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I "pranzi" della vigilia
Riceviamo questo racconto da un lettore che vuole restare anonimo e si firma Vecchioscarpone.
Questo è il suo modo di fare gli auguri a tutti noi.
I pranzi della vigilia
Tempo fa mi capitò di leggere, nel racconto del figlio, la curiosa storia di Vittorio De Sica, che,”titolare” ad un certo punto della sua vita, di due famiglie distinte e separate (moglie e figli), era costretto, nelle festività canoniche, non a “dividersi” fra esse (e, per dirla con la nota barzelletta: in qual modo, in senso orizzontale o verticale ?) ma a”raddoppiarsi”, cioè ad essere presente, in successione, prima da una parte e poi dall’altra. Questo comportava, soprattutto a Natale e Capodanno, doppi “cenoni-pranzi”, con conseguenze catastrofiche sulla linea del bel Vittorio che pure era stato, ai suoi tempi, piacente e filiforme “attor giovane”.
Qualcosa di vagamente simile, sia pure per motivi diversi, è capitato anche a me, in occasione di un cenone natalizio, del quale ho un ricordo indelebile. Tutto successe perché, tranquillo (e “studioso”) buon figlio di famiglia, fui preso, verso i 16-17 anni, da smanie di attivismo politico e cominciai a frequentare una “sede” ed un gruppo di adolescenti come me, stabilendo con essi fortissimi vincoli che superavano la tradizionale amicizia con i compagni di scuola. Giornate intere passate insieme, qualche volta nottate, avventurette tipo “ragazzi della via Paal” e altro, davano corpo a quella “camaraderie” (detto in francese per lasciare la cosa nel vago, dato che Oltralpe può riferirsi ad ambedue i settori dell’agone politico), che cresceva tutti i santi giorni della settimana, festività comprese.
Fu così che, arrivate le festività natalizie, i due con più spirito organizzativo (e con le mamme più volenterose, va detto) pensarono di indire un cenone in sede. Tutti avremmo contribuito alla spesa (che a Bari non è irrilevante, ve lo assicuro), le mamme avrebbero cucinato per una decina (quanti eravamo), alle bevande si sarebbe provveduto da una “cantina” (termine che all’epoca non aveva nulla di spregiativo) all’angolo, piatti, tovaglie e tovaglioli di carta.
Nessuna assenza sarebbe stata giustificata. Chi non si fosse presentato sarebbe stato marchiato a vita come “vilacchione”, che potremmo eufemisticamente tradurre “poco affidabile, amico non sincero”. Detto fatto. Per quel che mi riguardava, restava solo un problema: dirlo ai miei. Non era un ostacolo insormontabile perché loro – in assenza di parenti particolarmente “affiatati”- usavano cenare ( mia madre nell’occasione superava se stessa per qualità e quantità delle portate), da soli, con me e mia sorella, intorno alle 20, per poi aspettare, seduti in divano davanti alla TV, la mezzanotte. A seguire, scambio degli auguri, Gesù Bambino al suo posto nel presepe, brindisi con nostrano spumante, e a letto. Fino allora c’ero sempre stato... era giunto il momento di rompere la tradizione. Lo dissi, e aspettai l’obiezione – che, come prevedevo, si rivelò la più “corposa”- di mia madre: “E come, non ceni qui con noi ? Con tutto quello che devo preparare...”. Me lo aspettavo, e fu pronta la risposta che avevo ripetuto tante volte nei giorni precedenti: “Tranquilla, ceno qui e poi, verso le 22,30 vado via. A casa di questi compagni di classe (piccola bugia, ma la camaraderie era mal vista perché, pure se iniziata da poco, mi stava già pericolosamente distraendo dagli studi) giochiamo solo un po’ a carte e aspettiamo la mezzanotte per fare qualche “botto” (altra cosa vietatissima a casa mia). Prima delle 2 sono a letto”.
E così, come dio volle, la fatidica sera del 24 iniziò: frutti di mare (cozze, cozze pelose, vongole, ostriche, noci di mare, ricci, taratuffi, cannolicchi, fasolari, capesante, etc etc) crudi, baccalà in umido e baccalà fritto, spaghetti al sugo di capitone, anguilla e capitone arrostiti seguiti da anguilla e capitone nel sugo, fritto di paranza e fritto di calamari e gamberi, contorni vari, frutta secca e frutta fresca, dolci assortiti, caffè, ammazzacaffè e amaro. Buona parte di tutto questo era già pronto, il rimanente mia madre lo cucinava mentre noi eravamo a tavola...
Insomma, alle 22,30, puntuale, dopo aver fatto gli auguri, ero in strada. Vie deserte, di autobus nemmeno l’ombra, la città faceva quasi paura all’unico viandante che ero io. Mi ci vollero una ventina di minuti e arrivai in sede, buon ultimo: d’altra parte, anche se nessuno lo sapeva, ero l’unico ad aver messo in piedi quella messinscena, e non avevo una particolare smania di cominciare. Gli altri, invece, erano affamati e non vedevano l’ora di mettersi a tavola. L’ambiente era sicuramente più allegro di quello di casa mia: lazzi e frizzi accompagnavano le portate, e un leggero vinello bianco scorreva (forse un po’ troppo) a fiumi. Tutt’altra cosa, insomma, rispetto alle morigerate dosi del vino che ci mandava il nonno da Andria e che bevevo con i miei nelle grandi occasioni. Ciò che era (tragicamente, ahimè !) uguale, era il menù: frutti di mare (cozze, cozze pelose, vongole, ostriche, noci di mare, ricci, taratuffi, cannolicchi, fasolari, capesante, etc etc) crudi, baccalà in umido e baccalà fritto, spaghetti al sugo di capitone, anguilla e capitone arrostiti seguiti da anguilla e capitone nel sugo, fritto di paranza e fritto di calamari e gamberi, contorni vari, frutta secca e frutta fresca, dolci assortiti, caffè, ammazzacaffè e amaro. Tutto da gustare (mentre un rustico fornelletto “dava una scottatura“ a ciò che andava riscaldato) non in tranquillo silenzio, ma tra un apprezzamento ed un altro: “Buono questo! Assaggia quest’altro ! Tua madre è una maga in cucina!” E via dicendo.
Potevo essere da meno ? Certo che no, ci voleva poco a guadagnarsi l’infamante attributo di “vilacchione”. Mi feci forza e ricominciai, mostrando un entusiasmo che, in confronto, il Tognazzi de La grande abbuffata sarebbe parso un principiante. Arrivata la mezzanotte, secondo la migliore tradizione, restavano ancora da “far fuori” dolci, frutta e caffè... poi il brindisi, gli auguri e una scarica di botti che mi sembrò molto simile (almeno nella rumorosità) a quelle dei film di guerra di gran moda a quei tempi.
Per farla breve, quando mi incamminai sulla strada di casa non ero sicurissimo di farcela a rientrare... Non che avessi bevuto tanto, ma mi sembrava di essere l’omino di gomma della pubblicità Michelin, gonfio in vita e dappertutto, ballonzolante. Ci misi più dei venti minuti dell’andata, nella città che si ripopolava di nottambuli in rientro come me, ma arrivai... Aprii silenzioso la porta, e vidi la luce accesa in cucina. Mia madre era sveglia, vicino ai fornelli. Mentre gli occhi le brillavano già al pensiero che sarei stato il primo a gustare il frutto della sua fatica, fece: “Vieni, avrai fame... Assaggia, sto preparando il ragù per domani: maiale, manzo, agnello e le brasciole di vitello. Non è ancora pronto. Ci vogliono almeno otto ore, però prenditi una fetta di quel pane casareccio e dimmi come sta venendo”.
Come potevo deluderla ? Mi tagliai una bella fetta di quella pagnottona tonda, e feci la “scarpetta”...
Vecchioscarpone
Strampalario di Natale, parte quarta
Un allarme antiaereo. Che spaccava i timpani. Quella era la voce di Dino Salamè, dall’altra parte della cornetta. Il direttore della casa editrice aveva alzato il ricevitore dopo almeno venti squilli. Perché la mattina di Natale, alle 7 e 25, lui se ne stava ancora nel mondo dei sogni. Non come quell’insonne pazzo di Salamè. Che ora gli stava urlando nell’orecchio ogni sorta di improperi.
«Disgraziato maledetto! Furfante farabutto!!! Mi vuoi rovinare? Dillo che mi vuoi rovinare! La mia ultima opera! Pidocchioso illetterato! Troglodita! Che se non fosse stato per me, per i miei libri, la “Ca’ Story” non esisterebbe nemmeno! Bandito disonesto! Ladro di polli! Ma con chi credi di avere a che fare? Io ti rovino! Ti rovino, com’è vero che sono Dino Salamèèèè!», e qui lo scrittore, volente o nolente, aveva dovuto prendere fiato.
Il direttore ne aveva approfittato per rispondere a quei vaneggiamenti e a quegli insulti di cui non capiva assolutamente il motivo.
«Ohè, datti una calmata, Dino bello! Di che blateri? Il tuo libro l’abbiamo curato come fosse un neonato. È così che dimostri la tua riconoscenza? È così che apprezzi tutte le notti in bianco passate da me e dagli altri alla casa editrice, perché il tuo libro uscisse per Natale? Buono a sapersi! Sono stufo delle tue lune e delle tue scenate. Se le cose stanno così, rescindo il contratto. Pago la penale e tu ti trovi un altro editore disposto a farti da zerbino. Ma che dico, mica solo da zerbino, anche da lucidascarpe. Elettrico. A spazzole rotanti. Perché è così che ci tratti ormai, pallone gonfiato! E ti ricordo che i soldi per la tua auto decapottabile all’ultima moda, li ho anticipati io. Salda il tuo debito con me o ti trascino in tribunale anche per questo!»,
Dino Salamè, per tutta risposta, prese a ripassare ad alta voce l’albero genealogico per parte di madre del direttore, dall’editto di Costantinopoli ai giorni nostri.
Il direttore non ci vide più. Potevano toccargli tutto. Ma non metter in dubbio l’onestà di sua madre, quella santa donna. Così mentre urlava nella cornetta: «Impìccati, Salamè, buono solo per le frasi nei Baci Perugina!», sentì dall’altra parte Dino singhiozzare disperato: «Non riattaccare, sono sotto assedio!», ma il direttore chiuse la comunicazione.
«È sotto assedio, il coglionazzo deficiente! Tutte se le inventa, quella primadonna isterica!», sbottò il direttore, mentre si accendeva una sigaretta. Poi scostò le tende del soggiorno, guardò in strada, aprì la finestra, urlò all’edicolante in piazza: «Sandro! Portami su i soliti quattro quotidiani! Sbrigati!», si lasciò cadere sul divano e accese la televisione.
In quel momento, mentre scorrevano le immagini del telegiornale del mattino, realizzò il vero significato dell’ultima frase disperata che Dino Salamè aveva esclamato al telefono. Stavano trasmettendo la diretta della protesta che una trentina di lettori avevano già organizzato sotto la casa dello scrittore. Pernacchie, fischi, chi urlava «Scendi giù!», chi invece tuonava, perché voleva che gli venissero restituiti i soldi del libro. E tutti, sventolavano alta sulla testa una copia del libro che aveva una copertina precisa identica all’ultimo lavoro di Salamè. Non fosse stato altro che per il titolo: “Fuffa e ragnatele”.
Il direttore si sfregò gli occhi incredulo. Pensò che si trattasse di una messa in scena, di un fotomontaggio. Guardò meglio, ma l’immagine non accennava a cambiare. Corse nello studio, dove, sul tavolo, rientrato la sera prima dalla presentazione, aveva appoggiato una scatola piena di libri di Dino. Ne estrasse uno. “Fuffa e ragnatele”. Ebbe un giramento di testa e la vista gli si annebbiò. Si sedette. Poi, iniziò febbrilmente a svuotare la scatola, controllando i titoli in copertina. “Fuffa e ragnatele”, “Fuffa e ragnatele”, “Fuffa e ragnatele”, “Fuffa e ragnatele”… Quelle tre parole sembravano lo sbuffo di una locomotiva a vapore che iniziava ad accelerare, le ruote stridevano sui binari, l’albero di trasmissione in acciaio mordeva le traversine, il treno si lanciava in una corsa inarrestabile, da togliere letteralmente il fiato… andandosi a schiantare nel buio più assoluto.
«Sciùr dutùr… cos’è che è successo? Si sente male?»
Il direttore sentì l’odore del dopobarba di Sandro, l’edicolante. Aprì gli occhi e realizzò che era finito lungo e disteso. Sandro, chinato su di lui, gli tastava il polso.
«Vuole che chiami un’ambulanza?»
«Lascia stare, Sandro, un mancamento. Solo un po’ di stanchezza.», ebbe la forza di rispondere.
«Avrà mica sbattuto la testa? Sente male da qualche parte? Guardi, dottore che a me non costa niente chiamare un medico», povero Sandro, non poteva immaginare…
«No, grazie, Sandro, aiutami solo a rialzarmi e a mettermi sul divano. Tutto bene. Un po’ di riposo e poi passa tutto», il direttore si sentiva come uscito da una centrifuga.
«Va bene, come vuole lei. I giornali glieli ho messi sul tavolo. E guardi che quando sono salito, la porta non era mica chiusa a chiave, sa? Faccia più attenzione. Con tutti i brutti ceffi che girano, non si sa mai. Anche se questa volta, nella distrazione è stato un bene che io sia riuscito a entrare, visto che lei non sarebbe riuscito ad aprirmi. Meglio così, va’.», Sandro allungò un cuscino al direttore, perché se lo mettesse dietro alla schiena.
«Sicuro che non devo passare più tardi, per vedere come sta?»
Il direttore fece cenno di no con la mano.
«Al limite le porto un po’ di brodo di cappone che ha fatto mia moglie. Con i cappelletti. Per far sangue e riprendersi meglio.»
Ma il direttore non ne volle sapere. Ringraziò Sandro e gli disse di non preoccuparsi. Che tornasse pure all’edicola, gli spiaceva non poterlo accompagnare alla porta, ma tanto Sandro la strada la conosceva.
«Buon Natale, dottore!», gli disse Sandro, prima di infilare le scale.
«Buon Natale, Sandro. Buon Natale. E grazie», rispose il direttore con un filo di voce.
Meno male che Sandro l’aveva aiutato a sedersi sul divano. Perché quando allungò la mano e prese il primo quotidiano nel mucchio sul tavolo, leggendo il titolo in prima pagina, lo prese la nausea. Mentre il giornale planava sul pavimento, squillò il cellulare. Il direttore ebbe la sbadataggine di rispondere.
Dall’altra parte del filo, qualcuno che sembrava soffrire di adenoidi e che parlava a nome del Padre Priore del Santuario di Bò lo invitava imperiosamente a restituire le statue dei tre Re Magi entro il primo pomeriggio di quella giornata, pena una denuncia per “appropriazione indebita di beni della Chiesa”. Il direttore non ebbe nemmeno il tempo di rispondere. Si sentì il “click” impietoso che terminava la comunicazione.
«E io dove lo trovo un autotrasportatore la mattina di Natale?», aveva chiesto ad alta voce il direttore. Ma parlava solo con se stesso e quando se ne accorse, si avvilì ancora di più.
Forse la televisione gli sarebbe stata d’aiuto per pensare ad altro. La accese, ma sul primo canale un critico letterario ben noto nell’ambiente, stava già montando il caso di “Fuffa e ragnatele”. Raggiunto al telefono dai giornalisti, non gli era parso vero di poter dare fondo alla sua prolissa malevolenza:
«Ho letto “Comete e tripudi”. Prima della “metamorfosi”, diciamo così, poco prima che venisse distribuito. Che dire? Nelle duecentocinquantotto pagine di auto-sbrodolamento – passatemi il termine - che ci ha voluto regalare Salamè, le occorrenze delle parole “comete” e “tripudi” erano, in totale, ben centosettanta. Vi rendete conto? Una cometa e un tripudio ogni pagina e mezza. Ora, non è cambiato solo il titolo del libro. No! Perché queste due parole, rileggendo le pagine nella loro nuova forma, sono state sostituite in tutto il testo! E il risultato è strabiliante! Unico nel suo genere! Salamè, finalmente esce allo scoperto! Sentite qua, cosa scrive già nella prefazione: “Miei cari, fedeli lettori. Questa la mia ultima opera in termini di tempo che ho deciso di donarvi. Piena di “fuffa”, di “ragnatele”. Perché voi, che mi seguite da così tanti anni, che esigete il bello, il sublime, di cui io riesco a permeare le pagine dei miei libri, meritate solo “fuffa” e “ragnatele”. Perché questo siete in grado di capire e apprezzare. Solo questo. Vi sono momenti nella vita in cui un uomo, un vero uomo, deve guardare in faccia alla realtà. Per me, per voi, questo momento è giunto. Fatidico. Ineluttabile. Io so scrivere solo di “fuffa”, perché nella mia vita ho vissuto solo in mezzo a “ragnatele”. Che voglio condividere con voi. Perché anche voi vi muovete tra “fuffa” e “ragnatele”, sin dalla nascita. Solamente, non ve ne siete ancora resi conto. E io voglio sollevare il velo dai vostri occhi. Lentamente, inesorabilmente. Sì, anche voi, anche voi, credetemi, vivete di “fuffa” e “ragnatele”!” … E questa è solo la prefazione! Ma vi rendete conto? Dino Salamè dichiara subito che i suoi lettori sono dei pezzenti ignoranti, come lo è lui, d’altronde! Più che una trovata commerciale, credo che sia una confessione accorata del Salamè, stanco di indossare la maschera dello scrittore illuminato, che peraltro non è mai stato. Una confessione salvifica in extremis… Credo che stia uscendo di scena…»
Il direttore era orripilato. Ma come era potuto succedere? Cosa, soprattutto era successo in quelle poche ore, dalla presentazione del libro alla vigilia, fino alla mattina di Natale?
Spense subito la televisione. Spense il cellulare e staccò il telefono. Avrebbe voluto non esistere più. Dissolversi. Ma non poteva. Iniziò a piangere come un bambino. Si asciugò il naso che gli colava nella manica del pigiama. E si ricordò che l’ultima volta che aveva fatto quel gesto aveva dieci anni. Prima che sua madre gli facesse capire con uno sganassone che solo gli incolti non usano il fazzoletto.
Si ricordò che non aveva ancora fatto colazione. Ma chi aveva voglia di vestirsi, uscire, cercare un bar aperto, la mattina di Natale?
La pendola a muro batté le otto. Era passata solo mezz’ora da quando tutto aveva avuto inizio, ma sembrava fosse passato un secolo. E ora, che avrebbe fatto?
Il direttore tirò un sospiro profondo. Nulla. Non avrebbe fatto nulla. Che andassero tutti al diavolo. Salamè, il Padre Priore, i giornalisti, il critico letterario, i lettori imbufaliti.
«La vita è una sola!», si disse il direttore e aprì la finestra del soggiorno.
«Sandro, Sandro!», chiamò e Sandro fece capolino dall’edicola, «È ancora valida l’offerta del brodo di cappone e dei cappelletti?»
«Glieli porto a mezzogiorno?», chiese l’edicolante.
«Se non è un disturbo per te e per tua moglie… mi farebbe piacere venire da voi a mangiarli…», azzardò il direttore.
«Orpo! Ma certo, sciùr dutùr! Che onore! Certo, saremo in metà di mille, ma dove mangiano diciotto, si mangia anche in diciannove! L’aspetto a un quarto a mezzogiorno, allora, prima della chiusura!», e la testa di Sandro scomparve tra i mucchi di riviste patinate e Settimane Enigmistiche.
Il bersagliere dimenticato
Mi piace raccontare storie poco conosciute, ricordare eroi che hanno dato la vita per l'Italia e che sono stati dimenticati, ed eccomi di nuovo qui a parlare oggi di Zamboni Aurelio, nato il 30 dicembre del 1919 a Cologna, frazione di Berra, un piccolo comune del Ferrarese che sorge sull'argine destro del Po.
Apparteneva a una numerosa famiglia di origine contadina e, come tanti giovani del suo tempo, aiutava il padre Giuseppe a sbarcare il lunario facendo il carriolante durante i lavori di bonifica del territorio. Giovane animato di alti ideali, appena ventenne, nel febbraio del 1940 lasciò la sua casa per arruolarsi nel 9° reggimento bersaglieri, il cui motto era “Invicte, acriter, celerrime” e lui da quel giorno si sentì proprio invincibile. Agli ordini del maggiore Luigi Togni col XXVIII battaglione combatté dapprima sulle Alpi francesi, prendendo parte alle azioni che il 24 giugno portarono alla conquista del forte francese di Traversette. Promosso caporale, verso la fine di agosto del 1941, si trovò in Africa Settentrionale dove venne inquadrato nella divisione motorizzata Trieste.
Gli eventi bellici in Africa Settentrionale, in particolare in Cirenaica, prima che vi giungesse la divisione "Trieste", si erano svolti con alterne fortune per l'Italia. Dopo la debole offensiva condotta da Graziani, i comandi avversari presero l'iniziativa lanciando l'operazione "Compass", dotati di moderni mezzi corazzati, avanzarono per milletrecento chilometri in due mesi, annientando la X armata italiana, facendo prigionieri circa 115.000 soldati dei 150.000 totali. Conquistarono Tobruk, buona parte della Cirenaica fino a Giarabub, costretta alla resa dopo quattro mesi di duro assedio. A organizzare una controffensiva venne in aiuto degli Italiani il Comando Supremo delle Forze Armate tedesche al comando del tenente generale Edwin Rommel che, con operazioni veloci e di sorpresa, riconquistò i territori perduti.
Molto brevemente questo ero lo scenario che trovarono i bersaglieri della Trieste al loro arrivo in Libia e furono subito impiegati con compiti difensivi a pochi km da Tobruk. La nuova violenta controffensiva nemica portò alla finale ritirata delle forze dell'Asse con i Bersaglieri che resistettero con coraggio per coprire il ripiegamento del grosso delle forze, contando innumerevoli morti, feriti e dispersi.
Sulle eroiche gesta del caporale Aurelio Zamboni nel 9° Bersaglieri, che cadde eroicamente il 15 dicembre 1941, riporto qui di seguito la testimonianza del tenente Alberto Tortora, che compilò la proposta di Medaglia d'Oro al Valor Militare e così descrisse gli eventi nel suo racconto Piuma insanguinata:
«Pomeriggio afoso di dicembre, molesto più che mai, per i vortici di sabbia che il vento solleva. La linea è tutta una perfetta amalgama di cuori, acciaio e fuoco, barriera insormontabile e compatta contro cui il più forte numero, la corazza e la tenace insistenza di quei mercenari assetati di sangue si dovranno infrangere inesorabilmente. Da ore una "Breda", rovente come il cuore di chi la impugna, continua, più delle altre, a vomitare fuoco, a sgranare briciole di morte. Il caporale Zamboni, figlio generoso della forte terra di Ferrara, tenacemente avvinto alla sua arma, incurante delle pallottole che radono il ciglio della postazione battuta dal nemico, è instancabile nel farla cantare e quella melodia di morte dà molto fastidio alle feroci orde nemiche che tentano invano di spegnerla vomitando su di essa torrenti di fuoco... Tanta è la foga con cui lo Zamboni "picchia", che nessuno può pensare che egli sia ferito: un rivo rubino irrora la sua fronte limpida ed ogni tanto egli abbassa la testa per asciugare col braccio la ferita senza staccare il pugno dalla testata. Se ne accorge il porta munizioni, che gli manda l'infermiere per medicarlo, ma un violento spintone che lo fa ruzzolare a terra è la risposta dello Zamboni. "Va via - dice secco - che adesso ho da fare." E continua a sparare. Nel frattempo, visti inutili i tentativi di sopraffare quell'arma terribile col fuoco delle mitragliatrici, il nemico incomincia a tempestare la piazzola con i mortai e le artiglierie. I primi colpi cadono intorno senza quasi efficacia, mentre la "Breda", rossa, fumante continua imperterrita a cantare seminando morte. D'un tratto un sordo schianto terribile. Una vampata. Qualche lamento. Una granata ha colpito in pieno la postazione e le adiacenze del camminamento che portano ad essa. Un ammasso umano informe con qualche lieve sintomo di vita. Sei figli di Lamarmora giacciono esanimi con le carni orribilmente straziate; altri sette gravemente colpiti emettono lamenti flebili. Non sono trascorsi due minuti forse e sono appena giunti alcuni bersaglieri per dar soccorso ai feriti, che, tra i corpi senza vita, superbamente bello nello spirito, sorge Zamboni intriso di sangue gridando: "Coraggio, ragazzi! I bersaglieri del 9° non hanno mai paura!" Lo si crede miracolosamente illeso, ma la realtà è ben diversa. "Taglia qui - dice con voce calma ed imperiosa all'infermiere mostrandogli il braccio destro penzoloni appena sostenuto da un lembo di carne - mi dà fastidio". E deve incutere coraggio a quel chirurgo improvvisato che, titubante, con un temperino si accinge a recidergli il braccio. "Accendi una sigaretta e dammela" - gli chiede dopo. E poichè l'infermiere si appresta a curargli anche una gravissima ferita ad un ginocchio orribilmente maciullato e dal quale sgorga copioso il sangue, aggiunge: "Pensa a curare gli altri, che son più gravi". Disteso accanto ai corpi dei camerati caduti continua a fumare pronunziando alte parole di fede e di incoraggiamento per coloro che si lamentano per lo strazio delle carni ferite. Intanto sulla linea la battaglia, violenta, continua. Il nemico, superiore in numero e mezzi, preme senza ottenere successi. Il fuoco è ancora nutritissimo ed intorno continuano ad esplodere proiettili di ogni arma e calibro. Un porta feriti, dopo che gli altri sono stati medicati, torna presso Zamboni ed alla meglio gli lega la gamba per arginare il sangue, proprio nel momento in cui dalle postazioni, impetuosa, una ondata travolgente di fluttuanti piume balza all'assalto. Il grido di "Savoia!" riaccende sul suo volto un lampo di indomita energia ed imprecando contro la sorte maligna che lo tiene inchiodato, si erige sul busto seguendo con l'anima i camerati lanciati verso la vittoria. Poi d'un tratto si guarda intorno cercando istintivamente, con il cuore in gola, un'arma, una bomba. Invano. Gli occhi cadono sul suo braccio amputatogli poco prima, che giace sulla terra intrisa di sangue, e con un'energia misteriosa riesce a carpirlo ed a lanciarlo con violenza verso il nemico, gridando: "Non ho bombe, o vigliacchi, ma ecco la mia carne e che vi possa arrecare danno! Viva il 9° Bersaglieri!". In quel lembo di carne è tutto se stesso. Infatti poco dopo, quando ancora si ode più lontano il fragore della battaglia, egli, limpidamente cosciente, sereno, mentre la sua fronte si copre di un'aureola di gloria, purissimo tra i puri, sale nel cielo degli Eroi. La "Breda" infranta, fredda e silenziosa, lo segue verso il suo luminoso destino.»
Il 2 marzo 1949 il Ministro della Difesa conferì alla memoria del caporal maggiore Aurelio Zamboni, del 9° reggimento bersaglieri, la Medaglia d'Oro al Valore Militare e, per le gesta di quei giorni, a tutto il 9° reggimento Bersaglieri venne assegnata la medaglia di bronzo. In centro a Cologna, sorge un monumento di marmo eretto in ricordo del bersagliere che rese onore a tutto il paese e che raffigura Zamboni mentre scaglia il proprio braccio contro il nemico.
Il cimitero dei Lupi
Chiedendoci se all'ombra dei cipressi e dentro l'urne confortate di pianto sia forse il sonno della morte men duro oppure no, c'inoltriamo nel Cimitero dei Lupi, o Cimitero Comunale La Cigna, oggi ai margini dell'area portuale e industriale della città di Livorno, vicino al torrente la Cigna, appunto, in località Santo Stefano dei Lupi. La zona prende nome dalla gronda dei Lupi, una vasta area che in epoca medievale si estendeva da Pisa al villaggio labronico, cosiddetta dalla famiglia possidente. È stato proprio l'editto di San Cloud, del 1804, cui fa riferimento Foscolo nel Carme I Sepolcri, insieme ad una concomitante epidemia di febbre gialla, a decretare la nascita del nuovo cimitero.
È un pomeriggio di settembre, l'aria ferma e calda. Notiamo subito le baracchine dei fiori rinnovate, prima di superare l'ingresso. La Camera mortuaria è affollata, ahimè, sia di morti sia di vivi, ogni giorno c'è sempre qualcuno che se ne va e qualcuno costretto a piangere. La chiesetta di San Tobia (XIX sec) ci accoglie con i suoi muri spogli e un paio di quadri cupi ma gradevoli.
Progettato dall'architetto Riccardo Calocchieri, completato da Pampaloni e Diletti, ampliato infine da Unis, il camposanto fu benedetto nell'ottobre del 1822. Ulteriori trasformazioni si ebbero a partire dal 1910 fino ai giorni nostri. È costituito principalmente da tombe a sterro.
A parte la piccola folla raccolta davanti all'obitorio, il luogo è deserto. Riflettiamo su quanto il culto dei morti vada scemando nelle generazioni attuali e su come, venuti a mancare quei vecchi che facevano del cimitero una meta bisettimanale, in futuro quasi nessuno più attraverserà il viale monumentale che collega l'ingresso al porticato classicheggiante aggiunto da Unis. La navetta che dovrebbe trasportare anziani e disabili gira a vuoto fra i cipressi. Ci colpisce il silenzio, il senso di pace (eterna).
La prima parte del viale è la più antica e quella meglio tenuta, ricca di monumenti risalenti all'ottocento e al primo novecento. Spicca la tomba di Andrea Sgarallino (1935-1887) il quale ebbe a bandiera patria e lavoro. Patriota insieme al fratello Jacopo, iscritto alla Giovane Italia di Mazzini, si distinse nella difesa di Livorno dall'assedio austriaco nel 1949. Proprio da Santo Stefano ai Lupi, alle sei del mattino del 10 maggio, si udirono i primi cannoneggiamenti austriaci. L'11 maggio era già tutto finito. Solo alcuni decenni dopo, i resti dei livornesi fucilati furono trasferiti ai Lupi, dove Lorenzo Gori scolpì un monumento commemorativo.
Come i fratelli Sgarallino, incontriamo anche Oreste Franchini, che ebbe per maestro Mazzini e per duce Garibaldi e le cui ceneri ancora attendono l'avvento dell'ideale che fu tutta la sua vita.
C'imbattiamo in nomi noti, come Cesare Alemà, il cui monumento è sovrastato da berretto garibaldino, baionetta, spada, bandiera, tromba, foglie di alloro; Enrico Bartelloni; Francesco Chiusa; Giuseppe Ravenna e altri personaggi del risorgimento italiano ma anche della lotta antifascista, come Ilio Barontini e Vasco Jacoponi.
Ogni tomba monumentale ha la sua storia da raccontare, le sue lacrime e la sua memoria. Ci piace ricordarne una fra le tante, di sicuro meno conosciuta, quella costruita nel 1919 per Emma Zigoli.
Emma aveva diciotto anni e tutta la vita davanti, quella sera, mentre, agghindata a festa, allegra e spensierata, si recava a ballare nella sede del Partito Repubblicano, pregustando il divertimento, i chiacchiericci con le amiche, gli sguardi ammirati dei corteggiatori. Ma ci fu una sparatoria davanti al Partito e un proiettile la colpì, uccidendola. Il partito fece costruire il monumento in onore della vittima incolpevole, fulminata la sera del 10 settembre 1919 per umana follia delittuosa e da allora custodisce le salme di tutti gli Zigoli, del fratello Toselli - che cadde eroe sul Montello respingendo l'eroico invasore, e che di certo portava il suo destino scritto nel nome, chiamandosi come l'eroico maggiore morto per difendere la postazione italiana sull'altipiano dell'Amba Alagi - di Giuseppe, di Barbara - diventata cieca, si narra, dal gran piangere la morte dei figli - di Natale che era poi mio nonno, di Esmeraldo - che tutti chiamavano solo Smeraldo e, chissà perché, la E del nome sulla lapide continua sempre a cadere.
Ci colpisce il Cristo effigiato da Giacomo Zilocchi per la famiglia Soriani, e il monumento alla imperitura e gloriosa memoria dei livornesi morti a Mentana, ma anche la tomba che aspetta la salma del giovanetto ventenne Alfredo Z. che colpito da contagioso malore giace in terra straniera ove vige una legge che vieta per dieci anni l'esumazione. Morto a Marsiglia nel 1882. Ci chiediamo se il giovanetto è poi mai tornato a casa.
Inoltrandoci lungo il viale, i monumenti si fanno più maestosi e insieme più moderni, riconosciamo i nomi di tante famiglie note a Livorno in campo commerciale e portuale, dai Fremura, ai Debatte, ai Tanzini ai La Comba. Alcune tombe presentano simboli laici e religiosi diversi, dalle menorah, i candelabri ebraici a sette braccia, a disegni massonici.
Il cimitero ospita anche i sacrari che raccolgono le spoglie dei partigiani, dei caduti della guerra 1915-1918, delle vittime civili e militari del secondo conflitto mondiale e dei militari italiani e inglesi morti nell'incidente aereo del 1971, quando, il 9 novembre, un aereo inglese della R.A.F cadde in mare al largo della Meloria col suo carico di giovani parà italiani.
Tanti nomi scorrono sotto i nostri occhi, soldati che hanno perso la vita combattendo, civili morti sotto i bombardamenti, come la ventitreenne Lora, ma anche lapidi in ricordo di morti ignoti a noi ma noti a Dio.
Il "Quadrato dei Francesi" costituisce l'area delle tombe dei soldati caduti durante la Grande Guerra, alcuni dei quali di origine musulmana. Le salme sono allineate, i cattolici hanno una croce mentre i musulmani un arco. Ma si vede che questi morti erano destinati a non riposare in pace, che l'orrore della guerra doveva inseguirli anche nell'al di là, se nel settembre del 1943 "una bomba di grosso calibro ha distrutto 34 su 54 delle tombe", e i resti sono raccolti ora sotto un'unica lapide.
L'immagine di pace e gradevolezza, di camposanto ben conservato, scema man mano che ci avviciniamo al loggiato. Giungiamo all'intercolonio, sotto il porticato di Unis, che ospita notevoli opere marmoree apuane. Qui regnano abbandono e degrado, i piccioni hanno imbrattato con i loro escrementi il pavimento e le tombe; tutto è decadenza, disfacimento, vediamo segnali di lavori in corso che sembrano non progredire mai. Fuggiamo assaltati da sciami di zanzare provenienti dal vicino torrente. Preferiamo il mese di novembre, quando i cieli sono solcati da nugoli di stormi che disegnano ghirigori fra i cipressi.
A est sorge il nuovo complesso di loculi, molto ben tenuti, al contrario delle logge; verso sud troviamo Tempio Cinerario, un'imponente struttura monumentale realizzata nei primi anni del novecento per conto della Società di Cremazione. Chi ha visto cremare un proprio caro, sa cosa si prova quando la bara entra nel forno, scorrendo sul carrello, e quando poi, a operazione ultimata, l'addetto ti porge un pennello col quale raccoglierti da solo la cenere del tuo estinto, almeno così accadeva negli anni ottanta, quando hanno cremato mio padre.
Cartelli affissi sui colombari ci informano che gli ossari hanno durata di trenta anni mentre i loculi di cinquanta, dopodiché si procederà all'estumulazione d'ufficio e alla dispersione di resti e ceneri in ossari comuni, ma il pensiero sul momento non c'inquieta.
Altre aree del cimitero sono dedicate alle diverse comunità religiose e nazionali presenti a Livorno, come il "Quadrato degli Evangelisti".
Il "Quadrato dei Valdesi" e il "Quadrato dei Turchi" sono due cimiteri preesistenti inglobati nel sepolcreto attuale, che copre 110.000 mq e ospita circa 190.000 salme. Nel riquadro turco ci colpiscono le scritte in arabo e la tomba di Memet Neyal, turco nativo di Alessandra d'Egitto modello di pubbliche e private virtù cittadine disinteressato usò le sostanze a protezione degli amici. Ci rincresce scoprire che morì nel 1846.
Un arco del 1893 accoglie i nomi di tutti i livornesi che prestarono servizio nelle schiere di Garibaldi, alcuni dei quali sono sepolti sotto lapidi ornate dal berretto garibaldino. Se questi morti ci suscitano rispetto e interesse storico, fanno invece accapponare la pelle quelle di ragazzi mancati nel fiore degli anni, ricoperte di peluche, di vecchi giocattoli rovinati dalle intemperie, di biglietti ingialliti di fidanzatine, di gagliardetti amaranto.
Con questo triste pensiero ci avviamo all'uscita, ma prima ci soffermiamo di fronte alla lapide dedicata a Bruna Barbieri, detta la Ciucia, popolana forte, generosa, sempre pronta a donare, a prendere per subito dare, piena di passione, di slancio, antifascista benvoluta persino dai suoi nemici che ne riconoscevano la forza, l'innocenza selvaggia. La lapide è stata fortemente voluta dalla pronipote Tiziana e così recita
"In ricordo di Bruna Barbieri detta La Ciucia. Nata e vissuta nel rione della Venezia, anima pura, cuore generoso, esempio di rara generosità, dispersa tra le atrocità dell'ultima guerra".
Le parole sono un mezzo impuro
Pubblicato nel 1934 dalla Hogarth Press, un saggio collega Virginia Woolf a Walter Richard Sickert, che ella, nel suo diario, chiama “il mio Sickert” (vedi annotazioni di martedì 17 aprile 1934) lamentandosi che, con il pittore che ama, i critici “fanno gli sprezzanti” (venerdì 2 novembre 1934).
Riflettendo sull’affermazione di Mario Praz che: “la tecnica della Woolf potrebbe accostarsi a quella del pointillisme”, pensiamo che essa sia composta da “una pluralità di momenti isolati gli uni dagli altri, messi insieme a caso dall’immaginazione” (ancora Mario Praz) quindi proprio una sorta di puntinismo letterario, di impressionismo della scrittura.
Sickert si distaccò dalle origini whistleriane – e quindi preraffaellite – per accostarsi a Degas, che gli insegnò a non ritrarre solo dal vero, ma anche dipingere sulla scorta di ricordi, fotografie, disegni e lo introdusse alla scuola dell’impressionismo francese. Divenne poi il principale esponente del Camden Town Group, di matrice postimpressionista inglese.
La Woolf descrive un’immaginaria conversazione svoltasi in una sera di dicembre. Il testo si apre con un pezzo di bravura sul cromatismo, sugli insetti che sono tutt’occhi, anzi, tutt’uno, col colore che vedono, fino ad assorbirlo. Si nota subito quanto il linguaggio woolfiano attinga alla poesia, abbeverandosene e, pur mantenendo intatta la razionalità, trascolori in lirismo.
“When I first went into Sickert’s show, said one of the diners, I became completely and solely an insect – all eye. I flew from colour to colour, from red to blue, from yellow to green. Colors went spirally through my body lighting a flare as if a rocket fell through the night and lit up greens and browns, grass and trees, and there in the grass a white bird. (pag 59)
Sickert è un biografo, la Woolf riesce a estrapolare dai suoi ritratti intere vite, trame, narrazioni.
“Yes, Sickert is a great biographer, said one of them; when he paints a portrait I read a life.”[…] When he sits a man or woman down in front of him he sees the whole of the life that has been lived to make that face.” (pp. 60 e 62)
Se il romanziere ci fa vedere ciò che descrive, cioè, in un certo senso, dipinge e pennella, Sickert “scrive“ una storia. Abbiamo una sorta di chiasmo, d’incrocio fra le coppie Woolf – Sickert e scrittura – pittura.
Per la Woolf, più che ritrattista e biografo, Sickert è romanziere, alla stregua di Dickens o Balzac. I suoi personaggi attingono alla realtà, egli ama descrivere la classe media, i lavoratori nel loro squallore, nella loro sofferenza, nei volti plasmati dalla fatica e dalla disillusione, nelle vesti sformate dall’uso, nei mobili logorati e di basso prezzo. Sentiamo muoversi e parlare questi personaggi, costruiamo attorno a loro delle trame, ascoltiamo le conversazioni, i rumori che li circondano, che provengono dalla strada, dalle finestre aperte.
Pur realista, Sickert non è pessimista. È come se nei suoi quadri si accennasse a una condizione parallela, di cui i personaggi sono parte inconsapevole, una realtà di maggiore gioia e pienezza di vita. Inoltre, seppur di umili origini, le sue figure non sono mai avvilite, degradate. Sono donne e uomini ben nutriti, che godono dei piaceri della vita, del possesso di semplici oggetti, del buon cibo. C’è sempre intimità fra i personaggi e le loro stanze, i loro interni. Ogni oggetto, un cassettone, un cappello, un bicchiere, un letto, è espressione del proprietario. La natura umana non è mai lontana dal dipingere di Sickert, sullo sfondo dei suoi quadri c’è sempre un essere umano, un venditore, una passante.
Sickert narra senza correre il rischio di cadere nel sentimentalismo, come accade ai romanzieri. Egli racconta con una pennellata di verde o di rosso, con un gesto della mano, secco e avvolto nel silenzio. E, tuttavia, è comunque un vero poeta, lo si vede soprattutto nei quadri che ritraggono Venezia, il circo, il music hall, i mercati. Di là dal soggetto concreto, carnoso, c’è sempre un cielo, una nuvola, una luce rosso oro che, addirittura, possiamo sentir “gocciolare” dal pennello nell’immagine. In questo modo egli ci rende consapevoli della bellezza, della poesia nascosta, anche se non è un visionario o un rapsodo, non è un Blake o uno Shelley. La sua pittura “is made not of air and star-dust but of oil and earth” (pag. 71)
Pittura e scrittura hanno molto in comune, la Woolf ci descrive il tormento del romanziere che cerca di farci “vedere” ciò che ha in mente. Il brano che segue può essere considerato un vero e proprio manifesto poetico.
“The novelist is always saying to himself how can I bring the sun on to my page? How can I show the sun and the moon rising? And he must often think that to describe a scene is the worst way to show it. It must be done with one word, or with one word in skilful contrast with another. […]They both speak at once, striking two notes to make one chord, stimulating the eye of the mind and of the body” (pag. 73)
Il saggio prosegue con una carrellata di grandi scrittori – da Pope, a Keats, a Tennyson – di cui la Woolf analizza le proprietà pittoriche ma anche musicali, la scelta lessicale inconscia che serve ad alimentare e nutrire l’occhio e l’orecchio del lettore. La Woolf ritiene che non esista scrittore suo contemporaneo capace di scrivere la vita così come Sickert sa dipingerla.
“Words are an impure medium; better far to have been borne into the silent Kingdom of paint” (pag 63)
Per tutto il saggio ella fa riferimento a quel confine oltre il quale c’è solo silenzio, c’è la disperazione dello scrittore incapace di esprimere ciò che vede, la musica nella sua testa, il quadro nella sua mente. È quella che Praz definisce “l’oppressione dell’enorme fardello dell’inespresso”.
“We try to describe it and we cannot; and then it vanishes, and having seen it and lost it, exhaustion and depression overcome us; we recognize the limitations which Nature has put upon us.” pag. 77)
Non manca, infine, nel saggio, una stoccata contro la critica, di cui la Woolf si sentiva vittima, come si evince anche dalla lettura del suo diario; la critica che, appunto, non è sempre capace di cogliere le sfumature pittoriche e musicali della scrittura, ma rimane relegata e limitata alla pagina stampata.
Meglio tacere, dice la Woolf, meglio inoltrarsi nella “silent land”, la terra silenziosa che sta al posto della - o forse oltre la - parola, dove tutta l’arte si combina, dove si fondono poesia, pittura e musica, dove le gocce di colore, le parole scritte e le melodie, diventano una cosa sola, dove il significato si dilegua e lascia il posto alla comprensione preconscia, alla pura emozione che appaga e gratifica.
Amedeo Modigliani, l'arte nelle mani dell'uomo
Amedeo Modigliani (1884 - 1920) nasce a Livorno, da ebrei sefarditi. Suo padre è un cambiavalute impoverito, in famiglia ci sono casi di depressione, un fratello viene incarcerato. Minato dalla tbc fin da piccolo, è testardo, indipendente, bravissimo nel disegno, diventa allievo di Guglielmo Micheli e conosce Giovanni Fattori e Silvestro Lega. La maggior parte della sua vita vede come teatro Parigi, crogiolo di cultura, sede di tutte le sperimentazioni e le avanguardie. Qui Amedeo incarna l'icona dell'artista maledetto, vivendo prima a Montmatre e poi a Montparnasse, venendo a contatto con Toulouse - Lautrec e Cézanne. Contemporaneo dei cubisti senza esserlo, influenzato dal fauvismo espressionista, piuttosto che dall'impressionismo, dall'uso del colore puro in funzione anche emotiva oltre che costruttiva, dall'abolizione del chiaroscuro e della prospettiva, dai contorni netti, Modì frequenta Picasso e Utrillo, sviluppando uno stile suo, personale, che attinge a suggestioni arcaiche e africane. Parte come scultore, creando maschere stilizzate, egiziane, primitive, ma la polvere aggrava i suoi polmoni già malati e deve orientarsi sulla pittura, sebbene scriva anche poesie. Il suo interesse si concentra sulla figura umana. Nel suo lavoro è veloce, riesce a terminare un ritratto in un paio di sedute e poi non lo ritocca più, ma essere dipinto da lui, dicono, è come "farsi spogliare l'anima". I suoi nudi sono considerati scandalosi, le sue mostre vengono chiuse, i suoi quadri più belli venduti per pochi spiccioli. Torna a Livorno nell'estate del 1909, malaticcio e logorato, ma riparte subito per Parigi. I pochi soldi finiscono tutti in alcol e droghe, si lega sentimentalmente a diverse donne - Beatrice Hastings, scrittrice inglese, Lunia Czechowska - ha un figlio naturale che non riconosce poi, improvviso, scoppia l'amore con Jeanne Hebuterne, la passione folle di tutta la sua breve vita. Jeanne è bella, ha occhi azzurri, lunghi capelli castani, un carattere docile e dipinge con grande sensibilità. Le loro anime sono affini, il loro amore è di quelli che vanno oltre la morte, gli partorisce una figlia che si chiama Jeanne anche lei. Modigliani muore di meningite tubercolare delirando fra le braccia della straziata Jeanne, incinta al nono mese. Gli fanno un gran funerale, che sfila per le vie di Parigi. Il carro è coperto di fiori, seguito da un lungo corteo di pittori, di scultori, di modelli, tutti gli artisti di Montmatre e Montparnasse riuniti. Le spoglie vengono sepolte al Pere Lachaise. Jeanne non regge alla separazione, non può vivere senza Amedeo, neanche per la figlia Jeanne o per il nascituro. Si getta dalla finestra e perisce con la creatura che ha in grembo. La famiglia non vuole altri scandali, la fa seppellire in un altro cimitero, lontana dal suo amato. Sarà solo nel trenta che verrà data l'autorizzazione a traslarla e inumarla vicina ad Amedeo. La figlia Jeanne cresce a Firenze, in casa di una zia paterna, e, da adulta, scrive una importante biografia,"Modigliani senza leggenda" che, insieme al libro di Corrado Augias,"Modigliani, l'ultimo romantico", è una delle principali fonti d'informazione sulla vita del pittore scomparso. Da segnalare anche il film "Modigliani, i colori dell'anima", del 2004, di Mick Davis. La figlia Jeanne muore cadendo dalle scale mentre si discute sull'autenticità o meno delle teste ritrovate nei fossi, sulla sua fine aleggia il sospetto dell'omicidio. L'altro figlio, quello non riconosciuto dal pittore, cresce in Francia e diventa sacerdote. Il resto della famiglia è sepolto a Livorno, nel nuovo cimitero ebraico dove, a ricordo di Modì, c'è solo una lapide. Dopo la morte di Modigliani, le sue opere sono vendute per cifre astronomiche.
Amedeo Modigliani Patrizia Poli presenta: l'Arte nelle mani dell'Uomo Amedeo Modigliani (1884 - 1920) nasce a Livorno, da ebrei sefarditi. Suo padre è un cambiavalute impoverito, in famiglia ci sono
http://www.livornomagazine.it/Livorno-arte-cultura/PITTORI/Amedeo-Modigliani.htm
Tanti sassolini nella scarpa
Poiché è meglio un’autentica cattiveria che una falsa bontà, mi pare giunto il momento che qualcuno dica la verità. La verità scomoda, sgradevole, che pure Gesù c’è morto per dirla.
Oggi è esattamente il mio quarantesimo giorno di clausura. La mia quarantena autoimposta.
Da mercoledì 4 marzo, da prima di qualsiasi ingiunzione governativa, non metto il naso fuori del cancello del condominio, nemmeno un minuto, nemmeno per fare la spesa o “pisciare” il cane. A queste cose pensa mio marito.
All’inizio fu il focolaio in Cina. Io non mi preoccupai. Ho cinquantotto anni e di epidemie ne ho viste tante. Ho fatto l’Aids, Ebola, la Sars, la suina e l’aviaria. Persino la mucca pazza. Passerà, mi sono detta, la fermeranno come tutte le altre. Non è stato così. Ho cominciato a subodorare che qualcosa questa volta non andava, forse per intelligenza, forse per intuizione.
Il 22 di febbraio mando un messaggio a Tizia: “Pensi sia il caso di vederci stasera a cena?”
Risposta: “Non ci si può mica chiudere in casa.” Ok, la cena è prenotata, vado. Il ristorante è affollatissimo, c’è uno che tossisce e starnuta. Io sto con l’ansia.
Il 29 febbraio arriva una foto di un piatto di pappardelle al ragù di un ristorante di montagna. Tizia scrive: “Voi quarantena, noi queste”.
Il 4 marzo devo accompagnare mia madre a fare una tac in clinica. Vado, faccio la tac e torno a casa di corsa. Non ne uscirò più.
Il 6 marzo posto su fb uno dei primi disperati appelli di una rianimatrice che ci esorta a stare a casa perché la terapia intensiva sta già collassando. Caia mi dice, testuali parole, “è una psicopatica.” Quella sera mio marito va a cena dalla figlia e dalle nipotine. Io resto a casa. Ho mal di testa da tre giorni, non voglio eventualmente contagiare nessuno
Il 7 marzo ancora Caia: “Noi oggi bellissima passeggiata sul fiume e tortelli di XXX”.
Il 9 marzo il governo chiude La Lombardia e il giorno successivo, mi pare, chiude anche tutta l’Italia.
Io in casa, triste, mogia, soprattutto spaventata a morte dal virus. Mi telefona Sempronia: “Non c’è da preoccuparsi, è tutta una montatura dei giornalisti”..
Da allora sono passati tanti giorni e i decreti si sono succeduti ai decreti.
Io sempre ligia e sempre a casa, a cercare di dare un senso alle giornate, ad ascoltare le informazioni sempre più controverse e, alle 18, come tutti, il bollettino dei morti. E la fila dei carri al crematorio. E la gente che racconta il girone dantesco dell’intubazione, della pronazione. Ad ascoltare ogni più piccolo segnale del mio corpo per capire se sta per addentarmi il mostro. A fare da cameriera agli altri della famiglia. Perché, se manco io, qui si va a rotoli. A scrivere un intero romanzo, almeno per credere che tutto questo mi sia servito a qualcosa.
E altri giorni passano. E i provvedimenti si susseguono, sempre meno seri, sempre più isterici e ridicoli. E piovono da tutte le parti. Da Conte che, poveraccio, è sfinito, sta facendo quello che può per arginare una situazione che gli è sfuggita di mano e che non ha avuto il coraggio di bloccare quando era il momento. Perché, per carità, meglio che muoiano le persone piuttosto che qualcuno venga considerato, non sia mai, razzista. E piovono dai presidenti delle regioni, ché almeno ci si ricordi anche di loro, visto che prima manco ne conoscevamo il nome. E piovono dai sindaci, che diventano sceriffi e si atteggiano a salvatori della patria. Assurdi, nevrotici. Non puoi portare il cane oltre cento metri da casa. E se io ho un muro davanti a casa mia? Non puoi sedere in auto a fianco di quello stesso marito con cui dividi il letto, la tazza del water e la tavola. Non puoi far prendere una boccata d’aria al bambino.
Ecco, io comincio ad agitarmi, a stare male, a pensare che stiamo esagerando, perdendo il cervello e il buon senso. Penso che il giusto sta sempre nel mezzo, che, se uno fosse equilibrato, non ci sarebbe bisogno di polizia e deliranti autocertificazioni che cambiano ogni giorno.
Ma il governo deve spostare la colpa da se stesso, dalla propria iniziale dabbenaggine, al comune cittadino. Così si fa la caccia alla mamma col passeggino, al signore che porta giù il cane, a quello che vuole respirare un po’ d’aria. Diventano loro gli untori, il pericolo pubblico. Gli assassini. E cominciano a circolare foto truccate di falsi assembramenti, prese ad arte in vicoli stretti e con l’obbiettivo schiacciato. Per dimostrarci quanto siamo stupidi, infantili e cattivi.
Ma c’è anche chi sta in un condominio che dà su una chiostra puzzolente piena di topi, c’è chi non ha uno straccio di balcone nemmeno per cantare l’inno di Mameli. C’è chi ha bisogno di un poco di respiro.
E il mio disagio cresce. E penso che non mi va di uscire due minuti, entro il raggio di cento metri, con una mascherina che mi toglie il respiro e mi appanna gli occhiali, col rischio che un poliziotto – categoria che non ho mai amato – mi chieda i documenti come fossi una delinquente.
E i giorni di prigionia aumentano e mi sento soffocare e comincio a capire che Cacciari e Crepet hanno ragione: la casa è un inferno. La convivenza forzata è un incubo, le stanze sono celle, le famiglie sono covi di serpi che non possono districarsi dal groviglio e scappare.
E comincio a desiderare la mia vita di prima, a sentire una straziante nostalgia per la mia libertà, la libertà di scegliere di rimanere a casa a scrivere il mio libro. Ma anche di uscire all’aria aperta, al sole, ad annusare l’odore del mare. Con la bocca e il naso liberi. Senza disinfettante.
Io pratico il distanziamento sociale da quando sono nata. La vita mondana non mi manca. Non mi mancano le cene forzate con le persone che non ho voglia di vedere. Non mi manca giocare a carte. Non mi manca nemmeno la retorica degli abbracci. Mai andata in giro ad abbracciare la gente e, quando mi baciavano sulle guance, di nascosto mi sono sempre pulita anche in tempi non sospetti.
Mi manca piuttosto prendere il mio cane, varcare il cancelletto del condominio e uscire sola, libera. LIBERA. Senza autocertificazioni, senza documenti in tasca. Libera di stare fuori quanto voglio, ben distanziata da gente che, comunque, in ogni caso non mi andrebbe di incontrare.
E quando il mio cane mi guarda incredulo, invitandomi a superare quel cancello che ormai è diventato una barriera psicologica, mi si strazia il cuore. Sì, si strazia per quello e non per i 16000 morti.
Io non credo alla solidarietà, a quelli che, nel momento del bisogno, tirano fuori l’Italia migliore. Io credo alla verità e la verità è fatta di meschinità, di egoismi, di cattiveria. E ognuno pensa a se stesso. Io penso a me stessa. Alla mia vita che non c’è più. Al mare, all’aria aperta, a un aereo da prendere per andare all’altro capo del mondo.
Ed ecco che Tizia, Caia e Sempronia insorgono. Si fanno improvvisamente paladine dello stare in casa, della repressione di ogni libertà, della quarantena infinita e felice. Diventano accanite. Fanno la caccia al vicino che esce troppo, controllano quanti bambini sono fuori. Sì, proprio loro, quelle che andavano a cena al ristorante e che sono rimaste a casa solo perché ce le hanno costrette.
E allora, oltre alla tristezza per un futuro che non sarà mai più quello che avevamo, oltre alla paura di morire sola e intubata, il sentimento che adesso mi pervade è la RABBIA. Violenta, acre in bocca, verde come bile. Rabbia e senso d’ingiustizia per quello che mi è stato tolto, per questi arresti domiciliari che sconto incolpevole. Rabbia contro le imposizioni, i divieti a raffica, la polizia sotto casa, i droni, gli elicotteri e le persone che mi dicono di pensare a chi sta peggio.
C’è sempre chi sta peggio. Anche mentre voi andavate bellamente al ristorante ogni sacrosanto sabato sera, c’era chi stava peggio, chi moriva di cancro, straziato dai dolori, chi finiva sotto una macchina, e, magari, non aveva nemmeno 90 anni, non sbavava e si cacava addosso, magari era giovane e aveva figli piccoli. Ma questo non v’impediva di uscire a divertirvi, perche “non ci si può mica chiudere in casa”. Eh, no, certo.
Ah, e l’enfasi dei vecchi che stanno morendo nelle case di riposo, dove la mettiamo? Familiari disperati che non possono vederli. Ma se davvero ti stava a cuore il nonno, non lo abbandonavi, te lo tenevi in casa e gli cambiavi il pannolone piscioso, che si sa che in quei posti ci vanno a morire.
Però chi, come me, dice la verità ora è diventato ai vostri occhi un irresponsabile. E la verità è che ci sta capitando un trauma, una tragedia cosmica, e non esistono le famiglie della Vodafone, quelle alacri, attive e felici di incontrarsi su internet. O quelle che impastano gioiose perché, finalmente, hanno trovato il lievito per farsi il pane e la crostata. Quelle che non vedono l’ora di abbracciarsi. Quelle che fanno ginnastica e annaffiano i gerani. Quelle che sorridono alle telecamere dal divano. Telecamere, che, per inciso, sono le uniche ammesse là dove si muore da soli, dove a nessun congiunto affranto è permesso entrare.
Diciamola la verità. Che su quel divano bisogna pur starci e ci staremo finché dovremo, ma senza sorriso sulle labbra, senza aria da salvatori della patria. Che, secondo come andrà finire, dopo tutti questi sacrifici odiosi, manco la nostra di pellaccia salveremo.
Nove domande e mezzo a Marta Bandi
1) Quando hai iniziato a scrivere?
Da bambina avvertivo il bisogno di prendere carta e penna e ricorrere alla scrittura, racchiusa in una bolla di volontaria solitudine, per scrivere brevi poesie o pagine di diario. In seguito, per svariati motivi, ho messo in stand by questa passione, fino a quando, circa due anni fa, ho partecipato al "Corso di immaginazione scontenta" di Alessandro Mazzà (capitano di #Libereria). Da allora ho ripreso carta e penna e (come scrivo nella poesia che apre il mio libro) ... il fiume sotterraneo è emerso...
8)Come descriveresti l'atmosfera che si respira in Libereria?
Libereria è tante cose. Oltre a essere un consorzio di autori (come tutti sanno) è incontri, raduni, scambi sinceri di affetti, ascolto, famiglia. L'atmosfera è, da un lato sempre piacevole e accogliente, dall'altro lato stimolante, in continuo fermento.
9)Scrivi per te stessa o scrivi per il lettore?
Il tempo che precede lo scrivere è un tempo di riflessione, di messa a punto di un pensiero, di scavo interiore, e questo lavoro è in evoluzione fino a quando metto il punto finale. Sono momenti nei quali non penso al lettore, penso a scrivere quello che sento, ed essendo io la prima lettrice, voglio esserne convinta. Successivamente il mio auspicio è di arrivare a di trasmettere qualcosa agli altri: un'emozione, un'immagine poetica evocativa, un pensiero condiviso.
1/2) Non ti chiederò perché scrivi, ma bensì che cosa scatena in te la voglia di farlo, al momento che ti accingi a scrivere la prima battuta qual'è il tuo primo pensiero, dove trovi la forza espressiva?
La voglia arriva all'improvviso, non so di preciso cosa la scateni, è un lampo, un'illuminazione, un friccicore (termine romanesco) a volte acuto. Il primo pensiero è di soddisfazione per qualcosa che sta nascendo, sta prendendo forma. La forza espressiva la trovo nell'introspezione ma anche intorno e fuori di me. La natura è una potentissima forza ispiratrice.
Daniela Giordano, "Tre vite in una"
Daniela Giordano
Tre vite in una
Enigma Edizioni - Pag. 267 - Euro 16,90
Daniela Giordano aveva già pubblicato Io Daniela, con Il Foglio Letterario Edizioni, un testo dedicato alla sua attività nel mondo del cinema. Adesso manda in stampa con la fiorentina Enigma Tre vite in una, dove non racconta soltanto l’avventura del cinema e del concorso Miss Italia (prima vita), ma anche delle investigazioni sui fenomeni psichi e gli UFO (seconda vita), oltre al sogno che consegna istruzioni su come costruire un dispositivo telepatico di comunicazione (terza vita).
Daniela Giordano nasce a Palermo il 7 novembre del 1946. L’evento che fa scattare l’ingresso nel mondo del cinema avviene per caso, una sera di metà agosto, sulla stupenda spiaggia di Mondello, quando vince un concorso fatto in casa, organizzato tra amici e conoscenti, e viene nominata Miss Mondello. La Giordano ha 19 anni e dopo aver ballato con gli amici alla Sirenetta viene incoronata come la ragazza più carina della festa. Il caso vuole che lo zio di Daniela, capo redattore del Giornale di Sicilia, decida di pubblicare un reportage dettagliato dell’evento mondano e - caso ancor più fortuito - che queste foto finiscano nelle mani di chi stava organizzando le selezioni per Miss Italia. Daniela Giordano viene nominata Miss Palermo senza vincere alcuna gara, forse perché la commissione resta estasiata da tanta bellezza, forse perché la procedura selettiva è in ritardo e serve una candidata sicula. Va da sé che la famiglia non approva, ma dopo qualche discussione di rito Daniela - ancora minorenne per la legge del tempo - ottiene il consenso e partecipa al concorso di bellezza più prestigioso d’Italia. “Sarà soltanto un gioco. Tanto non vincerà mica lei …”, dicono i genitori. In realtà Daniela vince il titolo di Miss Sicilia ed è pronta per affrontare la sfida decisiva, tra l’incredulità e la preoccupazione dei familiari. Firma un contratto dove c’è scritto che in caso di vincita di una selezione dovrà partecipare alla successiva e i genitori non sono così convinti di quel che sta accadendo. Viene incolpato lo zio di tutto quel caos imprevisto, perché galeotto fu l’articolo, quindi è incaricata la zia di accompagnare Daniela a Salsomaggiore. Daniela Giordano affascina la giuria per eleganza, sorriso e fattezze mediterranee di ragazza sicula. Non è la classica maggiorata. “Ero magrissima e piccolina rispetto alle altre concorrenti. Rientravo a malapena nelle misure standard richieste dal concorso. Nel 1966 andavano ancora di moda le ragazze formose. Per fortuna quell’anno ci fu un clamoroso cambio di tendenza. Iniziavano ad andare di moda le barbie, alte e magre”, racconta. Viene eletta Miss Italia 1966 ed è obbligata a partecipare al concorso per Miss Europa. Daniela è stanca del gioco, vorrebbe smettere e tornarsene in Sicilia, ma non può abbandonare. Daniela Giordano comincia a occupare le copertine dei rotocalchi e la sua fama si diffonde. È la volta della madre a fare da accompagnatrice a Nizza, per la finale del titolo europeo. Prima della serata conclusiva Daniela compie una tournée negli Stati Uniti e in Canada, questa volta accompagnata dal padre che chiede un permesso speciale alla direzione della banca. In tale occasione viene avvicinata dalla William Morris, importante agenzia cinematografica che la vorrebbe interprete di un film: I barbieri di Sicilia. La famiglia non è contenta neppure di questa possibilità di entrare nel cinema e cerca di osteggiare la scelta, ma Daniela è irremovibile. Per fare il film decide di rinunciare a Miss Europa e soltanto per questo motivo arriva seconda alla selezione, perché la giuria voterebbe per lei quasi all’unanimità. Daniela si raccomanda al patron del concorso di essere esclusa perché vincendo il titolo dovrebbe partecipare alle selezioni per Miss Mondo, perdendo la possibilità di interpretare il suo primo film. Vince Miss Spagna e la nostra Miss Italia arriva seconda, non terza come dicono molti testi e alcuni siti Internet. Il resto dovete scoprirlo da soli leggendo sia Io Daniela (Il Foglio Letterario) che Tre vite in una (Enigma Edizioni). Non posso mica dir vi tutto io …
I titoli dei suoi film:
I due barbieri di Sicilia (1967) di Marcello Ciorciolini
Play boy (1967) di Enzo Battaglia
Il lungo giorno del massacro (1968) di Alberto Cardone
Joe! Cercati un posto per morire (1968) di Giuliano Carnimeo
Susanna... ed i suoi dolci vizi alla corte del re (1968) - di Franz Antel (alias François Legrand)
Quante volte... quella notte (1969) di Mario Bava
Captain Coignet (1969) di Jean Claude Bonnardot (TV Francia)
Un esercito di 5 uomini (1969) di Don Taylor e Italo Zingarelli
Vedo nudo (1969) di Dino Risi
Ombre roventi (1970) di Mario Caiano
Bolidi sull’asfalto - A tutta birra! (1970) di Bruno Corbucci
Buon funerale amigos! ... paga Sartana (1970) di Giuliano Carnimeo
La sfida dei Mackenna (1970) di Leon Klimovsky
Un’estate, un inverno (1971) di Mario Caiano (TV - Rai)
Il suo nome era Pot … ma lo chiamavano Allegria (1971) di Lucio Giachin (Dandolo) e Demofilo Fidani (si fanno chiamare Dennis Ford)
I quattro pistoleri di Santa Trinità (1971) di Giorgio Cristallini
Una tomba aperta... una bara vuota (La casa de las muertas vivientes) (1972) di Alfonso Balcazar Granda
Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave (1972) di Sergio Martino
Scansati... a Trinità arriva Eldorado (1972) di Dick Spitfire (Diego Spataro, in realtà regia di Aristide Massaccesi)
Trinità e Sartana figli di... (1972) di Mario Siciliano
Violenza contro la violenza (1972) di Rolf Olsen e Lee Payant
Che brutta epoque! (1973) di Mario Landi (teatro)
Le avventure del Barone Von der Trenck (1973) di Fritz Umgelter (TV Germania)
La casa della paura (1974) di William L. Rose
La cameriera (1974) di Roberto Bianchi Montero
Malocchio - Eroticofollia (1975) di Mario Siciliano
Roma violenta (1975) di Marino Girolami (Franco Martinelli)
Il vizio ha le calze nere (1975) di Tano Cimarosa
Il fidanzamento (1975) di Giovanni Grimaldi
L'infermiera di mio padre (1976) di Mario Bianchi
Karamurat, la belva dell'Anatolia (1976) di Herb Al Baurr (Natuk Baytan) e Ernst Hofbauer
L'adolescente (1976) di Alfonso Brescia
La portiera nuda (1976) di Luigi Cozzi
Un toro da monta (1976) di Roberto Mauri
Le impiegate stradali - Batton Story (1976) di Mario Landi
Starcrash - Scontri stellari oltre la terza dimensione (1977) di Luigi Cozzi
Inquisición - Inquisizione (1978) di Paul Naschy (Jacinto Molina)
Il braccio violento della mala (1979) di Sergio Garrone
Le segrete esperienze di Luca e Fanny (1980) di Roberto Girometti e Gérard Loubeau
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Erba Celeste (2016) di Valentina Gebbia
Roma che non abbozza