Ida Verrei: Le primavere di Vesna
Stralci dal II Capitolo:
1939
…. Arrivarono alla stradina del Mulino, la percorsero, e si trovarono
ai piedi della scalinata che conduceva all’ingresso:
“Immensum ad antrum aditus”.
Eccolo, l’invito ad entrare. Ogni volta che leggeva quelle parole
Liana provava un brivido d’emozione, quasi una sorta di premonizione
di avventure fantastiche in quel meraviglioso regno sotterraneo.
Il trenino scoperto, trainato dalla locomotiva a benzina, era già
pronto, quasi pieno, stipato di giovani e meno giovani. Un coro di
saluti, di esclamazioni di piacere, di benvenuto.
Passarono radenti alle colate calcistiche, alle formazioni traslucide
di stalattiti e stalagmiti; nelle curve pareva, a volte, di sbatterci contro
e, nonostante la consuetudine a quel tragitto, tutto il gruppo si trovava
spesso ad abbassare istintivamente la testa, per la sensazione di urtare
quei gioielli calcarei sporgenti dalle pareti gocciolanti. Attraversarono
la Sala della Nave Rovesciata e poi la Sala Gotica e, infine, si fermarono
alla grande Sala da ballo, dalla cui volta pendeva un imponente lampadario
di cristallo; sotto la luce scintillavano le bianche concrezioni
che ricordavano un bosco cristallizzato nel gelo invernale.
Era l’ultima fermata del trenino.
La Sala da ballo era a vista. appariva già affollata. I tavolini di
ferro smaltato bianco erano disposti su tre lati; su ognuno, fiori colorati,
la cui fragranza delicata si mischiava all’odore acre di fumo e al
sentore dolciastro di profumi e ciprie. Grosse stufe elettriche intiepidivano
l’ambiente. Lampade tondeggianti illuminavano una piccola
pedana in fondo, dov’era sistemato un pianoforte bianco e l’orchestrina.
Alle quattro pareti, gli altoparlanti diffondevano la musica. Ad
angolo, tra la parete di fondo e quella laterale, si stendeva un bancone
da bar di legno, anche questo laccato bianco, alle cui spalle c’erano
gli scaffali colmi di bottiglie colorate. Camerieri in giacca bianca si
aggiravano indaffarati tra i tavoli.
Liana si guardò attorno. Le donne erano tutte in abito da mezza sera,
gli uomini in giacca e cravatta, tra la folla spiccavano molte divise……….
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«Basta, basta», lo interruppe, ridendo, Liana. «piuttosto, senti,
dopo mi suoni Jalousie?»
Gli altri orchestrali, intanto, avevano posato gli strumenti per
terra, sulla pedana, e si rinfrescavano bevendo bibite ghiacciate. Gli
altoparlanti diffondevano in sordina una musica proveniente da un
grammofono sistemato in un angolo.
Mirko rispose annuendo, distratto. Guardava con curiosità verso
un lato della sala. anche Liana volse lo sguardo, cercando di capire
cosa avesse attirato l’attenzione del giovane. Un uomo alto e grosso
era appena entrato trafelato e parlava in modo concitato
con un gruppo di ufficiali; sotto l’abito a doppio petto portava la
camicia nera.
«Che succede?» chiese Liana. Mirko non rispose. L’uomo con la
camicia nera si stava dirigendo verso la pedana dell’orchestra.
Con un gesto imperioso staccò il grammofono, facendo gracchiare
la puntina sul disco che continuò a girare a vuoto. La musica interrotta
restò per un attimo come sospesa nell’aria. Si sentiva solo il brusio
proveniente dalla folla nella sala.
«Ma…» cercò di protestare uno degli orchestrali indispettito.
L’uomo afferro il microfono:
«Attenzione, prego di prestare la massima attenzione», disse con
voce eccitata. Fece una lunga pausa. Tutti gli occhi erano volti verso
di lui:
«Pochi minuti fa l’EIAR, in edizione straordinaria, ha annunciato
che da qualche ora le truppe germaniche sono entrate in Polonia:
Francia e Inghilterra sono in guerra col grande Reich!»
Nella sala non volò una mosca. Tutti i presenti sembravano far
parte di quel bosco cristallizzato nel gelo.
«Viva la Germania!» Urlò con voce acuta un ufficiale.
«Viva il Duce!»
La sala in breve si era riempita di squadristi.
«Che succede?» bisbigliò piano Liana a Mirko.
«La guerra, Liana, la guerra», mormorò con voce tremante il giovane.
Ora tutti erano in piedi, i volti pallidi sembravano maschere di
cera. Applaudivano, rigidi e inconsapevoli fantocci animati da una
carica meccanica.
«Suona pianista, suona “Giovinezza!”» ordinò l’uomo con la camicia
nera: «Cantate, cantate tutti!»
Dal pianoforte si sprigionarono le note dell’inno e dilagarono per
la volta della Sala Bianca.
Un coro si levò tra la folla. Anche Liana iniziò a cantare a gola
spiegata, in piedi sulla sedia, col volto arrossato dall’eccitazione e lo
sguardo scintillante offuscato dalle luci. Provava un godimento infinito
a lasciare che l’allegria, la gioia di vivere, le zampillassero dal
cuore in piena libertà.
Ad un tratto sentì una stretta al polso. Bruno l’aveva raggiunta e
la tirava.
«Scendi, andiamo via!»
Fu costretta a seguirlo. Il fratello, scuro in volto, la trascinò attraverso
la sala fino al loro tavolo.
Anna era in piedi, con la giacca già infilata, pallida, tremava.
«Svelta, copriti e andiamo», ripeté Bruno.
La ragazza cercò di protestare: «Ma perché? proprio ora! E poi la
seconda parte della serata è sempre più bella, dai, restiamo ancora.»
Bruno non rispose e la sospinse con fermezza verso l’uscita.
Si scontrarono con l’uomo con la camicia nera:
«Andate già? Camerata, perché conducete via queste belle signore?»
«Mia madre non sta bene» rispose il giovane con voce dura e,
istintivamente, strinse il braccio delle due donne.
L’uomo guardò Anna. Il pallore e i due segni scuri che le erano
comparsi sotto gli occhi dovettero convincerlo.
«Peccato», mormorò. parlava a Bruno ma guardava Liana. Si scostò.
«Buonanotte, allora.»
I tre salirono sul trenino.
All’uscita dalle grotte, la città parve più spettrale del paesaggio
appena lasciato. Un nevischio sottile aveva preso a scendere lentamente;
un odore d’inverno, un tremolio di pulviscolo, cielo senza
stelle. Per le strade, nessuno, ma le luci delle case erano tutte accese.
S’indovinavano dietro i vetri mondi, pensieri, paure, voci, singhiozzi.
Senza sapere perché, Liana si sentì schiacciare dalla malinconia di
un tempo che finiva.
Anche nella loro casa tutte le luci erano accese. Dietro le tendine,
due sagome immobili.
Entrarono, accolti dal tepore della grande stufa a carbone.
Paolo era seduto al tavolo di cucina, dove le carte del ramino
erano rimaste abbandonate e rivelavano una partita interrotta bruscamente.
L’uomo, con gli occhi chiusi, si stringeva la testa tra le mani.
Danilo guardava smarrito il padre. La radio accesa trasmetteva notizie:
“… Cracovia in fiamme… trentamila prigionieri…” Bruno alzò il
volume.
«Porci!» urlò Paolo.
«Sté ziti!» supplicò Anna, facendo un segno di croce, «Anco i
muri el gan orecie. Dio vedi, Dio provvedi.»
Liana corse a chiudersi in camera. non voleva ascoltare, non
voleva capire. Voleva solo dormire e risvegliarsi nel suo mondo di
sempre. Si spogliò, si infilò tra le coperte, mise la testa sotto il
cuscino. Dal giardino, il sibilare del vento, da lontano un abbaiare
di cani…
Il cimitero dei Lupi
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Chiedendoci se all'ombra dei cipressi e dentro l'urne confortate di pianto sia forse il sonno della morte men duro oppure no, c'inoltriamo nel Cimitero dei Lupi, o Cimitero Comunale La Cigna, oggi ai margini dell'area portuale ed industriale della città di Livorno, vicino al torrente la Cigna, appunto, in località Santo Stefano dei Lupi. La zona prende nome dalla gronda dei Lupi, una vasta area che in epoca medievale si estendeva da Pisa al villaggio labronico, cosiddetta dalla famiglia possidente. È stato proprio l'editto di San Cloud, del 1804, cui fa riferimento Foscolo nel Carme "I Sepolcri", insieme ad una concomitante epidemia di febbre gialla, a decretare la nascita del nuovo cimitero.
È un pomeriggio di settembre, l'aria ferma e calda. Notiamo subito le baracchine dei fiori rinnovate, prima di superare l'ingresso. La Camera mortuaria è affollata, ahimè, sia di morti sia di vivi, ogni giorno c'è sempre qualcuno che se ne va e qualcuno costretto a piangere. La chiesetta di San Tobia (XIX sec) ci accoglie con i suoi muri spogli e un paio di quadri cupi ma gradevoli.
Progettato dall'architetto Riccardo Calocchieri, completato da Pampaloni e Diletti, ampliato infine da Unis, il camposanto fu benedetto nell'ottobre del 1822. Ulteriori trasformazioni si ebbero a partire dal 1910 fino ai giorni nostri. È costituito principalmente da tombe a sterro.
A parte la piccola folla raccolta davanti all'obitorio, il luogo è deserto. Riflettiamo su quanto il culto dei morti vada scemando nelle generazioni attuali e su come, venuti a mancare quei vecchi che facevano del cimitero una meta bisettimanale, in futuro quasi nessuno più attraverserà il viale monumentale che collega l'ingresso al porticato classicheggiante aggiunto da Unis. La navetta che dovrebbe trasportare anziani e disabili gira a vuoto fra i cipressi. Ci colpisce il silenzio, il senso di pace (eterna).
La prima parte del viale è la più antica e quella meglio tenuta, ricca di monumenti risalenti all'ottocento e al primo novecento. Spicca la tomba di Andrea Sgarallino (1935-1887) il quale ebbe a bandiera patria e lavoro. Patriota insieme al fratello Jacopo, iscritto alla Giovane Italia di Mazzini, si distinse nella difesa di Livorno dall'assedio austriaco nel 1949. Proprio da Santo Stefano ai Lupi, alle sei del mattino del 10 maggio, si udirono i primi cannoneggiamenti austriaci. L'11 maggio era già tutto finito. Solo alcuni decenni dopo, i resti dei livornesi fucilati furono trasferiti ai Lupi, dove Lorenzo Gori scolpì un monumento commemorativo.
Come i fratelli Sgarallino, incontriamo anche Oreste Franchini, che ebbe per maestro Mazzini e per duce Garibaldi e le cui ceneri ancora attendono l'avvento dell'ideale che fu tutta la sua vita.
C'imbattiamo in nomi noti, come Cesare Alemà, il cui monumento è sovrastato da berretto garibaldino, baionetta, spada, bandiera, tromba, foglie di alloro; Enrico Bartelloni; Francesco Chiusa; Giuseppe Ravenna e altri personaggi del risorgimento italiano ma anche della lotta antifascista, come Ilio Barontini e Vasco Jacoponi.
Ogni tomba monumentale ha la sua storia da raccontare, le sue lacrime e la sua memoria. Ci piace ricordarne una fra le tante, di sicuro meno conosciuta, quella costruita nel 1919 per Emma Zigoli.
Emma aveva diciotto anni e tutta la vita davanti, quella sera, mentre, agghindata a festa, allegra e spensierata, si recava a ballare nella sede del Partito Repubblicano, pregustando il divertimento, i chiacchiericci con le amiche, gli sguardi ammirati dei corteggiatori. Ma ci fu una sparatoria davanti al Partito e un proiettile la colpì, uccidendola. Il partito fece costruire il monumento in onore della vittima incolpevole fulminata la sera del 10 settembre 1919 per umana follia delittuosa e da allora custodisce le salme di tutti gli Zigoli, del fratello Toselli - che cadde eroe sul Montello respingendo l'invasore, e che di certo portava il suo destino scritto nel nome, chiamandosi come l'eroico maggiore morto per difendere la postazione italiana sull' altipiano dell'Amba Alagi - di Giuseppe, di Barbara - diventata cieca, si narra, dal gran piangere la morte dei figli - di Natale, di Esmeraldo - che tutti chiamavano solo Smeraldo e, chissà perché, la E del nome sulla lapide continua sempre a cadere.
Ci colpisce il Cristo effigiato da Giacomo Zilocchi per la famiglia Soriani, e il monumento alla imperitura e gloriosa memoria dei livornesi morti a Mentana, ma anche la tomba che aspetta la salma del giovanetto ventenne Alfredo Z. che colpito da contagioso malore giace in terra straniera ove vige una legge che vieta per dieci anni l'esumazione. Morto a Marsiglia nel 1882. Ci chiediamo se il giovanetto è poi mai tornato a casa.
Inoltrandoci lungo il viale, i monumenti si fanno più maestosi e insieme più moderni, riconosciamo i nomi di tante famiglie note a Livorno in campo commerciale e portuale, dai Fremura, ai Debatte, ai Tanzini ai La Comba. Alcune tombe presentano simboli laici e religiosi diversi, dalle menorah, i candelabri ebraici a sette braccia, a disegni massonici.
Il cimitero ospita anche i sacrari che raccolgono le spoglie dei partigiani, dei caduti della guerra 1915-1918, delle vittime civili e militari del secondo conflitto mondiale e dei militari italiani e inglesi morti nell'incidente aereo del 1971, quando, il 9 novembre, un aereo inglese della R.A.F cadde in mare al largo della Meloria col suo carico di giovani parà italiani.
Tanti nomi scorrono sotto i nostri occhi, soldati che hanno perso la vita combattendo, civili morti sotto i bombardamenti, come la ventitreenne Lora, ma anche lapidi in ricordo di morti ignoti a noi ma noti a Dio.
Il "Quadrato dei Francesi" costituisce l'area delle tombe dei soldati caduti durante la Grande Guerra, alcuni dei quali di origine musulmana. Le salme sono allineate, i cattolici hanno una croce mentre i musulmani un arco. Ma si vede che questi morti erano destinati a non riposare in pace, che l'orrore della guerra doveva inseguirli anche nell'al di là, se nel settembre del 1943 "una bomba di grosso calibro ha distrutto 34 su 54 delle tombe", e i resti sono raccolti ora sotto un'unica lapide.
L'immagine di pace e gradevolezza, di camposanto ben conservato, scema man mano che ci avviciniamo al loggiato. Giungiamo all'intercolonio, sotto il porticato di Unis, che ospita notevoli opere marmoree apuane. Qui regnano abbandono e degrado, i piccioni hanno imbrattato con i loro escrementi il pavimento e le tombe; tutto è decadenza, disfacimento, vediamo segnali di lavori in corso che sembrano non progredire mai. Fuggiamo assaltati da sciami di zanzare provenienti dal vicino torrente. Preferiamo il mese di novembre, quando i cieli sono solcati da nugoli di stormi che disegnano ghirigori fra i cipressi.
A est sorge il nuovo complesso di loculi, molto ben tenuti, al contrario delle logge; verso sud troviamo Tempio Cinerario, un'imponente struttura monumentale realizzata nei primi anni del novecento per conto della Società di Cremazione. Chi ha visto cremare un proprio caro, sa cosa si prova quando la bara entra nel forno, scorrendo sul carrello, e quando poi, a operazione ultimata, l'addetto ti porge un pennello col quale raccoglierti da solo la cenere del tuo estinto.
Cartelli affissi sui colombari ci informano che gli ossari hanno durata di trenta anni mentre i loculi di cinquanta, dopodiché si procederà all'estumulazione d'ufficio e alla dispersione di resti e ceneri in ossari comuni, ma il pensiero sul momento non c'inquieta.
Altre aree del cimitero sono dedicate alle diverse comunità religiose e nazionali presenti a Livorno, come il "Quadrato degli Evangelisti".
Il "Quadrato dei Valdesi" e il "Quadrato dei Turchi" sono due cimiteri preesistenti inglobati nel sepolcreto attuale, che copre 110.000 mq e ospita circa 190.000 salme. Nel riquadro turco ci colpiscono le scritte in arabo e la tomba di Memet Neyal turco nativo di Alessandra d'Egitto modello di pubbliche e private virtù cittadine disinteressato usò le sostanze a protezione degli amici. Ci rincresce scoprire che morì nel 1846.
Un arco del 1893 accoglie i nomi di tutti i livornesi che prestarono servizio nelle schiere di Garibaldi, alcuni dei quali sono sepolti sotto lapidi ornate dal berretto garibaldino. Se questi morti ci suscitano rispetto e interesse storico, fanno invece accapponare la pelle quelle di ragazzi mancati nel fiore degli anni, ricoperte di peluche, di vecchi giocattoli rovinati dalle intemperie, di biglietti ingialliti di fidanzatine, di gagliardetti amaranto.
Con questo triste pensiero ci avviamo all'uscita, ma prima ci soffermiamo di fronte alla lapide dedicata a Bruna Barbieri, detta la Ciucia, popolana forte, generosa, sempre pronta a donare, a prendere per subito dare, piena di passione, di slancio, antifascista ma benvoluta persino dai suoi nemici che ne riconoscevano la forza, l'innocenza selvaggia. La lapide è stata fortemente voluta dalla pronipote Tiziana e così recita
"In ricordo di Bruna Barbieri detta La Ciucia. Nata e vissuta nel rione della Venezia, anima pura, cuore generoso, esempio di rara generosità, dispersa tra le atrocità dell'ultima guerra".
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I fratelli Sgarallino e Bartelloni (clicca) L'edizione straordinaria del quotidiano dell'epoca Sulle lapidi simbologie più frequenti: la Croce la falce e il martello la Stella di David Chiedendoci...
http://www.livornomagazine.it/Livorno-percorsi-sapori/cimitero-dei-lupi.htm
COSA FARE PER ESSERE INFELICI? Adriana Pedicini presenta Biagio O. Severini
Paul Watzlawick
Manuale per la ricerca dell’infelicità. Infelicità, mente e creatività. Rigidità mentale, caparbietà e coerenza. Il peso del passato. Autosuggestione. Tasse ed evasione fiscale. Effetto dopo sbornia. La felicità sta nella partenza, non nella meta. Il piacere umano è futuro. Le illusioni delle alternative e la pazzia. Il pessimismo moralistico. Comunicazione e infelicità: Amore e spontaneità. Schopenhauer, l’amore e la compassione. La sublimazione della libìdo. Donne facili, prostitute e omosex. La collusione. Il latin lover.
Professor Watzlawick, lei ha voluto sottolineare l’importanza della conoscenza delle istruzioni per rendersi infelici. Come se gli uomini avessero bisogno di un aiuto o di una consulenza psicologica per diventare degli esseri infelici, per vivere una vita all’insegna dell’infelicità. Già naturalmente noi uomini siamo infelici. Il nostro scopo, le nostre energie psichiche dovremmo utilizzarle, invece, per combattere l’infelicità, o per attenuarla e, quindi, migliorare il nostro modo di vivere, durante l’arco di tempo, più o meno lungo, che intercorre tra la nascita e la morte. Lei, invece, ci vuole fornire un manuale, del tipo di quelli scolastici, con i precetti da seguire per diventare bravi ricercatori delle occasioni più succulenti per riempirci di infelicità. Non è strana la sua tesi? Eppure, psicologi e psichiatri si affannano a farci arrivare pubblicazioni di ogni tipo per orientare il nostro comportamento verso la felicità.
Guardi che nel corso della vita effettivamente tutti possono essere infelici per disgrazie varie. Quello che va imparato è, invece, il rendersi infelici. Per rendersi infelici non basta una sventura personale. E’ necessario impegnarsi a fondo. Purtroppo, in questa direzione non ci aiuta la letteratura psicologica e psichiatrica, perché pochi autori e studiosi si sono dedicati a fornirci delle indicazioni o delle informazioni utili e pertinenti su tale questione. Questi autori, anche se pochi, sono eccellenti. Io voglio solo aggiungere una metodica e basilare introduzione ai meccanismi più sfruttabili e verificabili dell’infelicità.
D’altra parte, l’infelicità ci è dolorosamente necessaria. L’infelicità, se ben si riflette, è la materia delle grandi creazioni artistiche. La letteratura mondiale si nutre di catastrofi, crimini, colpe, follie, tragedie, disgrazie. Si pensi all’ “Inferno” di Dante che è di gran lunga più geniale del suo “Paradiso”; al “Paradiso riconquistato” di Milton che è del tutto insipido nei confronti del “Paradiso perduto” ; del “Faust I” di Goethe che ci commuove fino alle lacrime, mentre il “Faust II” fa sbadigliare.
Mi scusi, ma per secoli ci hanno fatto credere che lo scopo della vita doveva essere la felicità. Certo, sotto specie diverse, di volta in volta la vita etica, la vita contemplativa, l’assenza di turbamenti e di passioni, la vita ultraterrena, il nirvana o altre cose simili. Ma sempre alla ricerca della felicità. Ora, ci domandiamo, a costo di sembrare ingenui, che cosa è la felicità?
Le rispondo subito che il concetto di felicità non è definibile. Terenzio Varrone contava 289 interpretazioni sulla vita felice e così anche Agostino.
Quindi, l’uomo è condannato ad essere infelice, a non avere un attimo di respiro in questa infelicità quotidiana, predeterminata, definitiva?
A tal proposito voglio ricordare le parole tratte dai “Demoni” di Dostoevskij: “L’uomo è infelice perché non sa di essere felice…Chi lo comprende sarà subito felice, immediatamente, nello stesso istante”.
In sostanza, dobbiamo capire che “noi” siamo i creatori non solo della nostra infelicità, ma anche nella stessa misura della nostra felicità.
Ma come si fa ad accusare l’uomo, gli uomini di essere gli autori della propria infelicità? Essa non dipende dal destino, da una forza superiore, misteriosa, imperscrutabile, o dalla convivenza con gli altri? Come facciamo a diventare giorno dopo giorno avversari di noi stessi?
La strada per l’infelicità ce la mostrano continuamente le massime del buon senso, della sensibilità popolare o, addirittura, ci viene indicata dall’istinto. D’altra parte, ricordiamoci che prima di tutto l’infelicità ce la possiamo creare nel chiuso della nostra mente.
Un esempio concreto?
Si pensi alla massima fondamentale della vita di ciascuno di noi: c’è un unico punto di vista valido e questo è il mio. Chi è convinto di ciò rimane fedele a se stesso, ai suoi principi e non è disposto a nessun compromesso; rifiuta continuamente ogni cosa, perché non rifiutare significherebbe già tradire se stesso; il duro e puro in questo senso rifiuta anche un consiglio che oggettivamente sarebbe vantaggioso per lui. Egli, in nome di una coerenza eroica, rigetta anche ciò che a se stesso appare come la migliore raccomandazione, in quanto raccomandazione fatta a se stesso. Chi agisce alla luce di questa convinzione, conclude che il mondo sta andando in rovina.
In questo caso che fare?
Tenere presente l’aurea massima degli antichi romani: “Ducunt fata volentem, nolentem trahunt” , il fato conduce dolcemente chi lo segue, trascina chi gli resiste.
Mi permetta di aggiungere che la coerenza come fedeltà ad una teoria o una visione del mondo non deve trasformarsi in cocciutaggine, caparbietà, cecità mentale fino alla negazione di qualsiasi evidenza. Ma bisogna essere capaci di valutare razionalmente sia gli obiettivi, sia i mezzi, sia i principi alla luce del nuovo, se il nuovo è più consono alla vita socio-ambientale.
Certo.
Si dice che il fluire del tempo effettivamente guarisce le ferite psichiche, lenisce il dolore per la perdita di una persona cara, per l’abbandono di un’ innamorata o di un innamorato, perché subentra l’oblio che avvolge tutto il passato nella nebbia della dimenticanza. Eppure c’è chi si ostina a voler ricordare tutti gli avvenimenti più dolorosi degli anni dell’infanzia o dell’adolescenza, quasi a voler far rivivere le sofferenze, dimenticando di proposito qualche avvenimento bello.
Purtroppo, è così. C’è chi si ostina a ricordare la propria infanzia e pubertà con crudo realismo, come periodo dell’insicurezza, del dolore del mondo e dell’ansia per il futuro e non rimpiange di quei lunghi anni neppure un giorno di felicità.
Anche in amore l’aspirante all’infelicità per eccellenza non si convince e non si lascia convincere che in fondo quella relazione fosse da tempo mortalmente malata, anzi che troppo spesso si era chiesto in qual modo avesse potuto fuggire da quell’inferno. No, per lui la separazione non è il male peggiore. Allora si isola dalla vita sociale e aspetta al telefono che l’amata perduta gli comunichi il suo ritorno, cosa che non avverrà mai.
Questo guardare al passato, questo camminare con la testa rivolta all’indietro, ci impedisce, quindi, di dedicarci al presente e di constatare che, se ci soffermiamo sui particolari attuali, possiamo anche scorgere qualche occasionale non-infelicità. Ma questa probabilità deve essere assolutamente esclusa dalla mente del votato all’infelicità: il passato è sempre presente e condiziona giornalmente la sua vita! Non è così?
Sicuro. Quello che ci cagionarono Dio, mondo, destino, natura, cromosomi e ormoni, società, genitori, parenti, polizia, insegnanti, medici, capi o soprattutto amici, è talmente grave che la minima insinuazione circa il poter forse fare qualcosa contro tale condizione è già di per sé un’offesa. E inoltre manca di scientificità...
Mi perdoni, se l’interrompo, ma teorie, tecniche e terapie psicologiche famose – si pensi alla psicoanalisi – sostengono che la personalità presente è frutto del vissuto, del passato di ognuno di noi.
Qualsiasi testo di psicologia ci dice, infatti, quanto la personalità sia determinata dai fatti accaduti nel passato, soprattutto nella prima infanzia. Del resto, ogni bambino sa che ogni cosa accaduta lo è per sempre. Ciò spiega tra l’altro la brutale serietà ( e la lunghezza) delle relative indagini psicologiche.
A questo punto, le domando: se un numero crescente di persone si convincesse che la loro condizione è disperata ma non seria, si potrebbe non dico rompere, ma almeno scalfire questo legame con il passato e aprirsi al presente e al futuro?
La persona esperta di infelicità, in caso di una gioia non voluta e improvvisa, direbbe : “ora è troppo tardi, ora non la voglio più”, oppure renderebbe il passato responsabile anche del “bene”, a tutto vantaggio della presente infelicità.
Ricordo la frase pronunciata da un lavoratore del porto di Venezia, quando gli Asburgo lasciarono questa città: “ Maledetti gli Austriaci, che ci hanno insegnato a mangiare tre volte al giorno!”
Oltre alla forza maggiore, esistono, quindi, anche adattamenti e comportamenti ai quali gli individui votati all’infelicità sono attaccati saldamente come la cozza allo scoglio. E questo è segno di rigidità mentale, di incapacità di flessibilità logica, di mancanza di ristrutturazione del campo visivo e di “insight”, di illuminazione geniale innovativa.
Per delle cause non ancora chiarite dagli studiosi del comportamento, tanto gli animali quanto gli uomini tendono a considerare gli adattamenti, che si rivelarono all’occasione i migliori possibili, come gli unici eternamente praticabili. Per cui si continua a utilizzare la stessa soluzione del passato, con il risultato di non trovare “ora” la via di uscita dalla situazione problematica, il che genera disagio.
Non si capisce che le situazioni mutano con il passare del tempo. Anzi, l’aspirante all’infelicità è convinto che esista un’unica soluzione e che questa, in quanto unica, non può mai essere messa in discussione.
Allora, ognuno di noi è autore della propria infelicità, e questa infelicità se la crea rifiutando l’evidenza della ragione e dell’esperienza, che gli farebbero trovare una luce di ottimismo nel mare magnum del pessimismo. E’ così che ci creiamo l’infelicità, con l’autosuggestione?
Prendiamo ad esempio, un innamorato che sia convinto di amare follemente una donna, ma che non abbia mai fatto capire a questa di ardere di passione per lei. Poi, all’improvviso chiede alla donna, inconsapevole, di sposarlo. La donna manifesta sorpresa, e quasi sconcerto. L’innamorato autosuggestionato, allora, di fronte a queste reazioni, conclude che aveva ragione lui, che aveva accordato la sua benevolenza a chi non se la meritava.
Altri esempi molto comuni. Ogni semaforo, in luoghi diversi, diventa rosso ogni volta che voi vi avvicinate. La fila che scegliete è sempre la più lunga. La ragione vi porterebbe a pensare che la frequenza con cui trovate il verde o il rosso è quasi la stessa. Ma voi, incalliti pessimisti, respingete questa probabilità. Vi convincete, invece, che oscure potenze superiori si accaniscono contro di voi. Questa consapevolezza vi rende possibili ulteriori, importanti scoperte, perché ora il vostro sguardo è pronto a cogliere connessioni sorprendenti, che sfuggono invece alle ottuse e inesperte intelligenze normali! Gli uomini comuni tendono a minimizzare le situazioni. Voi no, voi notate dappertutto le insolite e misteriose connessioni della vita quotidiana! E gli amici che si sforzano di dimostrarvi che non ogni cosa è dannosa per voi, ebbene questi amici sono ipocriti!
Ogni cittadino può riuscire, attraverso questo speciale “training” mentale, a crearsi una situazione penosa e soffrirne, senza sapere di esserne l’autore.
Come si può uscire da questa situazione?
Bisogna affrontare il problema non solo mentalmente, ma facendo ricorso anche alla verifica pratica.
Molti adottano un’altra soluzione: rifiutano o scansano una situazione temuta. Essi, ad esempio, fanno il calcolo dei rischi a cui si va incontro, compiendo una determinata azione, ed evitano quella o quelle azioni. Ma quante e quali sono le situazioni pericolose che si devono evitare o accettare? Andare in aereo? Andare in auto? Andare a piedi? Rimanere in casa? Non alzarsi dal letto? Non mangiare i cibi provenienti da terreni inquinati? Non mangiare cibi grassi? Ognuna di questi comportamenti presenta, però, dei rischi. Allora, che fare?
Bisogna abituarsi ad applicare il sano buon senso a un problema settoriale e accontentarci di successi parziali.
Se ho ben capito, significa evitare gli eccessi, ricorrendo a soluzioni razionali, come mangiare per nutrirsi, senza “abboffarsi”, rimpinzarsi (se si tratta di bulimia, allora è una situazione patologica), ma anche senza rifiutare del tutto il cibo (in tal caso si tratta di anoressia, altro aspetto patologico); o valutare, in generale, il rapporto costo-benefici di ogni azione. L’uso della ragione ci deve tenere anche lontani dall’astrologia. Ma quando l’oroscopo ci predice un incidente, un incontro amoroso, una vincita al lotto e l’evento si avvera, noi ci convinciamo che l’astrologia è credibile. Allora, la profezia che si avvera fa parte del mondo culturale dell’aspirante all’infelicità?
Le profezie che si realizzano da sé fanno parte anche del contesto sociale. Si pensi alla questione dell’aumento delle tasse. Quanto più in un paese vengono aumentate le tasse per compensare l’evasione fiscale dei contribuenti, ritenuti ovviamente disonesti, tanto più vengono indotti a questo reato anche i cittadini onesti e, quindi, aumenta l’evasione fiscale.
La mia personale opinione, a tal proposito, è che bisogna, di conseguenza, non aumentare le tasse dei contribuenti onesti, ma combattere l’evasione fiscale con mezzi efficienti e radicali. E si può fare. Il problema è che non lo si vuol fare politicamente.
Concordo pienamente!
Lei parla di un effetto “doposbornia”. Ci vuole chiarire il significato di questo fenomeno?
L’esperto in infelicità conosce bene l’effetto “doposbornia”. Ossia, lo scopo non ancora raggiunto è più desiderabile, romantico e luminoso di quanto possa esserlo quello a cui si è già arrivati. Nella partenza sta la felicità, non nella meta. Ogni realtà annienta il sogno. Il “Seduttore” di Hermann Hesse dice: “Resisti, bella donna, rendi più severe le tue vesti! Incanta, tormenta, ma non concederti a me!” Anche la “vendetta è amara”, come scrive George Orwell. L’isola della felicità di Thomas More si chiama “Utopia” che, guarda caso, significa “in nessun luogo”.
A proposito di felicità che sta nell’attesa, mi permetta di ricordare il nostro grande Giacomo Leopardi che, nello “Zibaldone”, sostiene: “Il piacere umano (così probabilmente quello di ogni essere vivente, in quell’ordine di cose che noi conosciamo) si può dire ch’è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà”. Ed esprime poeticamente questa riflessione nel “Sabato del villaggio”(l’attesa del dì di festa). Fino ad ora, comunque, ci siamo occupati solo dell’infelicità autosufficiente. Vogliamo, ora, affrontarla anche nel campo dei rapporti sociali?
Bene. Diciamo subito che gli aspiranti all’infelicità usano la tecnica delle “illusioni delle alternative” per complicare i rapporti umani. Questo meccanismo consiste nel concedere al partner solo due possibilità di scelta e, non appena ne scelga una, nell’accusarlo di non aver scelto l’altra. Lo schema è questo: se egli fa A, avrebbe dovuto fare B; se fa B, avrebbe dovuto fare A. Regaliamo a nostro figlio due camicie sportive. Quando ne indossa una per la prima volta, guardandolo con aria avvilita, diciamo:”L’altra non ti piace?”
E’ un meccanismo usato molto bene dai giovani nei confronti dei genitori!
Certo. Nel vago periodo compreso tra l’infanzia e l’età adulta, riesce loro facile esigere dai genitori quel riconoscimento e quelle libertà che spettano a un giovane. Ma quando si tratta di doveri sanno sempre nascondersi dietro il pretesto di essere giovani. E quando il padre o la madre ammettono a denti stretti che era meglio non avere figli, passano facilmente per dei genitori snaturati.
Negli istituti psichiatrici, ad esempio, si lascia libero il paziente di partecipare o no alle sedute di gruppo. Se rifiuta, è manifestazione di resistenza, come tale patologica. Se partecipa “spontaneamente” riconosce di essere ammalato e di aver bisogno della terapia. Inoltre, se chiede chiarimenti su quello che gli altri pensano della sua pazzia, gli viene risposto :“ Se tu non fossi pazzo, sapresti che cosa pensiamo”. Se mette in discussione la sua malattia, viene giudicato ancora più pazzo. Se accetta la sua condizione in silenzio, dimostra di essere pazzo e gli altri hanno ragione a definirlo tale.
Con questa tecnica non solo si dimostra la propria normalità, ma si spinge l’altro in una disperazione estrema.
Lei parla di una felicità con significato negativo. Ci vuole spiegare questo aspetto?
I sostenitori del pessimismo moralistico, appartenenti all’ordine dei puritani, sostengono:”Puoi fare quello che vuoi, basta che non sia piacevole.” Per loro, anche se un giorno scoppiasse la felicità nel mondo intero, ci sarebbe sempre da tener presente che “Cristo è morto sulla croce!”
Anche la comunicazione tra persone, siano pure intimamente in rapporto tra loro, può causare incomprensione e, quindi, infelicità. Tra marito e moglie, genitori e figli, innamorati, amici, parenti. Riprendendo riflessioni di Bertrand Russel e di Gregory Bateson, lei sottolinea che ogni comunicazione presenta sia un livello oggettivo che un livello relazionale. La proposizione “questa rosa è rossa” indica oggettività; “questa rosa è più rossa dell’altra” indica relazione. La moglie chiede al marito: “Ti piace questa minestra nuova preparata appositamente per te?”Il marito può rispondere “No” se la trova disgustosa (livello oggettivo); o rispondere “Sì”, per non offendere la moglie (livello relazionale). In quest’ultimo caso, però, il marito corre il rischio di vedersi preparare quella minestra per decenni. Come rispondere in questo caso, per salvare capra e cavoli?
I puristi della comunicazione sostengono che la risposta giusta dovrebbe essere:”La minestra non mi piace, ma ti sono molto grato per la fatica che hai fatto”. La moglie sarebbe contentissima? Provare per credere.
Un’altra difficoltà nella comunicazione è rappresentata dal paradosso dell’esortazione: “Sii spontaneo!”. Come giustamente fa notare anche lei, per la logica formale – di aristotelica memoria – costrizione e spontaneità si escludono: o si agisce spontaneamente di propria iniziativa, o si esegue un ordine. “A o è B o è non-B. Tertium non datur”.
Ma che ci importa della logica? Se posso scrivere “Sii spontaneo”, posso anche dirlo, che sia logico o no. Il problema nasce quando il destinatario dell’esortazione deve eseguire il comando. Compie l’azione, perché la desidera lui, o compie l’azione contro voglia, solo per accontentare l’esortatore? Lo stesso ragionamento vale per l’esortazione “Sii felice”, o per “Mi devi amare spontaneamente”, e per tante altre paradossali sofisticherie.
A proposito del sentimento dell’amore, a prima vista sembra una cosa semplice, facilmente comprensibile, dolce nei momenti di profonda intimità, quando non si ragiona, anzi non si parla, ma si agisce solo. Quando s’incomincia a ragionare e a parlare sul significato del rapporto, le cose si complicano, per via della comunicazione nel suo livello relazionale. Ossia, quando il partner si pone le domande “Perché mi ama?”, “Perché mi si dona?”, “Perché non chiede di sposarmi?” e simili , allora l’armonia dei corpi e degli spiriti incomincia ad incrinarsi, perché elementi razionali penetrano nell’unione psicofisica spontanea e la trasformano in relazione doverosa, in cui i partner devono assumersi responsabilità, impegni per il futuro, facendo progetti e programmando la vita. E si perde, quindi, la spontaneità dell’amore. Che fare?
In primo luogo, non cercate mai di sapere troppo dal partner sul perché vi ama, ma chiedetelo a voi stessi. Il partner potrebbe non saper rispondere o dirvi un motivo per voi insignificante; inoltre, egli avrà pure un secondo fine che certamente non rivelerà a voi.
C’è un aspetto particolare che voglio discutere con lei. Molti, o alcuni uomini – intendo maschi – hanno, avevano la concezione che la donna che si concede, proprio per questo, non merita più la loro stima.
E’ vero. Questa concezione, nobile soltanto in apparenza, è molto diffusa in un paese dell’Europa meridionale. L’innamorato disprezza la donna che gli si concede, perché una donna onorata non avrebbe fatto “questo”. In questo stesso paese esiste il detto secondo cui “tutte le donne sono puttane, tranne mia madre: lei è una santa”.
Questo per il figlio. Per amore di completezza, professore Watzlawick, ci sarebbe da aggiungere che il ruolo di fratello e di marito porta a precisare:”Tranne mia sorella e mia moglie!”
Ma c’è anche chi non ha nessuna stima di sé e si ritiene non degno di essere amato.
E’ questo il caso di chi non si ritiene meritevole di amore ed è portato a gettare discredito sulla persona che lo ama. Ella ha qualcosa che non funziona nella sua vita interiore: sarà masochista, sarà nevrotica, sarà morbosamente attratta per ciò che è abietto, sarà, insomma, una persona, di sicuro, patologicamente disturbata.
L’irriducibile sostenitore dell’infelicità troverà, dunque, di che alimentarsi in queste singolari e insolubili complicazioni dell’amore. Egli – come lei afferma - troverà aspetti miserevoli nel comportamento delle persone innamorate: “si dice innamorata di me, perché vuole che io la sposi!”; sia nell’amore in quanto tale. A proposito di quest’ultimo aspetto, mi permetta di ricordare la concezione pessimistica che dell’amore aveva Arthur Schopenhauer:“l’amore è nient’altro che due infelicità che si incontrano, due infelicità che si scambiano ed una terza infelicità che si prepara…Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire, affonda sempre le sue radici nell’istinto sessuale…Se la passione del Petrarca ( per Laura) fosse stata appagata, il suo canto sarebbe ammutolito…” Che cosa possiamo, dunque, consigliare a questo eroe dell’infelicità?
Egli dovrà innamorarsi disperatamente di una persona sposata, di un prete, di una stella del cinema o di una cantante d’opera. In questo modo viaggerà fiducioso e lieto, senza mai arrivare, e, inoltre, si risparmierà il disinganno nel dover constatare che l’altro è eventualmente del tutto disponibile a iniziare una relazione – cosa questa che gli farebbe perdere subito ogni attrattiva.
Lo stesso Schopenhauer, però, afferma che esiste un amore da elogiare ed è quello della pietà, della compassione. L’eros, essendo egoistico e interessato, è un falso amore; ogni puro e sincero amore è pietà, è agàpe, che è disinteressato. Anche lei afferma che l’aiuto disinteressato è un eccellente ideale e trova in se stesso la propria ricompensa. Che cosa può obiettare sulla nobiltà della compassione, dell’amore disinteressato per gli altri l’incallito votato all’infelicità?
La forza del pensiero negativo non ha limiti e si sa che chi cerca trova. Il pessimista scopre dappertutto lo zampino del diavolo. Egli pensa: “Mi comporto così perché voglio meritarmi il paradiso, perché voglio essere ammirato ed elogiato, per curare eventuali disinganni? E’ così semplice smascherare il marciume del mondo!
Certo che la letteratura psicoanalitica dà un notevole contributo al pessimista ad ogni costo, allorquando parla di “sublimazione della libìdo”. I casi li ricorda perfettamente lei: il ginecologo è un voyer; il chirurgo è un sadico mascherato; lo psichiatra vuol fare la parte di Dio; il coraggioso pompiere è in realtà un piromane represso; l’eroico soldato sfoga il suo inconscio impulso suicida, il suo istinto di morte; il poliziotto si occupa dei delitti degli altri per non diventare egli stesso un criminale; il famoso detective ha un malcelato atteggiamento paranoide. E si possono aggiungere i casi del figlio o della figlia che non si sposa per accudire la madre o il padre e che sotto l’amore filiale nasconde il complesso di Edipo o di Elettra, ossia l’amore inconscio per la madre o per il padre; o di chi si vota alla castità per il timore, sempre inconscio, di essere castrato; per l’ignoranza dell’anatomia e fisiologia femminile ( la convinzione della donna bambola, senza sesso) o di quella maschile ( la convinzione dell’uomo bambolotto, senza sesso); o per l’ossessione di commettere atti immondi.
Anche la persona soccorrevole può con il suo comportamento far naufragare un rapporto?
Certo. Immaginiamoci soltanto un rapporto a due fondato principalmente sull’aiuto che uno dei partner dà all’altro. Questo rapporto può fallire o riuscire (anche qui “tertium non datur”). Se fallisce, alla fine la delusione porterà il soccorritore ad abbandonare. Se riesce, il soccorritore abbandonerà lo stesso, perché non è più necessario il suo aiuto . Il rapporto comunque si spezzerà.
Mi pare che soprattutto nelle donne si riscontra questa tendenza a convertire i reietti in modelli di virtù!
Ci sono donne, infatti, che per potersi sacrificare hanno bisogno di uomini problematici e deboli: bevitori, criminali, giocatori. Per realizzare il loro potenziale di infelicità, esse si impegnano a fondo con amore e soccorrevolezza, incuranti dei comportamenti sempre uguali degli uomini. Per questo tipo di donna non va bene un uomo relativamente indipendente, perché egli non avrebbe bisogno di aiuto costante. Per lei non va bene il principio che una mano lava l’altra. L’uomo deve essere sempre debole e bisognoso di essere redento.
E, quindi, non si dovrà mai arrivare alla redenzione, altrimenti lo scopo finisce e il rapporto si rompe. Viaggiare, dunque, ma mai arrivare alla meta!
Lei afferma che nella teoria della comunicazione questo modello si chiama “collusione”. Ce ne vuole spiegare il significato?
Immaginiamoci una madre senza figlio, un medico senza ammalati, un capo senza Stato. Sarebbero soltanto ombre, uomini provvisori. Ognuno di noi ha un’immagine di se stesso e nel rapporto con il partner tendiamo a farci confermare e ratificare tale immagine. Solo attraverso quel partner che svolge nei nostri confronti un tale ruolo, noi siamo “veramente”; senza di lui siamo abbandonati ai nostri sogni, e i sogni, si sa, sono bolle di sapone.
Per semplificare, il masochista ha bisogno del sadico. Ma anche il giudice ha bisogno dei delinquenti, così come lo psichiatra ha bisogno dei pazzi, lo psicologo dei disturbati psichici, e così via.
E’ così. Anche l’altro partner si adatta al ruolo, proprio perché egli stesso per esistere “veramente” vuole svolgere quel ruolo. Ogni rapporto di collusione finisce immancabilmente nell’assurdità del “Sii spontaneo!”
Possiamo pensare al rapporto di un cliente con una prostituta!
Il cliente desidera naturalmente che la donna gli si dia non soltanto per i soldi, ma anche perché lo vuole “veramente”. La cortigiana di talento riesce benissimo a suscitare e a mantenere questa illusione. Praticanti dotate di meno abilità falliscono, perché portano il cliente al disinganno, al “doposbornia”. Anche nelle relazioni omosessuali esiste il pericolo del disinganno, perché il desiderio è quello di avere un rapporto con un uomo “vero”, ma purtroppo si constata che l’altro, a sua volta, è “soltanto” un omosessuale.
Il disinganno può verificarsi anche nel comportamento del “latin lover”?
Certo, se si pensa che i comportamenti delle donne in America latina, negli Stati Uniti, in Scandinavia e in Europa sono diversi e sono cambiati nel corso dei decenni. Il “latin lover” che fosse convinto di ottenere sempre successo con lo stesso comportamento, si troverebbe ben presto a fare i conti con il disinganno, perché non troverebbe sempre la donna giusta pronta ad adattarsi alle sue esigenze.
Questa considerazione si può estendere anche al comportamento nostro nei confronti degli stranieri e degli stranieri nei confronti del paese ospitante. Nessuno può lasciarsi guidare dai pregiudizi, perché, se lo fa, cade in comportamenti insensati, stupidi.
Quasi tutti noi ci comportiamo, lasciandoci guidare dal presupposto che il nostro mondo “è” il vero mondo; insensati, falsi, illusori, stravaganti sono i mondi degli altri. Se siamo ostinatamente convinti che noi abbiamo ragione e gli altri sempre torto, le tensioni tra locali e stranieri non si attenueranno mai, anzi aumenteranno di intensità. Anche nel rapporto tra partner bisogna smettere di essere ossessionati dall’idea di dover battere il partner per non essere battuti. In questo modo si può vincere insieme e si può perfino vivere in armonia con l’avversario decisivo, che è la vita.
Come possiamo chiudere questa conversazione?
Con le stesse parole dell’inizio. Un personaggio dei “Demoni” di Dostoevskij dice: “Tutto è buono…Tutto. L’uomo è infelice, perché non sa di essere felice. Soltanto per questo…Chi lo comprende sarà subito felice, immediatamente, nello stesso istante…”
Grazie per la cortesia.
Biagio Osvaldo Severini
( Paul Watzlawick “Istruzioni per rendersi infelici”, Feltrinelli. Il professore è morto nel 2007 all’età di 85 anni)
Un assaggio di Bianca come la Neve
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“Bianca come la neve”, disse mio padre, “così la voglio, questa figlia del desiderio.”
Mia madre cuciva accanto alla finestra, si punse, gocce di sangue bagnarono il gelido cuscino sul davanzale. Si voltò allora verso mio padre, posò il lavoro, gli tese quella mano diafana che già presagiva la sua morte: “Sì, bianca, come la neve”, disse col suo molle sorriso, “ma anche rossa, come il sangue. Sarà nostra, sarà parte di me e di te, sarà l’impronta del nostro amore.”
Nacqui con la pelle trasparente, vene blu di sangue nobile e labbra vermiglie.
Le donne che assistettero al parto sorrisero, “bella”, dissero, “questa bambina.”
Mia madre mi mise fra le mani il rosario che padre Bernardu le aveva dato, fece il segno della croce sulla mia fronte. “Che Dio ti protegga, figlia del nostro amore.”
Parla Radu Florescu.
Fu quando lei si punse ed io mi voltai. Vidi il sangue sul davanzale. Tre gocce che spiccavano sulla neve candida, sul nero dell’ebano. Bianca come la neve, nera come l’ebano, più bella di tua madre, più bella di tutti, più desiderabile e desiderata, Bianca, figlia mia.
Mia madre mi portava con sé nelle visite in paese. Entravamo, casa per casa, lei sempre bella ed elegante. Chinando la testa per varcare le povere soglie, un poco tossiva ed il suo passo era stanco. Non ci badavo, perché, “bella bambina”, mi diceva la gente, “occhi come il fondo del lago.”
Scoprii in quei giorni di essere bella, ma vidi anche bambini vestiti di stracci in mezzo alla neve, bocche sdentate, gambe rattrappite e pelli deturpate dal vaiolo. “Non tutti hanno pane in tavola”, diceva mia madre. M’insegnava ad avere pietà di chi non era fortunato come noi. “Bianca”, ripeteva, “noi Florescu abbiamo da secoli la responsabilità di questa gente”. Gli stivaletti sporchi di letame fino alla caviglia, il visone inzaccherato di fango, mi tendeva la mano, io stringevo le sue unghie come mandorle rosa, guardavo nel fondo degli occhi uguali ai miei, e sentivo di amarla perché era buona.
L’ha detto anche padre Bernardu che mia madre era buona, “una donna pietosa”, ha detto, “una figlia amata da Dio. L’amava tanto che l’ha voluta accanto.”
Dio sceglie per sé i più puri, quelli come me li lascia qui, per sempre.
Parla padre Bernardu.
Dio vede e provvede, Bianca, Dio ha a cuore la tua anima.
Tua madre si confessò a me poco prima che tu nascessi. “Padre Bernardu,” mi disse, “di giorno ero la contessa pietosa, che visitava le case dei poveri, ma di notte bevevo latte di lupa per concepire. Il desiderio, padre, era più forte della paura. Quando mi sono punta, quel giorno mentre cucivo, il sangue mi chiamava dal davanzale. Ma oggi tremo per la mia creatura.”
Pregai con lei, poi le misi fra le mani il mio rosario. “Dallo al bambino o alla bambina che nascerà.”
“Sarà una femmina, padre e, attraverso lei, io non morirò”
Ma a non morire sei stata tu, Bianca.
Mancava l’odore del pane, il mattino che trovarono mia madre morta nel letto. Aprii gli occhi, l’odore non c’era, e la pelle mi s’increspò di un brivido lungo anche a primavera. Lei non morì col buio e col freddo, morì all’alba, accolta dal sole che le somigliava. Fuori della finestra cantavano gli uccelli.
Mio padre pianse nella sua stanza e non lo vidi fino al giorno del funerale. La pioggia m’inzuppava il pellicciotto, me lo faceva pesare addosso, non capivo più se era il fardello del pelo intriso d’acqua o l’angoscia ad opprimermi.
Mio padre non ha mai saputo che gli ho disobbedito, che sono entrata nella camera proibita dove, mi dissero, mia madre dormiva e non si poteva disturbare. La morte non è dolce come ci vogliono far credere. Quando la vidi, contornata da ceri ardenti, mia madre era già come creta dilavata dall’acqua, come cenere grigia, come vetro senza colore. Era un guscio vuoto, anima e vita svaporate in quel primo sole che l’aveva portata via.
“Io non morirò”, giurai. E forse fu in quell’istante che il mio destino si compì, forse Dio mi ascoltò.
Calarono mia madre nella fossa, la terra che scendeva giù in rivoli scuri, i fiori che si sfarinavano sul legno. C’erano tutti al funerale. Gente ricca ed elegante, i Badescu e i Visnic, gli Tsepes, persino un emissario del re, e gente povera, col maialino alle calcagna, con i piedi gelati nell’erba acquitrinosa del cimitero.
Goran, terzo marchese Badescu in linea di successione, mi fissava da dietro le gambe di suo padre, la zazzera nera incollata alla fronte, le labbra imbronciate. Avevo giocato con lui quando andavamo in visita al castello sulla collina.
Io guardavo le facce e cercavo il viso di mia madre, lo ricostruivo dentro, come ho fatto da allora ogni giorno della mia vita. Volevo star sola ed insieme volevo che la gente si accorgesse di me. Cercavo gli occhi di mio padre ma li vedevo lontani, vedevo più rughe sulla sua fronte. “Madre”, chiamavo in silenzio, “dove ti potrò raggiungere?”
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Bianca come la Neve, Libro di Patrizia Poli - - Narrativa - ilmiolibro.it
Bianca come la Neve, di Patrizia Poli Narrativa 76 Due racconti fantastici, molto diversi fra loro, accumunati dal bisogno di riscatto morale dei titanici ed indimenticabili protagonisti.
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Sezione primavera: Ascanio
Un'avventura fantastica
di Ascanio Panarese (8 anni)
Un tempo un ragazzo di nome Oliver viveva con sua madre Delyne, con suo padre Cristopher e con suo fratello minore Jonathan. Oliver era un contadinello così povero da non poter neanche andare a scuola. I suoi occhi erano così azzurri e così brillanti che sembravano gemme illuminate dal sole; i suoi capelli invece erano più neri dei carboni. Era magrissimo dal momento che non aveva un soldo e doveva nutrirsi con il poco formaggio che la famiglia produceva, era smilzo e quasi gli si vedeva la gabbia toracica, ma con quel poco che aveva era comunque felice. La mamma era molto brava nel cucire i vestiti e con un po’ di lana riusciva a creare gli unici vestiti che lei, il marito e i figli portassero. Il padre, per quanto possa sembrare strano, era forte, robusto e veloce, in più alcune volte aveva mandato via gli uomini delle vicinanze che avevano cercato di rapire Oliver e suo fratello. Infine c’era il fratellino -che dire- era magro, basso e un po’ ritardato, ma, nonostante la sua dura-falsa vita, in cuor suo nascondeva un segreto: era colui che avrebbe guidato “il fratello” sino ai monti Megalitici per sconfiggere il mago che aveva reso suoi sudditi e schiavi i concittadini di Oliver: il suo nome era Perfyd. Ma una sera gli “uomini-rapitori” rapirono il padre e la madre di Oliver, e questi insieme al falso fratello (che però lui ancora non sapeva che fosse tale) scapparono in una campagna vicina. Ora, dovete sapere che quella campagna dove i due si rifugiarono era molto nota, poiché c’è chi sosteneva di aver visto una creatura mastodontica, dagli occhi rosso fuoco, una lingua appuntita e biforcuta come quella di un serpente e zampe robuste con uno spesso strato di grasso e pelliccia, con unghie che sfioravano il metro di lunghezza. Oliver ne udì il verso simile al latrato di un cane e in quel momento a Jonathan si illuminarono gli occhi e, da sotto la sua falsa pelle di umano, uscì fuori una magnifica e splendida creatura che volteggiava nel cielo come una farfalla appena uscita dal bozzolo, emanava un calore piacevole in quella fredda notte e la sua luce poteva abbagliare più di mille persone contemporaneamente perché il suo corpo illuminava come mille soli. Oliver sfortunatamente non riuscì a vederlo, perché dopo un attimo dalla trasformazione di Ulixe (il vero nome del “fratello”) svenne. Bisogna sapere che il mostro che ho descritto prima esisteva veramente, e Ulixe lo sapeva, infatti era stato proprio il mostro a strappargli dal petto il “cor incantesimus”, ovvero l’organo che gli permetteva di praticare incantesimi che, come avrete capito, non poteva più praticare. Al suo risveglio Oliver si ritrovò in un mondo pieno, zeppo fino all’ultimo millimetro di creature come Ulixe. Questi, appena Oliver si alzò, gli spiegò che lui era l’unico in grado di sconfiggere Perfyd; gli spiegò anche che gli uomini-rapitori erano complici di Perfyd e che avevano rapito i loro genitori perché erano della stessa razza di Ulixe. I compaesani, anche loro della stessa razza, si erano sottomessi a Perfyd come un coniglio si sottomette alla volpe. Ulixe gli disse che i Celestien, cioè la razza a cui apparteneva, erano stati sottomessi così facilmente da Perfyd, poiché a loro mancavano due cose che agli umani non mancavano di sicuro: il coraggio e lo spirito d’avventura. Oliver fortunatamente era sia umano che Celestien. Ovviamente col suo cuore onesto e leale accettò di affrontare Perfyd. Così dopo un lungo viaggio attraverso il “canyon de la muerte” e dopo aver attraversato “il passo del pendio roccioso”, arrivò a destinazione: “la tierra de mezzo”. Questa era desolata, disseminata di vulcani che fumavano ceneri color pece, scagliavano a terra detriti simili ad asteroidi. Questa parte remota del mondo fantastico era abitata da hobbit neri, troll con mazze lunghe un metro pronti a fare fuori chiunque avesse provato a rubare la pietra (dopo spiegherò cos’è) e da “mannaris canin” come la creatura della campagna, la stessa con occhi rossi e unghie lunghissime. Ulixe, che conosceva quella terra meglio dei suoi bucorim, cioè fessure sulle gambe dei Celestien usate per deporvi oggetti piccoli, indicò a Oliver la strada per il castello e il Celestien, fifone qual era, ritornò in terra sua. Oliver si avviò e ovviamente sapeva che la pietra non era altro che il cuore degli incantesimi di Ulixe, la fonte della tierra de mezzo. S’incamminò verso il castello alto e maestoso, con torri che superavano i duecento metri, ed entrò. Una volta dentro s’incamminò verso la sala del trono dove, come pensava sin dall’inizio, era seduto sulla poltrona in diamante Perfyd, dalla lunga barba nera e dal viso severo. Subito si accorse della pietra posata su un piatto d’oro abbagliante. Immediatamente la prese e con la pietra di Ulixe e con la sua divenne addirittura più forte di Perfyd e dopo aver formulato un “divisocorpum” uccise Perfyd e con questo crollò il suo maestoso impero che per anni era stato considerato la città dei mondi del regno fantastico, come da noi, tanto tempo fa, Roma fu l’impero più forte. Così i genitori di Oliver vollero restare nel mondo magico e con essi restarono Ulixe e Oliver, la cui vita da un giorno all’altro cambiò e senza nessun lungo preavviso salvò il regno magico e la nostra tanto amata Terra.
Ma un altro oscuro mistero stava per sorgere…
Ascanio Panarese
Istituto comprensivo “G. Mazzini” classe V A
Benevento, anno scolastico 2012-2013
Un assaggio de "Il volo del Serpedrago"
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Una ferita nella roccia rossa. Una bocca color ocra aperta nell’azzurro di un cielo che non conosce nuvole: la catena degli Ohnigah che si spacca in due prima di scendere sulla pietraia, i monti scavati dal letto secco dell’Egelloch. Di qua e di là del greto asciutto, il palmeto, nastro di smeraldo in un universo di terra rossa.
È tutto quello che Ahnu conosce del mondo, solo la sua oasi fra i monti del deserto, una piccola sorgente racchiusa nel cuore del palmeto. Durante i lunghi e infuocati mesi estivi, quella è tutta la sua acqua, torbida e fangosa, ma pur sempre acqua. A turno, un uomo fa la guardia alla pozza, da cui si possono attingere solo pochi secchi il giorno, tre per gli Ohnigah e uno per i pastori Somiah.
L’uomo che l’ha allevata le ha detto che suo padre è morto in battaglia, affidando la a lui, misero pastore Somiah fra i più poveri del villaggio. Ogni giorno l’uomo silenzioso porta le sue pecore ai margini dell’oasi. Camminano a testa china, brucando radi fili d’erba nella polvere. Il cammello si spinge un poco più lontano e col naso sposta i sassi per strappare fili d’erba secca, seguito dallo sguardo stanco, ma mai distratto, del pastore, che rosicchia datteri sputando noccioli nella sabbia.
Ahnu rimane tutto il giorno da sola nella capanna, un muro tondo di paglia e fango coperto da foglie di palma. Ogni mattina attinge il suo secchio alla pozza, cercando di non versarne nemmeno una goccia. Le sue mani reggono a stento il recipiente, mentre le altre bambine, dalla pelle lucida e scura, si divertono a spingerla. Lei cerca di non perdere l’equilibrio, fin quando vede, impotente, l’acqua oscillare nel secchio, debordare, rovesciarsi sulla polvere assetata. Là, dove prima si era creato un vortice di sabbia bagnata, resta solo una macchia umida. Lei alza gli occhi, li fissa in quelli delle altre bambine e una furia gelida le monta dentro. Vorrebbe ucciderle, stringere le mani attorno ai colli, far strabuzzare gli occhi bianchi e malevoli. Invece torna a casa col secchio vuoto. Sa che lui la sgriderà, ma non piange. Muta e ostinata va a raccogliere i datteri, poi prepara i formaggi che racchiude in forme di paglia. Un velo bianco di polvere ricopre tutte le cose e spicca sulla pelle nera dei bambini, le cui narici sono incrostate di mosche. Le madri sanno che una prima crosta d’insetti morti protegge i figli dall’assalto di quelli vivi. Ahnu cerca di difendere i suoi formaggi sventolando foglie di palma, mentre i bambini si rotolano nella sabbia ridendo e i vecchi chiacchierano accosciati.
A sera, quando il sole svapora dietro le palme, intreccia cesti in solitudine, davanti alla porta della capanna, sperando che l’uomo che l’ha allevata torni più tardi possibile o non torni mai più.
La fiamma guizza con lunghe lingue giallo arancio dalla terra battuta, il chiarore si diffonde a illuminare i muri dell’immensa fortezza. Una sentinella accovacciata in un angolo fissa distratta il bagliore.
Nel cuore della fiamma, una bimba intreccia cesti di palma. Ha i capelli chiari, i piedi avvolti in pelli di cammello.
“Vai da lei.”
La voce echeggia nella volta smisurata, la figura ammantata scompare in un buio corridoio laterale. La sentinella si alza e richiude la porta di legno che il suo signore ha attraversato.
Davanti alla fiamma rimane solo una strana creatura, che guarda perplessa l’immagine femminile che va dissolvendosi.
L’uomo raduna le pecore nel recinto dietro la capanna e lega la cammella sotto una palma. Ahnu lascia il cesto e, indifferente, entra in casa. Può vederla china sulle ciotole di coccio e sui piccoli canestri di datteri marroni. Sta crescendo, pensa, troppo in fretta.
Questa sera si sente più stanco del solito. E’ diventato vecchio senza mai riuscire a farsi amare da lei. Hanno vissuto insieme da quando la donna dalla pelle come la luna è morta, lasciando nelle sue braccia una bambina pallida, con gli occhi indagatori spalancati su un mondo ostile. L’ha chiamata Ahnu, dattero, un nome comune fra le raccoglitrici del palmeto, ed è cresciuta dura come una pietra e ostinata come un cammello riottoso. Meglio così, mille volte meglio così, meglio che lo chiami solo pastore, che non gli parli, che non senta la sua mancanza quando è fuori col gregge.
L’uomo mangia la sua cena a base di datteri e formaggio, poi si distende sulla coperta. Sente gli occhi pesanti e le membra indolenzite, ma il sonno tarda a venire. Il lavoro gli sembra sempre più faticoso, il freddo notturno l’ha arrugginito e la sua barba è bianca, la pozza dei suoi giorni sta per inaridirsi e la sabbia coprirà presto le sue ossa, ne è certo com’è certo che ritroverà il sole al risveglio e le palme polverose attorno alla capanna.
Non può lasciare Ahnu sola in questo mondo, si ripete rigirandosi sul duro terreno, deve assolutamente prendere una decisione, prima che sia troppo tardi.
La brezza si è sopita e il sole brucia già impietoso una metà del cielo. Le mosche stanno arrivando a nugoli attorno ai formaggi col loro sconcio ronzio. Ahnu modella un vaso d’argilla, le bianche mani affondate nel verde putrescente dell’antimonio di cui è pregna la terra delle sue valli. Pensa alla vita, sa di essere sola al mondo, sa che non sarà mai come le altre bambine. Non ha chiesto all’uomo che l’ha allevata perché la sua pelle sia così bianca, perché i suoi capelli siano chiari come l’erba inaridita, ma ha la certezza di non piacere a nessuno. Lo sente da come la guardano, da come bisbigliano, da come si danno di gomito quando lui le è vicino e da come, poi, la aggrediscono se lui non c’è. Le donne fanno strani segni di scongiuro al suo passaggio. I bambini tirano fuori la lingua, i vecchi la osservano da lontano. Nessuno la vuole accanto e lei non vuole nessuno accanto a sé. La solitudine un tempo subita è ora la sua compagna più fida.
Alza la testa perché qualcosa la sta osservando. Due occhi brillano pallidi fra il verde delle palme. Ahnu s’irrigidisce, scatta in piedi, indietreggia. E’ ancora piccola ma ha imparato a stare all’erta, glielo ha insegnato l’uomo che l’ha allevata, con lo sguardo, con la postura del corpo, con sibili e cenni.
Fra le foglie spunta un muso. L’essere somiglia a un rettile, ma ha piccole ali appena accennate sulla schiena e squame traslucide come scaglie di pesce. Le parla.
“Ho delle notizie per te”, lo dice sottovoce, lo dice attraverso una bocca coperta di denti aguzzi, e intanto muove la coda come un felino nervoso, “il mio padrone annuncia che avrai catene di gialla ambra, nerofumo per gli occhi e fiori d’ibisco per i capelli.”
Ahnu ha finito d’indietreggiare, ora non c’è più spazio, si appoggia al tronco di una palma, ha troppe domande che le urlano in gola. Ma le piccole ali sbattono, la creatura spicca un volo basso, radente, che scortica tronchi e fa cadere datteri a terra. Ancora non si è dileguata e già lei si chiede se non c’è un’altra vita fuori dall’orlo del palmeto, se essa scorra solo sui ritmi dell’Egelloch e sulla nascita degli agnelli. Annusa le mani che sanno di caglio, si domanda cos’è questo dolore che le esplode dentro. Della creatura non c’è più traccia, rimane solo la calura abbacinante dell’aia polverosa, il fetore dei datteri che marciscono al sole e gli escrementi di uomini e greggi.
Nel cuore della fortezza lo Spirito del Deserto annuisce compiaciuto. L’unica persona al mondo in grado di fare ciò che desidera, gli sta regalando la sua anima e la sua volontà.
L’ha svegliata quando i monti di argilla purpurea s’infuocano dei raggi del primo sole. “Sento scemare le mie forze”, le ha detto. L’ha visto rabbrividire nel caldo, come se una mano fredda gli percorresse le membra affaticate. “Sali sul cammello”, le ha ordinato. Non è mai brutale, ma nemmeno gentile.
“Vuoi vendermi, pastore?”
“No.”
Ora stanno uscendo dal palmeto. “Lui la porta via”, sente bisbigliare dalle donne che riempiono i secchi. Hanno sguardi ottusi e cattivi fissi su di lei. Ai lati del sentiero che conduce fuori dell’oasi si profilano i tronchi ruvidi delle palme. Il terreno, cosparso di noccioli rinsecchiti ed escrementi, esala un odore sgradevole.
L’universo è piatto e sempre uguale a se stesso, pensa Ahnu.
Poi, però, è fuori.
La luce del mattino la abbaglia, tanto forte è il riverbero da impedirle di guardare. Eppure solleva la testa, incredula, non più protetta dal fogliame. L’intenso cobalto del cielo si rovescia su di lei, che ha sempre visto la volta a spicchi, a barbagli diurni e notturni. Pensa di annegare e invece sta solo guardando il deserto di là del palmeto: un’immensa distesa sabbiosa, punteggiata di pietre. Attorno a lei, a perdita d’occhio, il confine del nulla: l’orizzonte dei monti che tremolano nell’azzurro, con le cime vermiglie battute dal vento. Per la prima volta, intuisce cosa possa essere la libertà.
Il pastore guida il cammello lungo il greto asciutto dell’Egelloch. Rade pozze stagnano ai bordi del fondo argilloso, contornate da cespugli avidi d’acqua. Ora può vedere da fuori il palmeto, sotto le cui fronde ha vissuto, riparata e insieme soffocata: è un nastro verde, uniforme e lucente.
All’improvviso l’uomo, che sta seguendo un percorso noto a lui solo, svolta e si avvia in direzione delle montagne. Qualche rada kasba fortificata brilla scarlatta nel sole. I monti Ohnigah appaiono vicini nella grande distesa e le cime formano una catena ininterrotta. Il pastore tace, concentrato nello sforzo di camminare. La pista segnata da pietre appuntite comincia a inerpicarsi lungo un pendio, il cammino si fa più ripido, l’uomo ansima, tossisce, sputa. Lei è indifferente alla sua sofferenza, mentre vanno avanti nella calura insopportabile. Il sudore svapora in fretta, lasciando la pelle secca, rovente. La sete non si placa, le gambe si appiccicano al pelo sporco del cammello, i parassiti addentano la carne.
Rosicchiano qualche dattero e succhiano un po’ d’acqua strada facendo, senza fermarsi.
Dopo alcune ore, Ahnu ha la schiena a pezzi, e l’uomo appare stremato. Sa che domandare a lui è inutile, non ha risposto ai suoi perché di bambina, forse non li ha nemmeno mai ascoltati. Allora parla con se stessa, come ha imparato a fare nei lunghi giorni di solitudine, cerca il motivo di quel viaggio, vuol tornare indietro con la memoria, ma non ha ricordi. Non sa chi fossero suo padre e sua madre, non conosce altri volti che quelli delle persone che vivono nell’oasi forse lasciata per sempre. Ripensa alla creatura con le piccole ali e i denti affilati. L’inquietudine è una lama che trafigge il petto.
Infine le ombre si allungano, giù nella valle, e le pareti dei monti si tingono di un riflesso violaceo. L’uomo acconsente a una breve sosta, durante la quale bevono ancora. La gola è riarsa, le parole, se uscissero, sarebbero secche di polvere, ma non escono, nessuno dei due parla. Il nudo versante su cui si sono arrampicati è ormai tutto in ombra, qualche folata di brezza serale ghiaccia il sudore sulle schiene rotte e incolla i vestiti addosso. L’uomo ora sembra diventato vecchio, l’affanno gl’impedisce di respirare. “Riprendiamo il cammino”, dice, “l’oscurità qui cala repentina, come se i fuochi dei palmeti cessassero di ardere tutti insieme.” Così ripartono, lei ciondolante, lui con la schiena curva e una mano abbrancata al collo peloso del cammello.
D’un tratto Ahnu ha paura delle ombre, delle montagne cupe ed echeggianti, dei serpenti che scivolano fra le zampe del cammello, dei sassi che rotolano giù per il burrone. “Pastore, così ti ucciderai!” No, è per lui che ha paura. Lui è come le rocce, è come la sorgente al centro dell’oasi: non lo ama ma non può immaginare che muoia. Spera che la salita finisca presto, che lui possa riposare.
Gli ultimi bagliori si stanno spegnendo sulle creste degli Ohnigah quando Ahnu, insonnolita e vacillante, alza la testa e guarda in fondo al grigio sentiero di sassi che stanno percorrendo. Un po’ più in basso della cima si stende un vasto altopiano, che s’incunea come una valle fra le vette. Davanti a loro, a ridosso della parete rocciosa, dove il sentiero si stempera nel pianoro, si vede una casupola di pietre scure.
Un filo di fumo esce dal tetto.
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Bianca come la Neve, Libro di Patrizia Poli - - Narrativa - ilmiolibro.it
Bianca come la Neve, di Patrizia Poli Narrativa 76 Due racconti fantastici, molto diversi fra loro, accumunati dal bisogno di riscatto morale dei titanici ed indimenticabili protagonisti.
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Sezione primavera: Ascanio
Trappola mortale
di Ascanio Panarese (8 anni)
Richard Turner era un famoso astronauta che aveva compiuto ben tre viaggi nella stazione spaziale internazionale. Egli fin da piccolo aveva avuto molta passione per lo spazio e tutto ciò che lo riguardava. Si era laureato in tecnologia spaziale e lavorava presso la NASA: la più grande base spaziale.
Un giorno, mentre lavorava allo studio di una tecnologia aliena, ricevette un messaggio dal colonnello Stevens via telegramma che diceva così: “Rapito il caporal maggiore dei Marines presso l’area 51”.
Richard allora ispezionò in lungo e in largo l’area 51 e scoprì una cosa che lo sconvolse: era una sfera di quasi un metro di altezza, al cui interno riposava nientedimeno che un extraterrestre: una creatura non più alta di una sedia, interamente circondata da un materiale abbastanza robusto e trasparente, non ancora scoperto sulla terra; questo era l’inizio di un viaggio ai confini del nostro Sistema Solare e forse addirittura fino alla parte più estrema dello stesso spazio.
Tornato in laboratorio con la gigantesca sfera, Richard notò che più essa si avvicinava alla tecnologia aliena che lui stava studiando, più la sfera s’illuminava. La notte Richard si svegliò e notò un oggetto non identificato volare al disopra di casa sua. Uscì e … si rese conto di trovarsi a bordo di una nave aliena. Ai lati dell’astronave vi erano collocate capsule contenenti: robot, cyborg, androidi e … il caporal maggiore dei Marines.
Richard capì subito che gli alieni volevano far diventare il caporale un mutante per scopi interamente loro e del loro pianeta: Saturno. Corse allora verso la capsula che conteneva il caporale e invano cercò di rompere il vetro. La forma di vita che aveva un’intelligenza superiore a quella umana lo fermò e lo mise in sala di isolamento c-23. Qui dentro c’erano due cyborg siglati d-30 e z-23
Ad un certo punto i due cyborg lo condussero verso un muro su cui era appoggiato un congegno spazio-temporale in cui i cyborg lanciarono Richard e digitarono l’anno 2125. L’uomo si ritrovò in un’era in cui gli extraterrestri avrebbero sottomesso gli uomini.
Richard ritornò nella sua era e con l’aiuto dei cyborg escogitò un piano per far schiantare l’astronave aliena su Giove. Il primo giorno disegnarono il progetto su un foglio terrestre e lo modificarono più di trenta volte. Il secondo giorno si procurarono più di cento materiali provenienti da più galassie intorno a loro. Il terzo giorno poterono finalmente realizzare il progetto.
Dopo un mese di prove si decisero a piazzare la trappola e ad attuare il piano. Gli alieni ci cascarono e andarono a schiantarsi contro Giove. Richard, il caporale e i cyborg sganciarono la navicella di supporto e fecero ritorno alla Terra. Arrivati sulla terra, si recarono subito in laboratorio e, preso il cannone interstellare, rispedirono la sfera nello spazio sino a Saturno.
Richard e il caporale tornarono alla NASA e, per quanto riguarda i cyborg, essi decisero di arruolarsi nell’esercito americano e aiutare la NASA nelle ricerche spaziali svelando la formula del trasporto spazio-temporale.
L'antico cimitero degli inglesi
L’associazione Livorno delle Nazioni ha presentato il lavoro svolto per la conservazione del patrimonio culturale e monumentale della nostra città e, in particolare, la riscoperta e riqualificazione dell’antico cimitero degli inglesi in via Verdi. L’associazione è attualmente formata da 5 persone: Sarah Thompson, Matteo Giunti, Francesco Ceccarini, Lisa Lillie e Stefano Ceccarini. S’ispira alla Livorno delle Nazioni, comunità multietnica nata dalle leggi Livornine, promulgate dal Granduca Ferdinando I° a partire dal 1590. Per favorire l’economia e il ripopolamento di una zona malsana e malarica, si permise alle comunità ebraiche prima, e a tutte le altre poi, di stabilirsi in città. Lo scopo principale era attirare le ricche comunità sefardite. La Santa Inquisizione di Pisa, tuttavia, non era lontana e chi professava un’altra fede, anche se protetto da leggi speciali, doveva farlo con cautela e senza ostentazione. Erano proibiti i luoghi di culto non cattolici e anche i cimiteri. Prima della costruzione del cimitero, chi moriva straniero nella nostra terra finiva seppellito fuori le mura, insieme agli animali. Gli studi compiuti dall’Associazione hanno portato a nuove scoperte e a ribaltare molte teorie. La data scritta sul cartello in Via Verdi è sbagliata di almeno cento anni. Si è scoperto a Londra il testamento di un mercante inglese redatto nel 1643. Egli lascia 150 sterline per l’acquisto di un terreno di sepoltura per la nazione inglese a Livorno. Risale a tre anni dopo, 1646, la prima e più antica sepoltura, nell’angolo in alto a sinistra del cimitero, appartenente, guarda caso, a Daniel Oxenbridge, un amico di chi ha redatto il testamento. Quello di Via Verdi è il più antico cimitero inglese d’Italia, il più antico cimitero di Livorno e, addirittura, il più antico cimitero inglese del mediterraneo. Ha accolto 450 tombe dal 1646 al 1840 su mezzo ettaro di terreno. La sua importanza storica è notevolissima. Nel 1735, in una mappa, è già definito cimitero vecchio. L’autorizzazione ufficiale alle sepolture arrivò soltanto nel 1737, da allora, tutti coloro di religione non cattolica che si trovavano a morire nelle vicinanze venivano sotterrati qui, anche se non abitavano a Livorno. Era l’unico luogo in Italia in cui potevano essere interrati i protestanti di tutta l’Europa, ugonotti, valdesi, svedesi, svizzeri etc. L’ingresso principale è a U, prima della guerra c’erano un muretto basso e una cancellata ora distrutti. Nel periodo della sua costruzione il cimitero era vicino a postazioni militari e per questo motivo non poteva avere muri né monumenti troppo alti. Farsi una tomba nel cimitero inglese era costoso, almeno quanto il rimpatrio della salma, e solo i più abbienti potevano permetterselo. Principalmente si tratta di ricchi mercanti con le loro famiglie. Si è notato un raggruppamento di sepolture per corporazioni. La tomba più famosa e più visitata è quella dello scrittore scozzese Tobias Smollett, (1721- 1771) autore, fra l’altro, del famoso "The Expedition of Humphry Clinker". Smollett abitava a Montenero, morì nel 71, anche se sulla lapide è scritto erroneamente 73. La sua tomba non si differenzia da molte altre simili, ricorda un obelisco, secondo la moda dell’egittologia che imperversò dopo le spedizioni napoleoniche in Africa. Adesso è estremamente spoglia, sono state trafugate le parti in metallo, la sfera di marmo sulla sommità e le altre quattro sfere laterali. I turisti, anche quelli del settecento, spogliavano la tomba per portarsi a casa un pezzo di marmo come ricordo. È sepolto qui anche l’esploratore William Broughton, la sua tomba è stata ritrovata sopra un’altra. Durante la seconda guerra mondiale, infatti, il cimitero fu devastato dai bombardamenti. Due fotografie rinvenute a Londra lo dimostrano. Alla fine della guerra, le tombe bombardate furono malamente e frettolosamente ricomposte con pezzi dell’una aggregati all’altra ed è difficile ormai stabilire cosa appartiene a chi. Delle 130 tombe scomparse l’Associazione è riuscita fino a oggi a rintracciarne 30. Sono sepolti in questo cimitero molti appartenenti alla famiglia Lefroy, a partire dal nonno Antonio. I Lefroy sono noti perché ne parla Jane Austen che ha avuto uno sfortunato amore con uno dei discendenti. Troviamo anche: il barone Von Stosch, personaggio controverso, spia del governo inglese, amico dell’archeologo Winckelmann, che dette origine alla prima setta massonica del settecento; Francis Horner, parlamentare inglese amico di Ugo Foscolo; il padre di Vieusseux e un altro suo parente, Pietro Senn, fondatore della Camera di Commercio e della ferrovia Leopolda; John Wood, capitano del Peregrine, vascello protagonista della battaglia di Livorno del 1653, fra inglesi e olandesi; il tredicenne William Thompson, marinaio per il quale qualcuno ha voluto un destino diverso dalla sepoltura in mare; Louisa Pitt, amante di William Thompson Backford (1760 – 1844) autore del romanzo gotico Vathec; Mrs Mason, ovvero Margaret King, scrittrice e medico, pupilla di Mary Wollstonecraft, amica della di lei figlia Mary Shelley e del marito di quest’ultima Percy Bysshe Shelley, la quale aprì a Pisa un salotto frequentato dalle migliori menti dell’epoca. Un discorso a parte riguarda la tomba di William Magee Seton, marito di Elisabeth Seton, santa americana. Il parroco della parrocchia omonima è intervenuto nel 2004 con un escavatore in un terreno che non permette l’ingresso di tali mezzi - al punto che i volontari dell’associazione sono costretti a tagliare i rami pericolanti a mano. L’intervento di esumazione delle spoglie del marito di Elisabeth ha danneggiato gravemente la tomba. Da notare che William Seton era protestante e non cattolico. Il cimitero, come spiega Lisa Lillie, dottoranda all’università di Washington, non era pianificato perché le persone potessero passarvi del tempo, come nei grandi cimiteri di Pere Lachaise a Parigi o Highgate a Londra. Vi si notano tombe a prisma triangolare, di forma molto simile a quelle riscontrabili nei cimiteri ebraici in Olanda e nelle comunità sefardite, a conferma di un rapporto privilegiato fra la religione ebraica e quella protestante, entrambe basate sull’esegesi diretta dell’Antico Testamento. Le tombe dei cimiteri inglesi della Tunisia e della Grecia sono invece diverse. Oltre alla forma a prisma triangolare, si trovano anche lastre e monumenti misti a colonna, a obelisco e altri. I simboli iscritti sulle tombe diventano più complessi e più belli col procedere degli anni, man mano che dal seicento barocco si procede verso lo stile neoclassico della fine del settecento. Si hanno riferimenti alla dance macabre, secondo una moda venuta in auge dopo la peste del trecento, alla fenice, al melograno - collegato al mito di Persefone - all’ouroborus, il serpente che si mangia la coda, alle torce, alle mani intrecciate. L’Associazione ha operato il censimento e il mappaggio delle tombe, sia quelle in loco, sia quelle riscontrabili solo sui documenti, elaborando un database integrato con gli studi di tutta Europa e imperniato sulla pianta dell’architetto Soggi. I volontari si dedicano alla pulizia, al taglio dell’erba e alla raccolta dei rifiuti. Hanno cercato anche di proteggere il camposanto durante i lavori invasivi per la costruzione del parcheggio nell’area dell’ex cinema Odeon. Una collaborazione con la facoltà di Agraria dell’Università di Pisa, rappresentata dal professor Giacomo Lorenzini, ha prodotto nuove conoscenze sulla vegetazione presente, sfatando la leggenda della presenza del famoso olmo della Virginia che è, in realtà, un bagolaro. L’Associazione ha cominciato a occuparsi anche del nuovo cimitero inglese, del 1840, in via Pera, attualmente non visitabile perché pericolante.
With the Livornine laws, promulgated by Grand Duke Ferdinando I °, starting from 1590, to favor the economy and the repopulation of an unhealthy and malarial zone, the Jewish communities were allowed first, and then all the others, to settle in Livorno. The main purpose was to attract the rich Sephardic communities.
The Holy Inquisition of Pisa, however, was not far away, and those who professed another faith, even if protected by special laws, had to do so with caution and without ostentation. Non-Catholic places of worship and even cemeteries were prohibited. Before the construction of the English cemetery, those who died strangers in Italy ended up buried outside the walls, together with the animals.
The studies carried out by the Livorno delle Nazioni Association have led to new discoveries and to overturn many theories about the English cemetery in via Verdi. The date written on the sign is at least a hundred years wrong. The will of an English merchant drawn up in 1643 was discovered in London. He leaves £ 150 for the purchase of burial ground for the English nation in Livorno. The first and oldest burial in the upper left corner of the cemetery dates back to three years later, 1646, belonging, coincidentally, to Daniel Oxenbridge, a friend of those who drafted the will.
That in Via Verdi in Livorno is the oldest English cemetery in Italy, the oldest cemetery in Livorno and, even, the oldest English cemetery in the Mediterranean. It housed 450 tombs from 1646 to 1840 on half a hectare of land. Its historical importance is very remarkable. In 1735, on a map, it is already defined as an old cemetery. Official authorization for burials only came in 1737, since then, all those of non-Catholic religion who found themselves dying nearby were buried here, even if they did not live in Livorno. It was the only place in Italy where Protestants from all over Europe, Huguenots, Waldensians, Swedes, Swiss etc. could be buried.
The main entrance is U-shaped, before the war there was a low wall and a railing now destroyed. During its construction the cemetery was close to military posts and for this reason it could not have walls or too high monuments.
Making a grave in the English cemetery was as expensive as the repatriation of the body, and only the wealthiest could afford it. Mostly they are wealthy merchants with their families. A grouping of guild burials has been noted.
The most famous and most visited tomb is that of the Scottish writer Tobias Smollett, (1721-1771) author, among other things, of the famous The Expedition of Humphry Clinker. Smollett lived in Montenero, died in 71, even if it 73 is written incorrectly on the tombstone. His tomb does not differ from many other similar ones, recalls an obelisk, according to the fashion of Egyptology that raged after the Napoleonic expeditions to Africa. Now it is extremely bare, the metal parts, the marble sphere on the top and the other four lateral spheres have been stolen. Tourists, even those of the eighteenth century, stripped the tomb to take home a piece of marble as a souvenir.
The explorer William Broughton is also buried here, his grave was found on top of another. During the Second World War, in fact, the cemetery was devastated by bombing. Two photographs found in London prove this. At the end of the war, the bombed tombs were badly and hastily reassembled with pieces of one aggregated to the other and it is now difficult to establish what belongs to whom. Of the 130 missing tombs, the Association has managed to track down 30 to date.
Many members of the Lefroy family are buried in this cemetery, starting with grandfather Antonio. The Lefroys are known for talking about Jane Austen who had an unfortunate love affair with one of the descendants.
We also find:
Baron Von Stosch, a controversial figure, spy of the English government, friend of the archaeologist Winckelmann, who gave rise to the first Masonic sect of the eighteenth century;
Francis Horner, English parliamentarian friend of Ugo Foscolo;
Vieusseux's father and another relative, Pietro Senn, founder of the Chamber of Commerce and the Leopolda railway;
John Wood, captain of Peregrine, vessel protagonist of the battle of Livorno in 1653, between the English and the Dutch;
thirteen-year-old William Thompson, a sailor for whom someone wanted a different fate than burial at sea;
Louisa Pitt, lover of William Thompson Backford (1760 - 1844) author of the Gothic novel Vathec;
Mrs Mason, or Margaret King, writer and doctor, pupil of Mary Wollstonecraft, friend of her daughter Mary Shelley and of the husband of the latter, Percy Bysshe Shelley, who opened a lounge in Pisa frequented by the best minds of the time.
A separate discussion concerns the tomb of William Magee Seton, husband of Elisabeth Seton, an American saint. The parish priest of the homonymous parish intervened in 2004 with an excavator in a terrain that does not allow the entry of these vehicles - to the point that the association's volunteers are forced to cut the dangerous branches by hand. The exhumation of the remains of Elisabeth's husband seriously damaged the tomb. Note that William Seton was Protestant and non-Catholic.
The cemetery was not planned for people to spend time there, as in the large Pere Lachaise cemeteries in Paris or Highgate in London.
There are triangular prism tombs, very similar in shape to those found in Jewish cemeteries in Holland and in the Sephardic communities, confirming a privileged relationship between the Jewish and Protestant religions, both based on the direct exegesis of the Old Testament. The tombs of the English cemeteries of Tunisia and Greece are different. In addition to the triangular prism shape, there are also mixed tombstones and monuments in column, obelisk and others.
The symbols inscribed on the tombs become more complex and more beautiful as the years go by, as from the seventeenth century Baroque one proceeds towards the neoclassical style of the late eighteenth century. There are references to dance macabre, according to a fashion that became popular after the plague of the fourteenth century, to the phoenix, to the pomegranate - connected to the myth of Persephone - to ouroborus, the snake that eats its tail, torches, and entwined hands.
The Association carried out the census and mapping of the tombs, both on site and those found only on documents, developing an integrated database with studies from all over Europe and centered on the plan of the architect Soggi. Volunteers are dedicated to cleaning, cutting the grass and collecting waste. They also tried to protect the cemetery during the invasive works for the construction of the parking lot in the area of the former Odeon cinema.
A collaboration with the Faculty of Agriculture of the University of Pisa, represented by Professor Giacomo Lorenzini, has produced new knowledge on the vegetation present, dispelling the legend of the presence of the famous Virginia elm which is, in reality, a hackberry.
Il museo Fattori
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Entrando nella storica villa Mimbelli che ospita il Museo Fattori, ci vengono incontro gli affreschi di Annibale Gatti, la sala da fumo in stile moresco, la scala decorata con putti in ceramica invetriata. Attraversiamo poi le sale dove sono conservati i dipinti dei macchiaioli, Giovanni Fattori, Silvestro Lega, Telemaco Signorini e dei post macchiaioli, Giovanni Bartolena, Vittorio Matteo Corcos, Oscar Ghiglia, Ulivi Liegi, Guglielmo Micheli, Plinio Nomellini, Llewellyn Lloyd, Raffaello Gambogi etc.
Fra i macchiaioli, attivi dal 1855, e i post macchiaioli c’è un ventennio, che ha trasformato la forza delle pennellate di Fattori in manierismo sempre meno verista e più decadente.
La sala di Fattori è inconfondibile, ti devi sedere davanti ai grandi quadri di battaglie e paesaggi, con quella botta nello stomaco che dà l’arte vera e che non puoi descrivere con nessuna nota accademica.
Pennellate grosse, personaggi tozzi, pantaloni sformati dall’uso, buoi e pagliai, battaglie risorgimentali con cavalli impennati. Il rinnovamento verista è declinato in stile toscano, maremmano, in opposizione alle rovine romantiche, alle dame in pose languide, ai poeti pensosi. Le immagini sono contrasti di macchie di colore, ottenuti tramite la tecnica chiamata dello specchio nero, utilizzando uno specchio annerito col fumo che permette di esaltare i contrasti chiaroscurali all’interno del dipinto. Punti e linee sono eliminati perché non esistenti in natura e sostituiti da macchie di colore. Cronologicamente, i macchiaioli precedono gli Impressionisti francesi, e tendono alla riproduzione del presente, così com’è colto dall’occhio nell’immediato, senza sovrastrutture culturali, ma anche senza piena identificazione, piuttosto come testimonianza e commento.