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Due libri sul filo della memoria

8 Aprile 2016 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #storia

Due libri sul filo della memoria

Roberta Pieraccioli

La Primavera (2015)

Euro 12 - Pag. 160

La Resistenza in cucina (2014)

Euro 12 - Pag. 175

Ouverture Edizioni - www.ouverturedizioni.it

Due libri entrambi firmati da Roberta Pieraccioli e pubblicati da Ouverture Edizioni.

La Primavera è una raccolta di racconti sul filo della memoria tra Firenze e la Maremma, due luoghi geografici che rivestono grande importanza nella vita dell'autrice.

La Resistenza in cucina racconta le ricette in tempo di guerra - buone anche nel periodo di crisi che stiamo vivendo - ma non è soltanto un originale ricettario di cucina povera in cinquanta pietanze, quanto un viaggio a ritroso nella nostra storia, tra mercato nero, autarchia e piccoli trucchi per mettere in tavola il poco che si riusciva a trovare.

Due libri che raccontano in modo diverso il secondo conflitto mondiale, tra storie di povera gente e avventure quotidiane, fatti realmente accaduti e analisi del mondo dal punto di vista del popolo che si arrangia, resiste e sopravvive. Lo stile dei racconti è semplice ma letterario, ricorda le storie di guerra di Cassola e Flaiano, permeate di Bianciardi e Vittorini. L'autrice ha fatto buone letture e la sua scrittura ne risente in modo positivo.

Le ricette sono insolite, precedute da una sorta di piccolo saggio sul modo di cucinare negli anni Quaranta e sulla necessità di far bastare le poche cose reperibili sul mercato. Frittata d'ortica, torta di pane, polpettine di borragine, bucce di baccelli lessate, fiori d'acacia fritti, farinata di castagne, sformati di piselli e ceci... ma anche frittate senza nulla a base di acqua (latte, nel migliore dei casi) e farina cucinate per merenda da nonne amorose.

Roberta Pieraccioli dirige la Biblioteca e i Musei di Massa, ha pubblicato racconti con Paola Zannoner, in questo caso attinge ai ricordi culinari di nonna e madre, mentre dedica le storie alla memoria dei genitori, abili narratori di vicende del passato, alla cui fonte si è abbeverata. Quando si parla di libri utili per la memoria storica del nostro territorio, d'ora in avanti non potremo prescindere da questi due titoli.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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Come eravamo: le fiabe sonore

7 Aprile 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #come eravamo

Come eravamo: le fiabe sonore

Non molto prima del Natale 1966, i Fratelli Fabbri editori distribuirono gratuitamente nelle edicole un disco promozionale de Le Fiabe Sonore, con I tre Porcellini. La settimana seguente uscì il primo numero ufficiale, Il gatto con gli Stivali di Charles Perrault, corredato di un albo di grande formato (27x35) con splendide illustrazioni romantiche e tuttavia ironiche, ammiccanti, comunque moderne.

Molti di noi, all’epoca, non sapevano ancora leggere. Furono i nostri genitori, dunque, a iniziarci alla magia, a spalancarci le porte della fantasia, a introdurci in un mondo che ci avrebbe arricchito, ammaliato, incantato, spaventato, meravigliato. Settimana dopo settimana, avremmo imparato a leggere e scrivere anche grazie alle Fiabe Sonore, assorbendo parole nuove e sconosciute, non sempre facili.

Le fiabe uscirono ininterrottamente dal 1966 al 1970, incise su dischi a 45 giri e corredate da libri bellissimi, illustrati da pittori molto conosciuti: Pikka, Una, Ferri, Max e Sergio.

Dopo averle ascoltate dai nostri genitori, ci affidavamo poi alla voce profonda e rassicurante di Silverio Pisu (1937-2004) attore, doppiatore, cantante, scrittore e sceneggiatore. Ci raggomitolavamo sul divano nelle fredde sere d’inverno, col libro sulle ginocchia, rapiti dalle figure, con l’orecchio teso a cogliere la minima differenza fra testo scritto e voce narrante. Oppure, raffreddati e febbricitanti, spargevamo sul letto le fiabe a raggiera, estraevamo dalla custodia il disco di vinile, lo inserivamo trepidanti nel mangiadischi. Il ditino premeva, il tasto si abbassava e in quel piccolo gesto c’era un potere immenso, quello di far scaturire suoni e immagini, di evocare un intero universo parallelo. Eravamo noi a tenere la bacchetta magica, a chiudere e aprire a piacimento la porta fatata, a ogni rilettura, a ogni riascolto.

Con Silverio Pisu collaboravano molti altri attori professionisti tra cui Ugo Bologna, Sante Calogero, Pupo de Luca, Isa di Marzio. Le musiche furono commissionate a un famoso compositore dell’epoca, Vittorio Peltrinieri. Nessuno di noi potrà mai dimenticare la canzone introduttiva cantata dal Quartetto Radar, composto da Claudio Celli, Gianni Guarnieri, Dino Comolli e Stelio Settepassi, il cui stile voleva somigliare a quello del più celebre Quartetto Cetra.

Assieme alla canzoncina di chiusura alle fiabe, il memorabile jingle iniziale costituì un sicuro segno di riconoscimento della collana, con quell'inizio strascicato che faceva diventare il "ce n'è" più simile ad un "cenei"...

A mille ce n'è

nel mio cuore di fiabe da narrar.

Venite con me

nel mio mondo fatato per sognar…

Non serve l'ombrello,

il cappottino rosso o la cartella bella

per venire con me…

Basta un po' di fantasia e di bontà.

Dopo l’introduzione, cominciava la fiaba vera e propria, sceneggiata, riadattata, modernizzata senza toglierle fascino. Ogni sceneggiatura era caratterizzata non solo dalla voce narrante di Silverio Pisu, ribattezzato Cantafiabe, ma pure da vivaci dialoghi e canzoncine orecchiabili come quelle indimenticate di Cappuccetto Rosso, del Nano Tremotino, di Cigno Appiccica.

Pochi cenni magistrali erano sufficienti a creare l’atmosfera, come il passaggio del tempo segnato da un tocco d’arpa, capace di scatenare la fantasia, fare appello a più sensi contemporaneamente e rendere superflua qualsiasi parola.

In tutto uscirono circa 150 fascicoli illustrati e altrettanti dischi. Vennero riproposte fiabe dei principali favolisti europei: i fratelli Grimm, Andersen, Perrault, Puŝkin e dei meno noti Bechstein, Leprince de Beaumont, Gianbattista Basile.

Grazie alle fiabe della Fabbri, un’intera generazione si è divertita con lo spassoso Vardiello, ed ha altresì imparato – come spiega Bruno Bettelheim – a gestire le proprie paure infantili, rielaborando interiormente, assorbendo e facendo proprie certe atmosfere gotiche. Come non ricordare la paura suscitata dalla spaventosa strega di Hansel e Gretel, bruciata nel forno dai due fratellini, dall’Orco di Pollicino che taglia la gola alle proprie figlie, dall’ingiusta accusa di stregoneria rivolta alla protagonista de Gli undici cigni selvatici, costretta al silenzio a causa dell’amore per i fratelli? Le fiabe sonore ci insegnavano la netta divisione fra male e bene, il confine fra lecito e illecito, il senso del dovere e lo spirito di sacrificio, parole che oggi sembrano ormai prive di significato.

Oltre alle fiabe singole, furono pubblicate anche magistrali versioni a puntate di Le avventure di Pinocchio, con Paolo Poli, recentemente scomparso, nel ruolo del burattino, di Alice nel paese delle meraviglie e di Peter Pan. Le fiabe sonore furono riproposte nel '77, negli anni '80, nel '90. Uscirono poi per la prima volta su CD nel 2003 e in allegato al Corriere della Sera nel 2007.

E ora ci congediamo da voi come faceva il Cantafiabe, con quella canzoncina che ci procurava tristezza e consolazione insieme, il senso di qualcosa che finisce e poi comincia di nuovo, in un infinito loop che ci aiutava a crescere, a sopportare il ritorno alla vita normale, alle nostre fatiche di bambini, simboleggiate dalla “cartella bella” dell’introduzione.

Finisce così

Questa favola breve se ne va

Il disco fa click

E, vedrete, fra un po’ si fermerà,

ma aspettate, e un altro ne avrete

“C’era una volta” il Cantafiabe dirà

E un’altra favola comincerà

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Siegfried Lenz, "Un minuto di silenzio"

6 Aprile 2016 , Scritto da Elena Cappai Con tag #elena cappai, #recensioni

Siegfried Lenz, "Un minuto di silenzio"

Un minuto di silenzio

Siegfried Lenz

Neri Pozza, 2009

"Si può pensare a qualcuno anche quando è lì accanto a noi"

Fra la salsedine aspra e gelida dei paesi scandinavi, in un paesaggio appena tratteggiato, tranne che per la presenza prepotente della vita di un villaggio di pescatori, si sviluppa il racconto del ricordo di un amore proibito. Parole delicate dipingono gesti e sentimenti, visti con gli occhi dell'incertezza e del sogno di un adolescente. Una gita in barca, l'amore fra un giovane e la sua docente di inglese, una tragedia a far da corollario e chiudere il cerchio.

Peculiare il continuo cambio di registro linguistico, che mescola ricordo, dialogo e racconto, trasportando il lettore nel mondo interno del protagonista.

Una lettura delicata e particolare.

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Corso- concorso di poesia "I luoghi dell'anima"

5 Aprile 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #concorsi, #case editrici

Corso- concorso di poesia "I luoghi dell'anima"

Ci scrive Elena Marchetti di Marchetti Editore :

"Salve,

oggi ho il piacere di comunicarvi l'imminente inizio (il 13 aprile!) di un corso-concorso di poesia che si terrà a Pisa, alla libreria Erasmus.

Vi allego la locandina, dove troverete tutte le informazioni.

Qui vi anticipo solo che si tratta di poesia ma anche di fotografia, che il corso è tenuto dal poeta Alessandro Scarpellini, che le foto saranno scattate dal fotografo Marco Carmassi e che le poesie più belle, insieme alle foto, saranno pubblicate da Marchetti Editore!

I miei migliori saluti, a prestissimo!

Elena Marchetti "

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La granitica certezza dell'inevitabile

4 Aprile 2016 , Scritto da Duille Leaf Con tag #duille leaf, #psicologia

La granitica certezza dell'inevitabile

Bentornati Argonauti, bentornati nel magico (si fa per dire) regno dell’ansia sociale. Sì, lo so, non è proprio come fare un viaggio a Narnia, ma non sarebbe carino immaginarlo come una versione 2.0 del Paese delle Meraviglie? No? Va beh, io ci ho provato! Ma di cosa parliamo oggi? La scorsa volta vi ho raccontato della paura, di come essa sia l’emozione dominante dell’ansia sociale e di come possa essere considerata una paura fuori controllo, ad un passo dal panico ma non ancora panico, più simile ad un taser sul cuore che ad un sacchetto in testa. Mi sono resa conto però che questo, di per sé, non la rende molto diversa da qualsiasi altra fobia che popola il mondo della sua deliziosa quanto inutile presenza. Il vero problema dell’ansia sociale infatti sta tutto nella sua inevitabilità. Questo è il cuore del dilemma: noi non possiamo semplicemente aggirare l’ostacolo. Non possiamo fare le scale invece che prendere l’ascensore, non possiamo stare alla larga dai cani, non possiamo scappare da minuscoli ragnetti appollaiati sul muro, non possiamo evitare come la peste i circhi, non possiamo ridurre all’osso il numero di volte a cui siamo esposti agli aghi. Aggirare l’ostacolo per noi significa fare una scelta estrema, optare per una vita monacale, da eremita, da santone che ha fatto voto di silenzio, da vecchio dell’alpe, per intenderci. Significa chiudere a tripla mandata la porta, ingoiare la chiave e poi cementare serratura (e sfinteri) con il calcestruzzo. Perché la paura dell’ansioso sociale, ormai l’avrete capito, riguarda l’interazione sociale. E badate bene, non la paura del colloquio di lavoro, di difendere la propria posizione di fronte al saccente di turno o dell’incontro con l’esaminatore della scuola guida. Qui si parla del terrore provato ad andare a comprare il pane, del richiedere un libro in biblioteca, di passare in mezzo ad un capannello di persone, di chiedere ad un passante di spostarsi dal centro del marciapiede in cui si è parcheggiato con carrozzina e buste della spesa. Non sono tanto le persone fisiche a farci drizzare i peli, quanto il dover interagire con loro. Rivolgeteci la parola e ci troverete ad improvvisarci gatto soffiante con il pelo ritto. Diteci un caloroso “ciao” e ci trasmuteremo in legni fossili del paleolitico. Lanciateci uno sguardo di curiosità e ci scioglieremo nei nostri sudori freddi. Non ci vorrà molto perché facciate due più due e vi rendiate conto di quanto avere paura per noi sia inevitabile. Perché, come direbbe Shylock “un ebreo non ha mani, organi, misure, sensi, affetti, passioni, non mangia lo stesso cibo, non viene ferito con le stesse armi, non è soggetto agli stessi disastri, non guarisce allo stesso modo, non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano? Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci avvelenate noi non moriamo?” Ecco. Shakespeare la sapeva lunga e ha dato a Shylock un monologo tanto logorroico quanto aderente a molte situazioni, compresa la nostra. Infatti avere l’ansia sociale non ci renderà certo ebrei per osmosi ma nemmeno ci esenta dall’essere organismi biologici che si nutrono e che si ammalano e purtroppo, essendo anche (nostro malgrado) animali sociali, siamo pure vincolati, come gli aracnofobici, i cinofobi, i claustrofobici, ad una serie di obblighi sociali: bollette, lavoro, scuola e, solo per il fatto di essere in Italia, burocrazia imperante e burocrati dalla faccia annoiata. Che fortunelli che siamo, vero? Se almeno l’ansia ci rendesse delle specie di Wolverine che se la fanno nei pantaloni ad ogni pulce incontrata per strada, avremmo se non altro più chances di vivere una vita dignitosa, scegliendo la famosa via ascetica. Potremmo interrompere i contatti con tutti e diventare amici di una noce di cocco come il protagonista di Cast Away. Io, per esempio, chiamerei la mia Amanda. Ci faremmo grasse risate insieme, ci confideremmo i segreti, ci faremmo le trecce a vicenda e alla fine le farei incontrare un bravo noce di cocco e sarei la damigella d’onore al suo matrimonio. Ma purtroppo questa non è la storia di una pazza delirante che vive dissociata dalla realtà con una noce di cocco come migliore amica, ma è la storia di persone terribilmente lucide e con bisogni a cui non possono rinunciare. Potremo anche ignorare la cima della piramide di Maslow, ma per la base non esiste ancora una soluzione. Non si possono annullare i bisogni fisiologici. Forse solo il sesso potrebbe essere depennato dalla lista. Ma il resto…il resto è inevitabile. Paradossalmente, quindi, sono proprio i bisogni animali a spingerci ad allungare il naso nel mondo e a regalarci momenti di qualità quando la cassiera ci darà il resto (leggi: tremori, sudori, faccia tirata come un colletto inamidato). Insomma, abbiamo tutti contro, bestie e umani. Come vi dicevo, è inevitabile. Sta a voi, e a me con voi, capire se questa inevitabilità sia un colpo di sfiga bionico, tipo frammento di meteorite sulla testa, o piuttosto se sia la conferma della saggezza del proverbio “non tutti i mali vengono per nuocere”. Volete sapere la mia opinione? Diciamo che è un work in progress.

Duille

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A proposito di premi letterari

3 Aprile 2016 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #concorsi

A proposito di premi letterari

I giornalisti mettono in classifica i candidati allo Strega.

In clima di elezioni politiche vige la legge della par condicio, ovvero nessun partito, per quanto potente, può, durante la campagna elettorale, monopolizzare la stampa e i media. Siamo infatti in un paese democratico, dicono. Lo stesso non vale per i più importanti premi letterari nazionali. Parliamo dello Strega, il più discusso e il più ambito dei concorsi. A pochi giorni dal termine delle presentazioni e dalla comunicazione dei finalisti, la Stampa locale e nazionale ha già fatto la sua classifica e in ogni articolo si nota più o meno lo stesso ordine e la stessa struttura, vale a dire, in sequenza: scoop sulle case editrici importanti, toto nomi sui loro candidati, citati con tanto di rispettivi presentatori. Infine, nelle ultime due, tre righe, citati i candidati delle case editrici minori e indipendenti, spesso con errori sul loro nome o sul titolo dei loro libri.

Le case editrici indipendenti in concorso e nello specifico Il Foglio di Piombino e Historica di Cesena, candidate rispettivamente con Viaggio in bianco e nero della scrittrice lucchese Alessandra Altamura e Miracolo a Piombino-Storia di Marco e di un gabbiano di Gordiano Lupi, chiedono una maggiore serietà e rispetto di tutti i candidati, a prescindere dal potere dei colossi editoriali e dalle relazioni più o meno strette degli editori con la stampa. Se si citano i libri candidati, sarebbe più corretto farlo in ordine alfabetico. Se i giornalisti desiderano esprimere un giudizio sugli autori presentati, hanno diritto di farlo nella massima libertà, purché abbiano letto tutte le opere in concorso e abbiano sufficienti elementi per valutarle e classificarle. Ovviamente il giudizio finale spetta al Comitato direttivo del Premio e non ai giornali.

A proposito di premi letterari
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"Piccole Donne", il trascendentalismo di Louisa May Alcott

2 Aprile 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi

"Piccole Donne", il trascendentalismo di Louisa May Alcott

Little Women, 1869

di Louisa May Alcott

Collins Classics 2010

La regione intorno a Boston era semplice e genuina campagna. “Lì”, afferma il Cunliff, “l’aspirante scrittore poteva vivere con pochissimo, coltivando un pezzo di terra per trarne il necessario al proprio sostentamento […] e facendo di tanto in tanto un viaggio a Boston per prendere libri in prestito, o incontrarsi con un editore.[…] fu in quella cerchia di comunità colte e intimamente collegate, nei dintorni di Boston, che apparve il fenomeno del trascendentalismo, termine impreciso e difficilmente attribuibile ad una qualsiasi fra le figure di maggior rilievo del tempo.”

Si tratta di scrittori imbevuti di filosofia kantiana, convinti di vivere in un universo benefico, in collegamento con la natura, di sostanziale stampo romantico ed in costante movimento verso la perfezione, ottenibile, per altro, solo in America. Fu Emerson a formulare con maggior completezza la teoria trascendentalista. Fra i tanti appartenenti al movimento, dallo stesso Emerson a Thoreau, a Hawthorne, a Whitman, c’era anche Amos Bronson Alcott, padre di Louisa May, l’autrice di Piccole Donne.

Louisa May nasce a Germantown in Pennsilvania nel 1832, poi si trasferisce a Concord, a ovest di Boston, con la famiglia, la seconda di quattro sorelle. Cresce in un ambiente “illuminato e progressista”, fieramente abolizionista e vive la realtà della Guerra Civile. Il padre fonda una scuola conosciuta per le sue idee rivoluzionarie, dove si applica il principio del rispetto della spontaneità del fanciullo.

Così Silvano Ambrogi descrive Louisa, come la si coglie in un ritratto:

La vediamo all’angolo di una scrivania, con un vestito ad ampie, lunghissime gonne, una candida e voluminosa pettorina arricciata, capelli ondulati e gran crocchia alla nuca, insomma l’aspetto di una signora della buona società del tempo. Il braccio appare del tutto disteso, con languore quasi dannunziano, ma la grinta viriloide fa da aperto contrasto: lo sguardo infossato, che punta diritto davanti a sé e la bocca strettamente serrata. La penna appare fra le dita impugnata come fosse uno stiletto o una pistola.”

Amos Bronson trasforma la casa in un cenacolo trascendentalista, frequentano il salotto Thoreau, Hawthorne ed Emerson.

Louisa fa scuola alle figlie di quest’ultimo e ha libero accesso alla biblioteca, dove legge di tutto, da Platone a Dickens, il suo idolo, che incontrerà durante un viaggio sul vecchio continente e di cui ricreerà Il circolo Pickwick, attraverso la società segreta fondata per gioco dalle protagoniste del suo libro più famoso.

Lavora come infermiera, si ammala di tifo, scrive molti libri di successo, contenenti tutti gli elementi dei classici romanzi d'appendice ottocenteschi, con avventure gotiche ed eroine tragiche. Durante un viaggio in Europa come dama di compagnia - descritto nella seconda parte di Piccole donne, quella che in Italia è stata pubblicata come Piccole donne crescono – vive un amore con un musicista che diventa il Laurie del romanzo. Morirà nel 1888, per un’infreddatura, mentre corre al capezzale del padre senza sapere che egli è deceduto due giorni prima.

Pubblicato nel 1869, e poi nella versione completa nel 1880, Piccole donne si rifà alla vita che si svolgeva in casa Alcott/March, negli anni della formazione delle quattro sorelle e ci offre con immediatezza l’immagine dell’America nella seconda metà dell’Ottocento. Delle quattro ragazze, solo Beth conserva il nome originario e, come la sfortunata sorella minore di Louisa, anche lei morirà (sebbene non nella prima parte).

Ognuna delle protagoniste ha una personalità spiccata e differente dalle altre, benché cresciute tutte nello stesso ambiente e sotto l’occhio vigile e saggio della madre. Fin dal loro primo apparire sulla scena, i termini usati per riferirsi a ciascuna di esse indicano subito i loro caratteri, le modellano e le fanno risaltare agli occhi del lettore.

Christmas won’t be Christmas without any presents’ grumbled Jo, lying on the rug.

“It’s so dreadful to be poor!” sighed Meg, looking down at her old dress.

“I don’t think it’s fair for some girls to have plenty of pretty things, and other girls nothing at all”, added little Amy, with an injured sniff.

“We’ve got father and Mother and each other”, said Beth contentedly, from her corner.

In queste prime righe c’è già tutto il romanzo, i pregi e i difetti delle sorelle, le mancanze che condizioneranno la trama, il loro modo di agire, di porsi, le loro movenze.

Jo, il maschiaccio, sta sdraiata sul tappeto. Per lei l’autrice sceglie il verbo grumbled, brontolò, a fissarne fin dal principio il carattere bellicoso.

La romantica e saggia Meg, (sighed) sospira sulla ricchezza che non può avere che la condurrà in tentazione.

La viziata e capricciosa Amy si presenta con un injured sniff, “un offeso tirar su col naso”, mentre per la buona Beth, che timidamente se ne sta in un angolo, è usato l’avverbio contentedly, cioè con contentezza, appagamento, mansuetudine.

Il personaggio principale è Josephine (Jo) March, nella quale la Alcott si rispecchia. Tramite lei, l’autrice dà voce al suo femminismo, protestando contro le ingiustizie subite dalle donne. Jo è un ragazzaccio, la sua unica bellezza sono i capelli, di cui si priverà in un impeto di generosità. Goffa e sgraziata, impulsiva e furiosa, capace di alternare slanci e collere, sogna di andare all’università, di combattere al fianco del padre nella Guerra Civile. È l’intellettuale di casa, la scrittrice piena di fantasia che compone le sue novelle e le legge in soffitta alle sorelle.

Seguendo gli insegnamenti del padre Amos, la Alcott crede profondamente in Dio e nella possibilità di migliorarsi, di compiere una sorta di pellegrinaggio in vita verso la trascendenza, la sublimazione e il perfezionamento, di cui è simbolo il libriccino regalato a Natale dalla madre alle figlie. Ciò comporta una lotta per tutte e quattro le ragazze, ma soprattutto per Jo, che ha il carattere più difficile. Le sarà di grande aiuto e conforto scoprire che anche la madre, all’apparenza infallibile, ha dovuto come lei combattere per tenere a freno e riformare la propria natura. Alla fine il bene trionferà sulle debolezze, sulle invidie, sui capricci e le sorelle si ritroveranno più unite che mai, alla fine il cammino trascendente del pellegrino sarà compiuto.

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Adriana Pedicini, "I luoghi della memoria"

1 Aprile 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #adriana pedicini, #recensioni, #racconto

Adriana Pedicini, "I luoghi della memoria"

I luoghi della memoria

Adriana Pedicini

Edizioni Il Foglio, 2016

pp 148

12,00

“Continuava comunque Teresina a fumare le sue cicche e a bere il suo vino. E con gli occhi puntati alle stelle parlava, parlava, ricordava o compiva voli di fantasia alla ricerca di un mondo dove anche lei potesse entrare, dove vivere significasse ridere e piangere, gioire e soffrire per tutti allo stesso modo. Dove la carezza della mano amica fosse donata a tutti e non ci fossero come riparo ai colpi della sorte scafandri per alcuni, per altri la sola pelle sottile.” (pag. 16)

Questi ventisette racconti – alcuni ripubblicati, altri nuovi - sono davvero belli. Lo sono per il contenuto vario, accattivante, con personaggi scaturiti da finezza psicologica, estrema sensibilità e capacità empatica. E lo sono per lo stile signorile, dal profumo antico. In particolare i primi hanno una forma ottocentesca, fanno venir in mente Grazia Deledda, per il modo in cui tracciano alcune figure potenti e per il regionalismo pregno di cultura arcaica e di significati ancestrali che li pervade fino a riprodurre, novella dopo novella, “un intero villaggio ideale”.

Mariantonia era la padrona n questa casa, la “padrina” sembrava, un po’ logorati gli abiti neri che le avviluppavano il corpo e in petto la fierezza di una donna che per tanti anni aveva affondato le unghie nella terra per cavarne cavoli o patate, che aveva irrobustito i fianchi e le spalle sotto il peso di fascine di legna raccolta nel bosco per alimentare nel focolare la fiamma della casa.” (pag 18)

La lingua risente dell’essere, Adriana Pedicini, principalmente poetessa, l’aggettivazione è lenta, ampia e distesa. Come Leopardi, ella tende all’indefinito, alla vaghezza di stelle, boschi e prati ma, al contempo, come Pascoli condensa l’espressione nel tipico, nei gesti, nomi e modi di dire della tradizione rurale e regionale.

Gli ultimi racconti sono più attuali negli argomenti e, in parte, anche per come sono scritti.

I temi principali di tutta la raccolta riguardano il recupero della memoria e la paura della morte. I due concetti, ovviamente, si fondono, là dove il ricordo è l’unica arma contro l’obnubilamento della fine. Ricordare “è cercare nelle cose morte il perduto che si riconquista”, riappropriandosene. Ne è un esempio la figura della madre scomparsa che, dopo esser stata lancinante dolore, strappo, mancanza incolmabile, viene riconquistata attraverso la propria maternità, ricreandola nel raccontarla ai figli e, allo stesso tempo, anche impersonandola, incarnando il suo ruolo.

La paura della morte scorre sul filo di terrori vissuti dall’autrice, ed è la stessa voragine che proviamo tutti al pensiero di affrontare dolorosi calvari. Ma c’è sempre una speranza, forse autoindotta per evitare la pazzia, che si concreta nell’esercizio consolatorio della fede e nella bellezza della vita, rintracciabile nelle piccole cose, nella natura, nel ritorno della primavera, nella nascita di un bambino.

Finalmente non era più solo preda della sua malattia e della paura della morte. Si sentiva parte di un tutto ormai ben visibile. Sua tenda era il cielo stellato, suo riparo l’anfiteatro dei monti che da lontano scorgeva, sua vita la vita degli innumerevoli esseri che davano forma e colore alla terra. Come se non avesse più nome e le cose anche non avessero il nome consueto. Come se la sua sorte non fosse diversa da quella di tutte le specie viventi.” (pag 110)

C’è anche, alla fine, una specie di resa all’inevitabilità, alle “cose così come stanno”.

Il fischio del treno che annunciava l’arrivo alla stazione del suo paese la riportò alla realtà fatta di sogni e di speranze, di ideali e di lotte ma certo di realtà, di inevitabile realtà, e nell’aver capito che dopotutto bisogna accettarla prima ancora di migliorarla fu la sua vera vittoria.” (pag. 90)

Somiglia, questa, ad una sorta di accettazione, impotente ma confortante e non scevra di scopo, del destino comune.

In tutto io vedo me stesso, in me vedo tutto il creato, e in silenzio anche la morte opera in me come in tutte le cose che hanno un inizio e una fine”. (pag 110)

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La casa

31 Marzo 2016 , Scritto da Elena Cappai Con tag #elena cappai, #racconto

La casa


La scala è piccola, pochi passi dietro il portone.
Una nicchia, rifugio di terra dai colori caldi, pezzi di vita sparsi, frasi alle pareti.
Oggetti e parole lasciati per caso (o per fortuna) a raccontare del passaggio dei giorni, degli attimi vissuti, delle idee urlate e di quelle appena sussurrate.
Dei ricordi dolorosi e immemori, trasfigurati nella parola lasciata al vento, fatti dono, vividissimi nei silenzi delle sere di pioggia.
Una storia scritta negli angoli, che spunta dai mobili, che racconta il suo essere sé e altro.
L’incontro è una danza, passi di specchio, luoghi del non detto, lo scrutarsi lieve in controluce.
Con quali parole si accostano le persone?
Come si trovano o si riconoscono?
Un solo linguaggio che disegna l’aria intorno. Scevro di parole, ricco di sapori immaginati.
Così è il trovarsi a scambiare parti e giocarne altre, dietro pudori nascosti, ciascuno il suo passo di sincronie in controtempo.
E la bellezza, sottile e lieve, delle parole raccontate.
Di progetti e ricordi e sogni che si incrociano, si mescolano, diventano loro stessi ed altro. Significati fatti a mezzo e in mezzo lasciati a decantare.
Intorno, la vita che rotola sul pavimento.

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Le parole sono un mezzo impuro

30 Marzo 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #pittura

Le parole sono un mezzo impuro

Pubblicato nel 1934 dalla Hogarth Press, un saggio collega Virginia Woolf a Walter Richard Sickert, che ella, nel suo diario, chiama “il mio Sickert” (vedi annotazioni di martedì 17 aprile 1934) lamentandosi che, con il pittore che ama, i critici “fanno gli sprezzanti” (venerdì 2 novembre 1934).

Riflettendo sull’affermazione di Mario Praz che: “la tecnica della Woolf potrebbe accostarsi a quella del pointillisme”, pensiamo che essa sia composta da “una pluralità di momenti isolati gli uni dagli altri, messi insieme a caso dall’immaginazione” (ancora Mario Praz) quindi proprio una sorta di puntinismo letterario, di impressionismo della scrittura.

Sickert si distaccò dalle origini whistleriane – e quindi preraffaellite – per accostarsi a Degas, che gli insegnò a non ritrarre solo dal vero, ma anche dipingere sulla scorta di ricordi, fotografie, disegni e lo introdusse alla scuola dell’impressionismo francese. Divenne poi il principale esponente del Camden Town Group, di matrice postimpressionista inglese.

La Woolf descrive un’immaginaria conversazione svoltasi in una sera di dicembre. Il testo si apre con un pezzo di bravura sul cromatismo, sugli insetti che sono tutt’occhi, anzi, tutt’uno, col colore che vedono, fino ad assorbirlo. Si nota subito quanto il linguaggio woolfiano attinga alla poesia, abbeverandosene e, pur mantenendo intatta la razionalità, trascolori in lirismo.

When I first went into Sickert’s show, said one of the diners, I became completely and solely an insect – all eye. I flew from colour to colour, from red to blue, from yellow to green. Colors went spirally through my body lighting a flare as if a rocket fell through the night and lit up greens and browns, grass and trees, and there in the grass a white bird. (pag 59)

Sickert è un biografo, la Woolf riesce a estrapolare dai suoi ritratti intere vite, trame, narrazioni.

Yes, Sickert is a great biographer, said one of them; when he paints a portrait I read a life.”[…] When he sits a man or woman down in front of him he sees the whole of the life that has been lived to make that face.” (pp. 60 e 62)

Se il romanziere ci fa vedere ciò che descrive, cioè, in un certo senso, dipinge e pennella, Sickert “scrive“ una storia. Abbiamo una sorta di chiasmo, d’incrocio fra le coppie Woolf – Sickert e scrittura – pittura.

Per la Woolf, più che ritrattista e biografo, Sickert è romanziere, alla stregua di Dickens o Balzac. I suoi personaggi attingono alla realtà, egli ama descrivere la classe media, i lavoratori nel loro squallore, nella loro sofferenza, nei volti plasmati dalla fatica e dalla disillusione, nelle vesti sformate dall’uso, nei mobili logorati e di basso prezzo. Sentiamo muoversi e parlare questi personaggi, costruiamo attorno a loro delle trame, ascoltiamo le conversazioni, i rumori che li circondano, che provengono dalla strada, dalle finestre aperte.

Pur realista, Sickert non è pessimista. È come se nei suoi quadri si accennasse a una condizione parallela, di cui i personaggi sono parte inconsapevole, una realtà di maggiore gioia e pienezza di vita. Inoltre, seppur di umili origini, le sue figure non sono mai avvilite, degradate. Sono donne e uomini ben nutriti, che godono dei piaceri della vita, del possesso di semplici oggetti, del buon cibo. C’è sempre intimità fra i personaggi e le loro stanze, i loro interni. Ogni oggetto, un cassettone, un cappello, un bicchiere, un letto, è espressione del proprietario. La natura umana non è mai lontana dal dipingere di Sickert, sullo sfondo dei suoi quadri c’è sempre un essere umano, un venditore, una passante.

Sickert narra senza correre il rischio di cadere nel sentimentalismo, come accade ai romanzieri. Egli racconta con una pennellata di verde o di rosso, con un gesto della mano, secco e avvolto nel silenzio. E, tuttavia, è comunque un vero poeta, lo si vede soprattutto nei quadri che ritraggono Venezia, il circo, il music hall, i mercati. Di là dal soggetto concreto, carnoso, c’è sempre un cielo, una nuvola, una luce rosso oro che, addirittura, possiamo sentir “gocciolare” dal pennello nell’immagine. In questo modo egli ci rende consapevoli della bellezza, della poesia nascosta, anche se non è un visionario o un rapsodo, non è un Blake o uno Shelley. La sua pittura “is made not of air and star-dust but of oil and earth” (pag. 71)

Pittura e scrittura hanno molto in comune, la Woolf ci descrive il tormento del romanziere che cerca di farci “vedere” ciò che ha in mente. Il brano che segue può essere considerato un vero e proprio manifesto poetico.

The novelist is always saying to himself how can I bring the sun on to my page? How can I show the sun and the moon rising? And he must often think that to describe a scene is the worst way to show it. It must be done with one word, or with one word in skilful contrast with another. […]They both speak at once, striking two notes to make one chord, stimulating the eye of the mind and of the body” (pag. 73)

Il saggio prosegue con una carrellata di grandi scrittori – da Pope, a Keats, a Tennyson – di cui la Woolf analizza le proprietà pittoriche ma anche musicali, la scelta lessicale inconscia che serve ad alimentare e nutrire l’occhio e l’orecchio del lettore. La Woolf ritiene che non esista scrittore suo contemporaneo capace di scrivere la vita così come Sickert sa dipingerla.

Words are an impure medium; better far to have been borne into the silent Kingdom of paint” (pag 63)

Per tutto il saggio ella fa riferimento a quel confine oltre il quale c’è solo silenzio, c’è la disperazione dello scrittore incapace di esprimere ciò che vede, la musica nella sua testa, il quadro nella sua mente. È quella che Praz definisce “l’oppressione dell’enorme fardello dell’inespresso”.

We try to describe it and we cannot; and then it vanishes, and having seen it and lost it, exhaustion and depression overcome us; we recognize the limitations which Nature has put upon us.” pag. 77)

Non manca, infine, nel saggio, una stoccata contro la critica, di cui la Woolf si sentiva vittima, come si evince anche dalla lettura del suo diario; la critica che, appunto, non è sempre capace di cogliere le sfumature pittoriche e musicali della scrittura, ma rimane relegata e limitata alla pagina stampata.

Meglio tacere, dice la Woolf, meglio inoltrarsi nella “silent land”, la terra silenziosa che sta al posto della - o forse oltre la - parola, dove tutta l’arte si combina, dove si fondono poesia, pittura e musica, dove le gocce di colore, le parole scritte e le melodie, diventano una cosa sola, dove il significato si dilegua e lascia il posto alla comprensione preconscia, alla pura emozione che appaga e gratifica.

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