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Cerca risultati per “Aldo Dalla Vecchia Vita da giornalaia”

Natale a sorpresa

16 Febbraio 2019 , Scritto da Dario De Santis Con tag #dario de santis, #racconto, #unasettimanamagica

 

 

 
 
 
Dal diario del comandante
Ci siamo, oggi pomeriggio finalmente sarà il momento, Danilo detto Nilo e Dora hanno a disposizione la casa dei genitori di lui, i quali hanno deciso di passare un week-end sulla neve, l’ultima per quest’anno.
È il momento che i ragazzi aspettavano da due mesi, da quando lei ha capito che
A) lui è l’uomo della sua vita
B) non vuole raggiungere i diciott'anni con un pezzettino di carne superflua (se la sentissero parlare così i suoi, paladini di Comunione e Liberazione, le taglierebbero la lingua, come ai bei tempi della Santa Inquisizione)
Dora arriva in tarda mattinata a casa di Nilo vestita di molti strati di lino, cotone e jeans come se questi ultimi ostacoli potessero, nei suoi più intimi pensieri, ritardare il momento sacrificale.
Avevano deciso di aspettare con calma dopo pranzo, ma al primo bacio entrambi capiscono che quel momento non è più procrastinabile, iniziano a strapparsi i vestiti di dosso, toccando quei punti finora solo sognati...
... e qui intervengo io, ancora non avete capito chi sono? Il terzo incomodo, il mio compito è di allungarmi per facilitare il compito del mio socio di entrare nel corpo di lei.
Tutto tranquillo, eravamo già pronti prima che lei arrivasse, il pensiero del corpo di lei, acerbo ma già maturo, mi ha quasi fatto raggiungere molte volte il punto di non ritorno, avevamo dovuto pensare ad una partita di pallone persa tre a zero, per uscire dal pericolo.
Finalmente posso sognare autonomamente attraverso il mio occhietto. Tolti gli slip la prima cosa che vedo è il viso di lei che guarda curiosamente la mia erezione, si allontana soddisfatta, si getta all’indietro sul letto e si toglie gli ultimi vestiti.
È goffa nello spogliarello, ma per questo ancora più sexy.
Che bella che è, anch’io vedo la passerotta per la prima volta senza il fermo immagine dei video su you tube.
In effetti anche Dora è ferma, si concede timidamente allo sguardo di noi due. Non riesce a guardare Nilo negli occhi, continua a studiarmi, come ipnotizzata.
Il momento è giunto, mi avvicino ed entriamo.
È tutto buio ma è come scivolare in Paradiso, un posto caldo ed invitante, supero gli ostacoli e...
CAVOLO, mi sono distratto, ho lanciato il carico troppo presto, non ero abituato ad essere stretto in modo così bello, vedo i miei spermatozoi prendere di mira un bellissimo ovulo, circondandolo senza pietà, una battaglia persa... o vinta in partenza.
24 dicembre, ore 19
Nove mesi dopo, in casa dei genitori di Nilo, Diego e Maura, una coppia di quarantenni troppo giovani per aver fatto il ’68, diventati adulti con gli ideali derisi dai nuovi liberisti e cresciuti con la nostalgia del passato. Si erano ritrovati in una delle ultime sezioni del PCI, amore a prima vista con figlio annesso. Era stata dura,
ma ora vivevano felici, nostalgici e desiderosi di mettere ancora in pratica il loro passato di lotta, purtroppo, non per colpa loro, mai espresso pienamente.
«Maura ti avverto, non rinuncio alla carne, per la mia famiglia è sempre stato un vanto, un esigenza, volete che festeggi? Datemi una bistecca!»
«Diego, smettila, dall’odore dell’incenso in avvicinamento, i consuoceri stanno arrivando, spero che Nilo abbia già avvertito Dora, comunque per loro ho cucinato pesce»
«Cosa cambia? Sono cattolici, non serve farli contenti, pretendono che anche noi facessimo le stesse cose che fanno loro».
«Speriamo che i ragazzi arrivino per primi, non sopporterei la tensione. Ricordati che ufficialmente Dora è al settimo mese, se sapessero che il bambinello sta arrivando ci sarebbero svenimenti, capirebbero che i ragazzi l’hanno fatto quando non erano ancora fidanzati».
«Vittoria si sciacquetterebbe con l’acqua santa e Giovanni si fustigherebbe come l’albino Silas del “Codice Da Vinci”! Quanta ipocrisia, che schifo!»
«Te lo dico per l’ultima volta, smettila!»
«Solo se fai un primo giro di bistecche per tutti, devono avere il diritto di rifiutare, ma non di cambiare la vita al prossimo!»


 

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La casa del padre (2019) di Vincenzo Totaro

29 Dicembre 2019 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #cinema

 

 

 

 

La casa del padre debutta in prima assoluta il 29 ottobre, a Vico del Gargano, prosegue a Foggia (4 novembre), Manfredonia, Milano, Roma, Valle Leventina e altre date, per poi affidarsi alla distribuzione televisiva della Running Tv International. In breve la trama. Antonio torna nella casa della sua infanzia, per venderla secondo indicazioni del fratello Corrado, ma finisce per compiere un tuffo nel passato, immergendosi nei ricordi. La potenziale cliente arriva, ma non è la vera Angela che dovrebbe vedere la casa, bensì una ragazza smarrita, in crisi, in fuga dalla sua esistenza, in attesa di operarsi per una grave malattia. Pure Antonio è un uomo tormentato, malato, ex fumettista e disegnatore, ha un figlio che vive lontano e che sta scrivendo una tesi sui suoi vecchi lavori. Antonio percorre le stanze della casa abbandonandosi a una cascata di ricordi, mentre una notte di tempesta scuote i vetri, scosse di terremoto fanno muovere gli oggetti, pioggia e vento colpiscono le imposte. Angela e Antonio s’incontrano per caso, sboccia una sorta di amore impossibile, un sentimento soffuso di poesia e languore, intrecciato ai troppi pensieri del passato. Totaro gira un film teatrale, intenso e introspettivo, ricco di suspense narrativa, forse troppo dilatato nei tempi, anche se resta il sospetto che per affrontare simile tematica ci fosse bisogno della lunga distanza. Spettacolari gli effetti speciali che mostrano il cosmo come cornice iniziale e finale della storia; da sottolineare alcune poetiche dissolvenze, soprattutto quella che dagli occhi della protagonista conduce lo spettatore verso le stelle. Attori bravissimi e credibili, soprattutto i due protagonisti (Boccanera e Del Nobile), che danno vita a un lungo dialogo letterario mai artefatto e stucchevole, ma realistico e dal sapore bergmaniano. Molti riferimenti cinematografici portano a Beckett (il fratello è una sorta di Godot che telefona ma non arriva mai), Bergman (rapporto uomo - donna), Scola (la pistola nella borsa, l’incontro in una giornata particolare), Tarr (il paesaggio apocalittico, i piani sequenza, l’incontro). Storia narrata proustianamente, con andamento circolare, che si apre e si chiude con la visione dell’universo, il ciclo della vita eternamente uguale, la consapevolezza che la nostra esistenza è una piccola cosa nel cosmo infinito. Straordinaria la fotografia in bianco e nero, curate le scenografie, sceneggiatura senza punti morti, dialoghi ben confezionati, musiche di Chopin adeguate a una storia montata con ritmi compassati. La casa del padre è una storia d’amore improbabile, un incontro tra un uomo e una donna che sono giunti a un bivio della loro esistenza, un’esperienza di amore e morte che si celebra nella casa dove l’uomo ha vissuto la sua infanzia, in un contenitore di ricordi che ognuno di noi possiede nella memoria. Se riuscite a vederlo - problema del buon cinema indipendente -, non ve ne pentirete.

 

Regia: Vincenzo Totaro. Fotografia: Antonio Universi. Operatore di Riprese ed Effetti Speciali: Luisa Totaro. Fonico Presa Diretta: Vincenzo Moccia. Microfonista: Tonino Bitondi. Costumi: Federico Del Nobile. Scenografia: Leonarda Fabiano, Matteo Del Nobile. Musiche (non originali): Giuseppe De Salvia. Case di Produzione: Silentium Film, Aelita Film. Produttori: Antonio Del Nobile, Vincenzo Totaro. Genere: Drammatico. Durata: 118’. Colore: B/N. Interpreti: Manuela Boccanera (Angela/Cristina), Antonio Del Nobile (Antonio), Rosanna Trotta (Signora Angela), Adriano Santoro (voce di Corrado).

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Gaglione - Izzo, "Uccidendo il secondo cane"

4 Gennaio 2020 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

 

 

 

 

Gaglione – Izzo
Uccidendo il secondo cane

Oblomov – Euro 18 – Pag. 175

 

Varsavia, 1956. Fra le rovine di una Polonia sgretolata, piena zeppa di ubriaconi e reietti, il giovane scrittore Marek Hlasko (1934-1969) osserva e descrive l’individualismo e la disperazione dei sobborghi. Intanto una giovane coppia, Piotr e Agnieszka, vive la propria storia d’amore all’ombra dell'oppressivo regime socialista. Attraverso l’occhio attento del James Dean polacco - la somiglianza con l’attore era impressionante - prende vita un decadente affresco costellato di bettole fumose, alcol e violenza. Voce scomoda in patria (le sue opere furono vietate per 20 anni), Hlasko conduce un’esistenza randagia di cui saprà anche costruire astutamente il mito: ex camionista, scrittore in fuga dalla Francia all’Italia poi pappone a Tel Aviv e sceneggiatore al fianco di Roman Polanski a Hollywood, fino al tragico epilogo nella Germania dell’Ovest.

 

Non è stato inutile aver fondato Il Foglio Letterario nel 1999, visto i talenti che abbiamo scoperto, pure se pochi ce ne riconoscono il merito, quasi nessuno ci cita, finisce che ci tocca dirci bravi da soli. Non abbiamo un buon ufficio stampa, come tanti fanfaroni che poco fanno e molti raccolgono, questo è certo. Fabio Izzo è una mia scoperta di cui vado fiero, più volte presentato al Premio Strega, ha debuttato con Eco a perdere, proseguendo con Balla Juary, Doppio umano, To jest, Il nucleo, Ieri Eilen, tutti romanzi usciti sotto la mia direzione editoriale. Valerio Gaglione, invece, ha esordito con il romanzo grafico Se sapessi come fai - Le cinque prove del’omicidio di Luigi Tenco, scritto da Giusepe Bità, sempre con Il Foglio. Autori di cui vado fiero e che - da lettore onnivoro appassionato pure di fumetto - ritrovo con piacere alla corte di Oblomov, sotto la guida di un maestro come Igort, nel catalogo di un marchio editoriale importante, non solo per dimensioni ma anche per spessore culturale. Uccidendo il secondo cane è un concentrato narrativo dello stile di Izzo, perché con poche e incisive pennellate tratteggia il carattere di uno scrittore maledetto (alla Modigliani), ne descrive le notti a base di alcol e trasgressione, approfondisce la sua lotta politica, il suo essere contro un regime che osteggia il suo lavoro. Lo stile grafico di Gaglione è maturo e superbo, tutto chiaro scuri, in un evocativo bianco e nero che rimanda ai grigi tempi di una Polonia comunista, con un tratto che sembra vergato da un poetico carboncino. Uccidendo il secondo cane è il titolo di un libro di Hlasko, pubblicato nel 1965, inedito in Italia, ed è perfetto per ricollegare due delusioni, due momenti esistenziali in cui lo scrittore tocca il fondo e non riesce a riemergere. Izzo conosce molto bene la Polonia, per apprezzare a fondo la sua scrittura e i suoi personaggi forse sarebbe importante saperne quanto lui, ma basta qualche nozione sui danni prodotti dal regime comunista per capire il senso dell’epigrafe: Giulietta e Romeo non si sarebbero mai incontrati a Varsavia nel 1956. Non era terra per l’amore quella dittatura, era terra per il dolore, per la disillusione, per l’alcol e per notti disperate, per avere soltanto voglia di fuga e di ribellione. I protagonisti del romanzo grafico sono scrittori dissidenti che hanno scelto di non tacere e hanno sacrificato la loro vita per un profondo desiderio di libertà. Un graphic novel da non perdere, se amate il fumetto colto e la letteratura.

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

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TAPPE DELLA DISFATTA di FRITZ WEBER (1895 – 1972)

24 Agosto 2014 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #saggi

TAPPE DELLA DISFATTA di FRITZ WEBER (1895 – 1972)

Forte Verle, Pasubio, Monte Cimone, Hermada, Piave. In questi luoghi Fritz Weber, tenente d’artiglieria, ha svolto il suo servizio nella Grande Guerra, accumulando un’esperienza ricca e drammatica, riportata in questo diario che ci permette di conoscere anche il punto di vista di un soldato asburgico. Ogni fase del conflitto è descritta nella sua crudezza. Forte Verle subisce il duro bombardamento italiano all’apertura delle ostilità nel maggio del 1915; strutture che crollano, aria irrespirabile, orecchie che sanguinano sono la realtà di una fortezza assediata. I rinforzi permettono di resistere e di passare al contrattacco. Solo poche settimane prima il confronto sembrava nettamente impari e la situazione dei difensori quasi disperata. La fanteria italiana viene massacrata.

Sul Pasubio il pericolo maggiore è rappresentato dalle valanghe, spesso provocate dai due eserciti; sul Monte Cimone il diarista partecipa alla guerra di mine. Il fronte peggiore e più ingordo di sangue è quello dell’Isonzo; il reparto di Weber deve difendere l’Hermada. Attacchi, contrattacchi, lotte selvagge corpo a corpo, uso dei lanciafiamme mettono a dura prova i soldati dei due schieramenti, accomunati dalle medesime sofferenze. Dopo lo sfondamento di Caporetto, il giovane tenente può aggirarsi nelle postazioni italiane come in una nuova Pompei. Sgomento, osserva centinaia di corpi immobilizzati per sempre dal gas impiegato dai tedeschi. L’offensiva aveva richiesto complessi preparativi, dettagliatamente descritti; le operazioni necessarie si erano svolte in un clima di esplicita fiducia, nella convinzione di riuscire a piegare l’Italia. Ma dopo i primi nettissimi successi, l’avanzata viene, come noto, arrestata sul Piave; ricominciano la guerra di logoramento e la vita di trincea. Lo scoramento tra gli uomini è grande, rileva l’ufficiale. Le privazioni mese dopo mese si fanno enormi; quando nel giugno del 1918 viene organizzata una nuova offensiva, Weber nota come il morale dei soldati resti basso. Stavolta non c’è l’aiuto dei tedeschi, il piano non prevede una direzione d’attacco specifica e i mezzi a disposizione sono carenti. L’obiettivo sembra solo quello di strappare un po’ di risorse all’avversario, non quello di metterlo in ginocchio definitivamente. Viste le premesse, il fallimento che ne segue appare inevitabile. La fiducia nei generali cala ancora; si sono persi uomini e materiali inutilmente, mentre il nemico cresce in organizzazione e forza. Weber compie un viaggio nelle retrovie alla ricerca di cibo per il suo reparto e ha modo di vedere come il collasso del grande impero multietnico sia vicino, dato che i soldati delle varie nazionalità sono sul punto di scontrarsi tra loro. Con il successo italiano di Vittorio Veneto, inizia la drammatica ritirata. Lo sbandamento è generale. L’autorità degli ufficiali spesso non viene riconosciuta dai subordinati. Weber tra mille difficoltà conduce il suo reparto a Vienna, compiendo fino all’ultimo il proprio dovere. Lo sfascio della monarchia danubiana è comunque un nuovo inizio per molti soldati dei popoli che la componevano; invece, per la parte austriaca dell’impero, si manifesta in modo drammatico la perdita di certezze e valori che davano significato alla vita di ogni giorno. Militare di grande tempra, severo ma umanamente molto sensibile, l’autore di questo diario ha sempre rispettato l’avversario, elogiandolo apertamente: “Non ho mai veduto un ufficiale italiano che sia venuto meno alla sua dignità. Erano e sono tutti avversari veramente cavallereschi, valorosi, implacabili”.

Proprio un soldato italiano, professore a Bologna, prigioniero subito dopo Caporetto, dirà al diarista parole profetiche sull’andamento del conflitto, alludendo all’intervento americano e al suo decisivo peso economico che infatti favorirà ampiamente la vittoria dell’Intesa.

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Dario Pontuale, "Nessuno ha mai visto decadere l'atomo di idrogeno"

1 Settembre 2014 , Scritto da Claudio Fiorentini Con tag #claudio fiorentini, #recensioni

Dario Pontuale, "Nessuno ha mai visto decadere l'atomo di idrogeno"

Già il titolo lascia ben sperare, ma la lettura del libro è anche più stimolante. Raramente ci si imbatte in libri di così grande qualità e viene da chiedersi perché la nostra letteratura in Italia e nel mondo non è rappresentata da opere come questa.

Scritto benissimo, senza esitazioni, dalla prima pagina entra nel mondo onirico per dare al lettore qualcosa di più della speranza, qualcosa che non può essere misurato con metri o pesi.

Personaggi strambi, semplici e ironici, che si rivelano complessi e ricchi di sfaccettature e che nel loro essere irreali chiedono al lettore di identificarsi con loro.

Zeno, un disoccupato pigro, compra una nanocasa, rara superstite dell’urbanizzazione selvaggia, che in mezzo allo sfacelo edilizio sopravvive come testimone di un mondo dove ancora è possibile credere nell’incredibile. In questa casa scopre un mistero assurdo, una cantina piena di inutli cianfrusaglie e, su una parete del soggiorno, una targa con su scritto Servabo. Che follie aveva per la testa l’ex-proprietario? Zeno comincia a interessarsi alla storia del suo predecessore a seguito di alcune visite di personaggi surreali che gli portano delle moleskine, tutte uguali, tutte contenenti, scritto a mano, lo stesso frammento di un racconto di Borges. L’avventura comincia, e si svolge tutta intorno agli oggetti trovati in cantina, alle moleskine, e ai personaggi che hanno portato questi quaderni a chi supponevano fosse il proprietario. Ne viene fuori una società segreta che, facendo un mercato di cianfrusaglie inutili, si impegna nel raccontare le storie, inventate, delle cianfrusaglie. La reazione dei visitatori è meravigliosa. Il mercato è fallimentare, non si vende nulla, ma l’obiettivo dei membri della società segreta non è vendere, è raccontare.

Già questa trama strampalata e originalissima è un buon motivo per affrontare la lettura, ma lo sono anche lo stile, la leggerezza del linguaggio, l’ironia e le ulteriori evoluzioni della storia.

Il romanzo è allegro e invita a credere che il sogno sia ancora possibile. L’autore, noncurante della realtà contingente, si concentra sulla realtà più intima, quella che risiede in ciascuno di noi e che ci fa pensare che non tutto è perduto, che ancora esiste un motivo per ridere, per vivere, per sognare, e per seguire le segrete trame dell’immaginazione.

I quaderni che contengono questo frammento di racconto sono dieci, solo tre vengono restituiti, e i personaggi che lo fanno sono un netturbino scrittore che somiglia a Jeff Bridges, un cacciatore di fulmini soprannominato Gabin, e una distinta e anziana signora che racconta fiabe nei parchi ai bambini.

Permettetemi di ricopiare qui un frammento del libro che ne riassume la grandezza. È notte, il protagonista è insieme a Gabin, che si chiama Ansano, su un tetto, presto ci sarà il temporale. Ansano ha fissato la macchina fotografica sul cavaletto e tenta di fotografare fulmini:

“Ne ha catturati molti?”

“Nessuno” regolando l’altezza del cavalletto “migliaia di foto buie”

…..

“Per tatto preferisce non chiedermene il motivo?”

“Mancavo di coraggio” sincero, prendendo il vento in faccia.

“Non si preoccupi, non è il primo e non sarà l’ultimo” cambiando rullino “ Vede, questi sono fallimenti di un istante, costano la fatica di un dito e il prezzo di pochi centimetri di pellicola. Principalmente offrono un riscatto a breve, cosa che la vita rifiuta. Si spendono giorni, mesi, anni in qualcosa che si sbriciola con nulla, che crolla prima di essere eretto. Dopo non c’è più tempo, modo, voglia di riprovare. L’essere umano si affanna fino allo spasimo per costruire qualcosa di duraturo, è innocente e connaturale, sebbene sia la propria condanna. Capisce dunque perché cerco di immortalare i fulmini? Provo, con sforzo minimo, a ottenere il massimo risultato catturando l’infinitamente breve, costringendolo all’eternità”. Pausa, facendosi più scuro in volto: “Forse non accadrà mai, ma che importa; quante persone possono sinceramente affermare di aver ottenuto ciò che desideravano nella vita?”.

Così sono i dialoghi e così i personaggi che affollano questo romanzo: meravigliosi visionari che vivono per qualcosa di perfettamente inutile. E che ci inducono a sognare.

Il finale, del tutto imprevedibile, riesce anche a commuovere, al punto che si vorrebbe abbracciare il protagonista, si vorrebbe entrare nel libro e prender parte al mercato, ma non ci si rammarica di essere arrivati alla fine, perché libri come questo continuano a vivere nella mente.

Il libro ha meritatamente vinto il primo premio all’Albero Andronico 2014.

Raccomando vivamente la lettura!

Claudio Fiorentini

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1915-1919 DIARIO DI GUERRA di PAOLO CACCIA DOMINIONI

9 Settembre 2014 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #storia

1915-1919 DIARIO DI GUERRA di PAOLO CACCIA DOMINIONI

Il diario è opera di un soldato indomito e volitivo, mai spezzato dalle sofferenze e dalle ferite (non solo fisiche) della guerra. Si comincia con il clima entusiastico della piazza che sta premendo sul Governo italiano per spingerlo a dichiarare guerra all’Austria-Ungheria: la mobilitazione delle componenti interventiste naturalmente coinvolge anche il mondo della scuola e dell’università. Paolo Caccia Dominioni è uno studente non troppo zelante quando nel maggio 1915 c’è sentore che la guerra sia vicinissima anche per il nostro Paese. Il giovane si arruola, come molti altri studenti e inizia l’addestramento. Forte è la smania di raggiungere il fronte dove si hanno le prime offensive italiane. Poco sa il diciottenne Paolo di cosa sia la guerra; un incontro con un soldato in treno gli permette di sapere che sull’Isonzo si è trovata una coriacea resistenza e ci sono stati tanti morti. Il giovane viene inviato sul Carso nel Genio Pontieri e diventerà tenente. Molti suoi amici vengono feriti o uccisi. Il diarista riesce a dare immagini crude ed efficaci della vita al fronte. Ci racconta di un ragazzo, classe 1899, trovato un mattino ferito a morte alla testa, dagli occhi semiaperti, celesti (“sembra un bambino”). In particolare ha notizia di un amico colpito da una pallottola all’intestino; sembra spacciato ma si salva perché non mangiava da oltre trenta ore e allora l’intestino era vuoto. Il soldato è quindi fuori pericolo. Questa è la guerra e il reparto di Paolo deve partecipare a una temeraria e prolungata iniziativa sull’Isonzo; bisogna predisporre i ponti di barche per i fanti che si lanceranno dall’altra parte del fiume. Il lavoro viene svolto sotto il flagello dell’artiglieria nemica. Anche il diarista viene ferito; durante la convalescenza, scosso dalla perdita di tanti compagni, decide di entrare nel reparto lanciafiamme in quanto considerato arma più combattente. Dopo l’addestramento, torna sul Carso e ci descrive con una prosa curata l’ambiente martoriato da due anni di conflitto e in particolare la sua logorante attività di presidio di Quota Innominata. Nell’ottobre 1917 c’è il dramma di Caporetto. Paolo e i suoi compagni evitano la cattura ma grandissima è la sofferenza per il doversi ritirare. Un segno di ripresa viene individuato in un giovane che compie il percorso inverso rispetto alle truppe in fuga; accompagnato dal padre, cerca di raggiungere il suo reparto per combattere, pur non essendo tenuto a farlo dato che era in licenza. Perché Caporetto? Paolo, ne discute con i commilitoni; la responsabilità è degli alti ufficiali che hanno fiaccato gli uomini in inutili attacchi frontali. Caccia Dominioni parla anche di ordini (da lui non eseguiti) che ingiungevano di perquisire i soldati alla ricerca di documenti sovversivi o disfattisti. Si cita invece come figura positiva il generale Venturi, una mosca bianca nell’ambiente: “Lui preparava le azioni passando settimane in trincea, e anche davanti alla trincea, pigliando appunti e notando ogni buca e ogni pietrone (…). Risultato: ha preso il Passo della Sentinella e il Sabotino con perdite irrisorie”. Poco stimato dai superiori per la sua autonomia e la difficoltà a sposare la tattica degli assalti frontali, Venturi verrà allontanato dal fronte.

Nel 1918 c’è una drammatica cesura nella vita di Paolo; muore in un attacco Cino, fratello del diarista. I due fratelli in alcune occasioni si erano incontrati in trincea e il loro rapporto stretto ricorda anche nel destino tragico quello di altre coppie di soldati fratelli come Giani e Carlo Stuparich e Carlo ed Enrico Gadda. Pur essendo di famiglia influente e imparentata con il generale Porro, i Caccia Dominioni non avevano mai chiesto agevolazioni per evitare le prime linee e nemmeno avevano mai pensato di farlo. La fine di Cino significa il termine dell’esperienza bellica del giovane ufficiale; raggiunge infatti la famiglia in lutto a Tunisi e poi viene trasferito in Tripolitania. Il fisico è logorato da tante battaglie, ma il clima da “Fortezza Bastiani” che si respira nella colonia non gli piace. Noia e scartoffie da ufficio lo esasperano. Chiede più volte di tornare in Italia, al fronte, ma senza successo. In terra d’Africa, riceverà la notizia della fine della guerra e della Vittoria.

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LA GROTTA di Giani Stuparich

23 Settembre 2014 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto

LA GROTTA di Giani Stuparich

Giani Stuparich (1891 – 1961) scrittore triestino, ci ha lasciato un’ampia produzione legata in buona parte alla sua città, al Carso (in cui combatté nella Grande Guerra), all’Istria. Con il racconto La grotta vinse nel 1948 il primo premio per l’Epica alle Olimpiadi di Londra.

“Andavano con passo gagliardo, con la sicurezza d’animo di quelli che si sentono in pochi ma uniti. Il ritmo delle sei scarpe ferrate faceva echeggiare le strade deserte”. Inizia così il racconto La grotta, letto nell’edizione Einaudi.

Delio, Renzo e Lucio progettavano da tempo di scendere lungo una grotta da loro scoperta. Si sono attrezzati per esplorarla. Ci vuole coraggio, ma anche preparazione. Ci troviamo nel Carso, quindi “a casa” dello scrittore Stuparich. Tra i tre giovani c’è affiatamento, ma anche una certa competizione. Lucio è piuttosto timido; i suoi amici invece appaiono più risoluti e determinati. Ma l’avventura diventa presto una tragedia; Delio e Renzo precipitano nel buio della grotta. Lucio è l’unico a salvarsi; sconvolto dal dramma, deve cercare aiuto. Il villaggio più vicino è molto lontano e il ragazzo è a piedi. Da qui in avanti il giovane è travolto dall’indifferenza delle persone che incontra. Il campionario di reazioni che trova è simile a quanto a volte si sente anche oggigiorno quando capita una disgrazia. Non c’è nessuna mobilitazione per cercare i due sfortunati ragazzi. Si decide che fino all’intervento dei pompieri non si potrà fare nulla. Questa scelta procura sollievo a tutti perché “salva” la domenica e giustifica l’inerzia e il disinteresse. La società distratta dagli impegni del giorno di festa trova in questo comodo atteggiamento una forte unione che mette insieme giovani e anziani. Meschinità ed egoismo dominano. D’altronde è domenica e nessuno ha voglia di occuparsi di cose tragiche. Solo un’insegnante permette al ragazzo di telefonare ai pompieri. Il resto della giornata il superstite lo passa in una piazza, in attesa; ha corso, ha brigato, ha lottato duramente per scuotere la gente. Ora non può più fare nulla. Resta in disparte, mentre dalle case proviene il rumore delle posate e delle chiacchiere del pranzo.

Diversi sono gli spunti di questo racconto. Davanti a un evento luttuoso che riguarda gli altri e che richiede un’impegnativa mobilitazione, è facile celarsi dietro frasi di rito come “Se la sono cercata”, oppure dietro il paravento dell’autorità cui si demanda l’effettivo intervento, in attesa del quale non si fa niente. Solo la maestra è solidale col ragazzo che in quella domenica rappresenta “il portatore di tragedia” con cui non si vuole avere a che fare, anteponendo la propria tranquillità a tutto. L’unico risvolto positivo è che Lucio in quella giornata è cresciuto; ora ha perfino una ciocca bianca, è maturato, è un adulto, ha abbandonato la timidezza e si è battuto strenuamente da solo per cercare aiuto. Ha manifestato un carattere determinato che prima non aveva. Il dolore porta conoscenza, come dicevano gli Antichi Greci.

La sua iniziazione alla vita è stata triste e dura: “Il cuore gli picchiava alle pareti del petto come il pendolo in una cassa vuota”. Nei suoi pensieri, mentre in piazza attende l’arrivo dei pompieri, c’è la riflessione sul suo futuro. Dovrà in un certo senso spiegare perché lui è ancora vivo a differenza dei compagni e per quali ragioni oscure il destino lo ha salvato. Questo aspetto si lega alla vita di Giani Stuparich, volontario nella Grande Guerra in cui perse l’amico Scipio Slataper e l’amato fratello Carlo, suicidatosi nel 1916 sul Monte Cengio per non essere catturato dagli Austriaci. Dei tre giovani triestini, volontari di guerra e collaboratori della Voce di Prezzolini, rimase solo Giani; come Lucio nel racconto, sentì probabilmente anche lui l’esigenza di dover giustificare, dopo il conflitto, il fatto di essere tornato a casa da solo, provando il fardello del sopravvissuto che può essere alleggerito, forse, soltanto dal tempo. Lo scrittore farà ricorso anche alle armi del pensiero e della letteratura, scrivendo in ricordo di Carlo, I Colloqui con mio fratello.

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Fabio Pasquale, "Il lavoro della polvere"

26 Ottobre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Fabio Pasquale, "Il lavoro della polvere"

Il lavoro della polvere

Fabio Pasquale

Editrice Zona 2013

pp 80

10,00

È raro che il romanzo d’esordio di un autore poco conosciuto sia così tagliente nei contenuti e lucido nella forma. “Il lavoro della polvere”, di Fabio Pasquale, è un noir scritto molto bene che ti tiene inchiodato dalla prima all’ultima pagina.

La storia è semplice nella sua anormalità. Un uomo uccide un sosia per fingersi morto e scappare con i soldi della ditta. Per farlo dovrà assumerne l’identità per alcuni mesi, in modo da non destare sospetti. Ciò è possibile in un mondo dove si ha poca attenzione per il prossimo, dove non ci si guarda negli occhi, dove non si ha contezza l’uno dell’altro ma si diventa intercambiabili. Sul suo cammino verranno a frapporsi degli ostacoli che egli eliminerà senza scrupoli o rimorsi.

Si può pensare che la tragedia stia nell’uccisione di un malcapitato, la cui unica colpa è somigliare come una goccia d’acqua al suo assassino. In realtà, la morte del poveretto di nome Manuel è asettica, chirurgica: basta un colpo ben assestato e tutto finisce senza emotività o eccessiva partecipazione. Quello che agghiaccia è l’esistenza stessa di Manuel, moderno travet talmente incolore che persino le commesse del discount lo identificano come sfigato.

Manuel è un colore spento, di quelli da associare alla noia e scartare quasi subito.” (pag 9)


Di professione Manuel fa il fattorino di pony pizza, consegnando pasti a domicilio col suo motorino sgangherato. Assumendone l’identità, il protagonista ne scandaglia la squallida esistenza che è, in parte, anche la propria. Se Manuel vive con timidezza e con rassegnata malinconia, il suo omicida si ribella, analizza spietatamente ciò che vede, evidenziando solo gli aspetti negativi: la desolazione, la miseria, il degrado, la noia, in una spirale sartriana di nichilismo e nausea.

Manuel vive in un brutto appartamento, con una vicina di casa che neppure nota. Per adescarlo e sapere di più sulla sua vita, l’assassino inventa un’identità virtuale, crea un profilo facebook a nome Ambra, spacciandosi per una ex compagna delle elementari divenuta con gli anni figa e affascinante. Inutile dire che, trascinato nel vortice della chat, Manuel s’innamora di Ambra, la sogna ogni notte e passa le giornate contando le ore nell’attesa di tornare a casa e connettersi.

Più dell’assassinio di un innocente, raggela la rappresentazione di un mondo in cui non siamo più capaci di vivere e creare un legame fisico con le persone. “Il lavoro della polvere” è un dramma dell’era social, ci mostra a noi stessi, con le nostre esistenze spoglie e prive di emozioni, ci dipinge mentre, chini sulla tastiera, evochiamo amicizie e amori che sono frutto solo della nostra immaginazione, caricati delle nostre aspettative, destinati a infrangersi contro il muro del reale. Così facendo, persi in un pianeta virtuale dove gli altri sembrano seducenti e noi migliori, finiamo per disprezzare ciò che abbiamo a portata di mano, per non alzare più lo sguardo fuori della finestra, per non sentire più il calore di una mano o le sfumature pastose di una voce vera, per condensare ogni commozione in una sbrigativa emoticon. Finiamo per non accorgerci nemmeno che l’altro, il nostro dipendente, il nostro vicino, il nostro fattorino, non è la persona che conosciamo da sempre ma un suo sosia.

Dopo l’omicidio, l’assassino conosce per caso Paola, la vicina di casa di Manuel, che questi non aveva mai considerato, e con lei stabilisce una relazione gratificante. La relazione fra l’omicida e Paola simboleggia ciò che avrebbe potuto essere se la vittima avesse avuto più coraggio, più occhi per guardare, più forza di vivere appieno la sua vita. L’assassino è l’alter ego di Manuel, e, guarda caso, non ha un nome né un’identità precisa, ma incarna la sua possibilità di godere della propria esistenza. Attraverso il suo omicida, scopriamo che, forse, Manuel non era lo sfigato che credeva di essere, la sua era solo un’immagine di sé con la quale s’identificava a tal punto da costringere gli altri a vederlo in quel modo. E anche il suo doppio intravede attraverso Paola l’evenienza di un coinvolgimento emotivo autentico, capace di spazzare via noia e grigiore, ma, seguendo la propria logica, sa che “su strade a senso unico, andare avanti è l’unica opzione possibile”.

Il finale lo lasciamo al lettore.

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PRODITORIAMENTE di ITALO SVEVO (1861 – 1928)

17 Novembre 2014 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto

PRODITORIAMENTE di ITALO SVEVO (1861 – 1928)

Maier è un imprenditore di discreto successo; ha da poco superato i sessant’anni quando un cattivo affare, condotto con una persona disonesta, lo mette sul lastrico. Per riprendersi capisce che dovrà lavorare duramente, condannando se stesso e la famiglia a una vita di disagi e ristrettezze. Ci sarebbe una possibilità per riuscire a pagare i debiti contratti; ottenere un prestito dal suo caro amico Reveni, anch’egli imprenditore. Ma come chiedergli una mano? Qui emergono le difficoltà psicologiche del protagonista poiché la cultura borghese vuole sicurezza e forza; chi si è dimostrato improvvido e sciocco, sia pure in una sola sfortunata circostanza, è in un certo senso compromesso nella cerchia dei bravi uomini d’affari. Maier si reca quindi a casa dell’amico incerto su come procedere; vuole essere aiutato, ma non può accettare umiliazioni. L’ideale sarebbe che Reveni leggesse tra le righe e gli venisse fraternamente incontro, senza costringerlo ad abbassarsi a una esplicita richiesta. “Erano stati buoni amici tutta la loro vita”, ci viene detto. Il dialogo avviene alla presenza della consorte dell’amico con la quale Maier non è mai stato in confidenza. L’uomo parla, compie lunghi giri di parole, si spazientisce a tratti, ma non riesce a dare all’interlocutore l’esatta idea del suo dramma. Reveni ascolta ma senza farsi coinvolgere e quando parla, lo fa da una posizione di tranquillità e di superiorità; lui è ancora un imprenditore di successo. Non riesce a immedesimarsi in una situazione di grave difficoltà. Parla di logica e di lucidità negli affari; quello che Maier non ha avuto. A un certo punto lo sfortunato commerciante sente di avere tutto contro di sé, l‘amico che non lo capisce, la moglie che forse gli è ostile da sempre, gli oggetti stessi della casa che rimandano a una solidità economica che lui ha perso: “Egli vedeva quella sala da pranzo per la prima volta luminosa per la luce delle grandi finestre riverberata da marmi agli abbassamenti delle pareti, dagli ori in certe filettature alle porte, dai cristalli che ancora si trovavano sul tavolo”. Mentre Maier nota tutto questo, l’altro si sente male; viene chiamato un dottore, ma inutilmente. Muore invece che farmi un prestito, sembra pensare l’indebitato commerciante che poi con una buona scusa se ne va e giunto in strada si sente sollevato; la disgrazia dell’amico rende più sopportabile il suo fardello. Il protagonista ragiona solo in rapporto alle sue impellenti esigenze; il suo è un mondo economicistico. Non c’è dispiacere per quella morte che anzi lo riconforta; ciò fa pensare alle mille considerazioni anche ciniche che si fanno pur di trovare un appiglio che offra un aiuto almeno a livello psicologico in momenti delicati. Ma Svevo ci insegna col suo romanzo principale, La coscienza di Zeno, che ogni cosa è vista da un punto di vista soggettivo e quindi limitato, relativo; in una parola, malato. Non è salutare dare tanto credito a una visione incompleta delle cose. La psicologia di Maier lo porta a varie oscillazioni nel dialogo, a seconda di ciò che percepisce nell’atteggiamento dei due interlocutori; speranza e pessimismo si alternano capricciosamente, ma tutto è descritto in base appunto alla sua visione soggettiva. In fondo lui non domanda chiaramente il prestito così necessario; cerca di presentare a grandi linee la situazione, ma senza darne i precisi dettagli, per non sentirsi mortificare nella sua dignità di imprenditore ora in affanno. Forse se avesse chiesto in modo schietto, parlando da amico ad amico, avrebbe ottenuto qualcosa. Invece non chiede; quindi non si può nemmeno dire che Reveni rifiuti di aiutarlo. Il suo atteggiamento freddo e distaccato potrebbe essere solo il risultato del punto vista parziale e malato del protagonista, vittima di una morale borghese degli affari che predica successo e non ammette sfortuna. La conclusione ci rimanda ai paradossi cari a Svevo; l’inetto (vero o presunto), pur pieno di assilli e incertezze, alla fine cade in piedi e se ne va quasi rasserenato. L’amico, apparentemente superiore nella solidità economica esemplificata dalla lussuosa casa, muore (come succede anche all’aitante Guido nella Coscienza di Zeno). Non c’è sicurezza per nessuno; il fiuto per gli affari non elimina l’irriducibile precarietà della nostra esistenza.

Ma la domanda amara che sorge con immediatezza, in un ambiente così materialistico, è questa; i due signori del racconto erano poi veramente amici?

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Spunti di viaggio: Cuba, un'isola caraibica diversa dalle altre.

19 Novembre 2014 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

Spunti di viaggio: Cuba, un'isola caraibica diversa dalle altre.

Non solo mare e spiagge ma quell’atmosfera retrò che affascina ed entra per sempre nel cuore.

Cuba assomiglia un po’ a quelle “streghe” che sanno ammaliare per la loro bellezza.

Quella delle sue spiagge bianchissime - e del suo mare cristallino - incontaminate come Cayo Largo o dorate come Varadero.
Ti affascina per quell’atmosfera languida e retrò, coloniale e decadente, ti appassiona per i colori forti di un tramonto sul Malecon, ti stordisce con un cocktail che sa di storia recente e di eroi e scrittori, ancora oggi vivi nella mente delle persone. Il Che, Hemingway, il daiquiri al Floridita – il mitico bar dello scrittore – o al mojito della Bodequita del Medio.
Cuba è un’isola proiettata verso il futuro ma ancorata ad una incrollabile fierezza, dignità e tradizioni. Più di undici milioni di persone in una mescolanza di diverse culture, specie africana e spagnola, con un’anima esuberante e ospitale.
Si può andare in giro per il Velado, la Plaza della Cattedral – ormai con bar e negozi vari – Plaza de l’Armas e si comprende il perché dal 1982 l’Unesco ha dichiarato l’Avana Patrimonio dell’Umanità. Anche i palazzi scrostati, dalle tinte pastello, conservano una tale antica bellezza da aprirti il cuore e da rimanerti impressa per sempre.
E poi la musica, costante e, a volte, invadente sottofondo di suoni africani e melodie spagnole che permea la vita dell’isola in un crescendo di salsa, merengue, rumba, chichia e mambo!

Il clima è subtropicale, una media di 25 gradi tutto l’anno, a volte appiccicoso e umido come in agosto. Sarà per questo che il Malecon, il lungomare dell’Avana, è sempre affollatissimo. Non somiglia alla Croisette di Cannes e non è piena di bar, ristoranti e di gente elegante.
Sui muretti del Malecon prende il fresco e passeggia la gente comune, i ragazzi giocano a farsi bagnare dalle onde che ogni tanto si infrangono sulla strada, si chiacchiera, si mangia, si flirta, si ascolta la musica, si balla.

Qui a volte la vita può diventare scommessa, come quella dei balzeros che, anni fa, affrontavano il mare su improbabili zattere o barche per raggiungere le coste americane, salutati da una moltitudine di parenti e amici. Era quasi un happening festoso, nonostante tutto, non aveva i contorni del dramma, che pur ci si sarebbe aspettato.

Forse perché qui tutto ha il sapore di una telenovela, non c’è spazio per la malinconia e si vive intensamente giorno per giorno.

Ecco perché, anche al di fuori dei circuiti turistici, tutti i locali sono pieni di cubani, ragazzi e ragazze della nuova generazione allegri di un’allegria contagiosa, comunicativi, aperti, concreti.
Le lunghissime notti dell’Avana hanno un percorso quasi obbligato: cena in uno dei locali più noti e poi a sentire musica o a ballare fino all’alba.

Qui le notti non finiscono mai e quando ti sembra ti essere sfinito, c’è sempre un ottimo bicchiere di rum (o ron) per posticipare il ritorno in albergo.

E poi la notte è magica, fa risaltare ancora di più la bellezza degli edifici sapientemente illuminati.

Il traffico è ridicolo rispetto al nostro, e fa impressione vedere automobili americane degli anni ’50 dai colori accesi e tenuti assieme chissà per quale miracolo o maestria di chi quello ha e lo deve mantenere bene.

Le strade ti riportano indietro a quell’America latina, coloniale, calda e sensuale dei romanzi di Hemingway.

Cuba te espera…non solo, Cuba ti entra nel cuore e non la dimentichi più.

Spunti di viaggio: Cuba, un'isola caraibica diversa dalle altre.
Spunti di viaggio: Cuba, un'isola caraibica diversa dalle altre.
Spunti di viaggio: Cuba, un'isola caraibica diversa dalle altre.
Spunti di viaggio: Cuba, un'isola caraibica diversa dalle altre.
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