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Cerca risultati per “Aldo Dalla Vecchia Vita da giornalaia”

Otello Chelli, "Rizio"

4 Luglio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Otello Chelli, "Rizio"

Rizio

Otello Chelli

MdS Editore, 2015

pp 164

12,00

Rizio appartiene alla “stirpe dei Morgiano”, è giovane, avvenente, povero. Rizio è un comunista duro e puro, dall’animo nobile, solidale, quasi evangelico. Vive nella baraccopoli, sorta sui prati della fortezza Nuova a seguito dei bombardamenti che hanno devastato Livorno. Benvoluto dai vertici del partito, sta facendo carriera come politico, mantenendo indipendenza di giudizio e coscienza personale. S’imbatte in Valeria Righi, esponente di spicco della Democrazia Cristiana. Valeria è più grande di Rizio, è fervente cattolica, anticomunista, sposata con prole. Ma è bella, dolce, innocente, pura quanto il giovane labronico. S’innamorano e la vita li travolge.

Rizio, di Otello Chelli, è un vero e proprio romanzo storico, ambientato nel dopoguerra, con vicende reali e personaggi famosi, come Enrico Berlinguer e Ilio Barontini, mescolati ad altri di fantasia.

La parte migliore del testo non è la trama, non è l’afflato politico, non è nemmeno il grande amore descritto con enfasi e linguaggio d’altri tempi. Il momento in cui Chelli raggiunge il suo apice è, come sempre, nella descrizione accorata del suo quartiere, La Venezia, di cui già avemmo a parlare leggendo il suo Gente della Venezia.

La Venezia rappresenta, per Chelli, quello che, per un uomo anziano ma ancora innamorato, è la sposa invecchiata. Solo lui, nel chiuso della memoria, sa vederla com’era, giovanetta in fiore, senza rughe né crepe. Quella che racconta con toni accorati, è la Venezia di prima dei bombardamenti, il luogo magico dove è cresciuto.

Ho vissuto i miei primi dieci anni in una fiaba, il quartiere della Venezia, circondato, come sai, da una rete di canali dove navigano e vengono ormeggiati i navicelli, quei barconi che, trascinati da un uomo armato di una lunga pertica, scivolavano silenziosi, carichi di merci da e per il porto.” (pag 49)

È da notare a margine come l’ateo Chelli riesca a descrivere sentimenti religiosi con quasi più emozione di chi religioso lo è davvero ma forse in modo scontato. Si tratta di quell’anelito verso il soprasensibile che accomuna i non credenti dotati di animo poetico e non puramente materialista.

Quel “ragazzo era un uomo diverso da tutti gli altri, egli sembrava un antico, individuava e inseriva nel suo universo i segni forniti dalla Creazione e aveva rapporti trascendenti, non sapeva con chi.” (pag 68)

Anche l’amore è un mezzo per raggiungere la trascendenza. Puro, sublime, di una carnalità scevra di ogni bassezza. È l’unione mistica di due corpi, ma soprattutto di due anime, capace di superare ogni ostacolo, di sopravvivere oltre la morte.

Anche la politica è intesa in questo stesso modo: come lotta eterna e titanica fra Bene e Male, come combattimento corpo a corpo fino alla morte, ma anche come pietà, giustizia, compassione. Contempla persino la stima del nemico, quando sia mosso dagli stessi, seppur opposti, ideali.

In “questo tempo ho conosciuto uomini di tale levatura, anche tra quelli della maggioranza, che in un futuro non troppo lontano non avranno successori degni di tanto valore e ciò mi fa temere per il destino del nostro paese.”

Al di là delle convinzioni di ciascuno, come dargli torto?

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Patrizia Poli, "L'uomo del sorriso"

9 Luglio 2015 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #poli patrizia, #recensioni, #luomodelsorriso

Patrizia Poli, "L'uomo del sorriso"

Patrizia Poli

L’uomo del sorriso

Marchetti Editore, pp. 280, € 13,00

Sono livornese, quindi spero di essere credibile se parlo bene di un giovane e intraprendente editore pisano come Marchetti, che decide di puntare sulla qualità – operazione controcorrente, con questi chiari di luna – e di sopperire alle lacune della grande editoria, dedita a spacciare il nulla usando supporti cartacei o digitali. I piccoli editori servono proprio a questo, quando sono onesti e fanno lavoro di scouting, senza badare solo alla situazione del loro estratto conto. Patrizia Poli aveva nel cassetto questo manoscritto inedito, segnalato al XXVI Premio Calvino, ma non riusciva a pubblicarlo per una serie di motivi, non ultimo la difficoltà di incontrare un editore deciso a puntare sulla qualità letteraria, senza porsi altri problemi.

Vediamo la storia, in estrema sintesi. Maria di Migdal non è soltanto la prostituta che gli uomini cercano e le donne fuggono, o la cestaia che intreccia foglie di palma per il mercato sul mar di Galilea; Maria è anche la donna che di notte, in silenzio, di nascosto, prega la dea Ashera, che la madre le ha insegnato a venerare. La Legge del Dio del Tempio non le piace, ma non le piacciono neanche le regole del Dio degli Esseni, sebbene la comunità nascosta nel deserto la affascini. Quando vede il suo amico Giovanni immergere nelle acque del Giordano il figlio di un falegname di Nazareth, Yeshua’ bar Yosef, stenta a credere che quel giovane genuflesso e rapito sia proprio colui che Giovanni attendeva come il messia. L’uomo del sorriso è la storia del loro incontro, di un sacrificio disumano solitario, di una decisione estrema che darà inizio alla voce di una resurrezione. Patrizia Poli rivisita con occhi da laica la storia di Gesù Cristo e al tempo stesso racconta l’esistenza di tanti altri personaggi: Maria di Nazareth, Giovanni (il discepolo più amato), Kefa, Bar Abba, Ponzio Pilato, Bar Kayafa, Yosef il falegname, Giuda Ish Karioth. Una rivisitazione laica ma struggente della materia evangelica, uno studio sulla verità che uccide, sul perché della vita e della sofferenza, sulle domande che tutti ci poniamo senza ottenere risposta. L’uomo del sorriso è la storia di un amore assoluto, più forte della morte stessa.

Romanzo storico, anche se l’autrice parla di opera di fantasia:

La razionalità mi ha fatto diventare atea – seppure mantenendo un certo anelito verso la trascendenza – ma le mie radici sono cristiane, sono cresciuta con un’educazione praticante e una nonna molto pia, sono andata a messa fino a diciotto anni. Riconosco al Gesù della tradizione cattolica un’aura mitica e favolosa irrinunciabile, e per tale motivo ogni anno faccio il presepe, con la grotta, la stella cometa, il bue e l’asinello, i Magi. Di queste figure piene di fascino mi premeva indagare le enormi potenzialità umane, emotive, ma anche favolose. Così ho scritto un’opera di fantasia, non un vero e proprio romanzo storico”.

Patrizia Poli non ha scritto un romanzo ideologico, non aveva intenzione di negare la divinità di Cristo. Il suo interesse sta tutto nel lato umano della vicenda, da buona narratrice indaga le emozioni dei personaggi, i loro pensieri, le risposte agli eventi che li travolgono. L’uomo del sorriso non è altro che una grande storia d’amore. Leggetelo, non ve ne pentirete!

Gordiano Lupi

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Angelica Palli

15 Luglio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia

Angelica Palli

Anghelikì Pallis (1798 – 1875), figlia del console, nonché direttore della scuola greca, di Livorno, nasce da genitori entrambi ellenici. Studia col maestro de Coureil (di origine francese ma morto a Livorno). Eredita dal padre l’amore per la letteratura e per i classici e comincia a versificare fin dall’adolescenza. Scrive poesie, novelle, tragedie, romanzi. Il suo “Tieste”, del 1814, si merita le lodi del Monti. Nel 1919 diviene membro dell’Accademia Labronica, col nome di Zelmira.

I suoi interessi, oltre che artistici, sono politici e sociali. È un’attiva sostenitrice degli ideali e delle lotte risorgimentali, si dedica alla causa del popolo greco contro gli ottomani (la stessa per la quale muore Byron). L’unica donna a essere ammessa al gabinetto Vieusseux - il circolo fondato a Firenze che, oltre a fungere da emeroteca e biblioteca circolante, serve anche a mettere in contatto fra loro gli intellettuali della futura Italia unita - le viene proposta una collaborazione ma rifiuta non sentendosi all’altezza del compito.

Il sito angelicapalli.blogspot.com è una preziosa fonte d’informazione per conoscere la vita privata della scrittrice livornese. Vi si narra che, nel 1970, nella soffitta di una casa di campagna della valle Benedetta, è stata ritrovata una cassa contenente lettere di Angelica al padre.

Siamo nel 1830, Angelica ha trentuno anni, un viso di una bellezza classica e pulita. Conosce il diciannovenne Giovan Paolo Bartolomei, nobile di origine corsa e patriota, e se ne innamora. Lui è cattolico, lei ortodossa, lui un ragazzo, lei una donna fatta. La famiglia di lui osteggia il rapporto. I due fuggono, aiutati dal fratello di Angelica, Michele, con l’intenzione di chiedere la dispensa papale per sposarsi. Ripiegano poi su Corfù, dove si uniscono in matrimonio con rito ortodosso. L’anno successivo Angelica scrive accorate lettere al padre, implorando il suo perdono, spiegandogli che ha ricevuto tanto ma ha anche sofferto. Sono, appunto, le lettere ritrovate nella cassa.

Dal matrimonio nasce un figlio, Lucianino, e i tre fanno finalmente ritorno a Livorno. Palazzo Palli - Bartolomei, sugli scali del Pesce in Venezia, diventa il principale salotto mazziniano, tra il 20 e il 40, frequentato da Lamartine, Champollion, Niccolini, Guerrazzi, Bini e Manzoni. Quest’ultimo immortala Angelica in un’ode scritta per lei, dove la definisce “Prole eletta dal Ciel, Saffo novella”.

In questo periodo l’attività politica della Palli s’intensifica, ella collabora a riviste e giornali, scrive poesie e novelle di argomento civile e nel 47 si occupa dell’organizzazione dei volontari toscani. Il marito e il figlio adolescente partono insieme con un gruppo di patrioti livornesi per combattere a Milano durante i moti del 48 e Angelica li raggiunge per poi tornare a Livorno nel 49.

Durante i mesi autunnali, per alcuni anni soggiorna a Fauglia, in corso della Repubblica 47 (dove una lapide la ricorda). Qui scrive il famoso “Discorsi di una donna alle giovan maritate del suo paese”, in cui rivaluta in senso femminista il ruolo della donna nella società. Scrive anche “Cenni sopra Livorno e i suoi contorni”, dove mostra di apprezzare lo spirito battagliero delle donne labroniche, descrivendole come buone, generose ma irrispettose e irriverenti. A questo testo fa riferimento anche Pietro Vigo nelle sue ricerche storiche.

Nel 53 rimane vedova e si trasferisce a Torino ma muore poi a Livorno nel 1875. Le sue spoglie riposano nel cimitero greco in via Mastacchi.

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Quanto sei bella Roma

26 Luglio 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #musica

Quanto sei bella Roma

Era il 7 febbraio del 1987, ormai quasi trent'anni fa; Claudio Villa moriva. Appresi la notizia, e come me moltissimi italiani, durante la trasmissione in televisione dell'ultima serata del Festival di Sanremo. Erano passate da poco le ore 23.00, si presentò Pippo Baudo dopo l'esecuzione dell'ennesima canzone e fece l'annuncio. Ci fu un silenzio generale poi Baudo chiese un applauso; e applauso ci fu, lungo e caloroso.

Vinse la canzone "Si può dare di Più", cantata dai tre amici Umberto Tozzi, Enrico Ruggeri, ancora con i capelli e gli occhiali scuri con la montatura bianca, e Gianni Morandi. Disse Morandi: "Conoscevo Claudio Villa da quando portavo i calzoncini corti e lui, già famoso, venne a cantare nel mio paese. Che strano sapore ha la vittoria in queste condizioni".

Ecco, il reuccio della canzone ci aveva lasciato.

Era stato ricoverato a Padova per un intervento al cuore; e molti pensammo che fosse deceduto sotto i ferri dei chirurghi, invece no; fu un infarto. Niente faceva prevedere la sua uscita di scena così improvvisa. Per sessant'anni aveva occupato un posto speciale nel grande palcoscenico della canzone italiana e romanesca.

Era trasteverino, era nato in via della Lungara, la strada dove c'era e c'è il carcere di Regina Coeli; e di cognome faceva Pica, come il padre Pietro che faceva prima il ciabattino, poi il vetturino e l'acquaiolo. E pure lui lo aiutava andando a riempire, all'Acqua Acetosa, i recipienti con l'acqua da vendere.

Poi scoprì la sua voce, e la sua vita cambiò.

Ma in questo breve pezzo, che ho scritto di getto per presentare una stupenda canzone su Roma, è d'uopo dire della trasformazione di Claudio, cantante melodico per eccellenza, dal Claudio dei primi tempi, che si obbligò a cantare in falsetto e che ci ha lasciato indimenticabili melodie su disco, ed è il Claudio Villa che amo di più, nel cantante che conosce la gran massa di fans, cioè di Claudio delle esibizioni a voce piena, da grande tenore.

Era il 1944. Claudio si ammalò di tubercolosi; un male micidiale per chi canta. Tanto è vero che i medici gli consigliano di lasciare perdere; non può più cantare se non vuole aggravare la malattia. Ma il giovane trasteverino è impunito, come si dice a Roma, e non demorde. Decide di cantare in falsetto, prova e riprova e la cosa gli riesce, senza eccessivi sforzi di voce.

E da quella malattia è nato un Claudio Villa fantastico.

Eccola la sua voce, in falsetto appunto, in una famosa canzone: "Quanto sei bella Roma".

Quanto sei bella Roma

quanto sei bella Roma a primavera

er Tevere te serve

er Tevere te serve da cintura,

San Pietro e er Campidojo da lettiera,

Quanto sei bella Roma

quanto sei bella Roma a prima sera.

Gira si la vòi girà,

Canta si la vòi cantà.

De qua e de là dar fiume

de qua e de là dar fiume c'è 'na stella,

e tu nun pòi guardalla

e tu nun pòi guardalla tanto brilla,

e questa è Roma mia, Roma mia bella,

de qua e de là dar fiume,

de qua e de là dar fiume c'è 'na stella.

Gira si la vòi girà

canta si la vòi cantà

marcello de santis

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Mickey Rooney

3 Agosto 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #cinema, #personaggi da conoscere

Mickey Rooney


Un eterno ragazzo, Mickey Rooney, come io lo ricordo, con l'eterno ciuffo sulla fronte e quel sorriso sbarazzino che ne ha caratterizzato l'aspetto nella sua smagliante giovinezza.
Ma il tempo passa per tutti e non fa sconti.
Quando lui era nel pieno del suo successo, i suoi film cominciavano a giungere fino qui da noi, erano i primi anni del dopoguerra, io avevo cinque,sei anni, forse sette. E gli attori preferiti di noi ragazzini, oltre agli intramontabili Stanlio e Ollio, Gianni e Pinotto, i fratelli Marx, erano gli eroi dei film di cowboy e indiani, John Wayne, Gary Cooper, Henry Fonda, e, tra le affascinanti interpreti femminili, Doris Day, e Jane Russell (che più tardi avrebbe costituito una coppia ineguagliabile con la bella Marilyna.)
E in mezzo a quella grande serie di film western arrivavano anche film d'amore o d'avventura; e uno degli interpreti di questi film d'evasione, spiccava questo piccoletto (era molto basso) simpatico, dagli occhi vivaci e dal carattere dolce; ci mettemmo un po' noi piccoli a dargli il nome e poi a tenerlo a mente, (era il gioco che piaceva a noi ragazzini, conoscere e riconoscere i personaggi dei film e poi fare a gara a chi ne ricordava di più): Mickey Rooney.
Se pensiamo che aveva debuttato al fianco del padre sulle scene, quando aveva appena due anni, constatiamo che l'attore ha avuto una carriera lunghissima, ben 91 anni, di gran lunga la più lunga di qualsiasi altro personaggio dello spettacolo del mondo. Vita lunga, avventure tante, film girati tantissimi, premi a non finire, candidato varie volte all'Oscar, che vinse per due anni; mogli a non finire; si sposò infatti ben nove volte, la più celebre Ava Gardner; ed ebbe nove figli.
Un aneddoto, che poi aneddoto non è: tre anni prima di morire, si lamentò duramente che non era più libero di fare ciò che più gli piaceva; e che la sua famiglia gli aveva tagliato le ali della libertà. Il giudice cui si era rivolto gli dette ragione, e intimò al figlio di stare alla larga dall'attore/padre; non poteva avvicinarglisi, ne doveva stare lontano almeno trenta chilometri.
Qualche anno fa, girando su vari canali tv, capitai su un film, non ricordo se in bianco nero o a colori, dove un attore panciutissimo e con la barba bianca recitava in maniera che mi ricordava qualcosa; ma non avendo visto la pellicola dall'inizio non sapevo il nome degli attori. Continuai ad assistere, più per la curiosità che mi aveva destato quel tipo che per l'azione e la trama del film; ne apparivano spesso primi piani, con l'obiettivo sul suo viso pieno e irto di barba ispida, e sugli occhi un poco acquosi; e ogni volta qualcosa mi diceva che io lo conoscevo, quell'attore, ma non riuscivo a ricordare. Lasciai lo schermo tv, andai al mio pc e digitai il titolo del film con la dicitura "cast".
Era lui, era il mio tanto amato in gioventù Mickey Rooney.

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Lorella de Luca

7 Agosto 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #cinema, #personaggi da conoscere

Lorella de Luca

Erano gli anni belli della mia gioventù, quelli della fine anni 50, quando stavo per finire il liceo e di lì a poco avrei mosso i primi passi nella facoltà di Giurisprudenza all'Università di Roma.
La televisione era ancora in bianco e nero, e così i sogni miei e dei giovani come me; e le nostre speranze, fatte di niente, ché non sapevamo ancora che cosa il destino ci avrebbe riservato. Né tanto meno pensavamo alla nostra vita di oggi, ultrasettantenni più o meno realizzati, alcuni con mogli e figli, altri con le loro solitudini invecchiate, allora impensate.
Erano, quelli, gli anni di Lorella De Luca, che imparammo a conoscere, ad ammirare, ad amare, forse ancora prima della sua comparsa nel film "Poveri ma belli" che la lanciò nel mondo tutto italiano della cinematografia, nella trasmissione televisiva di Mario Riva, Il Musichiere, dove svolgeva il semplice ruolo di "valletta", affiancata da un'altra giovanissima bionda, e carina come lei, Alessandra Panaro.
Ricordo che Mario Riva amava chiamarle le "cognatine".
Le due amiche furono inseparabili nel ciclo dei tre film Poveri ma belli, (1956), Belle ma povere, (1957), Poveri milionari (1959) tutti con la regia di Dino Risi.
Lorella aveva allora 18 anni, e Alessandra uno più di lei.
Mario Riva le volle con sé nell'avventura de Il Musichiere per il loro aspetto di brave ragazze, dolci nello sguardo e limpide nel sorriso, a rappresentare la gioventù che bilanciasse la sua età non più verde.
La trasmissione attrasse subito un grosso numero di telespettatori, oltre che per i concorrenti che, a due a due, si sfidavano correndo per arrivare per primi a suonare una campana, alla prime note di una canzone che eseguiva l'orchestra del maestro Gorni Kramer, anche per gli ospiti nazionali ed internazionali che onoravano con la loro presenza lo spettacolo.
Io avevo la loro età, e come la gran parte dei giovani come me, mi ritrovavo sempre davanti all'antiquato - visto con gli occhi della memoria di oggi - apparecchio tivù di allora, un enorme scatolone di legno ferro e plastica, ingombrante come non mai, che poggiava su un "portatelevisore", ingombrante pure lui sì, ma un nuovo compagno delle serate casalinghe, che presto andò a sostituire per molti italiani il fedele apparecchio radio che fino allora ci deliziava, la sera, con programmi che noi amavamo; come ad esempio: "I gialli di Ellery Queen", e con -annualmente - i Festival della Canzone italiana trasmessi da Sanremo.
Il Musichiere ruppe queste nostre abitudini, e Lorella e Alessandra ci rallegravano la serata settimanale con la loro angelica presenza. Poi negli anni Lorella volò alto nel mondo del cinema, grazie anche al matrimonio col regista Duccio Tessari. Girò nella sua carriera una cinquantina di film; pochi di essi se ne ricordano, in effetti, ma il ciclo di Poveri ma belli è rimasto un' icona indelebile nella nostra cinematografia; film che nel tempo vennero poi trasmessi e ritrasmessi non so quante volte sui piccoli schermi della tivù; e sempre con grande e rinnovato successo.
Con le due ragazze, amiche inseparabili anche nelle storie del ciclo, c'erano - tra gli altri - i fusti dell'epoca, Maurizio Arena (1933-1978) e Renato Salvatori (1933-1988), anche loro poveri ma belli! I due ci hanno lasciato molti anni fa.
Nel 1994 Lorella è stata colpita da una grave malattia, che poi ne ha causato la morte. E' andata a raggiungere i due compagni di lavoro.


marcello de santis

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Biagio Proietti e Maurizio Giannotti, "Il segno del telecomando"

14 Agosto 2015 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #televisione

Biagio Proietti e Maurizio Giannotti, "Il segno del telecomando"

Biagio Proietti – Maurizio Giannotti

Il segno del telecomando

dallo sceneggiato alla fiction

Rai Eri – Euro 18 – Pag. 235

Biagio Proietti (1940) è uno dei più richiesti e prolifici sceneggiatori di gialli televisivi, scritti insieme alla moglie Diana Crispo, alcuni rimasti nella storia del piccolo schermo: Coralba, Un certo Harry Brent, Come un uragano, Lungo il fiume e sull’acqua, Dov’è Anna?, Ho incontrato un’ombra, L’ultimo aereo per Venezia… Non solo, è anche regista di film televisivi (Storia senza parole), pellicole cinematografiche (Chewingum, Puro cashmire), sceneggiati e documentari. Nessuno meglio di lui poteva affrontare una storia dello sceneggiato - un tempo chiamato originale televisivo - di cui è parte integrante, genere che precede le moderne fiction, che lo scrittore dimostra di non amare. Per questo è opportuno l’aiuto di Maurizio Giannotti, autore televisivo immerso nella realtà contemporanea (La vita in diretta, Uno Mattina, Forum, Non è la Rai…) che si occupa di integrare i ricordi di Proietti curando la parte contemporanea. Va da sé che anche per chi scrive quel che importa è il passato, soprattutto ricordare i tempi in cui la Rai non aveva abdicato al compito educativo di insegnare la lingua italiana (Non è mai troppo tardi del mitico maestro Manzi), le letteratura e la storia. Erano i tempi in cui potevi vedere Delitto e castigo in prima serata, Il dottor Jekyll e Mister Hyde con Albertazzi, Piccole donne, Cime tempestose, Il romanzo di un giovane povero, La cittadella di Cronin interpretato da un grande Alberto Lupo. Erano i tempi in cui a Proietti consegnavano un copione di venti minuti scritto per la televisione inglese e gli dicevano: “Scrivici un originale televisivo!”. Così è nato Un certo Harry Brent con Lupo protagonista in un ruolo che nell’originale britannico non esisteva (Harry Brent non compare mai), inventato per l’occasione dal prolifico sceneggiatore nostrano. Erano i tempi in cui Proietti incontrava Walter Chiari al Festival del Cinema di Venezia, un Walter Chiari triste, solitario, che rimpiangeva i tempi della grande popolarità e non riusciva a spiegarsi il successo dei comici lanciati da Antonio Ricci a Drive In. Erano tempi che non torneranno ma che è giusto storicizzare facendo parlare i protagonisti come hanno fatto Giannotti e Proietti in questo libro prezioso, utile guida per non dimenticare. Il segno del comando di Daniele D’Anza - con Pagliai e Pitagora - è il titolo cult mascherato nella denominazione di un volume nato per celebrare una cinematografia votata ai generi popolari. Artigiani come Anton Giulio Majano, Giorgio Capitani, Edoardo Anton, lo stesso Proietti hanno inventato trame che tenevano incollati al video milioni di telespettatori prima dell’avvento della televisione spazzatura, delle insignificanti tv commerciali, degli squallidi reality show. Prima che tutto diventasse mercato e prima che il mercato fagocitasse l’intelligenza. Ricordare, in certi casi, è un preciso dovere morale.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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Shelley a Livorno

10 Novembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #luoghi da conoscere, #poesia

Shelley a Livorno

Il poeta inglese Percy Bysshe Shelley (1792 – 1822), complice l’eredità del nonno e per ovviare alla salute malferma dovuta alla tisi che lo minava, scelse di trascorrere molta parte della sua vita in Italia, luoghi di elezione furono Napoli, Pisa (dove lo raggiunse Byron) e Livorno.

A Livorno soggiornò tre volte, nel 1918, nel 19 e nel 22, anno della sua tragica morte in mare.

Fu ospite di amici inglesi ma alloggiò anche a villa Valsovano, dove compose la tragedia The Cenci, pubblicata nel 1819 - cui attinse anche il Guerrazzi – e le famose odi To a Skylark e To Freedom.

Da giugno a settembre del 1819 Shelley e Mary Wollstonecraft si stabilirono a villa Valsovano. Mary era molto abbattuta, avendo visto morire due dei suoi tre figli in un anno. Solo nel maggio precedente erano venuti a Livorno con tutti e tre i bambini e due domestiche ma ora la casa era molto più triste. Shelley cercò rifugio nel lavoro e quell’estate, sul tetto della villa, compose The Cenci, tragedia dal gusto gotico, basata sulla storia di una famiglia realmente vissuta nel cinquecento. Ne furono stampate nella nostra labronica 250 copie, poi spedite a Londra.

L’estate dopo erano nuovamente a Livorno e Shelley compose la famosa ode All’ allodola, della quale riportiamo alcuni versi centrali particolarmente belli e già, in pieno romanticismo prima maniera, precursori di quello che sarà il nostro decadente Gelsomino Notturno e di alcune liriche wildiane cariche di sensualità estetizzante.

“Like a rose embowered

In its own green leaves,

By warm winds deflowered,

Till the scent it gives

Makes faint with too much sweet these heavy-wingéd thieves:

Sound of vernal showers

On the twinkling grass,

Rain-awakened flowers -

All that ever was

Joyous and clear and fresh - thy music doth surpass.”

Villa Valsovano si trova in via Venuti 23 e una lapide del 1962 ricorda il soggiorno di Shelley:

In questa casa già villa Valsovano dimorò da metà giugno a fine settembre 1819 nel suo più lungo dei soggiorni livornesi Percy Bysshe Shelley tornato a ritemprare le forze e lo spirito nella pace della nostra amena campagna a lui ispiratrice di stupendi carmi. Scrisse allora tra l’altro la tragedia “I Cenci”e nell’estate seguente alloggiando poco lungi la poetica epistola a Mary Gisborne e la celebre ode “a un’allodola.”

Fu nel golfo di La Spezia, davanti a Lerici, che, tornando in barca proprio da una gita a Livorno, l’8 luglio 1822, Shelley naufragò in una tempesta. Il suo cadavere fu ritrovato dieci giorni dopo su una spiaggia nei pressi di Viareggio.

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La contraerea del liceo

17 Novembre 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

La contraerea del liceo

Quello che vi proponiamo è il primo di una serie di racconti brevi scritti da Giovanni D'Ippolito nel 2013 in occasione dei cinquant'anni del Liceo Scientifico di Bojano, per ricordare con amici ed ex compagni di classe avvenimenti spassosi della loro gioventù.

Un revival che porterà anche molti di noi a ricordarsi giovani in un contesto sociale che oramai rivediamo solo nei film in bianco e nero del grande cinema italiano di quegli anni. Un tuffo nel passato nei mitici anni 60.

La contraerea del liceo

Le finestre del nostro Liceo erano, per la loro posizione, un osservatorio privilegiato su Corso Amatuzio. Nulla poteva sfuggire allo sguardo degli studenti che vi si affacciavano per tutto il tratto che va dalla piazza fino alla Stazione, ma quella mattina nessuno avrebbe immaginato che gli occhi sarebbero stati rivolti verso il cielo. Erano appena iniziate le lezioni quando un rombo assordante fece tremare i vetri e sobbalzare gli alunni di tutte le classi che, corsi alle finestre, scrutavano verso l’alto senza riuscire a scorgere l’aereo che aveva provocato tale trambusto. Si ritornò, sollecitati dai professori, al proprio posto, ma la distrazione era stata tanta e ognuno in cuor suo sperava che il fatto si ripetesse.

Tutti erano all’erta e, trascorsi pochi minuti, si cominciò a udire in lontananza un flebile sibilo, di nuovo gli alunni eccitati corsero verso le finestre, questa volta sarebbero arrivati in tempo per vedere, infatti si affacciarono proprio mentre il muso del jet appariva a pochi metri dai loro occhi . Un muso simile a quello uno squalo che si avvicinava minaccioso e velocissimo e che, con un boato fragoroso, sfiorò il tetto della scuola.

Io avevo capito subito chi fosse ai comandi di quel velivolo e conoscevo la manovra che avrebbe fatto: l’aereo si allontanava in direzione di San Massimo seguendo la ferrovia che il pilota usava come riferimento. Poco prima del campo sportivo di Cantalupo effettuava una lenta virata a destra e, seguendo sempre il percorso della strada ferrata, giungeva al bivio di Guardiaregia dove, all’altezza del cementificio, eseguiva ancora una lenta virata a destra e via a volo radente di nuovo verso Bojano puntando l’edificio scolastico.

Ormai tutti erano certi che ci sarebbe stato un terzo passaggio e più di qualcuno, giocando alla guerra, si era attrezzato per la difesa: avevano piazzato le sedie dei banchi sui davanzali delle finestre con le gambe puntate verso l’alto e quando il jet apparve ancora una volta, dettero vita a un fuoco di sbarramento contraereo tatatatatatatatatatatatatatatatatatataatatatatataatatata, imitando una mitragliatrice e giù a ridere a crepapelle. I professori cercavano di ripristinare l’ordine e di calmare i più esagitati con scarsi risultati, anche perché vi fu subito un quarto passaggio e le mitragliatrici alle finestre erano decuplicate.

I vetri tremarono ancora, il boato fu più forte e molti si precipitarono nel corridoio dalle cui finestre videro l’aereo allontanarsi oscillando le ali in segno di saluto. Io più degli altri, a quel movimento, sentii tremare il cuore, e fui orgoglioso perché il provetto pilota era mio fratello e aveva saputo evitare la nostra contraerea. Era un gioco ma per fortuna, pensai, non era stato colpito.

Giovanni D'Ippolito

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J. Wittlin, "Il sale della terra"

3 Gennaio 2016 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni

J. Wittlin, "Il sale della terra"

Józef Wittlin (Dymitrów, 1896 – New York, 1976), di famiglia ebraica, nativo della Galizia asburgica, fu soldato nella Grande Guerra, anche se non vide il fronte a causa delle pessime condizioni di salute. Divenne un grande traduttore dell'Odissea e un poeta; Il sale della terra è la sua unica opera in prosa che in origine doveva essere il primo atto di una trilogia, ma la bozza del seguito andò perduta nel corso del precipitoso viaggio dalla Polonia agli Usa che l'autore compì nel 1940 per sfuggire alle grinfie del nazismo.

Siamo in un angolo delle province orientali dell'impero Austro-Ungarico. Il protagonista, Piotr, appartenente alla piccola etnia hutzuli, sta per essere travolto dalla Grande Guerra come milioni di altri. Lavora in una stazione come uomo di fatica, possiede una casa malconcia in comproprietà con una sorella prostituta, ha un cane e un'amante con cui sta principalmente per abitudine. Il suo è un mondo semplice che ruota intorno alla ferrovia; è docile e remissivo verso le autorità. La guerra sconvolge gradualmente tutto; i treni civili cedono il passo a quelli militari, un sottufficiale prende il posto del capostazione, infine arriva la cartolina di precetto anche per Piotr. L'Imperatore può aver bisogno anche di lui, quarantenne e analfabeta? Evidentemente sì. All'imperatore probabilmente non interessa che lui non distingua la destra dalla sinistra e che trovi spiegazioni “magiche” e irrazionali davanti a ciò che non capisce. Ad esempio, accanto alla stazione riesce a orientarsi, invece poco lontano dal posto di lavoro già si confonde:

"Fuori, invece, spesso il diavolo rovescia la terra, e quello che un momento prima era a sinistra, all'improvviso si sposta a destra".

Anche la cartolina precetto per lui ha un'essenza diabolica; non potrebbe spiegarsi diversamente il potere di quelle lettere nere su un uomo. Un altro uomo, Francesco Giuseppe, con quel foglio esprime il suo diritto di appropriarsi di un suddito. Piotr deve partire e in caserma giura obbedienza al sovrano e ai suoi rappresentanti; non gli sfugge la portata di quel giuramento così diverso da altri fatti in vita sua e legati a impegni banali e di corto respiro. Questo vincolo non ha scadenza definita (non si sa quanto finirà il conflitto) e gli impone anche di essere pronto a morire. Sarebbe bello avere due vite, pensa, una per il sovrano e una da riprendersi una volta tornati dal fronte. Burocrazia ed esercito avviano disciplinatamente al fronte i morituri, privandoli della libertà di prima e trasformandoli in una "cosa" dello stato, sempre pronta all'obbedienza. Nella preparazione militare, per i futuri soldati si apre una fase diversa; con la divisa indossano un'altra identità, stretta tra regolamenti e punizioni.

La guerra, famelica di risorse, rastrella metodicamente ogni provincia; anche uno strampalato analfabeta che non ha mai fatto un viaggio vero lontano da casa, può servire al pari di ogni tipo di materiale:

"Partiti. Sono partiti gli uomini, sono partiti i cavalli, gli asini, i muli, le bestie da macello. E' partito il ferro, l'ottone, il legno e l'acciaio".

Un libro notevole, un piccolo poema, a lungo colpevolmente dimenticato anche nella Polonia comunista, frutto della sapienza ebraica, in cui la tragedia si avvicina con passo lento ma continuo, aggraziata sempre dall'ironia.

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