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In giro per L'Italia: Guardalfiera

23 Febbraio 2016 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere, #postaunpresepe

In giro per L'Italia: Guardalfiera


Guardialfiera è un paese molisano che si trova in provincia di Campobasso e conta circa 1180 abitanti, anch’esso negli anni interessato, come tanti centri della piccola regione, da un forte fenomeno migratorio.
Situato a un’altezza di 280 metri sul livello del mare, sulla parte sinistra dei fiume Biferno, si specchia sul grande lago artificiale del Liscione. Guardialfiera divenne famosa negli anni settanta proprio grazie a questo invaso costruito nel suo territorio per l’innalzamento di una diga, eretta allo scopo di fornire acqua potabile ai paesi circostanti per uso domestico, agricolo e industriale. Lo specchio d'acqua è attraversato al centro, in tutta la sua lunghezza (circa 8 km) da un ponte, notevole opera ingegneristica, che per la sua peculiarità è stato spesso usato per girarvi scene cinematografiche o spot pubblicitari.
Quando le acque del fiume Biferno allagarono i terreni per la costruzione della diga, furono sommersi anche i resti di un antico ponte chiamato ponte di Annibale, sulle cui arcate, secondo la leggenda, marciò Annibale, diretto in Puglia durante la seconda guerra punica.

Oggi tutta la zona è conosciuta come luogo da cui si diramano itinerari escursionistici nella natura e sentieri per il fitness. Il lago ospita capanni per osservare gli uccelli acquatici che qui sostano durante i lunghi voli migratori ed è l'ideale anche per praticare la pesca sportiva, grazie alle numerose specie di pesci autoctone, quali il cavedano e il luccio, ma di particolare interesse sono alcune specie in via di estinzione come l’alborella appenninica e la scardola tirrenica, predate dalle trote comuni, dalle carpe e dai pesci gatto. Il lago e il fiume Biferno sono meta di appassionati pescatori provenienti da ogni parte. Durante il mese di agosto si svolgono feste con spettacoli pirotecnici fra “cielo e lago”.

Il territorio comunale è principalmente agricolo, coltivato a frumento, vigneti, uliveti e in parte boschivo, di notevole attrattiva è l’area del Bosco San Michele, attrezzata per i pic nic.

In paese, di notevole interesse artistico, è la chiesa dell’Assunta, edificio medievale poi ristrutturato in età barocca e nel secolo scorso. Numerosi sono gli elementi trecenteschi sui muri esterni nei quali si aprono due importanti portali in stile gotico, ma di maggiore interesse resta la cripta, una delle più antiche costruzioni della regione, databile al secolo XI nella parte originaria e ampliata nel XIII secolo. In questa cripta ogni anno si rappresenta uno dei più bei presepi viventi della regione: tutta la parte antica del paese, le vie del borgo, le case, le botteghe, si animano e si trasformano come per incanto nell’antica Betlemme. Scene di vita quotidiana che fanno magicamente apparire un lembo di Galilea in Molise e ogni anno, durante le festività, Guardialfiera diventa il “paese del Natale”. Sono rappresentate figure di mestieri da sempre esercitati dall’uomo: l’oste, il falegname, le filatrici di lana, il venditore di pane, lo scalpellino che lavora la pietra come nell’antichità. Chi visita il presepe, avvolto da mistica atmosfera, viene accompagnato lungo il percorso di stretti vicoli illuminati da fiaccole dal suono delle zampogne e si sente avvolto da odorosi profumi naturali quali la fragranza del fieno, del vino in botte, del latte fresco appena munto e del pane fragrante di forno.
L’origine del nome del paese, sorto intorno al X secolo, è incerta e fonte di diverse interpretazioni: Guardialfiera, come “guardia degli Alfieri”, che la vuole come una sorte di custode della valle, oppure “guarda Alfano” deriverebbe dunque dal suo affacciarsi verso il monte Alfano, o forse il nome deriva semplicemente da “Adalferio”, Conte di Larino, che, nel 1049, al tempo della dominazione Longobarda, era Feudatario di Guardialfiera e del territorio circostante
Piatti tipici da gustare in special modo durante le feste paesane sono, oltre ai prodotti genuini della terra, ai formaggi e agli insaccati: la misischia, che si cucina con carne di pecora tagliata a pezzi, condita con aglio, origano, finocchio, prezzemolo e peperoncino, cotta in forno a legna ben caldo per circa due ore; la pasta con la mollica, fatta con bucatini lessati, conditi con mollica, grattugiata da pane raffermo, preventivamente insaporita con pepe ed olio d’oliva, ed appena passata a gratinare, magari con aggiunta di baccalà.

Le foto sono di Flaviano Testa

In giro per L'Italia: Guardalfiera
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Guido Gozzano

17 Settembre 2015 , Scritto da Marcello De Santis Con tag #marcello de santis, #poesia, #personaggi da conoscere

Guido Gozzano

Guido GOZZANO
(1883-1916)



"… appena un lieve sussurro all'apice… qui… la clavicola…/
e con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro./ Nutrirsi…
non fare più versi… nessuna notte più insonne.../ non più sigarette..
non donne… tentare bei cieli più tersi:/ Nervi… Rapallo… San Remo…
cacciare la malinconia; / e se permette faremo qualche rad
ioscopia…

Leggo ancora i miei versi, in lunghi silenziosi colloqui con me stesso, stando disteso sulle foglie e sull'erba di questo prato, in questo caldo agosto che passo qui, alla casetta; lo stagno coi pesci rossi, e laggiù, il Meleto della mia infanzia. Ho appena trentadue anni, e sono già otto anni che mi rilevarono questo male al polmone. Ogni tanto sembra regredire la fiamma che brucia dentro il mio petto, ma non è così; avanza, purtroppo! E a me non resta che assistere impotente; e seguire con amarezza il corso della malattia.

"… mio cuore monello giocondo che ride pur anco nel pianto…"

E che cosa ho ancora da dirti, mio cuore!
Questo: di essere contento di vivere ancora qualche tempo, godendo questo nostro, mio e tuo, angolo di paradiso. Anche se non è più nostro il Meleto, - mio cuore - gustiamo ancora un poco la gioia di essere insieme.
Qui, l'aria è buona; abbiamo vagato tra il mare di Liguria a respirare iodio, e l'aria buona delle colline - balsamiche, a detta dei medici - per immettere ossigeno dei polmoni, che può far bene…".
Ma le crisi, ciò nonostante, continuano - più o meno leggere - ma continuano… e più o meno crudeli.
Ah, quest'edera al balcone, i glicini, gli oleandri, i limoni!
E noi, tu e io, mio povero cuore, costretti ad attendere…
Trentadue anni! e nell'attesa, vivo di ricordi…
Mia madre, giovane e bella, elegante nella sua figura minuta, che sempre mi è stata vicina, quand'ero fanciullo, oggi ha bisogno di me, nel suo male. Oggi è rimasto soltanto un fantasma, della donna di ieri.
L'immobilità l'ha toccata, e adesso sono io che l'assisto. Sono io il faccendiere di casa. Da tempo, oramai, io vivo per lei, e… per i miei versi. E nei miei versi ho descritto le cose di casa mia, quelle cose "di pessimo gusto" che ornano ancora le antiche stanze adorate.
Il mio sogno di laurea è svanito da molti anni. E sono avvocato; ma solo di nome.
Poeta? Non so.
Ho scritto tantissimi versi, ma sempre col cuore; per quel che mi resta di questa dolcissima vita, e crudele.
I miei giovani anni trascorsi in cure - inutili? - ora qua, ora là, stanno per finire. Lo sento.
E niente, niente ho creato di definitivo, se non i miei versi, i poveri miei versi…
Non l'affetto per la cara Amalia.
Non la stima degli e per gli amici e poeti. Non la corsa alla laurea, presto interrotta.
E il viaggio in India a cercare un po' di salute per i miei polmoni malati; sena risultati concreti; è stata solo un'esperienza letteraria, da terapeutica che si pensava.
I miei frammenti raccolti nelle ore che inseguivo con ansia, ora sono fissati sulla carta, e resteranno a mio ricordo; perenne, spero…


le miniature, / i dagherotipi: figure sognanti in perplessità, //
il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone /
e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto, //
il cucù dell'ore che canta, le sedie parate a damasco /
cremisi... rinasco, rinasco del mille ottocento ci
nquanta!»

****

"Una cocotte!..."
"Che vuol dire, mammina?"
"Vuol dire una cattiva signorina:
non bisogna parlare alla vicina!"
Co-co-tte... La strana voce parigina
dava alla mia fantasia bambina
un senso buffo d’ovo
e di gallina...

Un giorno - giorni dopo - mi chiamò
tra le sbarre fiorite di verbene:
"O piccolino, non mi vuoi più bene!..."
"È vero che tu sei una cocotte?"
Perdutamente rise... E mi baciò
con le pupille di trist
ezza piene.

Ho pudore del mio male: i dottori dicono che forse potrei metterci una pezza andandomi a chiudere in quella prigione nevosa, sterilizzata e mondana, che è il Santuario di Davos.
Non vado, io soffro il freddo.
Preferisco morire ad Aglié o a Torino, a Sturla o a Rapallo…

marcello de santis

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Ritorno a L'Avana (2014) di Laurent Cantet

26 Febbraio 2015 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #cinema

Ritorno a L'Avana (2014)  di Laurent Cantet

Ritorno a L'Avana (2014)

di Laurent Cantet

Regia: Laurent Cantet. Soggetto: Leonardo Padura Fuentes. Sceneggiatura: Leonardo Padura Fuentes, Laurent Cantet. Fotografia: Diego Dussuel. Montaggio: Robin Campillo. Produzione: Borsalino Productions, Campagnie Cinématographique, La Maneki Films. Distribuzione Italiana: Lucky Reds. Durata: 90'. Genere: Drammatico. Interpreti: Jorge Perugorría, Isabel Santos, Fernando Hecevarria, Néstor Jímenez, Pedro Julio Díaz Ferran. Titolo Originale: Retour à Ithaque.

Un film irrisolto e poco coinvolgente si aggiudica il Premio delle Giornate degli Autori, al Festival di Venezia 2014. In compenso la critica italiana è compatta nel gridare al capolavoro, da Paolo D’Agostini su Repubblica ad Alessandra Levantesi su La Stampa, passando per Anna Maria Pasetti su Il Fatto Quotidiano. In breve la trama, perché non c’è molto da raccontare, vista la pochezza della storia e l’inesistenza di vero cinema, per la scelta registica di una messa in scena teatrale. L’azione si svolge sopra una terrazza che domina i tetti del lungomare avanero, tra condomini cadenti e uno splendido Malecón. Cinque amici si ritrovano per festeggiare il ritorno a casa di Armando, dopo 16 anni di esilio a Madrid. Molte parole e tanti ricordi, si parla di giovinezza, rimpianti, ideali perduti, si beve e si cena in compagnia, ma vengono fuori anche problemi personali e questioni del passato. Il film racconta una notte, dal tramonto all’alba, cercando di contenere in 90’ sogni e illusioni, speranze tradite, voglia di fuga e ansia di ritorno, paura di confessare le proprie idee, sensazione di aver creduto in un’idea impossibile.

Un film amaro che dice cose condivisibili, ma non lo fa nella maniera giusta, non ricorre al linguaggio cinematografico, visto solo da critiche partigiane che lo paragonano a Il grande freddo. La pellicola sembra un lavoro a tesi, programmatico, che suona falso a ogni fotogramma. Gli interpreti sono bravissimi - anche se il doppiaggio rovina l’immediatezza dello slang cubano - ma i dialoghi impostati, ridondanti e retorici gridano vendetta. Ritorno a L'Avana (migliore il titolo originale Ritorno a Itaca) non sembra scritto da una penna geniale come quella di Leonardo Padura Fuentes, forse il regista ha rovinato il soggetto in sede di sceneggiatura, ché dalla fiction teatrale non viene fuori neppure il vero animo cubano. Sembra un film scritto da uno straniero che conosce poco Cuba e che si è divertito a mettere in bocca ai cubani le proprie considerazioni sul fallimento degli ideali rivoluzionari. Il racconto delle cinque esistenze non coinvolge minimamente, sia la storia del pittore fallito che quella dello scrittore incapace di scrivere lontano da Cuba, come quella del funzionario che si è adattato al regime. Ancor meno interessanti le peripezie di un ingegnere costretto a costruire batterie per campare e di un medico che si è vista scappare tutti i figli all’estero. Poco realistica la voglia di tornare da parte di Armando, in un paese dal quale tutti fuggono, così come sono mal giustificati l’esilio madrileno e la scelta di non tornare quando la moglie era in fin di vita. Ritorno a L’Avana è un’occasione perduta per raccontare la disillusione rivoluzionaria ricorrendo a una storia, sfruttando il magnifico scenario naturale e facendo emergere i problemi dalle immagini. Cantet fa pessimo teatro, retorico e stucchevole, poco comprensibile per chi non conosce a fondo la realtà cubana, quasi irritante per chi la conosce bene o ne fa parte. Molti registi contemporanei cubani hanno girato opere migliori che non riescono a circolare in Europa, persino Juan de Los Muertos di Brugués (premio Goya) racconta la disillusione rivoluzionaria con gli strumenti del cinema di genere. Altri titoli interessanti: Conducta di Ernesto Daranas, Se vende di Jorge Perugorria, Habanastation di Ian Padron. Se la critica importante vi ha consigliato di vedere Ritorno a L’Avana, permettetemi di dissentire e di invitarvi a perdervelo, ché sono altre le opere fondamentali della cinematografia cubana. Tabío e Gutierrez Alea insegnano.

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Reportage Hawaii. Isole non solo per i surfisti.

1 Marzo 2015 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

Reportage Hawaii. Isole non solo per i surfisti.

L’arcipelago è composto da 8 isole principali, più altre isole minori e atolli che raggiungono il considerevole numero di 150.

Le Hawaii non avrebbero bisogno di presentazione, ma dopo aver parlato della Polinesia non può essere ignorato quest’arcipelago polinesiano (sì, proprio polinesiano) che dal 1959 costituisce il cinquantesimo degli Stati Uniti d’America.
Un insieme di 150 isole e atolli equidistanti dalla California e da Tahiti. Ben 4.000 chilometri dividono, infatti, questo arcipelago e ne fanno le terre emerse più isolate del mondo.
Non solo, le Hawaii rappresentano il vero punto d’incontro tra Est ed Ovest e ospitano una cultura veramente varia per la presenza di diverse etnie. Cinesi, giapponesi, malesi, vietnamiti ed altri si sono mescolati alle popolazioni originarie e agli europei arrivati con James Cook nel 1778.


L’isola principale, OAHU, è detta “l’isola degli incontri”. Tutti i luoghi più famosi ed evocativi delle Hawaii si trovano qui: dalla capitale Honolulu a Waikiki, da Pearl Harbour a Sunset Beach. I primi due centri formano un tessuto urbano continuo, simile a quello delle grandi città americane.

Ma la natura incontaminata è poco lontano, anche se qui le spiagge sono quelle che vedono folle di turisti e i surfisti più famosi impegnati nelle numerose competizioni.
La cultura hawaiana rivive nelle scuole di Hula, la danza tipica, e nella lingua che si parla, però, solo nei momenti della tradizione e nella toponomastica.

La seconda isola dell’arcipelago è MAUI, racchiusa in una valle tra due vulcani spenti, anch’essa affollatissima e piena di vita. Per chi desidera un po’ di pace, basta recarsi nella costa orientale o in montagna, dove è minore la presenza turistica.
Qui svetta il più grande vulcano inattivo del mondo, Haleakada, dalla cui sommità, proprio vicino la bocca del cratere e dopo una lunga salita attraverso scenari quasi lunari, è possibile ammirare lo spettacolo meraviglioso dell’alba.

Ma la natura più rigogliosa, e alla portata di tutti, è nell’isola di KAUAI, dove si trova il monte Waialeale, considerato il luogo più umido della terra. Ma è considerata anche l’isola giardino, per i suoi paesaggi così belli ed unici.
Non a caso, è stata scelta per girare numerosi film come “i predatori dell’arca perduta” e “Jurassic Park” (quest’ultimo girato anche in Venezuela, a Canaima).


L’isola che dà il nome a tutto l’arcipelago, Hawaii, misura il doppio di tutte le altre isole messe insieme. Ha un patrimonio naturalistico unico, con deserti, foreste pluviali, vulcani ancora attivi (ce ne sono cinque nella sola isola) e vette imbiancate di neve.


L’Hawaii Volcanoes National Park comprende due vulcani attivi, una caldera ancora fumante, coni di cenere, colonne di pomice e fiumi di lava. Ma tutta l’isola, per il suo ambiente così naturale e particolare, con boschi e foreste, è il luogo ideale per escursioni.


Se c’è qualcuno che preferisce trascorrere le proprie vacanze “fuori dal mondo” e lontano da ogni tipo di stress, l’isola di Moloka’i è l’ideale. E’ molto piccola, e si è difesa strenuamente dall’invasione dei turisti pur avendo perso, in questo modo, molti posti di lavoro.


Ma solo qui, dove vivono pochi abitanti rispetto al testo dell’arcipelago, si possono rivivere le emozioni di un luogo dove il tempo sembra si sia fermato e dove i suoi abitanti sono ancora molto legati alle loro antiche tradizioni

Nessuna discoteca, nessun grande albergo è presente a Moloka’i. Qui si possono effettuare escursioni, passeggiate in riva al mare, mangiare tanto pesce e… ritrovare sé stessi.

Reportage Hawaii. Isole non solo per i surfisti.
Reportage Hawaii. Isole non solo per i surfisti.
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Reportage: le Sporadi equatoriali, un altro paradiso non perduto

7 Marzo 2015 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

Reportage: le Sporadi equatoriali, un altro paradiso non perduto

CHIAMATE UN TEMPO SAMOA OCCIDENTALI, GLI ABITANTI SI VANTANO DI ESSERE GLI UNICI E VERI POLINESIANI.

Le Sporadi Equatoriali sono dette anche Isole della Linea perché situate sull’Equatore ed è proprio qui che cambia la data.
Sono undici isole che appartengono alla Repubblica di Kiribati, ad eccezione di due atolli: Palmyra e Jarvis, e ci sono oltre novemila abitanti, per lo più concentrati sull’atollo Kiritimati, il più grande del mondo.
Si tratta di un angolo sperduto del mondo, collegato solo con l’aeroporto di Honolulu. Solo quattro villaggi, per sentirsi veramente nell’antica Polinesia, lontano dal frastuono del mondo occidentale e anche fuori dai circuiti del turismo di massa.

Upolu e Sava’i sono le due isole maggiori che costituiscono quelle che un tempo erano chiamate Samoa Occidentali, per il resto, un insieme di isolotti e atolli non abitati.

Gli abitanti di Samoa si considerano gli unici veri polinesiani, perché ritengono di essere la vera popolazione autoctona di quelle terre. Il loro mito della creazione è molto simile a quello biblico.
Missionari, pirati, balenieri, sbarcarono spesso qui, rendendo queste isole molto frequentate già intorno alla fine del XVIII secolo. La cessione di questa parte delle Samoa alla Germania, e il coinvolgimento nelle due guerre mondiali, non hanno intaccato lo spirito cordiale e ottimista di queste popolazioni.

Le isole non sembrano aver subito molto l’influenza occidentale e tutto sembra legato al passato. L’unica vera città dello Stato è la capitale Apia che, nonostante qualche traccia di modernità, mostra tutto il suo fascino con i suoi mercati, dove si può trovare di tutto, dall’artigianato ai vestiti, ai gioielli in noce di cocco.

Nella capitale è facile trovare numerose chiese cattoliche e anglicane sparse ovunque.

Le spiagge più belle – sì, perché nonostante tutto il fascino di queste isole è sempre il mare cristallino e le candide spiagge – si trovano nella parte meridionale dell’isola di Upolu, dove si deve richiedere il permesso prima di effettuare immersioni e dare, forse, un piccolo “dazio”.

Il turismo è una delle principali fonti di sostentamento nel paese in cui molti problemi hanno

provocato la deforestazione e i cambiamenti nel mondo agricolo.
Prendendo un taxi o un autobus da Apia, si giunge a Vailima, nella casa trasformata in Museo, dove visse Louis Robert Stevenson, recatosi in quel luogo – allora sperduto – per curare i suoi polmoni malati.

Alla sua morte gli abitanti del luogo lavorarono per 24 ore consecutive per tracciare un sentiero fino alla collina per collocare lì la tomba del loro “tusitala”, narratore di favole.
Lì, da dove si sovrasta l’isola, la barriera corallina e tutto l’orizzonte infinito, venne sepolto con le parole della sua elegia “Requiem”: Rientrato il marinaio, rientrato dal mare/ e rientrato dal monte il cacciatore.
Non solo Stevenson, ma naturalmente altri scrittori e artisti scelsero di vivere in queste splendide isole. Fra i tanti, Herman Melville, l’autore del famoso “Moby Dick” .

Fra i nostri connazionali, Hugo Pratt, fece nascere proprio qui il suo Corto Maltese. Mete ideali – i Mari del Sud – per ambientare le loro storie.

Qualcuno di loro scelse di viverci e anche di morirci.
In questi luoghi, che la storia europea ha consacrato all’avventura, risuona lento il passo di chi ritorna dal mare, lascia la vita e consegna per sempre il suo sonno alla terra…

Reportage: le Sporadi equatoriali, un altro paradiso non perduto
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Reportage Caraibi: St Vincent e le Grenadine, un paradiso tutto da scoprire.

10 Marzo 2015 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

Reportage Caraibi: St Vincent e le Grenadine, un paradiso tutto da scoprire.

LE ISOLE RISENTONO DELLE DIFFERENTI DOMINAZIONI E GLI STILI DIVERSI SONO PIUTTOSTO EVIDENTI.

Gli appassionati di vela vanno pazzi per questa “catena” formata da 32 fra isole e isolette, situata fra St. Lucia e Grenada, sia per le splendide spiagge, le acque cristalline e le ricche barriere coralline. Si tratta, infatti, di isole non ancora prese d’assalto dal turismo di massa, ma assolutamente in grado di offrire tutto il lusso e il fascino dei Caraibi.

St. Vincent, l’isola più grande, possiede un entroterra ancora inesplorato, ricco di una vegetazione floridissima, con fiumi e cascate. Le spiagge, quasi tutte di origine vulcanica, offrono un piacevolissimo contrasto con le montagne che le sovrastano.

Insomma, si tratta di un vero e proprio paradiso tutto da scoprire!
Fu, naturalmente – come potremmo sbagliare – il solito Cristoforo Colombo a scoprire St. Vincent, dichiarandola di dominio spagnolo, ma, al contrario delle altre isole dei Caraibi, ci vollero ben due secoli prima che la colonizzazione europea riuscisse ad avere il sopravvento. Un lunghissimo periodo, durante il quale gli indiani Caribi opposero una resistenza durissima, che comunque non riuscì a fermare le molteplici e sanguinose battaglie fra i colonizzatori per il predominio dell’isola.

Gli inglesi ebbero la meglio, nonostante l’eroico, quanto vano, tentativo di alleanza fra i francesi e i Caribi per riprendersi il territorio. Nel 1969, infatti, St. Vincent divenne uno Stato britannico Associato, condizione in cui rimase fino al 1979, anno in cui l’isola proclamò la sua piena indipendenza dalla Gran Bretagna.

La lingua ufficiale è l’inglese, ma alcune fra le isolette minori hanno risentito molto delle influenze culturali francesi; la differenza di stile, quindi, è abbastanza evidente.
Un altro e non meno grave motivo di sofferenza per St. Vincent, furono le frequenti eruzioni del vulcano “Soufriere” che, fortunatamente, dorme un sonno profondo da ormai moltissimo tempo, ma che costituisce una delle maggiori attrazioni dell’isola. E’ possibile, infatti, arrampicarsi fino al cratere, ma attenzione, è consigliabile affidarsi ad una guida più che esperta.

Le Grenadine, le cui isole principali sono Bequia, Musique, Canouan, Mayreau, Union, Palm e Petit St. Vincent, costituiscono dei porti sicuri e, da molti anni, famose mete per gli yacht, pur essendo un tantino povere dal punto di visto economico.

Infatti, le poche popolazioni permanenti sulle 8 isole vivono di lavori stagionali, o costruendo imbarcazioni.

Kingstown, la capitale di St. Vincent, è sicuramente da visitare, non fosse altro per osservare la frenetica attività sul lungomare, fra golette e transatlantici o il mercato del sabato mattina fra agricoltori e pescatori.

Da non tralasciare è anche la “Marriaqua Valley”, detta anche la Valle di Mesopotamia, lungo la quale si oltrepassano foreste, ruscelli e fattorie per arrivare ai “Giardini Montreal” famosi per le sorgenti naturali di acqua minerale.

Per quanto riguarda lo sport, lo splendido mare che circonda le isole merita sicuramente almeno un’immersione subacquea, magari dopo aver fatto una partita a tennis o a golf.

Gli alberghi delle varie isole sono accessibili per tutte le tasche, ma gli amanti del lusso allo stato puro avranno di che deliziarsi. E’ qui, infatti, la più alta concentrazione di alberghi superlusso dei Caraibi. Indipendentemente dalle tariffe, comunque, è in quasi tutti gli alberghi che si svolge la vita notturna, fra discoteche, piano bar e musica dal vivo.

Reportage Caraibi: St Vincent e le Grenadine, un paradiso tutto da scoprire.
Reportage Caraibi: St Vincent e le Grenadine, un paradiso tutto da scoprire.
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Jean- Michel Guenassia, "Il valzer degli alberi e del cielo"

28 Aprile 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #pittura, #personaggi da conoscere

 

 

 

 

Il valzer degli alberi e del cielo

Jean Michel Guenassia

 

Salani, 2017

pp 280

 

 

Il valzer degli alberi e del cielo, di Jean Michel Guenassia, avrebbe, e dico avrebbe, tutte le carte in regola per essere un meraviglioso e affascinante racconto romantico, invece - vuoi perché a scriverlo è un uomo, vuoi perché continuamente intramezzato da riferimenti a lettere e diari che sortiscono sul lettore un effetto di straniamento - se si eccettuano rari momenti nel finale e le descrizioni appassionate dei quadri, il pathos che sprigiona è scarso e l’interesse è tutto documentaristico. Indubbiamente, grazie a questo libro facciamo un tuffo in quella fine ottocento francese percorsa da slanci di emancipazione femminile e da fermenti artistici e sociali che partorirono i capolavori oggi racchiusi al museo d’Orsay e l’inconfondibile merletto di ferro della torre Eiffel.

La storia si basa su un’ipotesi intrigante, su “come potrebbe essere andata”. La trama ricostruisce gli ultimi sessanta giorni della vita di Vincent Van Gogh, quelli trascorsi ad Ausers sur Oise, investigando i dubbi che circondano la sua fine, e ipotizzando un amore, mai confermato, con Marguerite, la figlia diciannovenne del medico, mecenate d’impressionisti, Paul Ferdinand Gachet, colui che ebbe in cura il pittore olandese negli ultimi mesi e che si trovò a fronteggiare la fatale ferita d’arma da fuoco. L’ipotesi di Guenassia è che Gachet non sia stato l’amico degli impressionisti bensì un opportunista che ha contribuito alla morte di Van Gogh e alla diffusione di falsi sui quali ha lucrato.

Come dicevamo, la storia d’amore, pur tormentata e romantica, non ci cattura quanto la rappresentazione della pittura di Van Gogh. La descrizione dei quadri, tempestosi, mossi, tormentati, è più vivida e riuscita della caratterizzazione dei personaggi e dei loro sentimenti un po’ di maniera. Van Gogh stesso rimane sullo sfondo come persona, risaltando solo nell’atto di dipingere, anzi, di aggredire la tela.

In piedi di fronte al paesaggio – fra campi di grano, pagliai, voli di corvi, tetti e girasoli – Van Gogh dipinge senza gettare mai uno sguardo all’esterno, a ciò che deve ritrarre, concentrato su una visione solo mentale, seguendo l’onda di una burrascosa sinfonia interiore.

La personalità di Van Gogh ci sfugge, la sua malattia mentale non traspare, centrale resta il bisogno di dipingere tele su tele, inondandole di luce e colore con delirio ossessivo. Il suo carattere è un mistero, non capiamo se sia soltanto un egoista preda di demoni interiori o se, a suo modo, ami Marguerite e cerchi di salvarla da se stessa.

Marguerite, invece, è l’immagine della ragazza ingenua, libera, ribelle, che coraggiosamente e con incoscienza giovanile spezza per amore tutti i vincoli che la legano al mondo borghese e conformista rappresentato dal meschino padre e dal vile fratello. Per amore è disposta a tutto e vede nell’uomo di cui si è innamorata non solo l’incarnazione della passione romantica ma anche il maestro che potrebbe rivelarla a se stessa, plasmarla, scioglierla dalle catene e farla brillare della fiamma di un’arte che in realtà non possiede, perché lei sa solo imitare i pittori prediletti ma non riesce a dipingere qualcosa di originale. Vincent la chiama “mio piccolo girasole”, fanno l’amore nella pensione bohemienne dove lui alloggia e parlano fitto tenendosi abbracciati ma rimangono due solitudini inconciliabili.

 

Ma lui sapeva che il nostro tempo era contato. Io no. Lui sapeva, d’istinto, molto prima che io l’ammettessi, che siamo soli sulla Terra e che contro questo non possiamo fare nulla. Soli di fronte a noi stessi. Soli in mezzo agli altri. Qualunque cosa ci si possa inventare per far credere il contrario. E Vincent è riuscito a dipingere proprio la bellezza di questa profonda solitudine” (pag 271)

 

 

 

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Umberto Bieco espleta funzioni fisiologiche su “La solitudine dei numeri primi”

9 Maggio 2017 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #recensioni, #le prese per il deretano di umberto bieco

 

 

La lettura, come il tempo di amare, dilata il tempo di vivere, e a quanto pare anche il tempo di defecare. Alle vittime della defecazione è infatti dedicato il primo capitolo di questo capolavoro scatologico, che, vincitore del Premio Strega, ha stregato centinaia di migliaia di lettori - mentre altri se lo sono preso come un'influenza intestinale, a Natale, impacchettato sotto l'albero: non c'è niente di più letale dei libri che ti vogliono regalare.

 

Il libro narra di Mattia, Alice, e della terrificante sofferenza dell'essere incongruenti con il mondo circostante – benché da due prospettive diverse, quella di chi – autistico genio matematico autolesionista - non vuole farne parte e quella di chi – sciancata e anoressica – non riesce ad integrarvisi: data questa affinità riusciranno almeno ad incontrarsi tra di loro?

Come anticipato, il romanzo inizia subito col più sublime tripudio intimistico: una fatale scarica fecale, per quanto peculiare, questa è in ultima analisi la causa dell'azzoppamento della protagonista femminile. Caspita, che deiezione violenta!

L'artefice di queste pagine, del resto, si compiace di crogiolarsi nei più svariati umori umani e sporcizie miscellanee, costellando il suo capolavoro con imbarazzanti water traboccanti, a coronamento della cena romantica più fallimentare di sempre [capitolo 29], con vomitate poltigliose [capitolo 15], nonché con l'ingerimento di luridume rivoltante [capitolo 5] – tanto che vien da sospettare sia questa la materia di cui son fatti i sogni dell'autore, e quindi del libro stesso.

Lo stile secco complessivamente sembra indeciso tra momenti, nel loro piccolo, spettacolarmente drammatici e una narrazione psicoesistenziale sobria e contrita, densa del grigiore della banalità quotidiana – e così troviamo sequenze eccessive da film o telefilm americano, se non proprio alla Stephen King: il rapporto di Alice con le sue coetanee adolescenti – tipiche aguzzine televisive bidimensionali senza un perché - si cristallizza nella deliziosa circostanza accennata, quella del capitolo 5 – una violenza psicologica che si espleta in modo fisicamente disgustoso, e che potrebbe uscire, per l'appunto, da Carrie di King – ma che in questo contesto risulta effettisticamente becero. Così come l'esagerazione sensazionalistica di Mattia, che al compagno di scuola che cerca di confessargli la propria omosessualità con un baratto di segreti, rivela il suo in questo modo:

 

Strinse il coltello con tutte e cinque le dita. Poi se lo piantò nell'incavo tra indice e medio e lo trascinò giù fino al polso”.

 

In altre parole, sembrano generose porcate con cui intrallazzare facilmente il lettore impressionabile – per quanto, certamente, veicolino bene il concetto che per i due protagonisti gli anni formativi siano stati Puro Orrore – un po' come la lettura di questa gemma letteraria per il sottoscritto.

Intanto, laureatosi, Mattia confessa ad Alice il proprio colpevole trauma originario – e ciò li porta finalmente vicini, ma non a sufficienza: il culo colloso del giovane matematico rimarrà appiccicato alla sua comoda inerzia anaffettiva, lui partirà per un'università straniera, e lei si accontenterà di un surrogato, per la verità un gradevole e appetibile partito, di cui però non è davvero e innamorata e che però non la conosce davvero, né la conoscerà davvero durante la vita matrimoniale – la quale quindi si spezzerà dopo qualche anno.

A questo punto lei spedirà un messaggio a Mattia.

Avrei trovato maggiormente appassionante uno sviluppo della tematica sollevata a pagina 129:

 

“Non so” rispose Mattia alle zucchine.

 

Più conversazioni con le zucchine, e, possibilmente, anche con altri ortaggi.

Perchè questo spunto è stato lasciato intentato?

In definitiva, che dire di questo angoscioso e poltiglioso Capolavoro Assoluto della Recente Narrativa Italiana?

Che il giudizio coincide con l'inizio: una evacuazione indesiderata.

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Animavì: Festival Internazionale del Cinema d’animazione poetico

13 Maggio 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #vignette e illustrazioni

 

 

Animavì

Festival Internazionale del Cinema d’animazione poetico
seconda edizione

 

Diretto dal regista Simone Massi, il primo festival al mondo dedicato specificatamente all’animazione poetica e d’autore.
Tra gli ospiti il regista svizzero Georges Schwizgebel, conduce le serate Luca Raffaelli. Sedici opere in concorso da tutto il mondo


Si tiene nel centro storico di Pergola (Pesaro - Urbino) nel giardino di Casa Godio,dal 13 al 16 luglio 2017 la seconda edizione di ANIMAVÌ - Festival Internazionale del Cinema d’animazione poetico, con la direzione artistica del più importante regista italiano di cinema d’animazione, Simone Massi, che da anni realizza il trailer e la locandina della Mostra del Cinema di Venezia. Ospite d'eccezione il Maestro svizzero Georges Schwizgebel, regista di fama internazionale premiato nei festival di tutto il mondo, da Cannes ad Annecy, autore di oltre venti cortometraggi d’animazione (tra cui La Course à l’abîme; The Man with No Shadow; Romance; Jeu; Erlkönig), in cui applica una tecnica originale, artigianale, che consiste nel dipingere a mano ogni fotogramma, realizzando una pittura animata, di fatto opere d’arte dinamiche. A condurre le serate, che vedranno la partecipazione di ospiti musicali e personaggi del mondo della cultura italiana e internazionale, Luca Raffaelli, giornalista, saggista, sceneggiatore e uno dei massimi esperti di fumetti e animazione in Italia. Il programma completo al link www.animavi.org

A contendersi il Bronzo Dorato, prezioso trofeo artistico, ispirato all'omonimo gruppo equestre di epoca romana e simbolo della cittadina marchigiana, saranno 16 opere di animazione provenienti da tutto il mondo, dall'Australia alla Svizzera passando per l'italiano 'Confino', di Nico Bonomo, ma anche lavori da Spagna, Francia, Russia, Cina, Corea del Sud, Polonia, Lettonia, Portogallo e Danimarca. La Croazia sarà rappresentata quindi da '1000' di Danijel Zezelj.

Animavì vuole soprattutto rappresentare a livello internazionale il “cinema d’animazione artistico e di poesia”, quel genere di animazione indipendente e d’autore che si propone di raccontare per suggestione, prendendo le distanze in maniera netta dall’animazione mainstream. Vogliamo cercare di portare a Pergola - sottolinea il direttore artistico Simone Massi - dei 'giganti' in un piccolo paese e in un piccolo festival. Un tentativo che facciamo in maniera scanzonata e allo stesso tempo con la consapevolezza che qualcosa di importante ce l’abbiamo anche noi: le colline, i piccoli borghi, la nostra Storia”. Animavì primo festival al mondo dedicato specificatamente all’animazione poetica e d’autore, vanta il supporto di numerose figure di spicco della cultura e dell’arte, insieme a contadini, minatori, partigiani: Pierino Amedano, Franco Armino, Andrea Bajani, Luca Bergia, Valentina Carnelutti, Max Casacci, Dilo Ceccarelli, Ascanio Celestini, Erri De Luca, Nino De Vita, Goffredo Fofi, Daniele Gaglianone, Gang, Valeria Golino, Nastassja Kinski, Emir Kusturica, La Macina, Neri Marcoré, Mau Mau, Laura Morante, Marco Paolini, Lyudmila Petrushevskaya, Umberto Piersanti, Alba Rohrwacher, Francesco Scarabicchi, Silvio Soldini, Oreste Tagnani, Paolo e Vittorio Taviani, Miklós Vámos, Daniele Vicari, Emily Jane White, Massimo Zamboni.

 

Animavì è un evento realizzato grazie all'organizzazione di Mattia Priori, Leone Fadelli, Silvia Carbone e dall'associazione culturale Ars Animae, con il contributo e patrocinio di Regione Marche, Ministero deI Beni Culturali e delle attività culturali e del turismo, Marche Film Commission, Marche Cinema Multimedia, Comune di Pergola, Provincia di Pesaro e Urbino, SNGCI - Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani e Accademia del Cinema Italiano Premio David di Donatello. Il festival ha ricevuto dal Presidente della Repubblica la Medaglia al Merito per il valore culturale dell'iniziativa.


Per maggiori informazioni:

www.animavi.org
info@animavi.org
https://www.facebook.com/animavifestival

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Volcano

12 Aprile 2020 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

 

 

 

Il Vulcano, che sgradito regalo natalizio ci fece a noi poveri acitorriani. 

Quel magma, quel maledetto magma che senza pietà si mise a sfrigolare e a bollire come se fosse acqua caldissima derivante da un mefistofelico bollitore, tramutandosi in una implacabile ed impressionate lava rossa tanto da associarla a quella dell'Inferno dantesco.

Ho scolpito nell'anima ogni singolo fotogramma di quel drammatico giorno, a cominciare da quel fumo che via via si innalzava sempre più in alto sulla mia città collocata alle pendici dell'Otna. La quiete prima della tempesta, anzi, prima dello sfacelo, fondamentalmente una seconda Pompei.

All'improvviso, sentii i miei occhi bruciare in maniera pazzesca finché un’angosciante oscurità color ardesia imprigionò il sottoscritto assieme agli altri cittadini di Aci Torre in un misto di stupore e tensione fino ad arrivare alla temutissima eruzione seguita dal terremoto. Ci fu un parapiglia inaudito e una cacofonia di urla strazianti accompagnata dai pianti lancinanti dei bambini. La gente per ovvi motivi si prodigò a correre a destra e a manca, chi addirittura nel fuggi fuggi generale venne travolto dalle automobili.

L'Otna, senza troppi complimenti sparò una silurata lavica ad un'altezza incredibile, in una sorta di orgasmo, tant'è che gli zampilli e le colate apparivano come sperma rosso ed incandescente, mirati a distruggere tutto e tutti. Gli spruzzi sottili di lava scottante scivolarono via dal Vulcano alla massima velocità. Erano inarrestabili.  

La paura mi paralizzò totalmente e restai a guardare quel magnifico e al contempo orrendo spettacolo. Non durò molto, dal momento che una voce interiore mi esortava a sbloccarmi e di conseguenza ad agire. In fondo ero ancora molto giovane ed avevo una vita davanti.

Le ceneri e i gas riempirono gravosamente l'aria, mi tappai la bocca con la mano e, durante la fuga, posso assicurarlo, il cuore mi pompava a mille, peraltro assai motivato a non arrendermi, infatti avrei sputato sangue e cenere pur di non lasciarmi sopraffare da quel gigante impietoso.

Irreversibilmente fiumi di roccia fusa si addentrarono sull'inerme città sottostante sciogliendo nel loro percorso qualsiasi cosa ovvero scuole, parchi, case, supermercati, monumenti ed altre infrastrutture. Numerose bombe vulcaniche vennero catapultate dalla montagna sempre più instabile ed eccitata, procurando una moltitudine di esplosioni.

In fase conclusiva la gigantesca fontana di lava guadagnò “terreno” sia in lunghezza che in larghezza, insomma metri quadrati completamente coperti. Lo sleale e spietato Vulcano vinse con estrema facilità.
La terra si spaccò ed inciampando caddi al suolo come un sacco di patate per poi strisciare e dimenarmi.

«Sto morendo?» mi chiesi sul punto di svenire.
Da quel preciso istante, credo di aver pianto e pregato, non ricordo bene, ed infine il buio. Una volta che riaprii gli occhi, con grande sorpresa mi ritrovai al Policlinico con i medici e gli infermieri piuttosto affaccendati.   Gli angeli col camice bianco, (così li soprannominai) con i dovuti strumenti mi monitoravano costantemente temperatura, battito cardiaco e pressione sanguigna.

Mi spiegarono che ero riuscito a sopravvivere al disastro, in quanto una pattuglia della polizia municipale, composta da un uomo e una donna, in extremis, mi avevano caricato di fretta e furia nella loro auto di servizio in direzione per Bessina. Mi commuovo nel pensare che, nonostante la gravità della situazione, i due agenti non esitarono neanche un secondo a mettermi in salvo anziché tirare avanti, se non fosse stato per loro a quest’ora non sarei qui a scrivere questo racconto. Con entrambi sarò eternamente in debito.

Ora vivo a Copenaghen, a migliaia di chilometri di distanza dalla mia regione perennemente a rischio di fenomeni tellurici. Sono felicemente sposato con Anne e ho due figli, Erik e Susanne.

Qui non c’è nulla da temere.

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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