), Tra il balcone e la cucina (2004), e due brevi sillogi in volumi antologici: I riflessi dell’esistere (2003), La poesia della luce (2021).

 

 

Daniela Burroni Giannoulidis, Sfogliando il calendario, prefazione di Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 210, isbn 979-12-81351-34-9, mianoposta@gmail.com.

 

 

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