poesia
Nicolas Guillén, "Obra poetica"
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Obra Poetica 1922-1985
Nicolás Guillén
Traduzione di Gordiano Lupi
Tomo I
Il Foglio Letterario, 2020
pp 494
15,00
Il primo ponderoso tomo della traduzione fatta da Gordiano Lupi – e pubblicata con la sua casa editrice Il Foglio - dell’opera poetica di Nicolás Guillen (1902-1989), meticcio figlio di schiavo, poeta cubano comunista, esiliato dal dittatore Batista, combattente della guerra civile spagnola, viaggiatore, presidente dell’unione nazionale degli scrittori di Cuba.
Questo primo tomo raccoglie le opere scritte dal 1922 al 1958 e l’evoluzione è evidente. Le prime liriche – addirittura inedite - sono giovanili, intimiste, ancora ottocentesche, tese a raccontare di un amore perduto, distante e ormai indifferente, e hanno un sapore occidentale. La speranza è tutta in un nuovo amore e si passa attraverso immagini sofferte e cristologiche, condite di solitudine e misantropia. Molto evidente la dualità innocenza/ corruzione, il senso della propria indegnità che si trasforma in una sorta di preghiera laica.
L’approdo successivo è a una lirica impegnata, sociale, dove Guillén canta gli ultimi, i dimenticati, gli sfruttati, i tagliatori di canna da zucchero.
Nel mezzo fra le due, la poesia più bella e sonora, quella “mulatta” di Songoro Cosongo, che si rifà al son cubano, musica e ballo insieme, onomatopeia di tamburi e mimetismo del ritmo sensuale dei neri. Una poesia che è suono, ma anche sangue e carnalità.
Erotismo, dicotomia fra bianco e nero (i due “nonni”, i due “bimbi”), bisogno di riconoscersi in una delle due identità senza averne la possibilità, cori da tragedia greca che oggettivano la narrazione in realismo a volte anche ironico, più spesso drammatico. Tutto poi evolve nella poesia più tarda, quella contestataria e comunista, dove il poeta denuncia la condizione dei neri cubani e il furto da parte degli Stati uniti delle ricchezze nazionali.
Infine, l’entusiasmo per la rivoluzione, per Che Guevara, per tutto ciò che appare nuovo, luminoso e giusto. Guillén, per sua fortuna, morirà prima di vedere la triste fine dei suoi ideali.
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Roberto Concu, "Fedeltà del gelso"
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Fedeltà del gelso di Roberto Concu (AnimaMundi Edizioni, 2020) è una raccolta poetica gentile, una risposta saggia alla vita, nella costante corrispondenza alla fiducia e all’origine delle parole, il bagaglio sentimentale trasportato dalle stagioni e da ogni benevola esperienza. I versi ricompongono nello spazio metafisico i richiami profondi ed istintivi della terra, nella fantastica distrazione che è l’eredità di un incanto e il premuroso legame con la realtà, l’eterna sospensione che dilata la nobile consistenza del tempo ed occupa l’educata e naturale familiarità ai luoghi e alle persone, con l’immediatezza dei sentimenti e la spontanea armonia con la natura. Il poeta intrattiene miracolose sensazioni, assolute ed improvvise circostanze poetiche che ispirano la trasposizione simbolica del gelso, osservato in tutti i suoi mutamenti e trasferisce le similitudini originarie arricchendo significati alla vita. Roberto Concu si descrive fedelmente nell’accoglienza riservata ai suoi versi, teneri, candidi e immaginifici, dove gli accadimenti umani si identificano con la sorprendente e determinante urgenza della vita, nell’impeto entusiastico di creare un componimento poetico dell’anima che trae la sua forza dalle suggestioni dei pensieri e delle immagini. Il libro intreccia l’autentica manifestazione della verità poetica, il sentimento delle cose, il senso di stupore e meraviglia nei toni semplici e rapidi dello spirito libero, un intimismo espressivo e crepuscolare, l’attimo presente oltre le stagioni che aprono l’anno naturale, i luoghi del cuore esposti allo scorrere inesorabile del tempo, in una cortina di ombre e luce, di gioia e di tristezza. Una letteraria e nostalgica bellezza degli spazi, il compimento di un’alleanza emotiva, il valore estetico dell’illuminazione che non consuma e non inganna la memoria di ogni vissuto. L’autore assapora la grazia degli incantesimi e la naturale abitudine della realtà quotidiana, rifugiandosi negli interni del silenzio, ritrovando la confidenza diffusa delle atmosfere e dedicando il tempo ai sogni, proteggendoli e coltivandoli al di là dell’indifferenza dei tempi. Spirito romantico, nel caldo e ammantato colore della speranza, lo spirito poetico giunge ad una meta riservata, privata, lontana dai clamori del mondo, adagiando l’atemporaneità dei valori affettivi, proiettando nel cuore di un destino che pulsa e batte gli attimi della vita, scandita dal torpore e dalla compiacente indolenza assopita di chi sa vivere altrove, altre vie, altri destini. L’energia espressiva ed ospitale delle parole accompagna la delicatezza dell’appartenenza, con la generosità della contemplazione per i frutti che la poesia dona, cinge il legame con l’evocazione dei sentimenti, stringendo l’alleanza con la bellezza di ogni destinazione umana.
Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti”
Mattino.
Nella sacralità del silenzio
odo il canto
della figlia del giardiniere
un'onda di mistero
mi commuove.
O dolce, ridente Saffo
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Nuovo gennaio.
Spoglio il gelso -
monaco fedele al voto -
la verità oltre la parola
esige il medesimo linguaggio
spoglio
Foglie parole
ammucchiate
agli angoli del cortile
Come transita in fretta
la luce nell'ombra
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Parola è il volto
presenza che si auto-nega
sino a non mostrarsi più
e spingerci
laddove il dolore
è conoscenza
la voce un passo
tra possibile e impossibile
Mostrare il volto
le cose
il loro -
osceno
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L'inizio della pioggia
accorda il giorno
con la pelle tesa delle foglie
Rifuggono i merli e i
passeri venuti a beccare
le briciole sul balcone
Matura la luce
allo stesso ritmo secolare
della pioggia
tutto è pace e desiderio
prima che il mondo si risvegli
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Un nuovo alfabeto
oltre l'egoismo
l'oscuramento
la corruzione -
Aleph e Ghimel -
fedeltà e primavera
una nuova voce
con cui
manomettere
il nome d'ogni cosa
riconoscere
la sacralità del silenzio
davanti al muro del Mistero
Attilio e Ninetta Bertolucci, "Il nostro desiderio di diventare rondini"
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Il nostro desiderio di diventare rondini- Poesie e lettere di Attilio e Ninetta Bertolucci, a cura di Gabriella Palli Baroni (Garzanti Editore, 2020) racconta l’incanto intimista della dimensione sentimentale senza confini, in ogni gentile e tenue sfumatura, attraverso la rappresentazione lirica di luoghi, ambienti e ricordi abituali e la descrizione spontanea di un’elegia degli interni intorno a domestiche e familiari rivisitazioni romantiche. I testi, composti dalle poesie e dalle lettere che hanno congiunto costantemente l’alleanza emotiva dei protagonisti nel miracolo dell’amore e nella solennità della poesia, manifestano la partecipazione appassionata alla bellezza, leggera e sensuale delle dichiarazioni d’amore. La consapevole riconoscenza di un’infinita confidenza di complicità, celebra la lealtà della memoria nell’esperienza sensibile della tenerezza. Le parole, patrimonio dell’anima, concedono la percezione di un tempo ulteriore nell’esistenza, evocano l’idea di una vita prolungata, nella compiacenza felice di narrarsi il mondo interiore con l’intento comune di divulgare l’eternità. Il libro promuove gelosamente il consenso a custodire la sorgente degli affetti e a proteggere la relazione con la realtà. Le poesie di Attilio Bertolucci dischiudono i periferici collegamenti degli orizzonti e sconfinano nell’armonia medianica della voce interpretativa e dello sguardo narrativo. Il riassunto artistico, dolce e temerario della vita si intreccia al vincolo del possesso biografico accompagnando la fiduciosa empatia del filo di continuità, la somma amplificata di ogni eloquente promessa sostenuta da impronte invisibili nelle emozioni d’amore, nella generosità del desiderio. L’affabilità amorosa che unisce Attilio e Ninetta Bertolucci nelle lettere, congiunge l’elemento distintivo della stabilità, scrivendo e fermando su carta la sintonia emotiva, con un’accordo d’intesa verso un tragitto privato di crescita umana e spirituale, un’unione solida e resistente in cui la conoscenza reciproca del rispetto sostiene sempre la pienezza esistenziale e mantiene la sensibile espressione dell’accoglienza e della presenza benevola della quotidianità. Il libro è un ideale tangibile di donazione alla soave amorevolezza, nella virtù necessaria ad esaltare la dedizione di chi amiamo e a riconoscere la solidarietà. La speranza nutre la grazie reciproca di ogni comunicazione leggendo, nella prospettiva dei sogni e nella gioia di vivere, la tendenza della volontà ad aggiungere forza comprensiva nella storia e a raggiungere il privilegio naturale di condividere il tempo, sostenendolo a vicenda. La disponibilità alla progettualità nell’unione è l’esortazione principale del libro ed invita ad un impegno verso l’essenziale, dolce e magica percezione del mondo affettivo. Il titolo del libro Il nostro desiderio di diventare rondini, preso da una lettera scritta da Attilio a Ninetta, è metafora e simbolo dell’amore coniugale, un aspetto segreto della semplicità e della saggezza, strettamente legato alla predilezione per un atteggiamento capace di riconoscere la purezza del corteggiamento. Il rinnovamento dello spirito libero che incrocia l’anima incoraggiando l’impulso al viaggio da compiere insieme abbracciando l’unicità di volersi bene.
Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti”
https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Amore a me...
Amore a me vicino
di tua crudeltà mi consola,
fuori è notte e cade
una dolce pioggia improvvisa.
La famigliare lampada rivela
le intime e care cose,
amore parla e parla di te
sommesso, come acqua fra erbe alte.
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Madrigale
Sì: ho colto i garofani alteri
delle tue guance,
e avevano corolle sì rance
con sì bizzarri screzi neri...
Ma sotto i tuoi occhi
son cresciute viole,
come di marzo al primo sole,
sulle rive dei fossi.
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La rosa bianca
Coglierò per te
l’ultima rosa del giardino,
la rosa bianca che fiorisce
nelle prime nebbie.
Le avide api l’hanno visitata
sino a ieri,
ma è ancora così dolce
che fa tremare.
È un ritratto di te a trent’anni,
un po’ smemorata, come tu sarai allora.
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Questa sera il sole...
Questa sera il sole tramonta nei tuoi occhi
l’inverno vi si spegne, lenta brace tranquilla.
Così la gente indugia per le strade che l’ombra
non ha toccato ancora, ma il fumo appena
da umili camini intimamente annuvola.
Tu lascia che ristagni sulle case ed offuschi
i lontani del cielo che scolora.
Finché un’altra pena
porti la notte, vigilia della primavera.
L’amore coniugale
Ma se la pioggia cade
la camera s’oscura...
L’amore ancora dura
che le gocce più rade
la finestra più chiara
i tuoi occhi più neri
e oggi come ieri
come domani. Amara
sui tetti umidi brilla
la giornata nel sole
che si volge sulle viole
risorte stilla a stilla.
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Non
Non mi lasciare solo se io
ti lascio sola
e intorno a te la luce
è quella che fa piangere
dei giorni ordinari,
non allontanarti con passo
fiducioso in direzione
dell’estate e non
considerare rassegnata
la fatalità delle averse e del sole,
non acquistare viole in prossimità della casa.
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I nostri corpi
I nostri corpi, cara, in questo letto
famigliare nell’aria ferma dell’amore
mentre al di là delle finestre chiuse
le stagioni piangendo se ne vanno.
Ma il ritorno dei cieli nuvolosi
e fioriti della tarda primavera
ombrerà i muri la luna errando
sperse lucciole sulle nostre salme.
Valentina Casadei, "Il passo dell'inerzia"
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Il passo dell’inerzia
Valentina Casadei
SaMa Edizioni, 2020
pp 60
8,00
Una silloge di piccole poesie che hanno come base la dualità. L’autrice, Valentina Casadei, è giovane e interloquisce, quasi in ogni poesia, con un tu che è, di volta in volta, l’altro da sé ma anche lei stessa. È un dialogo fitto verso l’interno e l’esterno, - quasi una sceneggiatura - nella speranza che qualcuno ascolti parole che non sono solo per lei. C’è anche, forse, un interlocutore maschile, c’è, comunque, un bisogno irrefrenabile e irrisolto di comunicazione.
È giovane, la Casadei, - e si farà perché parte da buone basi – ma è anche vecchia, perché a volte ha “solo ventisei anni” e a volte “ha già ventisei anni”, ha già nostalgia “della bambina” che fu. Si sente impreparata, smarrita. Ma anche emozionata, in una insistita ricerca personale, in un viaggio dentro e fuori di sé che già rimembra il passato ma con occhio sempre teso al futuro.
Una delle poesie più belle è quella in prima persona, scevra da ogni confronto con l’esterno e che scava dentro la propria anima. Il primo verso mi ricorda - quasi come contaminazione di mezzi espressivi – quello di una canzone di Noemi: “sono un peso per me stessa, sono un vuoto a perdere.”
Sono un disastro sbiadito
un errore dall’alto
un dito puntato
Sono un enorme rimpianto
Sono un fiume nel mare
il fluttuare dell’onda
l’annegare del sordo
Sono un navigante disperso
La vita non è facile e la Casadei non è pronta, per questo indugia, rimane nell’inerzia. Ma non si è mai veramente fermi, il fango ci trascina comunque e perciò, anche nell’“inerzia” c’è “un passo”, c’è l’ossimoro del titolo.
Achille Lauro, "16 Marzo"
16 Marzo di Achille Lauro (Rizzoli Editore, 2020) è un'attesa di adorazione pagana, un'aspettativa di ritorno nell'intermezzo romantico che esalta la dichiarazione ostentata dei sentimenti. Una fastosa attrazione su inclinazioni impulsive, una trappola estetica in cui tutti le sensazioni umane sono mescolate, confuse, disorientate e trascinate dall'amore all'odio, nella verità estrema di ogni esperienza di vita spinta al di là da ogni distinzione della bellezza. Un delirio allegorico, un effetto appassionato di sorpresa, di straniamento e di sospensione, è questo lo scenario adatto che l'artista allestisce per il suo immaginario attraverso segni visivi e immagini simboliche. I testi, poeticamente esposti al verso libero, ispirati al carattere istintivo e puro della creazione artistica, racchiudono il disincanto passionale e teatrale della vita, nelle atmosfere fumose e decadenti delle illusioni e dei desideri. La libertà lunatica dell'autore, svincolata da regole convenzionali, guida la ricerca degli affetti, il bisogno vivo e universale dei rapporti reciproci ed esclusivi e si nutre di tutte le sue ossessioni biografiche, contamina l'irrinunciabile, viziosa, sincera voglia di perdersi in inferni meravigliosi, in esaltazioni ed infatuazioni per la commedia umana, nella vertigine delle percezioni. Lo specchio profondo della miseria e dello sconforto è il riflesso dell'altra parte di sé, l'eterna maschera di chi, equilibrista dell'anima, si affida ad una disillusa ma quanto mai solenne recita, incline alle suggestioni dell'ambizione e della speranza, struggente e malinconicamente sognante. La lente deformante attraverso la quale Achille Lauro guarda alle colpe, agli errori e alle trasgressioni degli uomini intensifica la consapevolezza illimitata degli inganni, del disamore, della resa incondizionata all'idealizzazione della persona amata, che esiste solo come creazione nell'immaginazione, una trasposizione inconsapevole della presenza che stordisce e divora l'innocenza dell'anima. Achille Lauro padroneggia il mondo che attraversa con un'aspirazione inconfessata all'amore, alla disperata relazione con la felicità. Il libro “16 marzo” è uno sregolamento in stile biblico, un'intossicazione da troppa nostalgia, nella sacralità laica di risposte ultime ed indecifrabili. Un'ultima destinazione di un viaggio poetico che accompagna l'avventura di un eterno sopravvissuto, lucidamente abbandonato all'inevitabile spettacolo dei sensi. Le atmosfere surreali dei tormenti e i patimenti rivisitati dell'apocalisse si contendono il primato dell'interpretazione visionaria in cui il supplizio della carne e la leggerezza del cielo sono le espressioni diaboliche ed angeliche della stessa insistenza amorosa. L'artista seduce l'ordine di un culto estetico, è la presenza rarefatta nella composizione visiva ed artistica dell'immateriale, sa flirtare amabilmente con la malìa delle imprevedibilità e le contradditorietà delle invocazioni interiori, defunte preghiere mistiche ed infedeli incise sul fatalismo misterioso dell'equilibrio emotivo. Achille Lauro celebra e dimentica l'amore nell'eleganza del disprezzo, sostiene la sua icona alterando la creatura tra il talento e l'abisso nascosto nelle sue “letterarie” inquietudini e conquista il seguente omaggio poetico:
“L'inverno, noi andremo in un vagone rosa/con azzurri cuscini./Staremo bene. Dentro quei soffici cantucci/Ci son nidi di baci./Chiuderai gli occhi allora, per non vedere, fuori,/Torcersi le ombre oscure,/Arcigne e mostruose, nera plebe serale/Di lupi e di demoni./Ti sentirai sfiorare lievemente la guancia.../Un lieve bacio, simile a un ragno forsennato,/Ti correrà sul collo...Mi dirai: “Cerca qui!” chinando un poco il capo, - Ma ci vorrà del tempo per scovare la bestia/ Che viaggia senza posa....” (Sogno d'inverno - Arthur Rimbaud)
Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti”
https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Amore mio,
amore mio che non conosco,
odiami,
perché è meglio il tuo veleno del tuo niente.
Odiami e fammi del male,
fallo prima che inizi io.
Io che morirò per te, ed è così che ti ucciderò.
Il Paradiso è davanti a noi
ma io ti mentirò di nuovo;
come se non fossi tu,
come se questo amore fosse nulla.
Ti mentirò di nuovo
come se di nuovo questo non fosse amore.
Come se non esistesse niente,
come se fossi sicuro che l'amore non muoia mai,
neanche davanti alle menzogne.
O, come se fossi certo che quel poco che ho da dare,
ti basterà.
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Siamo in un labirinto di siepe,
un labirinto a matita disegnato da te.
Tu sei la ragazza che si perde nel suo stesso labirinto,
ti pungerai con delle rose,
mangerai la mela del peccato,
farfalle ti aiuteranno a uscirne,
ma non basteranno.
Questa fiaba racconta di te che seguirai un gomitolo,
nessuno sa se esista davvero.......
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La testa cade libera da qualunque legame terrestre,
un miscuglio di leggerezza e fervore.
Il taglio geometrico oggi lo trovo troppo simmetrico.
Tu daresti una sforbiciata dritta, sinistra,
fermissima sopra l'orecchio destro.
La tua frangia divide perfettamente la fronte a metà:
una coordinata spaziale indispensabile per me,
la discriminante tra materiale e immateriale.
Mi hai chiesto tu di venire oggi stesso
ma io ancora non so come.
Quanto siamo diventati bravi con la finzione.
Acqua, fuoco,
voglio fare con te questo gioco.
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La paura di sbagliare.
Poi i nervi si consumano e diventi cattivo
e ti devi fare di sogni sintetici
ma è la dimensione ascetica della disciplina
ad affascinarmi
più dell'aspetto etico.
Sentire il punto in cui l'anima
è incollata al corpo.
Sentire che cede,
un leggero strappo,
stare lì con la mente in estasi
in quella zona di lacerazione.
Provo spesso questa sensazione:
febbrile, ma profondamente lucido,
fertile,
motivato.......
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….Sotto un tessuto di velluto blu notte,
il tuo colore preferito,
l'ineffabile parola,
la perfetta coincidenza di suono e segno.
Il primo verso inarticolato emesso da Dio.
Per me sarai sempre una poesia occasionale,
la storia cominciata dalla fine.....
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Faccio strani sogni di notte.
Sogno che il mondo è mio.
Sogno di poter arrivare dove voglio.
E' come se quella notte
fosse l'ultima che mi resta da vivere.
Amami, amore, perché
quella notte tutto sarà possibile.
Domenica Blanda, "Le mie impronte"

Domenica Blanda, alias Anna Cavestri (o forse no?), è una poetessa di origini siciliane che sin da bambina abita nella bella Verbania, alle rive del Lago Maggiore.
La poesia dell’autrice è pervasa da alcuni punti cardine, che poi sono le sue sofferenze, quelle dei tempi andati e che affondano in legami familiari antichi e più recenti, che hanno come base la separazione, secondo un concetto ampio ed estensivo. Sofferenze che lacerano, che provocano fratture mai del tutto ricomposte nell’animo. Formano la base del sentire della poetessa. Eventi mai resi noti al lettore, ma che abilmente prendono forma nel qui e ora dell’autrice, senza mai essere esplicitamente enunciati.
È bastato mettere un segno.
Un pezzo di vita che muore.
Un sogno infranto, un fiore appassito.
E quello che rimane è
Un piccolo germoglio.
L’autrice pur nel suo crogiolarsi nel passato guarda sempre al futuro, in un suo futuro, dinamico, spaziale. Il passato è sia spinta che vincolo per Anna.
Com’è bello
Di tanto in tanto,
abbondonare il timone
Lasciarsi andare.
E sorprendersi.
Nel procedere leggeri.
Sentirsi fatti d’aria
Staccarsi da terra.
E fluttuare.
Euforia dell’essere.
Dolcezza dei pensieri.
Lasciarsi portare dal vento.
Alito di vita.
C’è questo indugiare in sé stessi, percorrendo spazi, lasciandosi coinvolgere dalle suggestioni che essi evocano: una caratteristica peculiare dell’autrice e che sento anche molto mia. In tal senso l’essenza struggente della natura e della materialità è sempre colta dalla poetessa, in cui lo spazio fisico svolge un ruolo essenziale.
In un tappeto d’acqua
guardo i miei giorni che passano,
i miei malanni.
In un tappeto verde
stendo i miei dolori,
alzo gli occhi e vedo
i miei mattini grigi.
In un tappeto di terra
Metto la mia caducità.
In un tappeto di cielo c’è dentro la mia caducità.
In un tappeto di cielo c’è dentro la mia notte
e la mia insofferenza.
È lì la mia inquietudine
Come dentro una gabbia dorata.
Esemplificativa lirica del modo di possedere l’ambiente da parte della poetessa e di interagire con esso. Ripeto, è un aspetto che sento molto mio. Poesia lacustre, fatta di fiori, alberi, scorci urbani, come le sue foto, come secondo una poesia molto bella della sua raccolta, di cui riporto alcuni versi: Un pensiero gentile/Che accolga la mia mente/Che coccoli tutti i miei pensieri/e che inviti i desideri/a un dolce riposare. Ma c’è anche l’attesa: Un giorno,/quando l’anima mia si scioglierà/in tenero pianto/e le energie del mondo tutte/nel mio cuore andranno,/allora,/ti incontrerò./Ogni memoria/svanirà/Insieme andremo/In un posto segreto,/con la musica/tra le nuvole,/sonno eterno.
L’animo gentile, aperto della poetessa, ci dice che ‘Sto alla notte/come l’ape al fiore/L’aurora per quanto rosa,/mi porta via il miele.
E noi percorriamo le stesse orme dell’autrice, facendole nostre, lungo la battigia del lago, metafora autentica della raccolta.
La silloge è edita nel 2019 da Edizioni Effetto, casa editrice torinese nata nel 2017.
Domenica Blanda, nasce a Mezzojuso (PA) nel 1960. All’età di sette anni si trasferisce a Verbania, sul Lago Maggiore, dove tuttora vive e lavora. Dopo gli studi classici consegue la Laurea in Scienze Sociali presso l’Università Bicocca di Milano, e in seguito a Genova (dove vivrà per dieci anni) consegue specializzazione in ambito psichiatrico e diploma triennale di musicoterapia.
Nel 2017 pubblica la raccolta di poesie L’eco e io (Il Viandante).
Nel 2018 riceve il premio come “autore segnalato” sezione silloge inedita al Premio Internazionale di Poesia e Narrativa “Giovanni De Scalzo” – Città di Sestri Levante.
Nello stesso anno pubblica poesie inedite nell’Antologia dei poeti (Il Viandante) e partecipa al Concorso “Racconti siciliani”, con la pubblicazione di alcuni racconti selezionati (Historica Edizioni).
Nel 2019 partecipa con poesie inedite al concorso letterario del Festival Etna Book, a Catania e riceve il Premio della Critica.
Link Wikipoesia: https://www.wikipoesia.it/wiki/Domenica_Blanda
Note biografiche di Gino Pitaro:
Nel suo percorso svolge varie attività, tra cui quella di redattore e di documentarista indipendente.
Nel 2011 il suo esordio con I giorni dei giovani leoni (Arduino Sacco Editore), poi per la Ensemble pubblica rispettivamente nel 2013 e 2015 Babelfish, racconti dall'Era dell'Acquario’ e Benzine, vincendo numerosi premi letterari.
La Vita Attesa è il romanzo per Golem Edizioni pubblicato nel 2019
L'autore vive in provincia di Roma.
Glen Sorestad, "Betulle danzanti"

Betulle danzanti - Poesie scelte di Glen Sorestad - traduzione di Angela D'Ambra (Impremix Edizioni, 2020) è un riconoscimento all'esemplarità del mondo naturale, una cartolina d'autore in cui ogni paesaggio dell'anima è una rappresentazione pittorica dipinta sulla carta, un'istantanea immanente della forza generatrice e della realtà sensibile. I versi, mescolati ai colori raffigurati, lusingano la bellezza assoluta della natura, le immagini la raccontano come una passeggiata letteraria intorno ai luoghi amati e vissuti dal poeta in Canada. Il poeta frequenta il misticismo poetico con la prosa simbolica del verso libero, allungato, sa assorbire le sensazioni esterne e coinvolgere l'intimità dell'ispirazione, includendo lo spazio esteso di ogni inclinazione per la partecipazione profonda e solidale alla vita. Leggere Glen Sorestad è immergersi nel romanticismo dell'universo, ad equilibrio e valutazione di tutti gli eventi e delle reazioni emotive dell'uomo e del suo peregrinare. Il poeta riceve accoglienza dagli scenari circostanti, respira la gentilezza di ogni alito di vento, ristabilisce i cambiamenti delle stagioni, nutre il mantenimento dei ricordi. Il vincolo vitale, l'affinità simbiotica con lo spirito comunitario sono i legami enfatizzati nella sua poesia, nell'atmosfera comune e popolare di ogni libera condivisione. Un'efficace interpretazione dello spirito e della materia in relazione ai principi perenni che abitiamo e rispettiamo. Il poeta osserva i dettagli del mondo, nell'identità delle sue esperienze di vita, è profeta alla ricerca di risposte sensibili. L'estatica armonia con l'essenza fenomenica accorda un'autobiografia interiore, diffonde una visione sconfinata di infinite prospettive, una poetica panteistica dell'energia vitale. La capacità estetica dell'autore è la premurosa intuizione dello stupore, l'incantevole fiducia nell'evocare territori suggestivi, attraverso la mediazione illuminata della comprensione. Glen Sorestad è un autore contemplativo, assorto nella “danzante” volontà di vivere e nella disponibilità nobile della percezione emotiva. Il poeta esplora, ascolta e analizza per ospitare e comunicare ogni riflessione sostenendo il personale sollievo rigenerante, destinandolo all'esuberanza dell'umanità. La conservazione cortese dell'elegia, sussurrata ed indulgente, rivela nuovi orizzonti linguistici, esprime la commozione necessaria nella descrizione delicata di ogni piccola cosa, di un pensiero, di un gesto, di un'istante che meritano di comporre il miracolo della poesia. Ne è esatta coincidenza l'omaggio lirico al poeta Walt Whitman che scriveva: “...la domanda, ahimè, la domanda così triste che ricorre – Che cosa c’è di buono in tutto questo, ahimè, ah vita? Risposta: Che tu sei qui – che esiste la vita e l’individuo, che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi con un tuo verso.”
Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti”
https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Aide memoire
Il mondo ha inizio e fine nel ricordo:
ciò ch'io ricordo è ciò che sono.
Quel filo d'erba che, ragazzo, io
strappai sì che al soffio mio vibrasse
davvero l'aria sgretolò col suo stridore?
Un mondo ricordato ha in sé verità
e realtà assai più chiare d'echi.
Nelle mani a coppa del ricordo
la verde, fine festuca di ciò che siamo
freme d'un suono così raro.
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Notturno
1.
La notte non è mai abbastanza scura per qualcuno.
Sempre ci saranno cose da celare.
Il freddo parla la sua propria lingua. Ascolta.
L'orecchio più sordo udrà qualcosa.
Paura non avere di notte, freddo, buio.
E' di noi stessi che dobbiamo aver paura.
2.
Un cuore aperto sentirà sempre il male.
Chiudilo, se devi. Tutti i cuori muoiono.
I cuori aperti sanno la gioia del sì.
I cuori chiusi solo la pena del no.
Solo un folle tenta di fermare il vento.
Lo stesso folle tenta di fermare il male.
La mano aperta è soddisfatta di sé.
La mano chiusa sempre si chiede perché.
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Clessidra
Le prove sono ovunque. Granelli di sabbia.
I nostri giorni vanno persi in banalità: riunioni,
appuntamenti, liste di commissioni, note su post-it
incollati ad ante di credenze perché non ci sfuggano,
fissati da magneti al frigo come comandamenti,
o affissi come strazianti appelli per micetti smarriti,
tersi promemoria delle nostre vite divenute
una colonna sonora di arrivi e partenze,
il suono e la voce di calendari e diari.
Ignoriamo l'immagine – la sua metà inferiore,
con la sabbia in aumento. E' il ritmo crescente
dei funerali cui assistiamo che ci fa pausare,
che ci fa sentire la misura, l'urgenza,
il rullo premonitore del tamburo.
Colpo dopo colpo, grano dopo grano.
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La bellezza è dove la trovi
Perché negare che Bellezza
può illuminare un giorno di gennaio
quando il vento fa una sosta
e l'aria è un silenzio,
una coltre d'attesa?
Persino quel misero sole,
quella volpe furtiva
che striscia sempre a sud,
fa balzare brillanti sfaccettature di diamante
sulla neve scolpita,
malva d'ombra.
Questa cartolina invernale
m'appaga,
non mi soffermi a lungo
ad ammirare l'algido prodigio
dei luccichii della neve, preso
tra contraddizioni -
bellezza o tepore.
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Suoni
Ecco. Quello è il suono
che m'è mancato – il suono
che m'infiamma i sogni,
che nella notte viene e va:
un tiptap di strascico di vento
in moto fra betulla e pioppo,
che struscia i fianchi
su punte di peccio e pino.
Bentornato, dice.
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Betulle danzanti
Betulle, sull'isola,
pallide danzatrici invernali,
braccia protese verso l'alto,
a invitare il sole,
eseguono la loro lenta danza,
facendo fluttuare le foglie nuove
con l'arte delle geishe.
Paolo Cordaro, "Memorie in versi"

Memorie in Versi (WritersEditor, 2020) è la nuova silloge del poeta tiburtino. Più volte ho detto che, secondo me, Paolo Cordaro è un poeta necessario, che canta un luogo di transizione tra la periferia romana e le adiacenze a essa: una specificità territoriale che a sua volta è portatrice di storia e tradizioni di grande importanza, legata a Tivoli. È un poeta che va a occupare un vuoto preciso, perché l’umanità e le emozioni di cui trattano i suoi versi, collocabili prevalentemente tra gli anni ’70 e ’80, per poi confluire in un presente spesso formale - che ambisce al politicamente corretto, ma soggiogato nella sua labirintica umanità -, ci restituiscono la memoria di un affresco urbano particolare e al contempo universale nell’immaginario italiano.
La pianura delle Acque Albule (Albula peraltro è il nome primigenio del Tevere), reifica una romanità territoriale sganciata dalla Capitale eppure ancora più verace, come per molti versi quella di borgata, che nel suo (nostro) caso però dipende da un territorio prestigioso, quello di Tivoli. Essendo io residente in questi luoghi da diversi anni, sentivo la necessità di recuperare la memoria di un posto così particolare, con le terme, le fonti, che una volta penetravano sottotraccia nel dedalo delle strade, il suo non più forte odore di zolfo, così salutare, che richiama un’idea di veracità, libera, quasi selvaggia tra canneti, anfratti, boschi, laghetti, ninfe e sibille. In questo senso per me il poeta risponde a un dovere di recupero profondo. Se Cordaro non ci fosse bisognerebbe inventarlo, e in fondo la sua poesia si innesta nella progressione sociale dell’area, ormai facente parte di Roma Città Metropolitana, che ha visto cambiamenti, interazioni, la grande immigrazione dall’Est Europa, una forte espansione dell’edilizia residenziale, dovuta anche alla scelta abitativa di impiegati e operai che lavorano nel cuore di Roma. Io stesso che vi abito dal 2004 l’ho vista mutare, e ancora in quegli anni era considerata un limbo, mentre oggi è luogo ambitissimo in cui vivere e da cui muoversi, merito anche dei lavori di potenziamento dei trasporti, a iniziare da quelli della ‘metro regionale o provinciale’ FL2.
La poesia di Cordaro è anche fortemente generazionale, legata a quei contesti di canzoni, di pallone (e di pallonari), muretti, chiacchierate, amori, che si sostanziano in classi di età aperte al mondo ma ancora lontane dal digitale e perfino dall’analogico per molti versi. La sua sensibilità è per determinati aspetti affine alla mia, nell’esplorare e curare nicchie esistenziali fatte di persone, mestieri, e varia umanità che dialogano con i mattoni, il legno, le colle, i cantieri, i calcinacci, le polveri, il cemento, che fanno capolino con i tanti ‘nzi capito’ e poi esibiscono alla vista mani che vogliono dire esperienza, che si guadagnano il rispetto da parte degli altri e resuscitano sentimenti cotti dal sole o conservati dal freddo; un percepire crepuscolare, introspettivo, che si esalta in quelle geometrie di passaggio e transizione rappresentato dalle rotaie, dai caselli, dalle stazioni: luoghi di ‘meditazione’ e che invitano a guardarsi e a pensare per eccellenza, che fanno da amplificatore delle emozioni, perché la borgata è alle spalle, perché dalle stazioni si parte, perché i binari portano lontano e il cuore della Capitale deve ancora essere raggiunto.
Concrezioni urbane, quelle del poeta, che sono ‘Piccole case d’avorio/con gli occhi di smeraldo/tutte uguali/tutte in fila come noi/con i piedi nudi sull’asfalto/a scattare, a rincorrerci/giù per la discesa/giù fino alla “Z”/per accendere il gran falò/e farlo più alto che si può. (da Borgonuovo), ma Nella stagione del sole che/tramonta alla fine della via,/giocavamo a rincorrerci/in controluce, senza tregua,/sul campetto della quarta strada,/al confine dell’asfalto,/tra la casa di Felicetto e/quella di sor Michele,/cauti dallo zoppo con le forbici che/interrompeva i sogni sfregiandoli,/in quello spazio/dove si volava da una porta all’altra,/in barchette di cotone blu/o in scarpini di cartone,/col pallone che andava a vento… (da La Stagione del Sole).
Consiglio vivamente questo libro a tutti, ma soprattutto ai cittadini tiburtini di tutte le generazioni. Cordaro è zolfo che accende i circuiti della mente, innesca scintille che illuminano percorsi esistenziali, mentre a volte è acqua albunea che ci trasporta in luoghi ameni, agrodolce fiume della nostalgia. Il poeta inoltre ormai è un pilastro culturale di iniziative sempre più importanti.
Paolo Cordaro nasce a Bagni di Tivoli (oggi Tivoli Terme) il 30 agosto 1966.
Scrive poesie e racconti da più di venti anni. Ha pubblicato diverse raccolte di poesie: A tua immagine (2002), Gocce di Sole (2006), Aulenti Dintorni (2009), La meta dell’essere (2012), Frammenti d’Essenza (2014) e nel 2016 Il Senso del Cammino, un poemetto composto dal 540 terzine diviso in 14 canti, mentre del 2018 è la volta di Suadenti Sensazioni, una raccolta di poesie d’amore con la prefazione curata da Marcia Theophilo, poeta candidata al Nobel per la letteratura
Le mie poesie sono emozioni in versi, sono la mia libertà di confrontarmi con le brutture del mondo moderno. Metto in versi i miei ricordi di infanzia, le mie prime passioni, ma anche ciò che sono adesso. Vivo le emozioni della poesia come ossigeno. Non potrei mai vivere senza riempire i fogli bianchi delle mie emozioni.
È membro di Giuria del Premio Internazionale di Poesia Orazio, da lui ideato.
Note biografiche di Gino Pitaro:
Nel suo percorso svolge varie attività, tra cui quella di redattore e di documentarista indipendente.
Nel 2011 il suo esordio con I giorni dei giovani leoni (Arduino Sacco Editore), poi per la Ensemble pubblica rispettivamente nel 2013 e 2015 Babelfish, racconti dall'Era dell'Acquario e Benzine, vincendo numerosi premi letterari.
La Vita Attesa è il romanzo per Golem Edizioni pubblicato nel 2019
L'autore vive in provincia di Roma.
Delia Carta, "Una storia"

Una Storia
di Delia Carta
p. 43
Albatros, 2019
Prezzo 9,90
Una storia è un racconto poetico di una giovane vita, quella di una donna che, trasferitasi dal centro della Sardegna a Milano per inseguire il suo sogno, affronta l’ingresso nell’età adulta, talvolta con sicurezza e determinazione talvolta nel dubbio e nello smarrimento.
Sono parole che provengono da un’anima profonda che si è messa a nudo, parole di vita che l’autrice ha deciso di guardare in faccia e affrontare.
La lettura di queste poesie è molto scorrevole, dato il linguaggio semplice, ma è inevitabile soffermarsi a leggerle più volte perché riescono a creare un legame con la tua parte più profonda.
Quest’anima delicata ti parla sincera, con la sensibilità di chi ha conosciuto l’amore, quello vero, fatto di vette ma anche di voragini molto profonde ed è stato molto bello fare la sua conoscenza.
Una storia è per chi apprezza il racconto in versi e non si fa spaventare dalla poesia.
Vola
da “Una Storia”
Se questo non è cadere
allora,
non è altro
che volare.
Buona Lettura
F.
Nove domande e mezzo a Marta Bandi

1) Quando hai iniziato a scrivere?
Da bambina avvertivo il bisogno di prendere carta e penna e ricorrere alla scrittura, racchiusa in una bolla di volontaria solitudine, per scrivere brevi poesie o pagine di diario. In seguito, per svariati motivi, ho messo in stand by questa passione, fino a quando, circa due anni fa, ho partecipato al "Corso di immaginazione scontenta" di Alessandro Mazzà (capitano di #Libereria). Da allora ho ripreso carta e penna e (come scrivo nella poesia che apre il mio libro) ... il fiume sotterraneo è emerso...
8)Come descriveresti l'atmosfera che si respira in Libereria?
Libereria è tante cose. Oltre a essere un consorzio di autori (come tutti sanno) è incontri, raduni, scambi sinceri di affetti, ascolto, famiglia. L'atmosfera è, da un lato sempre piacevole e accogliente, dall'altro lato stimolante, in continuo fermento.
9)Scrivi per te stessa o scrivi per il lettore?
Il tempo che precede lo scrivere è un tempo di riflessione, di messa a punto di un pensiero, di scavo interiore, e questo lavoro è in evoluzione fino a quando metto il punto finale. Sono momenti nei quali non penso al lettore, penso a scrivere quello che sento, ed essendo io la prima lettrice, voglio esserne convinta. Successivamente il mio auspicio è di arrivare a di trasmettere qualcosa agli altri: un'emozione, un'immagine poetica evocativa, un pensiero condiviso.
1/2) Non ti chiederò perché scrivi, ma bensì che cosa scatena in te la voglia di farlo, al momento che ti accingi a scrivere la prima battuta qual'è il tuo primo pensiero, dove trovi la forza espressiva?
La voglia arriva all'improvviso, non so di preciso cosa la scateni, è un lampo, un'illuminazione, un friccicore (termine romanesco) a volte acuto. Il primo pensiero è di soddisfazione per qualcosa che sta nascendo, sta prendendo forma. La forza espressiva la trovo nell'introspezione ma anche intorno e fuori di me. La natura è una potentissima forza ispiratrice.