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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

racconto

Fuori dal Palazzo

6 Giugno 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Intanto la battaglia fuori impazzava. Stuoli di bidelle armate fino ai denti di detersivi, spugne e scope stavano devastando le Milizie Imperiali, i morti si buttavano come pesi morti sulle Guardie che cadevano e venivano rotolate fino a tombe e fosse, gli ex-operai, resi disoccupati dall'automazione, avevano rispolverato i loro strumenti e stavano sconfiggendo i robot smontandoli pezzo a pezzo con cacciaviti e chiavi inglesi, i sottomondisti ex-proletari e immigrati mettevano in fuga le orde dell'esercito, dotati di laser nucleari e armature in titanio, con il mero fetore del loro inzaccheramento o scrollandosi come gatti dopo un bagno indesiderato, e schizzandoli di indicibile materia organica, che loro rifuggivano urlando angosciati, e piangendo che le loro corazze erano fatte solo per essere sporcate del sangue, DEL SANGUE, dei loro nemici, non di altro – e infatti a contatto con la perniciosa materia cominciavano a fondere e bruciare inesorabilmente – il che la diceva molto sull'acidità digestiva delle classi superiori. E non era tutto, perché chi stava guidando alla carica le lontre radioattive del Fiume della Morte? Ovvio, cari amici, era proprio lei, Deia, che con il suo canto di sirena le aveva conquistate – salvandosi - e arruolate per un blitzkrieg di rara ferocia roditrice: balzavano sui Rullastrade e conficcavano le loro estremità odontoiatriche in ogni dove, scardinandole in mille pezzetti, saltando in faccia ai piloti e dirottandole fuori strada o su qualche malcapitato drappello imperiale, se non contro lo stesso Palazzo Arancione, che bisognava ormai penetrare, quando – proprio mentre un tale passava in mutande accompagnato da alcune guardie -

 

BUM

 

si udì un boato dirompente, come un fulmine dallo spazio

 

e

 

 

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La Tecnica della Mutanda

4 Giugno 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

In ritardo rispetto agli altri Animaletti comparve, rallentata dal lento procedere su mini-stampelle, anche Mamma Ingorda, colei che si era suicidata durante il cambio di gabbia tempo prima gettandosi dalla finestra. Arrivò davanti alla faccia di Crispin ancora ingabbiata e gli diede uno schiaffo con la zampa.

Questo fu il massimo della tortura.

Dopo aver assistito a questo massacro del concetto di supplizio per tutto il tempo da dietro una parete a specchio, irruppe spalancando una porta nientemeno che il presidente imperatore Grump esclamando con disgusto, protervia, scandalo, sgomento e lapilli di saliva sparsi ovunque ma comunque con molta grazia: «Ma che straporcodiamine sta accadendo qui

Un funzionario, scartabellando una cartella tecnologica touchscreen, rispose: «Oh, uh, pare ci sia stato un errore... gli Animaletti erano l'incubo preferito di un altro ostaggio, un certo signor Smith, Winston Smith... Ci dev'essere stato uno scambio...»

Il solenne governatore del sistema solare si diede una pacca incredula sulla fronte.

«La paura dominante del signor Arlanovich è quella di uscire di casa e accorgersi, una volta arrivato in centro città, di essere effettivamente in mutande. Su ciò avremmo dovuto agire»

«Va bene. Sarò calmo. Sarò comprensivo. Sarò riflessivo, pacato ed equilibrato – come mi ha consigliato lo Psicoanalista Imperiale. GUARDIE, PORTATE L'EQUIPE DI QUESTA SALA AL DISINTEGRATORE E RIDUCETELI AI MICROBI CHE SONO!»

Il Nondottore fu così colpito da quelle parole che gli cascò la mascherina di faccia e bofonchiò «Ma... ma... ma... Mio Signore, ci dia qualche attimo, possiamo passare alla Tecnica della Mutanda il più veloc...»

In quel momento si udì un gigantesco boato.

 

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La Camera del Supplizio

2 Giugno 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Fu malamente depositato su un freddo e scomodo sgabello in una stanza neutra, algida, clinica – circondato da Guardie Imperiali e da un funzionario di cui si intravedevano solo gli occhi, il resto del volto era occultato da una mascherina medicale e la fronte chiusa da una cuffia che circuiva la testa. Era a pois.

«Salve!» gli disse il funzionario. «Benvenuto nella Sala del Supplizio!».

Crispin immaginava stesse sorridendo, entusiasta e gioviale, sotto alla mascherina, ma non poteva esserne certo. Di certo era evidente che gli piacesse il suo lavoro. Qualunque esso fosse.

Un urlo quasi squarciò la parete, da una stanza a fianco.

«Non si preoccupi, è solo il mio collega impegnato con un altro 'paziente'» lo rassicurò, poi fece una pausa, finalmente lo guardò e con voce confidenziale gli chiese: «Allora come ci sentiamo oggi? Non c'è niente di meglio che un 'paziente' in forma per trarre soddisfazione dal proprio lavoro. Probabilmente avrà avuto l'impressione che io sia un dottore. Ma non è proprio così. Vede... possiamo darci del tu? Vedi, in realtà io sono, diciamo, l'esatto contrario di un dottore» e mentre offriva questa autodefinizione professionale, armeggiava con strumenti tintinnanti e affilati, con rotelle che sembravano in grado di tagliare facilmente, non so, per esempio anche della pelle, e altri che potevano essere, non so, trinciacapre, sgozzacammelli o strozzapapere. Museruole a forma di faccia, pinze, schiaccianoci inquietanti, spremiagrumi luccicanti. La pinza, notava mettendola maggiormente a fuoco, aveva a dire il vero qualcosa di scuro, scuro ma tendente al rossastro. Forse ruggine?

Crispin era confuso, e, ammettiamolo, anche un po' allarmato. Gli pulsava terribilmente la testa, e respirava in modo vagamente asmatico.

«Allora, piccolo Crispin?»

«Piccolo?»

«Non sei il figlio di Pyotr?»

«Sì, ma sono adulto.»

«Va bene. Non perdiamoci in pignolerie. Allora, adulto Crispin,» e fece una pausa riempita da un lungo respiro «ti devo chiedere di essere molto gentile con me. Sai, ho avuto una giornata difficile. Vorrei mi venissi incontro.»

«Non posso. Sono legato.»

Il Non Dottore accolse l'obiezione chiudendo gli occhi, assorbendo il fastidio e l'impazienza causati dall'acuta obiezione.

«Crispin. Non intendevo in senso fisico. Non interrompermi. Dicevo. Sii gentile. E non interrompermi. Perché ho avuto UNA GIORNATA PIUTTOSTO DIFFICILE» e pronunciò l'ultima frase in un crescendo vocale, alzando il volume e la presenza, e la larghezza, e la pesantezza della voce fino a raggiungere un grido rauco nelle ultime sillabe. Crispin deglutì con gli occhi sbarrati. Non osava batter ciglio. Ora si sentiva bagnato in faccia. Ok. Stava sudando. O forse aveva iniziato a piangere. Non si sentiva particolarmente lucido. Ma, lucidamente, sperava di non bagnarsi anche altrove. Il Non Dottore fece un altro respiro complicato e, gli parve tornò a sorridere.

«Sai, il tuo amico? Come si chiama, Santo Adolf? Beh, gli ho fatto delle domande. E proprio non vuole rispondere. Non lo trovi sgarbato? Non lo trovi poco educato? Io sì. E quindi abbiamo dovuto fargli qualche trattamento, sai, qualche trattamento per sciogliergli la lingua, perché, abbiamo pensato, forse ha solo il muscolo della lingua un po' indolenzito, un po' bloccato, e dobbiamo aiutarlo» si fermò e guardò il pavimento pensoso, annuendo.

«E quindi, abbiamo proceduto. Hai sentito l'urlo di poco fa? Probabilmente era il mio assistente che finiva di aiutarlo». Percepì la mascherina frusciare come se fosse stata increspata dall'interno. Un sorriso più largo, pensò il piccolo Crispin.

«E ora tocca a te». Gli mise le mani sulle spalle sporgendosi su di lui.

«Crispin. Non fare il difficile. Perché ho avuto una giornata difficile. Quindi non mettermi in difficoltà. Crispin. Dov'è Pyotr?»

Crispin deglutì di nuovo.

«Non lo so?»

«Crispin. Allora sei un po' stronzo. Ok? Un po' stronzo. Chi meglio del figlio può sapere l'ubicazione del padre?»

«Il Ministero delle Tasse?»

Il Nondottore sembrò colpito. Si girò verso un assistente. «Tu, chiedi informazioni al Ministero delle Tasse, non si sa mai» e quello scattò fuori dalla stanza.

«Intanto, noi continuiamo, caro Crispin. Crispin. Non mi sembri molto intenzionato a collaborare – hm? La verità è che non vuoi rispondere. Puoi ammetterlo. Non cambia nulla.»

«Ma no, è proprio che... Insomma, non ho...»

Come capita spesso nelle conversazioni stereotipate, l'interrogatore spense la risposta con un gesto della mano.

«Non importa, non importa – non mi interessa. Io credo che tu abbia bisogno di aiuto».

Schioccò le dita. Il prigioniero venne prelevato con l'usuale grazia imperiale, sbattuto su una sorta di poltrona dura e spigolosa, i polsi fermati da strisce di metallo fuoriuscite automaticamente dai braccioli. Una cintura toracica della stessa materia lo strinse allo schienale. Altre costrizioni fisiche gli legarono le gambe e la vita. Una sorta di passerella gli fu infilata sotto il mento e si chiuse sulla nuca.

«Crispin. Caro Crispin» ricominciò il Nondottore, camminando avanti e indietro per la stanza. «Ti abbiamo studiato. Ti abbiamo osservato. Analizzato. Ti abbiamo compreso. Non c'è nulla di te che ci sfugge. Sappiamo le tue inclinazioni. Le tue reazioni. Conosciamo le tue paure»

Si fermò a guardarlo. «Benvenuto nella Sala del Supplizio».

Una sorta di condotto trasparente gli fu applicato e forzato sulla faccia.

«Crispin, dov'è Pyotr?». Il condotto fu agganciato alla passerella.

Crispin era ipnotizzato da quelle manovre, e osservava il tutto come se fosse fuori da sé stesso, e sé stesso fosse qualcun altro.

«Crispin, dov'è Pyotr?»

«Beh... io... non lo so...» si sentì balbettare.

«Non è la risposta che voglio sentire.»

L'altra estremità del condotto fu agganciato ad una nicchia sulla parete, chiuso da un doppio sportello.

«Crispin, puoi ancora salvarti, se mi dici dov'è Pyotr».

Cominciò a sentire grattare dietro quello sportello. Cominciò a sentire strani versi non umani.

«Lo sai cosa c'è là dietro, Crispin?» fece una pausa.

«C'è il tuo peggiore incubo. Che ti strapperà la faccia. Ti scalzerà i bulbi oculari. Ti scaverà le orbite. Dov'è Pyotr, Crispin?»

Ma egli era imbambolato, raggelato, pietrificato, privo di risposte e di vie di fuga.

«Crispin. Ora voglio sentirti urlare. Urlare può far bene. Hai avuto la tua chance»

Fece un cenno ad un sottoposto in grembiule medicale. Il sottoposto agì su un interruttore.

L'interruttore agì sul doppio sportello. Si alzò il primo. Dietro c'era il secondo, diviso in due metà metalliche.

«E così sia» disse il Nondottore.

Le due metà spalancarono all'improvviso la nicchia spostandosi subitaneamente di lato.

Ne seguì un frullare di orde di zampe, un luccicare di piccole, ma acuminate, micidiali zanne, una rincorsa di esseri nervosi e affamati che si lanciavano verso un potenziale, succulento pasto a placare la loro feroce fame divorante. Si calpestavano e intrecciavano correndo follemente lungo il condotto trasparente, verso la faccia di Crispin.

Sempre più vicine alla faccia di Crispin.

Vicine alla faccia di Crispin.

Sulla faccia di Crispin.

«Timbuctù, Antanarive, Kuala Lumpur!» urlava Crispin a occhi serrati, vedendo la propria faccia che cominciava a staccarsi a pezzi, scampoli e veli di carne sotto l'assalto delle bestie, percependo l'umido del sangue scorrergli addosso.

Ma lo vedeva solo nella propria testa. E quell'umido...

Lo stavano leccando. Non lo stavano sbranando. Non gli stavano scavando gallerie in faccia, nei bulbi oculari, nel naso, nella bocca, nella gola. Lo stavano leccando.

Aprì gli occhi, e si mise a ridere sconnessamente.

«Ma che diamine...» imprecò il Nondottore stupefatto, attonito, confuso e deluso.

Erano gli Animaletti. I suoi amici Animaletti. Avevano ritrovato l'amico che li nutriva a casa.

Sembrava indelicato accingersi a divorargli la faccia.

 

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La Morte Rossa

31 Maggio 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Intanto le Flotte Spazzapianeti spedite dal Consiglio degli Imperatori si avvicinavano a Marte, sede della NovoVodka, della Seul del Nord, della NeoPersia, della Repubblica dei Ming, in sintesi – e per fare prima - di un po' tutti i nemici che avevano scacciato dalla Terra. Anche loro avevano sintetizzato ribattezzandola per l'occasione La Morte Rossa, giacché intendevano far esplodere il malvagio pianeta proprio come era stato fatto esplodere la Morte Nera in Guerre Stellari. Nella loro fantasia credevano davvero che il nomignolo autoaffibbiatosi di Impero del Bene corrispondesse a qualcosa di reale. Ora, l'unico problema è che la NovoVodka aveva dei sistemi di controllo molto affinati. Si rischiava che registrassero l'arrivo dei Missili Spazzapianeti e ricambiassero la cortesia, col il potenziale risultato finale della mutua distruzione. Oppure sarebbero riusciti a intercettarli e distruggerli in volo. Il tutto, invece di risolversi in una veloce esplosione planetaria come tante, ovvero come tante volte avevano portato a termine nei confronti di pianeti sgraditi ma scarsamente dotati di difese e tantomeno di Missili Spazzapianeti, poteva invece diventare una lunga e tragica guerra interplanetaria, la vera e propria Terza Guerra Interplanetaria. Ma, del resto, il Consiglio degli Imperatori sentiva la mancanza di un po' di movimento, di sfida e di brivido, di sgranchimento di falangi nello schiacciamento di pulsanti nucleari – anche loro dovevano pur divertirsi in qualche modo. Il fatto che ciò potesse determinare lo sterminio di qualche miliardina di abitanti rientrava nelle regole del gioco, era parte dello spasso.

Ad ogni modo Flotte e Squadriglie Imperiali schiacciarono improvvisamente il naso contro un ostacolo invisibile. A quanto pare la NovoVodka aveva attivato un qualche scudo spaziale attorno al pianeta rosso. Una vera scocciatura. I Paladini del Giustezza, gli Aggressori per il Bene di Tutti, erano ora costretti organizzare un gruppo di lavoro per perforare, trapanare, trapassare lo scudo e ciò richiedeva un po' di tempo. Sbuffando, si misero all'opera. La Distruzione Totale – per quanto non fosse ancora perfettamente chiaro di chi – era solo rimandata di poco.

Nel frattempo, il Gigante di Smeraldo si svegliava su Endor.

 

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Hello there

29 Maggio 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Non si fermò per Deia. Ormai si era tuffata. Si scosse e riprese la sua fuga, si arrampicò per raggiungere una terrazza aggrappandosi a delle grate verticali. Raggiunta con le mani la superficie si issò. Il suo naso incontrò degli stivali neri, lucidi. Alzò lo sguardo e disse: «Salve!»

Le Guardie Imperiali lo stavano aspettando - massicci, arcigni e acefali, non sembravano particolarmente inclini alla conversazione. Lo tirarono su senza troppi inchini, presentazioni o strette di mano e lo trascinarono via. Fu inserito in una capsula, ma non spedito nello spazio.

La capsula, con lui dentro, fu a sua volta infilata nel sistema di tubature da trasporto veloce, e schizzò via verso la sua destinazione. Con la testa che rimbombava, stretto in una sorta di camicia di forza piena di cinghie, bendato, venne estratto da quella specie di uovo trasparente, e gettato in una cella vuota – per quanto non prima di aver tentato la fuga liberandosi dei suoi accompagnatori, schiantandosi mirabilmente contro una parete. Non sapeva cosa sarebbe accaduto ora.

Qualche stanza più in là, in quel labirinto di prigioni, stanze delle torture, e centri di raccolta informazioni di ribelli e sediziosi, c'era Babbo Naziale. Penzolava tristemente a testa in giù, appeso come un punching ball al soffitto. Non erano ancora riusciti a farlo parlare. Non era chiaro se fossero il coraggio e la forza interiore a impedirgli di rivelare qualche segreto, o più semplicemente l'alzheimer.

Attutito, ovattato, si udiva clamore, si intuiva un frastuono tutt'intorno.

Fuori, difatti, i sottoproletari e gli immigrati, in sintesi gli Inzaccherati, i Morti Arrabbiati, le Squadre Ribelli non ancora neutralizzate, stavano ingaggiando una strenua lotta contro le Guardie Imperiali, i Rullastrade, e i Robot Lavoratori, programmati per proteggere lo status quo in caso di bisogno. Non solo. Altri morti si trascinavano fuori dall'oceano, avvolti in alghe, fradici, impressionanti – anche gli alieni caduti in mare dal cielo, periti durante il tentativo di trovare una vita migliore nel ricco centro dell'Impero – la Terra – si erano destati. In aggiunta, fior di bidelle roteavano le loro ramazze elettroniche, brandivano le loro capre elettriche, usavano secchi come scudi – guidate da Mamma Arlanovich, arrivata in qualche modo lì con la slitta dalle renne robot di Babbo Naziale, guidata dalla nonna, morta e sempre più allegra, quanto ignara di quel che realmente accadeva. Le pareva una grande festa, con una grande parata.

Una grande festa che si stava svolgendo attorno al Palazzo Arancione.

 

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Una comunanza particolare

27 Maggio 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

C'era sempre tensione tra alieni e terrestri, tra autoctoni e forestieri – all'interno delle classi basse.

L'Impero aveva organizzato le cose per bene, fomentando la classica Guerra dei Mondi tra Poracci – inducendo l'orizzontalità della lotta in luogo della verticalità che avrebbe trovato come obiettivo il Governo Imperiale stesso. I profughi alieni venivano stipati nel Sottomondo insieme ai sottoproletari emarginati dalla robotizzazione, nonché dagli stessi lavoratori alieni che, ancor più disperati e ricattabili, vendevano la loro forza lavoro a salari miserevoli. Altri per sopravvivere si davano alla delinquenza, e allo spaccio di Eccitatina. C'era quindi odio, venivano percepiti come invasori, criminali, usurpatori – e vivevano proprio in mezzo a loro, di fianco a loro, sotto di loro, sopra di loro. Erano un costante drappo rosso sventagliato davanti al toro del loro rancore e della loro disperazione. Ciò si manifestava con violenza verbale che si concentrava sulle differenze culturali, anatomiche e cromatiche – quando non diventava fisica. E la società bene, quella dei piani superiori, sofisticata e acculturata, che accoglieva gli alieni a braccia aperte li accusava quindi di razzismo, di xenocromofobia e quant'altro.

Ma ora che erano coperti di feci le cose stavano migliorando. Ora era tutto più chiaro.

Erano lo sterco e le feci delle classi superiori. Terrestri e alieni, insieme, inzaccherati dalla stessa merda. Erano finalmente diventati dello stesso colore. Era finalmente evidente che erano effettivamente uguali: erano entrambi la latrina della Società Superiore. Non era il compagno di disperazione a essere il nemico. Erano loro, lassù in alto, che li avevano gettati in una cloaca, li sfruttavano, li abbandonavano, li facevano lottare tra di loro per le briciole dei sontuosi banchetti di cui si ingozzavano, lottare come animali messi l'uno contro l'altro per scommessa, e li deridevano, li aizzavano, li tifavano – e quanto si divertivano a vederli azzuffarsi e alterarsi, le vene gonfie, gli occhi feroci, comodamente seduti nei loro triclini, divani e poltrone di seta e velluto tempestati di diamanti. Ma ora non era più così.

«Siamo nella stessa barca spaziale» avevano concordato tacitamente, le due fazioni di poveracci.

«Nella stessa barca spaziale di merda» avevano poi precisato, sempre tacitamente.

 salendo nella città, stavano salendo in un ring, e all'altro angolo c'era l'Impero.

 

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Cronache Novomarziane

25 Maggio 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Navicelle Scorbutiche Militari e Squadroni Spazzapianeti erano partiti alla volta di Marte.

Grumpama aveva premuto il pulsante che apriva il sipario metallico sulla Stanza delle Vecchie Amministrazioni, il quale aveva rivelato un po' di vecchi e meno vecchi seduti attorno a un tavolo che giocavano a Risiko. Erano i vecchi Bis-Imperatori: Clintush, Bushama, e altra gentaglia dalla doppia faccia.

«Signori, ho bisogno del vostro aiuto» esordì Grumpama.

I Grandi Antichi dell'Impero si girarono lentamente verso di lui.

«Ho bisogno che mi confermiate che è ora di una nuova guerra».

Mentre erano tutti fissi su di lui, Bushama prese velocemente delle pedine dalla mappa del Risiko e  le nascose in tasca.

«La nostra equilibrata amica Millie Tary Klingon sostiene che i Novovodki e i loro amichetti siano dietro agli odierni disordini, che sono ancora in corso.»

«Davvero?» disse Clintush, spaesato «Credevo fossimo stati noi», aggiunse guardandosi attorno.

Poi lo sguardo gli cadde sulla mappa del Risiko, e si girò verso Bushama con aria sospettosa.

«Suggerisce la loro totale distruzione» riprese Grumpa «Oppure la via diplomatica: solo un bombardamento laser a tappeto in stile Dresda.»

I Depositari dell'Esperienza Imperiale annuirono saggiamente e si rivolsero di nuovo verso l'Imperatore in Carica, dicendo pressoché all'unisono:

«Tutte e due le cose. Nel dubbio è sempre meglio la Distruzione Totale. Seguita da un Bombardamento a Tappeto, per sicurezza, perché non si sa mai e, inoltre, perché il Complesso Militare-Industriale va aiutato. Adotta anche tu un Complesso Militare-Industriale, Grumpama. Noi ai nostri tempi l'abbiamo fatto!» e brillarono loro gli occhi (tipo dinamite) ripensando a tutti gli esplosivi che avevano fatto riversare sulle teste di alieni vari in giro per il Sistema Solare.

Concluso ciò, Clintush guardò Bushama e dopo una pausa disse: «Posso vedere cos'hai nelle tasche?».

Intanto, su Marte, la NovoVodka stava intercettando sui propri Radar Galattici le flotte imperiali in avvicinamento. La presenza di Squadroni Spazzapianeti rendeva la situazione piuttosto chiara. Si stava giungendo alla resa dei conti. La Terza Guerra Interplanetaria sembrava alle porte, le loro porte – e l'intero Sistema poteva esplodere in un massiccio e definitivo big bang. Poteva essere la fine del Sistema Solare così come lo conosciamo. I Novovodki cominciarono a sguainare la loro stessa Tecnologia Spaccamondi.

 

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Sulla strada

24 Maggio 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

Deia e Crispin balzarono sulla strada, mentre Babbo Naziale e il suo aguzzino passavano a urlare una nuova vocale nella Stanza del Supplizio, i Poliziotti della Squadra Maneschi spingevano da parte Madre Arlanovich, i Morti pullulavano ovunque, gli abitanti del Sottomondo cominciavano ad emergere dai tombini orribilmente inzaccherati, il Palazzo Arancione si apprestava ad attaccare la NovoVodka e Marte tutto, e il Gigante di Smeraldo cresceva e cresceva, verde luccicante, da qualche parte nell'universo.

I due fuggitivi in qualche modo si scalmanavano giù per la via, in mezzo a cadaveri che chiedevano loro l'ora, a cittadini che correvano intorno urlando, distratti dalla loro quotidiana esposizione ai rassicuranti fasci di luce e di Informazioni Certificate, velivoli che procedevano a testa in giù, antiche macchine rimesse in moto dai morti, che però procedevano oblique su due ruote, sottoproletari che facevano capolino dai buchi-entrata del suolo.

Diciamolo chiaramente. Crispin aveva di nuovo dimenticato di spegnere il Terminale Oculare, e le Forze Imperiali, divisione Rintracciamento e Morte, l'avevano individuato ed erano passati all'azione, sorpresi che la sua ubicazione corrispondesse coincidentalmente proprio con la sua usuale abitazione. Ma non era tutto:

i Rullastrade, con uno stridio e uno sbandamento posteriore, irruppero sulle carreggiate, negli spazi verdi e sulle strade mobili, forti delle loro enormi ruote schiacciatutto e presero a investire i cadaveri, a spappolarli, impastarli, stenderli, allungarli, pressarli, piastrificarli, appiattirli senza pietà, scagliando e sparpagliando le loro ossa dappertutto nell'impeto, ossa che si scontravano tra di loro creando strane melodie percussive xilofoniche, mentre «Uccidete i morti! Sterminateli! Annichiliteli! Mortificateli!» urlava Grumpama nelle orecchie dei piloti, connesse al Centro Operativo del Palazzo Arancione. Ovviamente era difficile evitare i cittadini durante queste scorribande e diversi venivano a loro volta presi sotto i rulli compressori, ma era tutto a posto perché i piloti si scusavano al volo e chiarivano «Questione di ordine pubblico!» senza fermarsi, in maniera tale da sopire qualsiasi polemica o incomprensione sul nascere, o meglio sul morire – cosa che faceva tirare un sospiro di sollievo agli eventuali parenti o amici o conoscenti presenti, rassicurati sulla situazione. «Ah, questione di ordine pubblico. Tutto a posto allora» si dicevano annuendo l'uno all'altro e se ne tornavano a casa tranquillizzati.

E quindi, dicevamo, Deia e Crispin eran lì che si lanciavano per le vie come se le vie fossero scarpate in cui buttarsi e rotolare lontano – ma un Rullastrade si era messo sulle loro tracce, li aveva presi di mira e li stava caricando – riempiendo tutta la larghezza della strada con la propria vastità rombante, da una parte edifici, dall'altra il Fiume della Morte, non lasciando scampo, se non quello di battere qualche record olimpico e vincere per la prima volta la sfida di velocità Organismo vs. Macchina. Che in effetti era un po' improbabile.

Ma un subitaneo cancello a destra invitò Crispin ad aggrapparsi, arrampicarsi e scavalcare al grido di «Seguimi! Di qua!» – e nel buttarsi dall'altra parte si stava già girando per assicurarsi che Deia avesse seguito. Ma non c'era. La vide per una frazione di secondo mentre si gettava nel fiume, dall'altra parte, il cosiddetto Fiume della Morte, a causa dell'inquinamento e delle lontre radioattive mangiauomini, proprio un attimo prima che il Rullastrade passasse dritto per la strada, in un clamore di boati e polvere.

 

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Una visita inaspettata ma non troppo

22 Maggio 2019 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #racconto, #fantascienza

 

 

 

 

«È su Edos» disse la nonna, ingurgitando un pasticcino. Subito dopo si udì battere alla porta, con sobbalzante trasalimento generale (esclusa nonna). Corsero all'uscio. Madre sbirciò attraverso la finestra a destra dell'entrata. Si girò verso di loro inacidita. «Cosa avete combinato?»

Crispin guardò Deia, e si avvicinò alla finestra, mentre la porta subiva altri colpi, assestati con accresciuta violenza, tanto che la si vedeva vibrare e l'intonaco della parete cominciava a cadere come forfora.

«Signora Arlanovich, ci faccia immediatamente entrare» gridò una voce rozza e rauca. Crispin guardò le tre donne con gli occhi fuororbitanti, nonché battendo i denti con una mano in bocca, cosa non particolarmente sana per la menzionata mano.

«Dobbiamo scappare» disse Deia. «Mamma, non c'è tempo per spiegare, ma noi siamo dalla parte dei buoni – almeno credo» proferì Crispin, scuotendosi – e si diresse con la sirena verso le scale della cantina. Intanto la porta veniva scardinata dalla posizione che era nel suo pieno diritto occupare, schiantandosi sul pavimento, aprendo la visuale su un drappello di poliziotti in tenuta antisommossa, caschi con visiera, giubbotti antilaser, armi, bagagli e ghigno feroce sul grugno d'ordinanza. A una simile intrusione feroce, disordinata, vandalica e distruttiva nel suo sacro focolare domestico, Madre Arlanovich sbuffò fumo nero dalle narici, sostituendo l'iniziale espressione incredula, con una oscillante tra il furioso e il furibondo, e agguantando la sua ramazza elettronica di fiducia, urlò «Come diamine di poffarbacco osate?», mentre roteava l'attrezzo come un bastone da kendo o come delle nunchaku, improvvisamente mutata in un'esperta di arti marziali marziane (anche la Repubblica dei Ming era stata esiliata su Marte) dalla collera che la faceva sembrare un dragone rosso di furore – una paonazza con la ramazza. Le Notizie Poliziesche Ufficiali del relativo Bollettino vi direbbero che i tutori dell'ordine non erano impressionati, ma mentirebbero.

Nel mentre Deia e Crispin stavano scendendo a rotta di callo le scale della Cantina, pensando e sperando di sfruttare nuovamente la sua Multiformità salvifica che li aveva tratti d'impiccio in precedenza, ma, come si sa, c'è sempre un ma. Delle voci. Rauche e rozze. Provenivano proprio da di sotto. In qualche modo, la Polizia Imperiale aveva trovato un accesso alla Cantina, e li stava cercando. E loro stavano per gettarsi affettuosamente tra le loro braccia. Pur con l'apparato cardiorespiratorio in pieno e pulsante allarme, i due si pietrificarono, gli occhi sgranati reciprocamente fissi in quelli dell'altro, e senza emettere un fiato risalirono precipitosamente con uno slancio comunque teso a rispettare un coerentemente non detto voto del silenzio che

 

CRAAASSSSSHHH

 

si ruppe proprio sul più bello insieme ad un vaso che schiantandosi a terra, e per il principio dei vasi comunicanti, comunicò alla gente di sotto che era ora di diventare gente di sopra.

Il Capitano del Drappello Addetto alla Porta li vide passare di corsa, sbirciando nel ventaglio di movimenti ipnotici che Mamma Arlanovich persisteva a roteare minacciosamente davanti ai suoi occhi, un gioco di prestigio che le stava valendo diversi applausi da parte del gruppo, ormai conquistato dall'ammirazione per la donna - «Eccoli!» esclamò l'uomo in posizione di comando «Presto inseg...»

 

SDDEEEEEEEENG

 

stavolta la bidella casalinga inferocita non si limitò a illustrare circonferenze nell'aria, ma disegnò anche un'ammaccatura sull'elmetto del Capitano, il quale reagì serrando di botto la visiera facciale, interrompendo il suo comando con un CLUNK a cui seguì un bofonchìo ovattato – ciò mentre Deia e Crispin contemplavano l'utilità di una finestra quanto non avevano mai fatto prima.

 

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Kirsten Roupenian, "Cat person"

21 Maggio 2019 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni, #racconto

 

 

Catperson

Kirsten Roupenian

Einaudi, 2017

 

Cat person è un libro di racconti scritto da Kirsten Roupenian che prende il titolo dal primo della raccolta, diventato famoso in quanto pubblicato sul New Yorker e leggibile in lingua originale gratuitamente qui. Personalmente ho letto solo questo racconto che mi ha suscitato parecchie riflessioni che vado a sviscerare. Non so se avvertire di eventuali “spoiler” in quanto il racconto è breve e si basa più sui dialoghi che sulle azioni, in ogni caso almeno lo scheletro della trama sono costretta a svelarlo.

Margot è una giovanissima studentessa universitaria che incontra Robert, uomo più maturo. Un sorriso, una battuta, ci scambiamo i numeri di telefono? Si, perché no? Messaggini, emoticon, cuoricini, battute, sciocchezze di quando un flirt inizia, come trasferire ciò che potrebbe nascere tra di loro sui loro gatti in una dimensione di invenzione che ha come scopo tastare la realtà dei loro sentimenti. Poi un giorno decidono di mangiare insieme, complice una scusa banale. Nulla di preordinato, solo per rompere il ghiaccio. E alla fine l’appuntamento. Un film, un bar fino alla conclusione totalmente deludente per lei, che decide di non vederlo più. Ma non finirà così. Un’ultima serie di messaggi sempre più sgrammaticati da parte di Robert, che culminano in una parola atroce e squallida, chiude il racconto e verosimilmente la relazione tra i due.

Ora, leggendo in giro commenti da parte di persone certamente più titolate ed esperte della sottoscritta, Catperson rappresenterebbe le modalità con cui oggi si instaurano relazioni di tipo sessuale/affettivo ai tempi dei social e di internet. Ed è questo che non mi ha convinto per nulla dopo averlo letto. Perché il racconto è scritto in maniera incredibilmente realistica, tanto che è facilmente intuibile come la scrittrice si rifaccia a un evento autobiografico, come lei stessa dichiara in una intervista, ma non è questo il punto. A me è parso che il problema principale tra Margot e Robert non sia WhatsApp ma proprio il modo in cui i due si relazionano tra di loro. La narrazione si svolge tutta dal punto di vista di lei, tanto che noi sappiamo su Robert esattamente ciò che conosce la ragazza e, come lei, ci facciamo un’idea che poi cambiamo, eventualmente, durante il racconto. Ciò che principalmente salta all’occhio è come Margot sia vittima di una educazione tipicamente femminile e sbagliata per cui i comportamenti di lui vengono misurati in base alle azioni di lei. Una smorfia bevendo, uno sbadiglio di troppo al cinema, l’ammissione di non essere maggiorenne (negli USA lo si è a 21 anni e lei ne ha uno di meno), un abbigliamento troppo casuale vengono messi immediatamente in relazione di causa-effetto con qualsiasi manifestazione di lui che potrebbe essere un segnale di non apprezzamento: un silenzio troppo prolungato, un sorriso a metà, una battuta infelice. E non solo. Nonostante lei si renda conto che lui è forse un po’ infantile per la sua età, che non sia delicato nelle manifestazioni fisiche e affettive, nonostante oscilli continuamente tra il timore che lui sia carino e affidabile o un potenziale serial killer, decide di far prendere alla serata una certa piega, e solo quando si rende conto che lui è brusco, forse poco esperto e vorrebbe ritirarsi, non lo fa. Perché? Perché non vuole sembrare una bambina forse. O perché non vuole offenderlo. Insomma, perché le hanno insegnato che una donna non può cambiare idea quando lancia il sasso, sennò “che figura ci fa?”. Pazienza se trascorre la durata di un amplesso penoso a ridere o sentirsi idiota per ciò che sta facendo. Lui poi è evidentemente un uomo sentimentalmente educato dalla pornografia: non viene detto esplicitamente ma le parole profferite, i gesti, la goffaggine fisica che provoca fastidio in chi la subisce, francamente ridicoli e inadeguati ad un primo appuntamento, lo svelano. Anche qui: internet può avere avuto un peso quando era un adolescente, ma non certo nella relazione con Margot. Il danno è stato già fatto. La decisione che prende poi Margot di “volatilizzarsi” (nel racconto originale viene usato il termine “ghosting”) non è certamente figlia dei nostri tempi. Dacché mondo è mondo gli amanti delusi se la sono data a gambe levate, fuggendo altrove o staccando telefoni fissi.

Se proprio vogliamo dirla tutta internet, i social, la messaggeria istantanea, hanno amplificato e reso più facile comportamenti tra esseri umani che esistevano prima. Premesso che affettività e sessualità sono ambiti personalissimi che ognuno ha il diritto di vivere come meglio crede, è pur vero che una superficialità nelle relazioni, una certa fretta nell’approfondire il lato intimo in assenza di una vera conoscenza, aumentano la probabilità di restare delusi. Applicare l’algoritmo “Ti provo, mi fai schifo, ti lascio” ha più a che fare con una modalità usa e getta e consumistica delle persone, viste più come un vestito che deve calzarti perfettamente da subito, altrimenti lo riponi nello scaffale, manco l’idea di fare un orlo o una modifica, come si faceva un tempo. No. Si è sostituibili al primo fallimento, punto.

Si ha una visione del sesso legata a modalità di tecniche e fruizioni legati a modelli irreali in cui uomini e donne sono oggetti di carne. Questo è il vero problema tra Margot e Robert e chissà quante coppie di esseri umani che si incontrano e ci provano. Vanno continuamente al fast food e poi ci restano male se non trovano la tartare di fassona. E certo il problema non può essere imputato al fatto che hanno prenotato via internet. Quello era solo un mezzo come tanti altri. Margot e Robert avrebbero pure potuto vedersi frettolosamente un paio di volte alla cassa dove lei vendeva Red Vines, scambiare ogni volta due battute informali e poi decidere di uscire senza veramente conoscersi. Noi stessi lettori non conosciamo veramente Robert ma non possiamo avere un’idea di lui da quegli ultimi farneticanti messaggi, quell’ultima durissima parola che le indirizza, intrisa di anaffettività, rabbia, delusione, cattiveria, perché, per come sono andate le cose, siamo sicuri che noi non avremmo reagito allo stesso modo?

Come sempre accade, dovremmo iniziare a rivedere non il mezzo in sé, ma le modalità con cui ne usufruiamo e riflettere sia sul fatto che le persone possono non essere sempre sincere, (per cui: diamoci tempo per conoscerle, sai che bellezza salire in macchina con uno ed esorcizzare tutto il tempo sul fatto che lui potrebbe essere un sadico stupratore con battutine sceme e risatine isteriche), sia sul fatto che occorre lavorare ancora parecchio sulla consapevolezza da parte di entrambi i sessi sulle modalità di rapportarsi, sulla consapevolezza di se stessi e delle conseguenze delle proprie azioni, che non possono affidarsi a stereotipi o pressioni sociali. Almeno, questo è ciò che io ho letto in questo racconto. 

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