maria elena mignosi picone
Don Giovanni Mangiapane, "Poesie del Santo Rosario e della Via Crucis"
/image%2F0394939%2F20250423%2Fob_f0d620_mangiapane-don-giovanni-2025-poesie-de.png)
Don Giovanni Mangiapane
Poesie del Santo Rosario e della Via Crucis
Guido Miano Editore, Milano 2025.
La fede si veste a festa: indossa la veste della poesia. Bella oltre che buona e vera è la Parola di Dio perché la bontà ovvero l’amore, è la verità e la verità, che è la bontà, risplende nella bellezza. Ma ora questa bellezza rifulge ancora di più. La sua luce si potenzia fino ad arrivare anche a chi non può accostarvisi per carenza di mezzi espressivi nella lingua ufficiale perché conosce solo il dialetto, così don Giovanni Mangiapane, come Papa Francesco, arriva agli ultimi, suscitando così forse anche conversioni.
La poesia in questa sua opera dal titolo Poesie del Santo Rosario e della Via Crucis non è quella aulica ma è poesia dialettale, viva quanto mai, del dialetto siciliano o, come preferisce chiamarlo l’autore lingua siciliana.
Non sono versi liberi ma il poeta rispetta dell’arte poetica, quello che è la metrica, con la strofe, il verso con il numero di sillabe ben definito, la rima, e per di più con la costante di una simmetria che conferisce pure in aggiunta il decoro dell’ordine.
Due sono i temi in cui sono raggruppati i componimenti poetici, il Rosario e la Via Crucis, ma il numero esiguo non significa niente di restrittivo perché nel Rosario c’è compresa tutta la vicenda terrena di Gesù, dalla nascita, anzi dal concepimento, fino alla Resurrezione. La Via Crucis inoltre non è di quattordici stazioni, ma di quindici, includendo anche la Resurrezione, esclusa comunemente, mentre già era compresa sin dai tempi antichi.
È meritorio che l’autore metta in risalto la Resurrezione perché i Cristiani non sono i piagnoni di Girolamo Savonarola, ma sono lieti nella speranza, perché per la fede cristiana la morte non ha l’ultima parola.
Tornando alla espressione linguistica diciamo che la lingua ufficiale o nazionale sta alla lingua dialettale come l’abito elegante, da cerimonia, sta alla divisa; entrambi sono abiti come entrambe sono lingue ma con peculiarità diverse, e il dialetto è come il folklore, che è specifico di ogni regione caratterizzandola in modo efficace ed incisivo. Come non si può abolire la parola folklore così non si può, e non si deve, abolire la parola dialetto. Che sia lingua poi è già implicito nella etimologia della parola, dal greco, equivalente a parlare, con riferimento alla viva lingua parlata in contrapposizione a quella scritta. Oggi si rifugge dal dire dialetto e si preferisce connotarlo come lingua siciliana, ma sarebbe allora meglio dire lingua del dialetto siciliano. Questa sostituzione si potrebbe spiegare per il fatto che il dialetto è stato relegato a un rango inferiore e inoltre perché se ne paventa la scomparsa dal momento che in generale ora si parla in italiano ma con un uso che lo sta rendendo un ibrido, pieno di errori come “facile da fare” e non, come sarebbe esatto, “facile a farsi” perché non è lo stesso di “libro da leggere” cioè “che deve essere letto”. Allora noi diremo che l’autore, don Giovanni Mangiapane, ha scritto questa sua opera nella lingua del dialetto siciliano perché troppo cara ci è la parola dialetto, la sentiamo parte di noi e non ci vogliamo rinunciare. Per onorarla magari la scriviamo con la maiuscola: il caro e amato Dialetto.
Don Giovanni Mangiapane, sacerdote e poeta, che in questa sua opera ha aggiunto per ogni poesia, anche una sua riflessione quasi una breve omelia, preceduta dalla citazione di uno stralcio evangelico e seguita dal riferimento a problematiche attuali quali le migrazioni, il bullismo, la violenza, la guerra, non cessa di sentirsi, come lo è, il pastore, il pastore delle anime.
Ardente e vibrante si leva la sua voce in difesa della verità, nello sprone alla bontà, fino al raggiungimento così dello splendore della bellezza. Non per nulla infatti ha scelto di rivestire la fede di poesia.
Maria Elena Mignosi Picone
Don Giovanni Mangiapane, Poesie del Santo Rosario e della Via Crucis, testi in lingua siciliana con traduzione italiana a fronte; prefazione di Marco Zelioli, Guido Miano Editore, Milano 2025, pp. 72, isbn 979-12-81351-52-3, mianoposta@gmail.com.
Tommaso Cevese, "Iridescenze"
/image%2F0394939%2F20250124%2Fob_2d2878_cevese-tommaso-iridescenze-fronte3d.png)
Tommaso Cevese
Iridescenze
Guido Miano Editore, Milano 2024.
Un magnifico libro di poesie, pura e sublime arte poetica, merletto di versi, musica melodica; tenerezza e delicatezza, raffinatezza ed eleganza; il creato palpitante di vita, affetti e sentimenti profondi, spiritualità e fede: tutto questo troviamo nell’opera dal titolo “Iridescenze” del poeta, filosofo e compositore musicale, Tommaso Cevese.
Il senso della vita, il perché degli accadimenti, se guidati dalla mano di Qualcuno o frutto del caso; la brevità e la precarietà della vita umana, e soprattutto cosa c’è dopo la morte: questi pensieri, che hanno sempre arrovellato la mente degli esseri umani, sono anche qui motivo di ricerca per Tommaso Cevese, incline alla speculazione filosofica e ansioso di indagare sul Mistero dapprima con la prerogativa umana della ragione, la “nuda ragione”, come egli la definisce. “… Mosaico più compiuto/ scorrendo le stagioni/ è ciò che pare piovuto/ da un cielo d’occasioni/ eppure si rivela/ disegno non banale/ tessuto da una tela/ che intreccia bene e male…” (Ascolta).
Ci sono due modi però di accostarsi al Mistero, che è appunto il senso della vita, quello del filosofo e quello del poeta, afferma l’autore, e la ragione della filosofia, ad un tratto, cede di fronte, sia pure alla vaghezza, della poesia, che, anche talora nella irrazionalità, come ad esempio la speranza contro ogni speranza, invece, vi azzecca appieno. Altro che inutile la poesia! Il poeta, afferma Tommaso Cevese, è “specchio dell’intero”. Infatti: “… Filosofi e poeti sanno/ che il senso è l’interno./ Ma si perdono i primi/ in distinzioni e confini/ in complessi sistemi/ volti alla ricerca del vero/ nei labirinti del solo pensiero./ Alle sorgenti di vita/ attinge il poeta/ del cosmo intima voce/ soffio, sussurro di luce …” (Comuni destini).
Poesia come la fede. E come la poesia supera la ragione dei filosofi, così la fede supera la poesia. E il filosofo Tommaso Cevese, poi poeta, infine ci si rivela uomo di fede quando perviene alla affermazione che il senso della vita sta in Gesù, l’Uomo che disse: “… mia madre è Maria/ son figlio di donna/ ma pure di Dio/ la stella cometa/ che traccia la via./ (…)/ Un ultimo, un vinto,/ incredulo quasi,/ di tanto castigo/ eppure risorto/ col corpo terreno/ asceso alla gloria/ di un mondo diverso.” (Ecce Homo). Il senso della vita sta dunque in Gesù, e in che cosa di Gesù? Nell’amore. Ecco il senso della vita: l’amore. E così il mistero si fa luce. “… Solo ciò che appare/ come stella cometa/ rivelò una promessa/ mai tradita, la notte/ che mostrò la via lucente/ dell’amore e della vita.” (Celesti presagi).
Non ha capito il senso della vita “… chi mina/ presente e futuro e si crede/ padrone di un pianeta/ che sfrutta senza freno ...” (Il Dio mortale).
E solo l’uomo è capace di questa speculazione intellettiva, e pure della poesia e della fede, e Tommaso Cevese lo esorta: “Uomo/ scopri il senso della vita/ nella libertà e nel dubbio/ di chi il vero non possiede/ ma ricerca con fatica..” (Uomo).
In questa ricerca del vero, espressa in versi, Tommaso Cevese in alcuni accorati interrogativi sembra riecheggiare Giacomo Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, come ad esempio quando si chiede: “Dimmi, corpo mio mortale,/ quando scade il tuo affitto…?/ Quando volgerà al tramonto/ il mio ciclo naturale/ il mio essere nel mondo?...» (Scadenze naturali), oppure ancora nei versi: “…Che riserva ancor la via?/ E di me, di noi, che sarà/ e dell’anima immortale?/ (…) Così ragiono nella stanza/ della mente, che vaga …” (Tu misuri il tempo).
Un altro richiamo ancora è Gabriele D’Annunzio ne La pioggia sul pineto per quanto riguarda la descrizione della natura nei suoi minimi particolari, l’attenzione al palpito degli elementi, la fusione tra natura e anima umana.
Spicca, inoltre, nella poesia di Tommaso Cevese, l’antitesi Temporalità ed Eternità. Solo la natura e l’uomo hanno la prerogativa di superare la dimensione temporale per attingere all’eterno. “… Forte, antica natura/ ancorata al suolo/ oltrepassi senza fine/ i tempi della vita./ E tu, uomo di breve corso/ e destinato al volo!/ Vita pulsante un battito d’ali,/ giovane creatura, anima cosciente/ che duri come un niente/ solo tu, oltre le nubi e i cieli/ vedrai eternamente.” (Temporalità).
Maria Elena Mignosi Picone
Tommaso Cevese, Iridescenze, prefazioni di Enzo Concardi, Floriano Romboli, Gabriella Veschi; Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 148, isbn 979-12-81351-44-8, mianoposta@gmail.com.
Franco Colandrea, "A mio figlio Paolo (Dialoghi d'amore)"
/image%2F0394939%2F20241001%2Fob_a73059_colandrea-franco-2024-a-mio-figlio-pao.png)
Franco Colandrea
A mio figlio Paolo (Dialoghi d’amore)
Guido Miano Editore, Milano 2024.
Recensione di Maria Elena Mignosi Picone
Un itinerario inconsueto, un viaggio spirituale nella solitudine e nel silenzio, anzi addirittura nell'oscurità della notte, nel sogno nel quale si sviluppano i “dialoghi d'amore” tra il padre, vivente e il figlio dalle dimore dell’eterna Verità. “Caro papà… qui è tutta luce; luce illuminante, luce pervadente, luce generatrice; è luce universale, è beatitudine.” È proprio questa luce che il padre aspira a raggiungere qui sulla terra. È luce interiore, luce spirituale. Il padre, da convinto pensatore empirico e materialista, ignorava la dimensione dello spirito e respingeva la speculazione metafisica. È il dolore, sopraggiunto come un fulmine, che lo scuote e lo avvia per sentieri nuovi; nasce così imperioso in lui l’anelito alla luce spirituale. E si ripiega su se stesso fino allo stadio più alto dello spirito, la coscienza, dove si ode la voce di Dio che è amore e richiama l’uomo all’amore universale.
“A mio figlio Paolo (Dialoghi d’amore)” di Franco Colandrea (Guido Miano Editore, 2024) è un viaggio travagliato, tra alti e bassi, tra tenebre e fulgori fino al traguardo della luce spirituale che lo porterà al disopra dei tormenti terreni fino al raggiungimento della quiete dell’anima. Una sorta di Beatitudine che è il riflesso qui sulla terra della Beatitudine celeste. Ed è possibile. Sicuramente.
E il figlio, nelle varie tappe del sogno, indica al padre la via.
Il primo passo è sfrondare la propria coscienza da tutti i pensieri dolorosi e pensare invece ai momenti belli vissuti insieme. Efficace è la concentrazione del pensiero senza che si faccia deviare.
Sfrondare poi l’animo dai condizionamenti della vita, che alterano e guastano l’essenza della persona. Così ci si alleggerisce della zavorra di cui ci ha appesantito l'esistenza. Questo alleggerimento è lo stadio della purificazione interiore che porterà alla quiete dell’anima.
Analogamente avviene nella malattia quando la forza della mente può modificare il corso letale e portare alla guarigione. Il padre, medico naturopata, tenace assertore della “Vis medicatrix naturae”, cioè della forza medicatrice della natura, così si rivolge al figlio: “…attraverso gli studi sulla naturopatia, ho scoperto e acquisito che con la nutrizione (digestione, circolazione, respirazione e assimilazione) vi è una continua riparazione dei tessuti che consumiamo vivendo. Attraverso essa, se le circostanze lo permettono, l’organismo ammalato guarisce di per sé.” E aggiunge: “Il buon medico dovrebbe lasciare spesso che agisca la natura.” L’animo lieto nella malattia è di fondamentale importanza. Lo raccomandano i medici.
Il figlio così conclude: “Ti puoi ritenere un essere illuminato dalla luce del tuo sé più profondo e questo ti darà l’opportunità di esplorare gli stadi superiori della tua mente, così riuscirai a dare ancora più luce alla tua intelligenza… e solo così potrai dare pace alla mente.”
La quiete però non è da intendere come imperturbabilità. Tutt’altro. La luce cos’è se non il riverbero dell’amore? Nell’aldilà tutto è luce perché risplende l’Amore di Dio. Luce e amore sono un tutt’uno. Altro allora che imperturbabilità! Le anime stesse del Paradiso seguono i loro cari in terra. Esempio appunto questi dialoghi d’amore tra padre e figlio, tra cielo e terra. È il figlio che conduce il padre alla quiete dell’anima.
Ma cos’è allora questa quiete?
È più che quiete! È felicità. È Beatitudine. Proprio qui. Sulla terra. E questo succede quando, coltivando la vita interiore, nel profondo della coscienza sentiamo la voce di Dio, l’uomo entra in dialogo con Dio e nell’Amore, succede il prodigio che l’essenza umana si fonde con l’Essenza divina. E in questa fusione sta la Felicità. La Beatitudine qui in terra.
Maria Elena Mignosi Picone
Franco Colandrea, A mio figlio Paolo – Dialoghi d’amore, prefazione di Floriano Romboli, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 80, isbn 979-12-81351-40-0, mianoposta@gmail.com.
Raffaele Piazza, "Del sognato"
/image%2F0394939%2F20240825%2Fob_d21efe_piazza-raffaele-2023-del-sognato-fron.jpg)
Raffaele Piazza
DEL SOGNATO
Raffaele Piazza, critico letterario e poeta (in quest’ordine, perché in quest’ordine l’ho conosciuto).
Tanto lineare, consequenziario, chiaro e preciso, razionale e cristallino, come critico letterario, quanto estroso, bizzarro, vago, sfuggente, misterioso, e a volte anche sibillino, criptico, nella poesia.
Ci riferiamo al suo libro di poesie dal titolo Del sognato (Guido Miano Editore, seconda edizione, 2023).
Titolo quanto mai pertinente. Infatti, accostandosi a questo libro, abbiamo l’impressione di entrare non nel campo della poesia, ma in quello del sogno. Niente di “poetato”, se così si può dire, ci adeguiamo al suo modo di esprimersi, ma tutto del “sognato”. La poesia scompare per lasciare il posto al sogno. Dunque il sogno con la sua irrazionalità, la sua stravaganza ed eccentricità.
Viene in mente il giuoco pirotecnico. Una fantasmagoria di luci, di colori, suoni e saette. Stupisce, stordisce, esplode, e sparisce. Lascia una sensazione di piacevolezza, e tutto finisce là.
Così è la poesia di Raffaele Piazza.
Colori luminosi, anche se tenui e delicati, su cui predominano il verde, come dei prati, dei boschi, il rosa delle albe e delle aurore, l’azzurro dei mari, degli oceani e dei monti in lontananza. Colori ricorrenti e accenni anche agli altri. Una poesia che è quasi una pittura perché l’autore ha un vivo senso del colore. Sbalza evidente come principale elemento. La sua poesia è un sogno, non in bianco e nero ma in technicolor.
E per entrare nella esistenza ordinaria, ecco apparire pure la tecnologia. Il computer, il cellulare; la mail, i messaggi, e così via.
Attira l’attenzione del poeta la vita di oggi nei suoi aspetti tipici più materiali: le code delle automobili in autostrada, le file agli sportelli degli uffici, aspetti propri della vita ordinaria. Aspetti prosaici, potremmo dire. Acquisisce gradevolezza la vita familiare, le consuetudini giornaliere. Insomma c’è la vita, e il tutto come un sogno. Sorprendono gli ardui accostamenti delle parole, al di fuori della logica. Insomma la poesia di Raffaele Piazza è un sogno, non nella maniera idilliaca che spesso attribuiamo a questo, e inoltre è un gioco. È un gioco il “poetato” di Raffaele Piazza, è un gioco il suo “sognato”.
Infine esso lascia una sensazione di bellezza. Quella della natura, della vita quotidiana, la bellezza della donna. Una certa sensualità permea a tratti le pagine del libro.
L’autore Raffaele Piazza mira soprattutto alle sensazioni più che ai sentimenti, alle impressioni più che alle impronte. Non ha pretese di carattere didascalico o pedagogico. Non si erge a eroe o a vate.
È un tripudio di colori, di emozioni, che, pur tuttavia, risvegliano nel lettore il senso del bello, ormai, nella società odierna, di molto assopito.
Risalta, specialmente all’inizio, l’anelito a rialzarsi dopo le cadute; vivo si sente il desiderio di rinascita, il desiderio della redenzione.
È una poesia moderna. E attuale. Che rispecchia la leggerezza del vivere.
Maria Elena Mignosi Picone
Raffaele Piazza, Del sognato, II edizione, pref. Marcella Mellea, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 60, isbn 979-12-81351-08-0, mianoposta@gmail.com.
Floriano Romboli, "Il fascino e la forza della letteratura, vol.2"
/image%2F0394939%2F20240824%2Fob_e41ca5_romboli-floriano-2023-il-fascino-e-l.jpg)
Floriano Romboli
IL FASCINO E LA FORZA DELLA LETTERATURA, VOL. 2
Fogazzaro - Dante – De Sanctis - Malaparte
D’Annunzio - De Roberto - Sanminiatelli
Per gli appassionati di Studi Umanistici, il titolo che l’autore Floriano Romboli ha scelto per il suo libro, e cioè Il fascino e la forza della letteratura (Guido Miano Editore, Milano 2023), costituisce certamente una bella attrattiva e prelude ad una interessante lettura. Del resto l’autore, con questa sua opera, si è prefisso l’obiettivo di attrarre quanti più lettori possibile, per far gustare loro il piacere che si prova accostandosi agli Studia Humanitatis e fare assaporare quella gioia particolare che la Letteratura sa offrire. Quel che emerge in questi Studi è l’uomo, l’essere umano in tutti i suoi aspetti, nella sua forza e nella sua fragilità, nel suo valore e nelle sue debolezze.
Floriano Romboli in questa sua opera prende in esame la Letteratura dei secoli XIX e XX, cioè dell’Ottocento e del Novecento. Egli si sofferma su scrittori come Antonio Fogazzaro, Federico De Roberto, Curzio Malaparte, Gabriele D’Annunzio, e su Bino Sanminiatelli. Un capitolo è riservato ai giudizi di alcuni Papi contemporanei come Leone XIII, Paolo VI, Benedetto XV su qualche aspetto dell’opera di Dante. Compaiono anche riferimenti a critici letterari di notevole pregio tra i quali De Sanctis, Donadoni, Fubini, Getto, Giorgio Bàrberi Squarotti. Innumerevoli inoltre le citazioni dalle opere degli autori, le quali rendono più efficace e incisivo il discorso. Ci sarebbe molto da dire, appunto per la dovizia di autori, critici e Papi, già citati, ma noi preferiamo soffermarci sugli spunti di riflessione che offrono le tematiche affrontate, che cadono ben a proposito sulla esigenza di rinnovamento e approfondimento, fortemente sentita dalla Letteratura odierna.
Oggi si avverte la incompletezza della Letteratura se non è suffragata dalla riflessione sull’uomo che offre la Teologia. Quest’ultima, infatti, vertendo su Dio e sul Suo Figlio, Gesù, perfetto Dio e perfetto Uomo, può illuminare sulla comprensione dell’anima degli Autori, perché, sulla scia di Sant’Agostino che esorta “Cerca Dio e troverai te stesso”, soltanto alla luce del divino può balzare fuori l’umano, nella sua più veridica esattezza. Pensiamo a Dante Alighieri. Afferma Floriano Romboli (p.60), riferendosi al critico Giovanni Getto: “Nell’omaggio convinto e sincero alla lezione morale e artistico-culturale dell’Alighieri, in questo caso si realizzava la sintesi preziosa tra magistero religioso e critica letteraria.”
Oggi inoltre si avverte viva l’esigenza della solidarietà, della gentilezza, del garbo, e forte è l’anelito al senso di umanità che si è perduto quasi totalmente. Le controversie si risolvono a suon di coltelli, a cominciare dai ragazzini, e negli adulti dal fragore delle armi. Emerge nell’essere umano la ferinità. Qui in questo libro largo spazio è dato a questo aspetto deleterio: l’uomo selvaggio. Favorito questo concetto dalla diffusione della teoria di Darwin: l’uomo discende dalla scimmia. E se la brutalità umana si manifesta soprattutto con la guerra, qui con molto realismo si mettono in risalto, negli avvenimenti bellici, gesti e atteggiamenti, dalla storia quasi sempre sottaciuti: la follia e il suicidio. Tra le file dei combattenti. La guerra non è vista nei suoi aspetti esaltanti, quali espansioni, conquiste, ma per quello che è: una grande brutalità. Aldo Palazzeschi così affermava: “La guerra non si fa. La guerra non si deve fare per nessuna ragione al mondo.” E Antonio Fogazzaro così sosteneva: “Noi dai bruti non discendiamo. (…) Noi ascendiamo da essi e il nostro tempo sempre meglio comprende che se la vanità umana può compiacersi qualche volta di discendere, la vera gloria dell’uomo è di ascendere.”
E forse sta qui la forza e il fascino della Letteratura: con la mente e con il cuore penetrare nella verità della esistenza, per ascendere sempre più, armonizzando i contrari, superando la perenne lotta tra le luci e le ombre.
Maria Elena Mignosi Picone
Floriano Romboli, Il fascino e la forza della letteratura, vol.2, pref. di Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 148, isbn 978-88-31497-93-0, mianoposta@gmail.com.
Maria Angela Eugenia Storti, "Itinerari di letteratura del novecento tra tradizione e innovazione"
/image%2F0394939%2F20231022%2Fob_ef7eca_storti-maria-angela-eugenia-2023-itine.png)
Maria Angela Eugenia Storti
ITINERARI DI LETTERATURA DEL NOVECENTO
TRA TRADIZIONE ED INNOVAZIONE
Memorie artistiche a confronto: Mann, Kafka, Woolf, Eliot,
Beckett, Wedekind, Pirandello, Montale
Come quando un campo, sia pure di buona terra, non viene irrigato con l’acqua, allora succede che le piante, che pur vi possono attecchire, però non possono crescere; come quando in una famiglia si vive tra i contrasti e i figli non sono inondati di amore, allora succede che la loro crescita è minacciata da crisi e disagi; così anche nelle nazioni che i governanti spingono a guerre, provocando disperazione, allora si rompe l’equilibrio nell’animo delle persone e viene compromessa la loro stabilità emotiva e psichica.
È questo il terremoto spirituale subentrato in seguito alle due guerre mondiali nel Millenovecento, che ha stravolto quell’ordine, quell’armonia, quella consapevolezza, che invece caratterizzavano i secoli precedenti.
L’autrice del libro Itinerari di Letteratura del Novecento tra Tradizione ed Innovazione (G. Miano Editore, 2023), Maria Angela Eugenia Storti, appassionata cultrice di Letteratura germanica e anglosassone, professoressa di Lingua e Letteratura Inglese presso il Liceo di Scienze Umane “G. De Cosmi” di Palermo, ha preso in esame vari autori, tedeschi o inglesi, (ma anche qualche italiano come Pirandello e Montale) quali Thomas Mann, Franz Kafka, Virginia Wolf, Thomas Eliot, trattando in loro, nella parte iniziale del libro, il genere del romanzo.
Poi l’autrice prosegue prendendo in considerazione il teatro con appunto Luigi Pirandello, oltre a Frank Wedekind e Samuel Beckett; infine conclude con la poesia negli autori Thomas Mann e Eugenio Montale.
Ritornando al romanzo, La terra desolata di Thomas Eliot già esprime nel titolo stesso, la desolazione, e La montagna incantata di Thomas Mann è come un rifugio da questa desolazione, pur essendo un luogo di malattia, di sofferenza, però ricco di amabilità e di bontà. Sono da accostare tra di loro questi due temi a dimostrazione del fatto che gli atteggiamenti di rottura, di ribellione, tipici del Novecento, non sono dettati da estrosità e stravaganza, da qualcosa di superficiale, ma piuttosto sono dettati da profondo dolore che cela un desiderio vivissimo di umanità e auspica fortemente l’incanto della bontà.
Certo, di fronte agli orrori perpetrati in questo periodo, si avverte il non senso della guerra, e con questo il non senso della vita. Viene meno ogni punto di riferimento, e gli uomini si sentono come “uomini vuoti”.
Però ora l’attenzione si sposta dalle cose esterne alla vita di dentro, alla psiche. Ne è un esempio Virginia Woolf che sostiene che in una biografia, come in un diario, sono da prendere in considerazione non tanto i fatti, le date e luoghi, quanto “la coscienza”, cioè i pensieri, i sentimenti, le emozioni, le scelte, le decisioni. Nell’opera di Virginia Woolf risalta inoltre l’anelito all'emancipazione della donna che, per la mentalità di allora, valeva solo se madre di famiglia o suora, il resto, se poetessa, scrittrice o artista, veniva bersagliata come estrosa e strana, quasi portasse in sé una vergogna e allora a una donna così non rimaneva altro che il rifugio nella propria “stanza”. E poi “la solitudine” di Franz Kafka, il disagio esistenziale. È veramente una situazione tragica.
Nel teatro ancora più forte che altrove è la rottura con il passato. Già sin dallo scenario che non è più un paesaggio o un ambiente come prima ma perde la sua consistenza per ridursi al minimo, quasi scompare: lo scenario si fa scarno, spoglio. Anche il dialogo spesso è sostituito dal monologo. Il teatro del Novecento è veramente una rivoluzione. Prevale la sensazionalità, il simbolismo, la critica alla morale borghese, spesso ipocrita e perfino crudele. Il teatro si afferma travalicando i confini regionali per sconfinare in campo europeo o addirittura mondiale.
Significativo “Il Teatro dell’assurdo” in cui si pone l’accento sulla assurdità della vita.
E infine la poesia. Il “correlativo oggettivo” accomuna Eliot e Montale. Si mette in risalto il “mal di vivere”. Anche nella poesia una rivoluzione a cominciare dalla forma. Non più la metrica con le strofe, i versi, le rime; il contenuto esprime bagliori di sentimento come lampi nel cielo che traducono le emozioni, i pensieri e i sentimenti con esasperata soggettività. La poesia è fulgore di vibrazioni di animo.
È tutta una innovazione che si affianca talora alla tradizione. È la modernità che coinvolge anche la pittura, la musica.
“Tradizione” e “Innovazione”, tradizione e modernità si scontrano, si incontrano e sussistono più o meno armonicamente.
Maria Elena Mignosi Picone
Maria Angela Eugenia Storti, Itinerari di letteratura del Novecento tra tradizione ed innovazione, pref. di Lea Di Salvo, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 82, isbn 978-88-31497-99-2, mianoposta@gmail.com.
Michele Petullà e Viola Petullà, "Teorie evoluzionistiche in antropologia"
/image%2F0394939%2F20230908%2Fob_af449f_petulla-michele-e-viola-2023-teorie-e.png)
Michele Petullà – Viola Petullà
TEORIE EVOLUZIONISTICHE IN ANTROPOLOGIA
Modelli e sviluppi
Come Copernico rivoluzionò il Sistema Tolemaico così Darwin rivoluzionò il Creazionismo, cioè la concezione del Dio Creatore, con il conseguente Piano Provvidenziale divino, finalizzato alla Vita Eterna per l’uomo.
Nella sostanza, si tratta in fondo di un riecheggiamento del passaggio dal Teocentrismo all’Antropocentrismo, dominanti rispettivamente nel Medio Evo e nel Rinascimento.
L’uomo viene considerato ora non tanto nella sua umanità ma più specificatamente nella sua fisicità; e fioriscono gli studi intorno all’essere umano sotto questo aspetto, tanto da dar luogo ad una nuova disciplina, l’Antropologia, che comprende anche Sociologia, Archeologia con attenzione in particolare anche allo studio dei Fossili, e considerando l’uomo sia in sé, come individuo, sia in rapporto alla società.
La novità di questo studio è che si considera l’essere umano alla stregua di ogni altro essere vivente, appartenente al regno animale o vegetale. Viene presa in considerazione, dell’uomo, specialmente l’anima sensitiva, che ha in comune con gli animali, prescindendo dall’anima spirituale, per la quale si ha la somiglianza con Dio. Quindi è esclusa ogni trascendenza, e siamo lontani, o meglio dire autonomi, dalla Teoria Tomistica, di San Tommaso, che vede l’uomo a immagine e somiglianza di Dio, in quanto possiede lo spirito perché Dio è Spirito.
A questo punto saremmo indotti a pensare ad una frattura tra Creazionismo ed Evoluzionismo. Ma in effetti non c’è tra queste due concezioni di pensiero una contrapposizione. Basti pensare ad esempio al mare. Esso c’è sempre, è un elemento del Creato, che esiste nella sua fissità. Ma quanto moto ha in sé, quanta trasformazione, quanta diversità tanto da cambiare sempre, di colore, di moto, di tutto! È sempre uguale e sempre diverso. Così hanno ragione tutti e due. I Creazionisti e gli Evoluzionisti. Sono perfettamente conciliabili gli antichi filosofi greci, Parmenide, sostenitore dell’Essere, Immutabile, ed Eraclito per il quale “tutto scorre”. Del resto lo stesso Darwin ha confidato di non essere ateo ma di credere in un Dio Creatore.
L’Evoluzionismo ha conferito al Creazionismo o Fissismo vivacità, dinamismo, in fondo un maggiore realismo. L’uomo, in conclusione, è sempre lo stesso ma col tempo cambia sempre: mentalità, usanze e consuetudini, e tanto altro ancora.
Gli autori, Michele e Viola Petullà, del saggio Teorie evoluzionistiche in antropologia. Modelli e sviluppo (G. Miano Editore, 2023), hanno esaminato a fondo l’Evoluzionismo, non solo sotto l’aspetto scientifico ma anche storico, spaziando anche a ritroso nel tempo per individuarne gli antecedenti.
Il fine cui mirano con quest’opera è la diffusione nelle scuole, soprattutto nei Licei a indirizzo “Scienze umane e pedagogiche”.
Da prendere soprattutto in considerazione, in questo libro, è la parte in cui gli autori mettono in guardia dalle interpretazioni improprie delle novità di carattere scientifico. Infatti l’Evoluzionismo, male interpretato, ha portato alla concezione della superiorità della razza. E conosciamo tutti gli orrori che ne sono derivati. Questo succede quando si sconfina dal campo scientifico e si applica la scoperta in altri campi, come la filosofia, l’etica, la morale. Portiamo ad esempio la teoria della relatività di Einstein, che, traslata al di fuori della scienza, divenne, (pure al di fuori delle opinioni, rispetto alle quali è accettabile), relativismo, con la negazione di una verità assoluta. E il conseguente sbandamento della società.
L’ideale sarebbe per i giovani integrare l’Evoluzionismo con il Tomismo, in modo da considerare Darwin non disgiunto da San Tommaso, o ancora più indietro nel tempo da Aristotele. Così si avrebbe una idea completa dell’essere umano, sia come anima sensitiva che come anima spirituale.
E l’uomo non sarebbe equiparato, quando va dal medico, all’animale quando lo portano dal veterinario.
Non possiamo ignorare che l’uomo non è solo un insieme di molecole e cellule ma è soprattutto scintilla di Dio.
Maria Elena Mignosi Picone
Michele PetullÀ, Viola PetullÀ, Teorie evoluzionistiche in antropologia. Modelli e sviluppi, premessa di Enzo Concardi, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 84, isbn 979-12-81351-01-1, mianoposta@gmail.com.
Sergio Camellini, "Opera Omnia"
/image%2F0394939%2F20230505%2Fob_401c02_camellini-sergio-2023-opera-omnia-fro.png)
Sergio Camellini
II edizione
«Uomo, / dove sei?» si chiede accorato il poeta Sergio Camellini constatando come la Sinfonia della vita, l’armonia, sia venuta meno da quando si innalzano da parte degli uomini più muri che ponti. L’indifferenza, la freddezza, l’ingiustizia dilagano e il poeta sente imperiosa l’esigenza di un vento salutare e non distruttivo, «il vento dell’amore». Amore che restituisca l’armonia del vivere e che sia gentilezza, tenerezza, rispetto. Nella poesia L’amore è fanciullo osserva: «Amore, /… / mi identifico / in te. // Nella spontaneità… // Nella semplicità… // Nella gentilezza». Il contrario è un’offesa alla dignità, e «C’è - afferma sempre qui il poeta - fame di dignità». Perciò ammonisce ne Il linguaggio della semplicità: «Rammenta, amica mia, /…/ Evita da subito /…/ quel fare superbo / privo d’umanità. // Scendi dal piedistallo». Bisogna mettere il cuore in ogni gesto altrimenti ad esempio lo scorrere della mano sulla guancia «…non puoi dirla carezza. // Devi… scioglierti nei sentimenti…» (Non puoi dirla carezza). Ed è nei gesti d’amore che si manifesta la devozione. In Davvero è Pasqua così afferma: «La gioia di un bimbo / la carezza a un malato, / l’abbraccio a un vecchio / il rispetto alla donna, / l’aiuto a un bisognoso / la pace in famiglia, / l’armonia fra i popoli, / un sorriso alla vita, / la vittoria dell’amore / davvero è Pasqua!».
C’è nell’animo di Sergio Camellini forte l’anelito a guardare in alto, a volare, a dare ali ai sogni. E ciò è desiderio d’Immenso, come afferma nella poesia Ecco, il libro del cielo: «Dacché l’uomo apparve sulla terra / guardò al cielo; / un grande libro… luna argentea … stelle nitide… allora volse il pensiero all’Immenso». Ma questo suo sguardo al cielo non è trascendenza, non è un immergersi in un mondo ultraterreno, pullulante solo di esseri celesti e divini, ma in quello sguardo al cielo, egli ritrova, proiettata in alto, la terra, con il meglio che c’è su questa, con le persone speciali che sono tali perché mirano in alto, spiccano il volo in su non lasciandosi contaminare dalle brutture del mondo. E le persone speciali esistono. Sono quelle «… che / hanno gesti delicati / d’attenzione / che / danno un senso positivo / alla vita; / che / esprimono un sorriso / anche nel pianto; / che / sanno imprimere / la magia dell’amicizia / che / vivono in simbiosi / con l’amore…».
Ma, se gli occhi di Sergio Camellini sono rivolti verso l’alto nel contemplare il meglio delle creature umane di quaggiù, questo può avvenire anche perché i suoi occhi sanno penetrare nel profondo dell’anima delle persone. Sergio Camellini è infatti uno psicologo, un medico psicologo. Quindi sa guardare pure dentro, sa scorgere tutte le pieghe dell’animo. È l’umanità che gli interessa, e la osserva, la scruta, per curarla e ripristinare l’armonia dell’anima, laddove essa si era frantumata.
Ora, tra tutta l’umanità, pur senza fare distinzione di persone, Sergio Camellini ha una particolare simpatia per la gente semplice, umile, non solo di carattere ma proprio come condizione sociale. Predilige il contadino, l’artigiano: il fornaio, il sarto, il fabbro, e così via. Spinto da questa sua predilezione, ha fondato un “Museo d’Arte Povera della Civiltà Contadina”. Di tutti costoro egli esalta la tenacia nell’affrontare il duro lavoro e lo spirito di sacrificio che sortisce come effetto la forza d’animo e la gaiezza; ne esalta pure la creatività e l’ ingegnosità nel superare i problemi e le difficoltà della vita. E la loro allegria sfocia pure nel canto, come ben ha espresso nella poesia Le mondine: fatiche e canti d’amore.
Ma se il nostro poeta guarda con simpatia alla gente contadina e artigiana, ciò non gli impedisce di guardare con grande ammirazione pure al mondo della cultura. Del resto Sergio Camellini, il quale è medico, poeta e scrittore, è un intellettuale e sa apprezzare l’Italia come la Culla di cultura. Nella poesia omonima esorta: «…Sole d’Italia // non demordere, / in quest’era tribolata / sii custode del bello…». Egli constata la decadenza dei costumi e la perdita dei valori in noi che pur siamo gli eredi di Dante: «Nell’oggi, / dove sono i valori?» e auspica che questi «…fossero un tripudio /…/ di emozioni, / di rispetto reciproco, / di dignità. / Ove, l’uomo si elevasse /…alla ricerca / della innata spiritualità» (Eredi di Dante).
Un’ammirazione mista ad amarezza per il degrado in cui è piombata, Sergio Camellini ce l’ha pure verso la natura. Essa non è tanto considerata nella bellezza dei suoi paesaggi ma come la madre terra maltrattata da figli ingrati: «Grida il tuo dolore / fertile, arida, amata Terra / …madre altruista e incompresa…» e con energia sprona: «…Alza la voce ora /…/ che l’uomo sia / riconoscente e degno / della tua benevolenza» (Orazione alla terra). E invita ad aver rispetto come nella poesia L’albero, un soffio di vita in cui così si esprime: «Se tu potessi / veder l’albero / come esser vivo /…/ nel pulsar // della sua linfa, // che circola come / il sangue del corpo, /…/ nutriresti appieno / il senso di rispetto…».
Sergio Camellini si rivela dunque come il poeta dell’amore, e dell’amore canta la tenerezza, la cortesia in cui rifulge la nobiltà dell’animo. È il cantore della gentilezza e in questa scorge poesia. La donna è la personificazione della delicatezza: «La raffinata melodia / della donna / non conosce / intemperanze, / … ma la grazia / dei sentimenti / e il fare gentile» (La melodia della donna).
Sergio Camellini sembra già diffondere il suo messaggio a partire dall’aspetto stesso. Se lo si osserva bene, si nota in lui, già nell’atteggiamento una carica umana improntata alla delicatezza nella distinzione del suo presentarsi, nell’espressione sorridente, nella mitezza e umiltà del suo porgersi, nella finezza del suo tratto.
E tutto questo è già poesia, poesia incarnata, poesia umanizzata.
Maria Elena Mignosi Picone
Sergio Camellini, Opera Omnia, II edizione, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 188, isbn 978-88-31497-97-8, mianoposta@gmail.com.
Marisa Cossu, "Sintomi poetici"
/image%2F0394939%2F20230216%2Fob_6fb5cc_cossu-marisa-2022-sintomi-poetici-fro.jpg)
Marisa Cossu
SINTOMI POETICI
Il poeta vede il bello dove altri vedono il banale, scorge vita dove altri morte. Così la poetessa Marisa Cossu, già sin dalle pagine iniziali di questa silloge dal titolo Sintomi poetici (Guido Miano Editore, 2022), cioè nella prima parte Sentire il tempo, osservando e riflettendo su quel che le si offre davanti agli occhi, come le Trasparenti pareti delle case della sua strada, le sente palpitanti di vita («irradiano la vita»), laddove altri vedrebbero solo insignificanti pietre, mentre invece la intristisce la pietra che è il cuore indurito dell’uomo. Così come vede nel nido scavato nella battigia in riva al mare, non chiusura o isolamento, ma punto di partenza per spiccare il volo verso la libertà: «…Eppur l’abisso non ha in sé la morte /…/ Il nero alcione nella riva nato, / la libertà richiama nel cammino / dell’azzardo del vivere….» (Il nido).
Marisa Cossu riflette sul significato del tempo («il tempo non esiste», Senza tempo) che viene superato dall’eternità «dove sia sempre giorno» (Alice) come se noi, già qui in terra, fossimo inseriti in un tempo senza limite, nella infinità. In effetti qui, nella esistenza terrena, assaporiamo l’eternità, sentiamo l’infinito quando ci eleviamo nello spirito. «Io, piccola particola d’eterno» (“E quando miro in ciel arder le stelle”); «Io, minima particola d’eterno» (Ecco il mio cielo); «Ecco il mio cielo pieno di mistero: / mi incanto se rimiro ad occhi chiusi/ quell’infinito che si muove intero» (ivi).
Ma nelle sue riflessioni serpeggia l’idea che l’essere umano passa nella sua esistenza attraverso due fasi: prima si sente come incatenato, si sente in prigione, poi avviene un risveglio, l’irruzione della libertà che lo conduce verso alte mete. Simbolo di ciò è l’acqua sorgiva: «Quel getto che zampilla dalla roccia / l’acqua sorgiva … / rassomiglia alla stanza della vita: / sotto la terra dura perde il sole, // ma continua la corsa dove vuole…» (Acqua).
Forse sono questi i sintomi poetici: l’anelito allo svelamento, da quanto è sotterraneo alla pienezza della libertà che fa realizzare la propria essenza.
Non per nulla, nella copertina del libro vediamo una fanciulla sugli scogli in riva al mare, in atto di contemplazione, e il mare è segno di infinito, di libertà, di grandezza.
***
Nella seconda parte del libro, intitolata Stanze segrete, ritorna il tema del risveglio, e questa volta è il cigno che si eleva dal fango e spicca il volo. Nel cigno si cela l’autrice stessa che in questo librarsi in alto percepisce «Bellezza», che è l’espiazione, da lei voluta, e perciò volontaria e consapevole, di un destino avverso, in cerca di luce. E la luce arrivò. E fu amore. Da Le ceneri dell’io affiora allora l’identità. È lo svelamento della propria essenza. «…non saprò cosa gemmi dal torpore / di un oscuro destino / parte migliore, forse, di me stessa; / lo accettai per soffrire, / espiando la vita a me concessa / in cerca di una luce…» (Attesa).
Questa seconda parte, rispetto alla prima, scava maggiormente nella interiorità. Temi frequenti sono il fine dell’uomo, il suo destino, poi l’ignoto, il mistero, l’oltre, e in tutto questo c’è l’uomo che oscilla sempre tra il fango e il sublime. Ancora il richiamo della Bellezza con la Poesia, l’Arte. E tutti questi temi si intrecciano e sfociano dalla impetuosa ansia di conoscenza della poetessa. Ella riconosce l’Arte come dono: «L’Arte… / permeò di pura meraviglia / il mondo dell’umana conoscenza / svelando all’intelletto la bellezza. /… / Ma l’Arte venne e illuminò la scienza. / Si strinse dentro fossile conchiglia / che d’infinito a volte soffia il suono». È l’Arte infatti che ci introduce nel mondo dell’infinito.
***
Ma cos’è la Bellezza se non lo splendore dell’Amore? Eccoci allora giunti alla terza parte che ha un titolo delizioso e molto significativo, Amo divinamente. Eh già. Si può parlare veramente di amore quando esso ricalca le orme dell’amore divino.
E quale amore è più simile a quello divino se non l’amore materno? Ecco allora, in questa terza parte, più di una poesia dedicata alla madre. «Mi passa accanto il tuo profumo, madre, /… lo sguardo tuo / che più lontano mira…» (A mia madre). Anche l’amore paterno, e, ricordando il genitore: «… In me di conoscenza, / di speranza e d’amore / seminò un campo vasto che aro ancora…» (Innesti). Anche l’amore di una moglie che presagisce la morte del marito che va in guerra. Ecco un richiamo allo struggente episodio del saluto di Andromaca al marito Ettore, come narrato nel poema omerico. «… Ahi! dolce sposa, presaga del lutto, / Cogli l’amore nell’abbraccio estremo, / Ama questo momento d’infinito» (Andromaca). E non poteva mancare Colui che è l’espressione più compiuta dell’amore divino, cioè dell’amore di Dio Padre, che è Gesù: «… quel dio-dentro che con voce lieta / nella vicenda umana si palesa…» (Questo Natale). Ma una constatazione amara: «… Quel figlio non lo vuole questa terra, / tutti rinchiusi nell’indifferenza / dove non c’è la pace né il perdono…» (ivi). Ma non viene meno la speranza che è «… quella parte d’infinito / che ne richiama l’ali pur se il nulla / volteggia insieme al desiderio estremo; /…/ Non so se nel ritorno / sia la resurrezione…» (Speranza).
Il pensiero dell’infinito, del mistero che si riveste di luce è associato, nella mente e nel cuore della poetessa, ad un colore che ben si accosta alla luce, e cioè l’argento. «Amore che d’argento ti rivesti…» (Argento). Argento che è dunque, luce, che è bellezza, la quale è dunque lo splendore dell’amore. E lo splendore dell’amore si palesa in qualcosa che è gesto gentile e delicato, il sorriso. «…Il riso nato dall’interno cuore / all’uomo venne in dono, unica e sola / forma creata dall’eterno Amore, / scintilla già pensata... / il riso è segno del soffio divino / e il Poeta ne scrive nel suo Canto…» (Il sorriso).
Maria Elena Mignosi Picone
Marisa Cossu, Sintomi poetici, prefazione di Nazario Pardini, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 92, isbn 978-88-31497-84-8, mianoposta@gmail.com.
Adriana Deminicis, "Da un poemetto alla luna. I fiori di gelsomino"
/image%2F0394939%2F20221004%2Fob_9eaa7f_deminicis-adriana-2022-da-un-poemett.jpg)
Da un poemetto alla luna. I fiori di gelsomino
Adriana Deminicis
Guido Milano Editore, 2022
In questo libro dal titolo Da un Poemetto alla Luna. I fiori di Gelsomino l’autrice Adriana Deminicis prende l’avvio dalla considerazione dell’atteggiamento umano consistente nella diffidenza verso il suo simile, nella chiusura, che lo porta a innalzare muri, a chiudere frontiere. L’autrice lamenta anche nei propri riguardi l'incomprensione che trova nel condividere i suoi pensieri, e la conseguente emarginazione da parte degli altri. Ella disapprova pure l’educazione a norme rigide, con pregiudizi che rendono sordi agli aneliti di limpidezza, di magnanimità, di lungimiranza. Questa atmosfera pesante ha provocato in lei quasi una malattia sentendosi emarginata, malattia da cui si augura la guarigione.
Auspica dunque un cambiamento nella visione delle cose e nel comportamento degli uomini tra di loro, che è improntato appunto oggi ad individualismo, indifferenza, incomprensione.
Con sorpresa allora sono proprio le piante o la contemplazione del cielo a ispirare pensieri e sentimenti che aprono alla speranza: «…la Luna alla Sera risveglia in me antiche miscellanze, / anche il profumo dei fiori, / anche le meravigliose piante con il loro cuore / così delicato e attento mi vengono a parlare, / mi fanno sentire la loro calda presenza, / rassicurante, un cibo che nutre / e rende lieti di speranza…» (Frammenti di esistere).
Ed è da qui che la poetessa intravede un miglioramento: «…presto arriverà il cambiamento / … simbolo massimo / di Libertà e di Armonia / con l’Amore a guidar la rotta» (ivi). Allora è la Luna e il fiore del Gelsomino in particolare che suscitano in lei una sequela di pensieri e di ispirazioni. «… / Luna argentea così buona e amica /…/ il mio pensier si eleva immenso / raggiunge vette elevate dove la Luce Bianca / di guarigione non è mai stanca...» (La Luna e la Vita, Venere e l’Amore). Così comincia a «…nutrir un pensiero di cambiamento, / non più soggetto a limiti, / mi liberavo di una memoria fatta di impedimenti, / pregiudizi… le mie affermazioni / cominciavano ad andare verso luoghi fioriti…» (ivi).
Ecco i fiori. Ecco il gelsomino. Alla luna, da lei chiamata «la Regina della Luce», si affianca il gelsomino che «…alla Sera veniva a profumare / il Viale» e che «…simboleggiava un amore Eterno, / che si faceva sentire…/ per onorare tutti quegli sguardi / che da tempo avevano cercato un Amore vero» (Il Gelsomino alla Sera veniva a profumare il Viale).
Luna e Gelsomino allora li possiamo pensare come il simbolo, la Luna della Luce, ovvero della Verità, della Giustizia, invece il Gelsomino come il sentimento che può scorrere come fluido a unire gli uomini, e cioè l’Amore. Solo così la felicità potrà brillare negli occhi di tutti. Luna: «Saggezza Eterna, Intelligenza che viene ad illuminare» (Luna).
Inoltre Adriana Deminicis nella contemplazione della luna e nel godimento del profumo del gelsomino, sente una immedesimazione di sé con l’Universo. «…tutto di me era presente nell’Universo, / tutto dell’Universo mi accompagnava…» (Poesia d’Amore. La Luna Rossa). È il microcosmo che si fonde col macrocosmo. Del resto tutti gli elementi sono sia nell’uomo che nell’Universo. Sono costituiti della stessa sostanza. Il pensiero dell’autrice ora spazia nel Tutto. E il Tutto, che è l’Universo, è ricco di Amore: «… C’è tanto Amore nell’Universo, / … l’Amore ha radici profondissime, / ogni rosa che nasce ne rappresenta il Simbolo, / simbolo lieto di un Amore senza fine…» (Guardavo il Cielo).
È un’opera deliziosa questo “Poemetto alla Luna. II fiori di Gelsomino” di Adriana Deminicis, un’opera che quasi ci fa sentire la freschezza delle piante, il profumo dei fiori, ci mette in comunicazione con la natura e con l’Universo intero. Un’opera di ampio respiro che esprime l’anelito a distaccarsi dal mondo dove domina il male che altro non è se non la mancanza di amore. E l’amore lo possiamo attingere alla Luna, al Gelsomino. Presenze stupende che esprimono purezza anche con il loro biancore.
Dal mondo caotico e malvagio la poetessa trova uno spiraglio di speranza: un mondo di amore cui la natura ci introduce.
Si avverte anche in questo anelito alla vita senza più tristezza, senza più affanni, quasi il presagio della vita futura, dell’aldilà. Forse è insito nella natura umana il concetto del Paradiso, dove sarà asciugata ogni lacrima, dove non ci sarà più né pianto né dolore, ma solo luce, amore e felicità.
Maria Elena Mignosi Picone
Adriana Deminicis, Da un Poemetto alla Luna – I fiori di Gelsomino, pref. Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 120, isbn 978-88-31497-32-9, mianoposta@gmail.com.