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Leopardi, il poeta dell'infinito

9 Gennaio 2025 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #serie tv, #poesia, #personaggi da conoscere

 

 

 

Se Leopardi il poeta dell’infinito fosse una qualsiasi serie in costume, mi sarebbe piaciuta. Ma è una serie su Leopardi e non va bene.

La prima puntata si salva: Ranieri che si batte per una degna sepoltura al poeta malvisto dall’intellighenzia e dalla chiesa, il conte Monaldo, superbamente interpretato da Alessio Boni (molto migliorato negli anni come attore), la cui tensione morale e affettiva si rivela da ogni tendine e muscolo facciale, l’austera e terribile madre, felice che il figlio sia malato per poterlo immolare al suo Dio corrucciato. Bello, per dirla in breve, l’inizio.

La seconda puntata lunga, tronfia e quasi inguardabile, con l'improbabile carteggio alla Cyrano de Bergerac fra Raneri e l’Aspasia/Targioni Tozzetti. Passano gli anni e questa sorta di gobbo di Notre Dame rimane troppo giovane, troppo bello, troppo dritto e con lo stesso, anonimo filo di voce per tutto lo sceneggiato (sì, io chiamo ancora così le serie tv e me ne vanto).

Non trovo giusto aver puntato tutto sul Leopardi filosofo, sul suo nichilismo, disfattismo e pessimismo, quando, in realtà, questo “giovane favoloso” era innamorato della vita, dalla quale si sentiva escluso. Ebbene sì, avrebbe rinunciato a tutta la sapienza, a tutta la cultura, alla fama e alla gloria pur di essere come qualsiasi altro. Leopardi amava l’amore e s’infatuava, Leopardi gridava alla luna il suo dolore e la sua rabbia per la cattiveria con cui la natura matrigna si era accanita contro di lui. Insomma, non mi è piaciuto l’aver puntato tutto sulle Operette Morali piuttosto che sui grandi e piccoli Idilli.

La figura del Ranieri, poi, è completamente sbagliata. Da Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi si evince la figura di uno sfruttatore, certo non di un grande, sincero e disinteressato amico, come si vuol far credere qui; il quale non si è battuto perché venisse ricordata la grandezza del genio leopardiano, ma piuttosto le bizzose meschinità di un povero malato: nevrastenia, golosità, piccole cattiverie che sicuramente erano presenti in una figura tanto sofferente e delle quali, però, non c’è traccia nella serie di Rubini.

Concludendo, molto meglio Il giovane favoloso di Martone.

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Benedetta Sanna, "Avere la pazienza del pane"

4 Gennaio 2025 , Scritto da Rita Bompadre Con tag #rita bompadre, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Avere la pazienza del pane di Benedetta Sanna (Eretica Edizioni, 2024 pp. 68 € 15.00) discioglie l'origine del fermento esistenziale mescolando gli ingredienti con un espediente indispensabile per far maturare l'amalgama emotivo attraverso la fragranza dei versi e il profumo della memoria. Benedetta Sanna concede il suo tempo interiore nella preparazione di una riflessione umana, lungo il tracciato delle parole, la qualità panteistica delle immagini, immersa tra isola e città, nella reazione alle avversità e alle difficoltà della vita. Se il pane elabora la pazienza, la poetessa raggira l'antico e proverbiale modo di dire per alimentare l'atteggiamento alla comprensione, la disposizione alla fiducia nella natura e nel suo stupore e alla volontà di percorrere l' evoluzione personale, nella stabilità di tracciare su carta la destinazione della propria anima. I versi delineano le reazioni istintive, provocate dalle aspettative sensibili, fondono l'irrequietezza nelle schegge di lucida immediatezza, scuotono l'affanno della coscienza, persistono nella loro urgenza di espressione, nell'esigenza di trovare un'entità autentica, capace di rivelare l'intensità dell'intonazione elegiaca. La poetessa vive la ragione poetica, coniuga l'esperienza della dimensione estetica di ogni visione del reale nella quotidianità con la pratica di una scrittura meditata nell'attenzione intenzionale alle sensazioni, inaugura la stagione di una fusione spirituale, condensa l'indagine negli affetti e salda la qualità dei componimenti appesi nella sospensione dei ricordi. Benedetta Sanna suggerisce, con l'impeto suggestivo delle sue poesie, l'indicazione interpretativa dell'attesa, come indugio silenzioso e minuzioso nei rapporti relazionali, assiste l'asprezza e la severità degli eventi, evidenzia la dolcezza della speranza e la consistenza dell'assenza. Accoglie nel suo cuore l'avidità insaziabile di trasmettere amore, oltre la rabbia e il dolore, aggira la voragine inaccessibile dello sconforto e l'intuizione indefinibile della malinconia con il significato profondo di una schiettezza urlata e decantata nella vicinanza delle superfici animose e solitarie dei pensieri, oltre l'indolenza del distacco e l'accerchiamento della solitudine. Avere la pazienza del pane ricorda di cogliere l'opportunità di sorvegliare, capire e seguire l'estensione della consapevolezza, proietta il valore del presente nella benignità del tempo che sa sempre restituire gli intrecci della vita scandendoli oltre il frammento dei turbamenti. Benedetta Sanna confessa la fragilità dei rimpianti e la ruvidezza delle separazioni, esprime l'energia coraggiosa della parola, dà senso alla voce sfumata e disillusa della nostalgia, pone la quiete all'inquietudine. Manifesta l'intenzione di dare forma e corpo al grumo indistinto e indecifrabile dei sentimenti, confida nella previsione temporale delle esperienze, fa riemergere la riflessione antica e generativa degli intervalli. Dedica alla risorsa preziosa dell'indulgenza la ripartizione della tensione impaziente, interroga l'anima e ne ascolta il principio vitale, identifica l'eco del rimpianto, le occasioni inesorabili di impastare le fascinazioni e i disinganni del proprio cammino. Benedetta Sanna ci insegna a saper prevedere, ad attendere il tempo necessario affinché le prospettive umane migliorino, a nutrire le trasformazioni e ricevere compiutamente le conseguenze della saggezza popolare: “A chi sa attendere, il tempo apre ogni porta”.

 

Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

 

Al mare basterebbe

sapere che torniamo,

che il viaggio non è breve

ma l'orizzonte lo vediamo:

i contorni del suo volto,

l'isola e il suo solco,

uno sbadiglio nel Mediterraneo.

 

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Se la notte porta il sogno

e nel sogno c'è un consiglio

di saper essere anche io notte,

quando voglio:

una penna che non dubita del foglio.

E io che resto serva del tuo giorno

so bene che ti vedo

solamente alla sua fine,

dove il nero è tutt'uno con la stanza.

 

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Sapessi come te dimenticarmi

dell'affanno dei miei anni,

che invece io pronta ricordo

ogni volta

che scordo l'origine dei venti

e cosa scosse il maestrale

nelle radici,

in quegli occhi tuoi sempre spenti

e le tue spalle come colline,

alle mie pendici.

 

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Solamente scrivendo

posso togliere la rabbia.

Evitare di sputare la tovaglia,

aggredire i tuoi costumi ed usi,

così sporchi e truci

di giostre secolari,

violenze e torti.

Di netto poi trafiggo

dal polso fino al torace

lo spettro sudicio e ingombrante

dell'elefante in una stanza.

 

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Distinguere parole

come rose dalle spine,

tra le mani tue supine

in grado di abbracciare

ogni mio indizio alieno.

Su quella spiaggia bianca e dolce,

dove ancora

dormo e tremo.

 

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Sono arrivate molte cose

negli anni

a salvarmi.
Prima dalla provincia,

poi da ogni mia piccola stanza.

Quasi come un passaggio

di mano in mano

di una chiave

o di un segreto,

e quella devozione.

L'occhio aperto

sulla terra stanca.

Il tuo antico rituale.

 

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Gomitolo di niente,

briciola

scarto

e restanza.

Pregarti voglio oggi

per avere un segno,

da un cielo

il cui colore appena distinguo.

Dal tetto del palazzo,

da un urlo sotto casa.

La notte non ha suono.

 

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In banca

3 Gennaio 2025 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto, #immagini AI

 

Immagine generata con Microsoft Designer AI

 

 

 

Era una tranquilla mattina negli uffici della SicilKas, una banca di Palermo. I clienti erano pochi e le mansioni da espletare da parte degli impiegati non risultavano impegnative.

Guido, il dipendente più anziano, fremeva dentro di sé, difatti in qualche modo teneva a bada l'euforia, d'altro canto quel lunedì 23 maggio 2016 lo considerava un giorno speciale.

Intorno alle undici, prese una moneta da un euro dalla tasca sinistra della giacca e si alzò dalla scrivania per piazzarsi davanti al distributore automatico per la pausa caffè. I colleghi a passi lesti si aggregarono a lui, che iniziò così ad attaccare con alcune battute fritte e rifritte.

Tutti i presenti lo ascoltavano con genuina simpatia, tranne uno: Arnoldo Vizzini, il direttore, un uomo rigoroso e serioso che mal sopportava lo spirito scherzoso del signor Guido, tra cui una ricorrente frase umoristica espressa in quel momento che suonva: «I soldini, in soldoni al soldo mio.»

Costui stette a origliare un po' dal corridoio finché sopraggiunse col chiaro scopo di disperdere la combriccola creatasi, nonché far trasparire quanto gli stesse sul cazzo il "clown" della filiale.

«La Spada, è da trent’anni che ci sorbiamo le sue solite minchiate da... quattro soldi!» sbottò. «Sempre pasta e fagioli, pasta e fagioli, pasta e fagioli…»

«È da trent'anni che anche lei è sempre lo stesso. Eppure non mi sono mai lamentato» gli rispose Guido sardonico, approfittando per togliersi un sassolino dalla scarpa.

I colleghi risero in simultanea e ne seguì un caloroso applauso.

«Fino all'ultimo, Cristo!» borbottò il superiore, allontanandosi dal gruppo per avviarsi verso la toilette.

«Sotto sotto l'hai mandato... a cagare» osservò, ammirata, Margherita la ragioniera.

«Eh, da domani sarò in pensione e vaffanculo al direttore!» le rispose il battutaro, tronfio di aver "incassato" una bella soddisfazione.

 

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L'ultimo ballo

2 Gennaio 2025 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #guseppe scilipoti, #racconto, #immagini AI

 

Immagine generata con PicFinder AI

 

 

 

«Sei ebrea?»

Angela non rispose e rimase a fissare un punto indefinito del pavimento di una piccola casa composta da una stanza malmessa e poco arredata che fungeva da rifugio. Uno strano silenzio regnò incontrastato per alcuni istanti che fu poi spezzato dal fracasso di un bombardamento in lontananza.

Horst Kleine, capitano delle SS, e la giovane infermiera erano i soli sopravvissuti del settimo battaglione, spazzato via dalle forze alleate. L'ufficiale prese un profondo respiro ed estrasse la Luger dalla fondina.

«Immagino che tu sia riuscita a nascondere le tue origini grazie a qualche scappatoia.»

Angela trasalì, indietreggiando d'istinto.

«Kommandant, non occorre, tanto siamo entrambi spacciati.»

Horst sorrise e appoggiò la pistola sul tavolo in legno massello, accanto a del pane raffermo e a una brocca piena d'acqua con due bicchieri.

«Desideravo alleggerirmi da questa inutile ferraglia. In verità non ho mai ucciso nessuno, la divisa che indosso è dovuta alla costrizione di mio padre. Prima di entrare tra le file del Reich, ero un bravo ballerino. Pensa che mi esibivo nei teatri più famosi della Germania» le raccontò con una voce calda e gentile, ma intrisa di malinconia.

Angela si riavvicinò, realizzando che in quell'uomo alto dai lineamenti fini e distesi, dai cortissimi capelli biondi e dagli occhi azzurri come il cielo terso, non vi era traccia di ostilità. 

A ridosso del muro scrostato c'era uno sgabello con un grammofono e un disco inserito. Il militare ruotò la manovella e nel giro di mezzo minuto le note del Tannhäuser, di Richard Wagner, sfarfallarono nella casetta.

«Balliamo!» esclamò Horst, mettendo la mano destra sul fianco sinistro di Angela.

«Io non so ballare...» 

«Ti guido io. Lasciati andare.» 

«Non credo che abbiamo abbastanza tempo» disse la ragazza versando lacrime copiose. «Un sibilo… una bomba sta quasi per colpirci.» 

«Ti prego» insistette Horst con dolcezza «Non voglio ballare da solo.»

Fecero una decina passi, accompagnati dalla musica di una delle opere più belle di tutti i tempi, finché si abbracciarono. Il  boato che seguì fu l'ultima cosa che sentirono.

 

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Il fascino e la pena del vivere nell’arte di Daurija Campana

1 Gennaio 2025 , Scritto da Floriano Romboli Con tag #floriano romboli, #recensioni, #poesia, #arte, #pittura

 

 

 

 

Daurija Campana

Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato

Guido Maino Editore, Milano 2024

 

Una caratteristica della ricerca poetica di Daurija Campana  - ora antologizzata nel volume Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato, pubblicato dalla Casa Editrice Miano -  è il ricorso invero frequente a un sistema di rime, talora evidenti nella loro regolarità (“Socchiudi il sole tra le ciglia scure/ e lascia che il tempo i pensieri pasca/ hic et nunc, tra prati, piane e paure/ hai nascosto le cinque lire in tasca…”, Il canto del cuculo), talora più rare e sfumate (“…Ed io restavo a casa a prepararmi/ per la scuola e pensavo/ quanto avrei desiderato destarmi/ una volta col tuo bacio”, Madre) o magari maggiormente elaborate in un sapiente gioco fonico-ritmico di lontana, ma inequivoca ascendenza dannunziana: “Non piace./ La pioggia che dice/ che tace… Che pace!/ Tra gli orti, contorti/ pensieri distorti/ su vivi e su morti/ che pace, che sensi…/ Che pensi? (…) Sembriamo/ uccelli dagli aurei capelli, fringuelli/ leggeri e soavi/ che lievi/ distendono ali/ sul cielo sereno” (Non piace).

Tale particolarità compositiva implica un effetto di stabilità, di equilibrio armonioso, di indubbia scioltezza formale, pur in presenza di procedimenti costruttivi di segno opposto, quali l’enjambement, rivolto a esiti di “spezzatura”, di frangimento disarticolante la compagine strofica: “…Le tue cangianti vesti non ingannino/ il marinaio che il tuo volto ammira/ non si neghino al folto dei cipressi:/ così lui ti vedrà dalla dimora/ eterna…” (Luna); oppure, più specificamente, come le pause indotte dall’inversione dell’ordine sintattico nell’organizzazione del discorso logico, dall’impiego della figura dell’anastrofe: “Ti alzi, soffio di vita nell’aria/ dorato grano tra spighe e respiro,/ sopra la terra leggera che varia,/ sguardo di cielo immenso blu ammiro…” (Il vento); Il cielo è sereno, cade la pioggia,/ oggi il sorriso è turbato dal pianto,/ il viso riga scendendo la goccia,/ l’animo giace perduto ed affranto…” (Cade la pioggia); “Per te io piansi le lacrime in cuore,/ la giovanile età del gioco/ in cui la gioia dimostravo lieta/ e al sorriso spesso ricorrevo.// Ma poi ti vidi e fu in me il dolore/ che mi sussurrava il tuo sguardo fioco/ mancato sorriso lo sguardo vieta/ e nel guardarti, ricordo, piangevo…” (Amore).

Nondimeno una sollecitazione antitetica anima profondamente la struttura dei testi lirici di Campana. Una nota vitale, uno slancio positivo e proiettivo si precisano come attesa di un incontro morale-affettivo, come desiderio di piena intesa sentimentale, bisogno di integrazione con gli altri e di immedesimazione con il respiro pacificante della natura; questa istanza fiduciosa ed espansiva tende successivamente a contrarsi e a cadere, inappagata e respinta, risolvendosi in scacco emotivo, privazione, rimpianto, dolorosa solitudine: “…E spira il silenzio sopra il mio canto,/ la nuvola bella appare più rosea/ sorrisi sul sole e sui solchi scuri/ in petto il cuor mesto ora riposa” (Cade la pioggia, cit.); “…Continuo a bramar, ogni istante, ogni ora/ che il padre mio, che tanto io adoro/ ritorni da me e resti per ore/ per giocare con la sua bimba ancora” (Re Evandro); “…ma il desiderio seguiva il timore.// Giorni lontani, di gaudio e di festa/ giorni di vita, di spensieratezza/ tutto oggi è perso, come la pula/ che porta via il vento, troppo lontano…” (Mietitrebbia).

Anche nella produzione pittorica dell’autrice si alternano colori vivaci, un cromatismo esuberante e tonalità più cupe, dal blu al grigio: quest’ultimo, ad esempio, domina la rappresentazione del padre, ritratto di spalle sul trattore, figura indeterminata poiché ormai remota e perduta.

Il prefatore Michele Miano acutamente pone in risalto il fatto che la poetessa in varî dipinti “sembra prediligere la figura umana femminile”, riprodotta in atto problematico e pensoso. Aggiungerei che detta figura si staglia su un fondale uniforme e spesso nero, e concentra nello sguardo uno spirito suggestivamente enigmatico e interrogativo, pronto a misurarsi con le prove della vita, ma ad aprirsi altresì alla speranza: “Ti prenderei la mano/ tra spighe meste e campi di fieno,/ e assetata di vita/ correrei al lago, mentre i rossi papaveri/ condurrebbero i passi/ alla quiete…” (Vanessa cardui).

Floriano  Romboli

 

 

Daurija Campana, Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 80, isbn 979-12-81351-41-7, mianoposta@gmail.com.

 

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Andrea Cattania, "Amore per sempre"

28 Dicembre 2024 , Scritto da Enzo Concardi Floriano Romboli Gabriella Veschi Con tag #enzo concardi, #floriano romboli, #gabriella veschi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

 

Amore per sempre

Andrea Cattania

 Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

 

“Amore per sempre” in Andrea Cattania e in Edward Estlin Cummings

“L’amore per sempre dei nostri due poeti, come suggerisce il titolo di questa tematica, riguarda la poesia amorosa dedicata ad un’unica donna amata, al sentimento che sfida il tempo, all’eterna promessa fra due entità che s’incontrano per non più perdersi: solo la morte potrà segnare la dimensione dell’assenza, della distanza, ma forse neanche Lei, poiché il ricordo, la memoria dell’unione infranta, sopravvive spiritualmente anche agli artigli della Straniera, e ciò vale per l’esperienza umana e letteraria di Andrea Cattania. Succede a lui – l’amore non conosce differenziazioni di epoche o di mentalità – quel che capitò a Dante con Beatrice (la donna angelicata, salvatrice della sua anima, guida spirituale nel Paradiso della Commedia) e al Petrarca con Laura (la protagonista del Canzoniere, dove il poeta aretino suddivide il suo canto fra le rime “in vita” e “in morte” dell’amata). Assistiamo dunque alla sublimazione del sentimento amoroso, poiché poco importa se Beatrice e Laura non sono mai state realmente a fianco dei due poeti toscani e sono andate all’altare con altri uomini: per loro esse sono rimaste sempre la vera idealizzazione della donna perfetta o perfettibile, fino a costituire costante fonte di ispirazione poetica per tutta l’esistenza. Così anche per Cattania, che nei suoi versi esprime ora il rammarico e l’amarezza per un amore non corrisposto, poi la felicità con la donna che ha amato “in vita” e che amerà per sempre anche “in morte”: Lila»  […].

Enzo Concardi

 

 

***

 

Le problematiche dell’essere in Andrea Cattania e in Charles Baudelaire

La profonda dicotomia dell’essere che sin dai primordi turba l’animo umano e scuote gli intellettuali di ogni epoca, emerge anche nell’opera del poeta - ingegnere Andrea Cattania; un’ossimorica tensione tra ragione e sentimento, tra angoscia esistenziale e desiderio di elevazione pervade infatti le sue liriche. La poesia di apertura di questo capitolo, Il futuro dell’homo sapiens, pone subito un’accorata domanda, enfatizzata dall’apostrofe e dal rincorrersi di potenti antitesi: «Che ne sarà di te, Uomo Sapiente?// […]/ Vinci sfide impossibili, raggiungi/ le vette della conoscenza astratta.// Spingi al limite il pensiero simbolico.// Incapace di volgere in amore/ la folle ebbrezza di un sapere immenso,/ non sai se non ipotizzare quando/ si estinguerà, e come, la tua specie». L’ammirazione per i risultati raggiunti dalla mente umana, sottolineata dai verbi vinci, raggiungi, spingi, si accompagna alla triste consapevolezza della leopardiana infinita vanità del tutto: l’uomo non sa trasformare la sua conoscenza in condivisione (incapace… non sai), non si innalza al di sopra del contingente e il suo folle volo è ancora una volta fallimentare. Tuttavia i versi sono mossi da un’incessante ricerca, tesa a svelare il senso dell’esistenza e a scoprirne la bellezza, anche quando i sentieri sono impervi e le vie d’uscita lontane: «…Noi,/ piccole talpe cieche sottoterra,/ allunghiamo lo sguardo, ci illudiamo/ di scorgere un chiarore in fondo al tunnel…» (L’intuizione di Anassimandro). […].

Gabriella Veschi

 

***

 

La contemplazione dell’universo e della natura in Andrea Cattania e in Paul Claudel

Non è raro il caso di una personalità dalla solida preparazione scientifica, che nondimeno riveli vivi interessi artistico-letterarî, che coltivi anche attivamente non superficiali inclinazioni estetico-culturali, una spiccata propensione alla scrittura poetica. Sono d’altronde pienamente ammissibili opzioni tematiche extra-scientifiche, svolgimenti di motivi etico-sentimentali, intimistico-psicologici o storico-sociali, confessioni di esperienze di vita sofferte e inconfondibili.

Invece la ricerca lirica dell’ingegner Andrea Cattania non sa prescindere dalle problematiche logico-matematiche, specificamente astrofisiche, che urgono alla sua mente, stimolano la sua fantasia, la quale se ne alimenta intensamente con risultati di indubbia incisività creativa: «La materia diffusa, l’energia/ che pervade/ l’intero cosmo, ovunque,/ nell’universo/ genera il campo gravitazionale./ La distorsione del mondo reale./ La curvatura dello spaziotempo» (La distorsione dello spazio); «…La luce/ si propaga intrecciando al proprio interno/ i due campi in un’unica natura/ nell’universo dello spazio-tempo./ La sua velocità costante è un limite/ irraggiungibile, esprime il rapporto/ in cui la massa diventa energia» (Vorrei conoscere i pensieri di Dio).

A un discorso imperniato sulla univocità e determinazione lessicali unite a essenzialità sintattica è immanente il rischio dell’aridità intellettualistica o comunque dell’appiattimento prosastico, mentre l’autore non si nasconde le peculiarità preziose della poesia: «La tempesta quantistica flagella/ gli elementi del brodo primordiale./ Li sfibra, li divelle, li affastella/ in seno al cono gravitazionale/ (…) Non solo lo scienziato, anche il poeta/ osa raffigurare lo scenario/ dell’Universo nell’Istante Zero./ La traccia folgorante di un pensiero./ L’origine del tempo immaginario» (La nascita del cosmo, corsivi miei come sempre in seguito). […].

Floriano Romboli

 

 

Andrea Cattania, Amore per sempre, prefazioni di Enzo Concardi, Floriano Romboli, Gabriella Veschi; Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 100, isbn 979-12-81351-46-2, mianoposta@gmail.com.

 

 

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Alessandro Falciola, "Alex Complete"

26 Dicembre 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

 

L’autore di Alex Complete “completo” in quanto raccolta di tutti gli “Alex-racconti” pubblicati con Passerino Editore – Alessandro Falciola, (con le illustrazioni di Fabrizio Lorenzelli) descrive il suo testo come “un esperimento, un ibrido tra il fumetto con tavole disegnate e parti scritte”. E ancora: “con la formula dell'ebook, posso inserire nuove tavole o aggiungere parti e il mio editore può modificare in 48 ore tutti gli ebook su tutte le piattaforme, una cosa atipica… in movimento”.

In effetti, se si riesce a districarci fra gli errori d’ortografia, i troppi puntini di sospensione, la punteggiatura tutta sbagliata, gli apostrofi mancanti, gli accenti errati, che nessuno si è preso la briga di editare, si evince una sorta di canovaccio, di sceneggiatura per fumetto o anche per film.

I racconti hanno per protagonisti il capitano Hassler delle SS e il giovane Alex Hinder, suo fedelissimo. Le storie, che si susseguono in ordine cronologico, sono ambientate in un tempo distopico- dispotico, dove Hitler ha vinto la guerra e non è morto, per essere poi sostituito da un certo Becker suo successore e, alla fine, addirittura da uno dei due protagonisti principali, Hassler. Gli Stati Uniti, invece, sono sotto il dominio giapponese.

Il mondo intero è comandato da regimi totalitari nazifascisti che fanno capo al Reich e – nella scia di Indiana Jones e l’ultima crociata – i nazisti sono sulle tracce di alcune sante reliquie, fra le quali un chiodo della vera Croce che darà il via agli eventi.

Ogni storia è un piccolo delirio “politically scorrect”, fatto di trame veloci, quasi fulminee, pochissimo sviluppate e solo per appassionati del genere, all’interno delle quali “la giustizia non entra”.

Ci si muove fra savane, tombe, cripte, conventi, miniere. Gli attori sono SS e monaci, poliziotti neri e spie, sciamani e narcos, il tutto condito da esoterismo ed eccidi, da sangue, violenza e barbare esecuzioni.

Parecchi i temi trattati, la lotta fra l’esercito e la Gestapo e all’interno delle stesse SS, il misticismo, il contrasto fra ideale e reale, l’idea che la vera scienza sia la religione.

Lo stile è frammentato e secco, molto colloquiale. Ogni tanto qualche immagine si distingue per un certo languore decadente non spiacevole, ad esempio la figura del cantante in frac nel locale notturno.

 

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Wanda Lombardi, "Tempi inquieti"

23 Dicembre 2024 , Scritto da Marco Zelioli Con tag #marco zelioli, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Wanda Lombardi

Tempi inquieti

Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

Wanda Lombardi torna a far sentire la sua voce poetica con una breve ma intensa raccolta, Tempi inquieti, per Guido Miano Editore: venticinque nuove poesie, seguite dalla riproposizione di altre quattordici già pubblicate e raccolte sotto il significativo titolo Perché nulla vada perduto. Il tutto conferma quanto la poetessa sia ‘presente’ al nostro tempo, pur così travagliato; e la sua ricca bibliografia a chiusura del libro lo attesta senza ombra di dubbio.

Nell’accostare i versi di questa raccolta di Wanda Lombardi, non si può prescindere dall’osservazione di Maria Rizzi nella Prefazione all’opera, laddove, riportando i versi che alludono all’«… immane dolore / che stretto ho serrato nel cuore / dinanzi a muri di ferro …» (da Nell’andare), afferma proprio tale esperienza permette all’Autrice “di calarsi nel sociale con sguardo caldo di pietas, valutando i pericoli del male, schegge di guerra in periodi bui come quello che attraversiamo”. Il “coraggio delle ferite” (citando ancora la Rizzi) permette alla Lombardi di affrontare ogni argomento con spirito al tempo stesso umile e combattivo – come testimoniano poesie come Rialzarsi per continuare.

Come le rondini che fuggono dai consueti posti, perché dall’alto vedono «i risultati dell’odio,/ devastazioni, strade insanguinate,/ infanzia violata, crudo dolore/ per rancore tra genti mai sopito,/ per un diritto mai ottenuto» (da Rondini addio), così lo scoramento può prendere anche le persone capaci di pensare con la propria testa, perché «…in ogni angolo della Terra si soffre,/ si langue, si muore/ per contrasti a volte minimi/ che dialogando si potrebbero evitare» (da Abitudini). E poi, «In un mondo che corre vorticosamente,/ in un’epoca in cui sempre più veloci andiamo,/ spesso dimentichiamo la necessità/ di pensare, di usare il cervello/ che tempi più lenti ha per lavorare» (inizio de Il tempo della velocità). Non per nulla Tra ombre e dubbi finisce così: «È vero o falso il mondo in cui viviamo?/ Forse è da preferire questo a quello di domani». In ogni caso, «Malgrado gli alti e bassi,/ meravigliosa è la vita/ ché anche i momenti bui/ forza ridanno, la volontà nutrono/ e trasformarsi possono/ in coralli luminosi/ sì come le stelle dal caos/ si distinguono» (da La collana della vita). Ciò conforta anche di fronte alle perdite di affetti e di persone, come testimoniano le poesie dedicate al fratello Ubaldo e A un ragazzo prematuramente scomparso.

Una poetessa capace di scrivere «qualcosa di grande avverto/ nella profondità dell’essere» (da La musica della vita) è senza dubbio persona aperta sempre alla novità, ma nello stesso tempo critica – giustamente critica sul senso di tale novità. Ci sono, infatti, novità che sconvolgono («Spaurita, dall’alto mi par di osservare/ un mondo lacerato che sembra crollare/ …/ rapidi cambiamenti epocali/ con diritti raggiunti, imprese spaziali,/ progressi nei paesi musulmani,/ robot, intelligenza artificiale,/ e accanto guerre, genocidi, povertà,/ dignità calpestata» – da Contrasti) e novità che confortano come la presenza di un amico (amico evocato con queste parole in chiusura della prima parte della raccolta: «Con viso aperto/ e trasparenza negli occhi,/ è un vento benefico/ che un equilibro restituisce,/ è una brezza marina/ che adagio ti sprona a ripartire,/ a riprendere in mano/ le redini della vita» - da L’amico vero). Sta all’uomo avvertire la direzione alla ‘piena umanità’ cui ogni persona è chiamata, rendersi conto che occorre «la capacità di meditare sulla vita,/ sui cambiamenti repentini,/ le cose irrisolte, i problemi accantonati/ e guerre… guerre nate con l’uomo/ e che con l’uomo periranno» (da Silenzio amico). È però inutile rifugiarsi «nel ricordo di tempi lontani/ quando tutto affascinava/ e un niente appagava», perché «Vivere in pace con tutti è un sogno/ che morirà con l’uomo» (da Sguardo sul mondo).

Così Wanda Lombardi ci sprona ad essere consapevoli del nostro tempo nel nostro tempo, cioè ad essere ‘presenti’ e non ‘assenti’ col cuore e con l’anima: il mondo in cui viviamo è il nostro mondo, non ce n’è un altro. Un richiamo da non sottovalutare, mai.

Marco Zelioli

 

 

Wanda Lombardi, Tempi inquieti e altre poesie, prefazione di Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 60, isbn 979-12-81351-38-7, mianoposta@gmail.com.

 

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Pasquale Ciboddo, "Labirinti della memoria"

22 Dicembre 2024 , Scritto da Enzo Concardi Con tag #enzo concardi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Pasquale Ciboddo

Labirinti della memoria

Guido Miano Editore, 2024

 

Il poeta sardo della Gallura, Pasquale Ciboddo, continua i suoi itinerari lirici con questa pubblicazione del novembre 2024, edita, con la prefazione di Michele Miano, nei tipi della collana di testi letterari Alcyone 2000, appartenente alla produzione della milanese Casa Editrice Guido Miano.

Pasquale Ciboddo è uomo d’altri tempi, non nel senso riduttivo del termine, ma nel suo significato altamente positivo, ovvero quello di persona, intellettuale e scrittore sempre coerente con i valori della società in cui è nato, cresciuto, e vissuto fino ad oggi, mantenendo radici e identità culturali e geografiche intatte. È così che possiamo senz’altro definirlo come un autentico testimone del tempo, che ha quindi resistito alle sirene consumistiche e agli illusori miti di un progresso disumanizzante, per ergersi a portabandiera e simbolo di un’altra civiltà: il mondo contadino-agreste-pastorale dell’economia degli stazzi, un microcosmo autarchico dell’entroterra sardo legato ad una rete sociale e umana di fratellanza, solidarietà, lavoro, ideali in via di estinzione.

Tale premessa è necessaria per comprendere a fondo la genesi, l’origine della poetica di Ciboddo, espressione ed epifania di un’etnia particolare ma, nel suo caso, non chiusa in se stessa, bensì aperta alle istanze universali dell’anima artistica che ogni sensibilità creativa possiede. La poesia dell’autore deriva essenzialmente dagli incanti, dalle ragioni di esistere, dalla vita dura del passato che è, allo stesso tempo, ora, quale un bel sogno vissuto e quindi non più revocabile ma, come dice egli stesso, ancora vivente nelle memoria. È dunque la ricerca del tempo perduto il centro delle sue liriche, sebbene nella presente silloge emergano altre componenti tematiche, altri motivi d’ispirazione: il profondo desiderio della pace duratura per l’umanità distrutta e divisa dalle guerre; la condanna di ogni riduzione e minimalizzazione dei sentimenti umani altruistici; lo sguardo cognitivo oltre i confini della terra isolana natia; l’amore per la spiritualità e la religiosità dei padri, contemplanti una fede semplice al servizio del bene, contro le forze diaboliche del male.

Pasquale Ciboddo si è prefissato un programma per il suo fine-vita; l’ha scritto nella prima lirica del libro, in piena coscienza e lucidità: “Chi sarà il bastone / della mia vecchiaia? / Vivo solo, dopo la morte / della mia cara mamma. / Già vecchio, cucino / e mangio con la speranza / di campare a lungo. / Prego e scrivo poesie / e racconti sulla storia / del mio vissuto a contatto / con la natura dove sono nato, / cresciuto e incanutito. / Spero che il Signore mi / aiuti a essere sano e indipendente / sino all’ora della morte” (Prego e scrivo). Il suo stile semplice, diretto, scarno e senza fronzoli ci mostra subito la tempra di un uomo che ama l’essenzialità della vita, così ben rappresentata dall’immagine degli ossi di seppia montaliani. Da questi versi paradigmatici possiamo già trarre alcuni motivi a lui cari. La natura è interpretata come la casa propria, come le radici da non divellere senza dolore e lacerazioni: la natura inoltre È poesia (“Immersi in un mondo / senza tempo / le nostre radici / rinascono / dalle proprie ceneri. / Il tempo trascorso / diventa l’alba / di vita nuova. / E poi la natura / è poesia”. Madre terra è come un teatro all’aperto e i monti maestri muti di vita (Un teatro): immagine, quest’ultima, reminiscenza di derivazione goethiana, con uomini “discepoli silenziosi” delle montagne. Così il canto nostalgico si risveglia nel ricordo del garrire armonioso delle rondini … “musica e poemi / del tempo passato” (Rondini). La luna dei poeti, in lui non è quella leopardiana da interrogare sui quesiti esistenziali, né quella degli innamorati, ma un corpo celeste che aiuta la Terra a non essere un solo deserto (Per arricchire). La religiosità non ha in lui bisogno di problematiche complesse, ma si sviluppa nell’umiltà e nella semplice lode al Signore, nel vivere in pace le beatitudini spirituali, nella fiducia nell’opera della Provvidenza di manzoniana memoria.

E il viaggio nella memoria ricostruisce molti momenti del passato, tra cui l’allevamento in Gallura, la scomparsa del già citato mondo degli stazzi, la malinconia per il declino delle iniziative culturali, la tristezza per la fine dell’arte delle “chiudende” (muri a secco) … ma l’andare a ritroso nel tempo ha una funzione importante: tenere in vita ciò che si è stati, l’essere che fu. Il poeta sa che è vicino il momento dell’addio, il distacco dai beni terreni; ma la brevità della vita (Seneca) fa dire a Ciboddo: “E si è subito vecchi” (che è come “Ed è subito sera” di Quasimodo”). Tuttavia egli aggiunge da credente: “La speranza di vita eterna / si trova nell’al di là”.

Enzo Concardi

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L’AUTORE

Pasquale Ciboddo è nato a Tempio Pausania (SS), in Gallura (Sardegna), nel 1936; già docente delle scuole elementari, è uno dei poeti sardi più noti in Italia (è conosciuto anche a Cuba), e ha al suo attivo numerose pubblicazioni poetiche e di narrativa con prefazioni e introduzioni di prestigiosi critici. Ha conseguito molti premi e riconoscimenti.

 

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squale Ciboddo, Labirinti della memoria, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 80, isbn 979-12-81351-45-5, mianoposta@gmail.com.

 

 

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Silvana Ramazzotto Moro, "Van Gogh, l'uomo"

15 Dicembre 2024 , Scritto da Michele Miano Con tag #michele miano, #recensioni, #arte, #pittura

 

 

 

 

Van Gogh, l’uomo

Silvana Ramazzotto Moro

Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

Dalla stagione del simbolismo che non ha cessato ancora di influenzare e sollecitare tanta parte della letteratura e dell’arte contemporanea, il sodalizio tra artisti e poeti si è ripetuto in vari momenti delle “avanguardie” storiche dove l’immagine visiva ne rivelava nel linguaggio formale le più profonde significazioni. Nell’arte figurativa il simbolo accentra i significati nascosti e remoti dell’universo, che vanno intuiti e non descritti, nella identità assoluta tra l’emotività individuale e l’anima universale attraverso l’uso di colori accesi e tormentati come i colori di Vincent van Gogh.

Il lavoro di Silvana Ramazzotto Moro non vuole assurgere a un erudito trattato di pittura né tantomeno a un atlante d’arte cui rinviamo nelle competenti sedi, ma se mai a una nuova visione in chiave antropologica del pittore van Gogh. L’autrice infatti ha individuato i temi esistenziali più importanti relativi alla vita del pittore, poi ha ricercato e quindi riportato tutti i brani delle sue lettere che trattano tali temi, in modo da offrire al lettore il pensiero completo e soprattutto autentico dell’uomo. Riusciamo così a constatare la breve e tormentata vita del celebre artista con tutti i suoi risvolti umani, ambizioni, fallimenti, i rapporti con i familiari, con il fratello Theo, con gli amici e altri artisti del suo tempo.

Il sofferto epistolario che Vincent van Gogh ha scritto nell’arco della sua breve vita smentisce tante leggende sul pittore. Il mito «genio e follia» era lontanissimo dalla realtà, frutto di una superficiale mistificazione e di abili operazioni di marketing commerciale. Un artista senz’altro succube di profonde angosce ed ansie esistenziali, dovute a un’anima sensibilissima e mai compresa in vita; negli ultimi tempi, tuttavia, come afferma l’autrice, gli abituali stereotipi che lo riguardavano sembrano scomparire per presentare un van Gogh ben diverso.

Vincent van Gogh non era pazzo. Era un pittore culturalmente aggiornato, lettore e collezionista di volumi e di stampe, attento alle nuove tendenze artistiche del suo tempo. Frequentava i poeti simbolisti al caffè Voltaire a Parigi insieme all’amico Gaugin e teorizzava ciò che sarebbe diventato il «vêtir l’idée d’une forme sensible» (espressione dell’idea con le forme).

L’opera VAN GOGH, L’UOMO risulta strutturata in tredici capitoli che scandiscono appunto gli itinerari più salienti della sua vita. Le tematiche trattate più importanti sono: alcuni cenni di un suo autoritratto, la vocazione mistico-religiosa dell’età giovanile, i tormentati e sfortunati amori con l’altro sesso, i rapporti con i genitori, i rapporti con il fratello Theo, il concetto di arte, il tentativo di creare un cenacolo di artisti che potessero sostenersi anche materialmente nella loro difficile e misera vita fatta di stenti.

E poi i temi ricorrenti della sua pittura: le tonalità pure e primitive del colore, i paesaggi, la natura carica di simboli, il maledetto rapporto con il denaro, l’ammirazione per l’arte giapponese, la sua malattia…. Argomenti trattati con dovizia di particolari dallo stesso Vincent che racchiude in queste lettere tutta la sua disperazione di vita ma anche la gioia di chi è consapevole della propria identità, della propria rabbia divoratrice della vita.

La ricerca esistenzialmente rilevante dell’artista procede nel tentativo di afferrare l’inesorabile scorrere del tempo e del conseguente divenire attraverso l’unico strumento in possesso dell’uomo, non la scienza che è illusa dal presente, ma il “delirio creativo” che è sublime e tragica peculiarità dell’artista.

Vincent van Gogh nelle sue lettere percorre le vie del mondo attraverso i colori, le ombre: insomma ci apre le porte di un diverso modo di osservare il mondo per scoprire che la simbiosi dell’uomo con la natura può diventare osmosi, se sappiamo leggere nelle cose la profonda essenzialità poetica.

E questa Casa editrice, che nel suo piccolo, vanta 70 anni di storia, ringrazia Silvana Ramazzotto Moro, l’autrice del volume, per averci regalato uno scorcio di mondo che ci pare essere patrimonio di tutti.

Il che non è poco.

Michele Miano

 

Silvana Ramazzotto Moro, Van Gogh, l’uomo, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 376, isbn 979-12-81351-51-6, mianoposta@gmail.com.

 

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