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adriana pedicini

Adriana Pedicini, "Il fiume di Eraclito"

14 Settembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #adriana pedicini, #recensioni, #poesia

Adriana Pedicini, "Il fiume di Eraclito"

Il fiume di Eraclito

Adriana Pedicini

Mnamon, 2015

pp 89

10,00

Dietro il lento oscillare delle acacie

Sale la filigrana del ricordo

Del lungo ramo

Che sbatteva alla finestra

E tra i fiori acri sfiorito il volto

E immobile lo sguardo.

Anche oggi

Tra i passi lenti

Di questa primavera

Solo si spande nell’aria

il profumo dolceamaro delle acacie.

Questa silloge di Adriana Pedicini, Il fiume di Eraclito, tocca e ripercorre tutti i temi cari all’autrice, in particolare uno spasmodico bisogno di vita e un immenso timore della morte. A ben guardare, salvo poche eccezioni, sono questi, uniti alla nostalgia (la nostalgia porta di una vita/che non è quella da vivere), e al triste fuggire del tempo, gli argomenti più cari agli scrittori non più giovanissimi. Il tempo scorre, come il fiume di Eraclito; mentre si vive, l’attimo presente è già diventato qualcos'altro, non viene goduto per l’ansia del futuro o il rimpianto del passato.

La vita è amata in modo pudico, trepido, ma con passione che s’intuisce violenta, quasi sconveniente, seppur tenuta a freno: più forte è il desiderio/di questa precaria vita, la vita è un desiderio/strozzato nel cuore. Si manifesta nella natura, nel ramo che fiorisce e si rinnova, nella montagna, nel lago, nel prato, nel fiume. Soprattutto nel bambino che nasce (della casa rinnovata /da rosei vagiti/al rifiorire della vita) e, per un momento, col suo venire al mondo, sconfigge la Morte, la quale, però, subito torna ad avere il sopravvento, come accadimento reale, ma anche come pensiero angoscioso, onnipresente. In questo pensiero si è soli, perché è difficile confidarsi, forse non si otterrebbe ascolto, magari solo un blando invito a essere ottimisti, magari solo un rapido e furtivo scongiuro.

Tutto è permeato di malinconia, il tessuto poetico a volte si lacera in squarci di dolore e paura, altre volte si stempera in dolcezza, verso il bimbo che nasce, verso l’amore coniugale (amore tenero e necessario) che, pur nel silenzio dei sensi, è ancora quello dolce e ardente dei primi tempi, ma è anche divenuto rifugio, consolazione quasi filiale (come piccolo bimbo), in grado di trasformare i sassi aguzzi in sassi tondi, un amore indispensabile alla sopravvivenza stessa.

Altra fonte di conforto – persino di rara gioia epifanica – è la religione. Viva la speranza di confluire in un Assoluto, capace di riscattare l’ingiustizia, se il mondo dimentica i deboli, gli emarginati, e soccombe al male, alla violenza bellica. Dio pacifica e affranca ma resta comunque un mistero inconoscibile, un abisso insondabile.

Il Weltschmerz, cui fa cenno la stessa autrice nella prefazione, è pena privata, ma anche fatto storico, senza mai perdere la sua universalità. Un dolore, come dicevamo, frenato, espresso con difficoltà, che si pone come dolenzia sorda ma, a tratti, lascia anche trapelare un orrore acuto, una sofferenza lancinante, alla quale non ci si rassegna, e che la ragione non sa accettare né combattere. Questo soffrire è romantico ma non patetico, è un dolore in cui tutti possiamo riconoscerci e che tutti, pur non ammettendolo, proviamo.

Lo stile non è moderno, queste liriche potrebbero essere state scritte nel secolo scorso, discendono dagli studi classici dell’autrice, ma vi si ritrovano anche Leopardi - spesso citato direttamente e come richiamo all’inutilità della vita (il vivere sia fatto invano) - Pascoli e Ungaretti. Ci piacciono proprio per questo, perché accantonano inconsistenti sperimentalismi per soggiacere a un imperativo di classicità, di eleganza, che non teme il suo sapore antico e i termini cari alla nostra tradizione poetica.

Così come abbiamo aperto con una delle poesie più caratteristiche, concludiamo riportando la più atipica della raccolta, che tratta il delicato tema dell’autismo, ed è bella per la rarefazione del linguaggio, qui essenziale e quasi scabro.

Senza parole

Chissà

Se il lago dei tuoi occhi

Agitano al fondo torve

Onde brune

O lo trapassano guizzi

Di luce cristallina,

se il silenzio notturno

fa della tua anima

tenda in cui cercar riparo

o se le foglie inaridite

rallentano la corsa

nell’aritmia della vita.

Nella luce del mattino

Come un bimbo

Incapace di salire

Ai piedi di una scala solitaria

Senza cordame

Miri al monte

Che in te ha inabissato

La sua cima.

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Adriana Pedicini, "Il fiume di Eraclito"

12 Agosto 2015 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #recensioni, #poesia

Adriana Pedicini, "Il fiume di Eraclito"

Il fiume di Eraclito

poesie di Adriana Pedicini

prefazione di Nazario Pardini

Recensione di Renzo Montagnoli (luglio 2015)

L’amaro destino dell’uomo

L’uomo non nasce mai solo, ma con il concorso della madre; muore sempre, invece, solo, solo anche se attorniato dagli affetti più cari, perché la dipartita non può essere che un evento del tutto personale. Se nei primi anni di vita non ha la consapevolezza del suo destino e ha fretta di crescere, di procedere nel tempo, con il trascorrere degli anni ogni tanto gli appare il ricordo di quella spada di Damocle che pende sul suo capo dal momento in cui è stato generato e quando l’età, con i primi acciacchi, manifesta tutto il suo declino, è più facile che sopravvenga il timore della morte, che i tanti segni, soprattutto fisici, danno in avvicinamento. E allora tanto più avvertiamo la miseria di un’esistenza in cui più sono i misteri delle conoscenze, durante la quale non c’è mai spazio per una concreta prospettiva futura. È in quel momento, nella presa di coscienza del nostro effimero tempo, che vorremmo una risposta a tante domande, ma soprattutto a quella: perché la vita ha un termine e come sarà il dopo? Ovvio che non sempre avremo delle risposte, soprattutto per questo quesito fondamentale, ma è anche vero che è l’occasione per interrogarci, per trasporre magari in versi la nostra intima inquietudine, proprio come ha fatto Adriana Pedercini con questa silloge intitolata Il fiume di Eraclito, uscita di recente, ma, ahimè, non in cartaceo, ma come e-book. Dico ahimé poiché credo che il profumo della carta, lo scorrere dei fogli siano un elemento insostituibile e che costituiscano non tanto un corollario, ma la giusta base di partenza per leggere e gustare un’opera. Comunque, trattandosi di una silloge, composta da un certo numero di poesie, la lettura risulta meno disagevole visto che é indubbiamente meno faticosa di quella di un romanzo in formato elettronico.

Già il titolo mi ha incuriosito e allora ho pescato nella memoria, cercando di focalizzare l’opera di questo filosofo presocratico, per sua natura piuttosto criptico e mi è venuta in mente la correlazione fra il suo pensiero e il fiume. In buona sostanza, e questo lo sappiamo tramite Platone, Eraclito avrebbe detto:”che tutto si muove e nulla sta fermo" e poi confrontando gli esseri alla corrente di un fiume, avrebbe aggiunto che "non potresti entrare due volte nello stesso fiume" Che cosa significa? L’uomo non può fare la stessa esperienza due volte, poiché ogni entità, nella sua fittizia dimensione reale, è soggetta alla legge inderogabile del continuo mutamento. E pertanto non c’è alternativa alla morte e non è possibile che un essere vivente, venuto a mancare, abbia l’opportunità di morire ancora, perché ciò presupporrebbe una rinascita che per esperienza millenaria non si è mai verificata.

Credo, pertanto, che il titolo sia abbastanza esaustivo dello spirito che ha animato le poesie della silloge, ma se la vita in queste condizioni può essere un’astratta e anche a volte reale sofferenza, proprio perché essa è una sola e irripetibile si deve viverla, cogliere le infinite occasioni e opportunità che può dare, al fine, in ciò parafando questa volta i versi di una mia poesia, di poter dire al termine che ogni minuto è stato degno di essere vissuto. Ma ciò non significa gioia di esistere, bensì di accettare consapevolmente il dolore di esistere, che può essere anche uno sprone per addentrarsi nel terreno nebuloso, ma gratificante della metafisica, cercando oltre il sipario dell’ignoto. Sì, la morte si sconta vivendo, ma è anche vero che è un prezzo che tutti sono disposti a pagare.

Le liriche, raccolte, permeate dello stile intimistico di cui ci ha abituato la Pedicini, pur nelle variegate espressioni, riflettono questa sofferenza interiore, che pur tuttavia, stemperata dalla ricerca di conoscenza, si tramutano in note di carezzevole malinconia. Ed è proprio questa capacità di smussare, di filtrare solitudini e ancestrali angosce, che consentono di comprendere e godere i versi che in pacato ritmo, quasi un adagio, scorrono, come il fiume di Eraclito, davanti ai nostri occhi.

Da leggere, mi sembra ovvio.

Il libro è disponibile sia nella versione ebook che in cartaceo.

http://www.amazon.it/Il-fiume-Eracl…/…/ref=sr_1_1_twi_2_pap…

Prezzo di copertina del cartaceo 10 euro
richiedendolo a

adriana.pedicini@virgilio.it

Adriana Pedicini, "Il fiume di Eraclito"
Adriana Pedicini, "Il fiume di Eraclito"
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Ida Verrei, "Arràssusìa"

25 Maggio 2015 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #ida verrei, #recensioni

Ida Verrei, "Arràssusìa"

Arràssussìa

Di Ida Verrei

Fabio Croce editore 2015

Recensione di Adriana Pedicini

La vita è sempre un insondabile mistero. Non ci sono previsioni o programmi che procedano lineari e scontati, anzi, talvolta vengono completamente sconvolti e i ruoli consueti si ribaltano e la disperazione o la sconfitta sembrano prendere il sopravvento. Senonché la vita, quella vera, è fatta per chi possiede grande forza d’animo, seppure messa a dura prova da evenienze negative e dal dolore, da chi ha capacità e soprattutto volontà di tracciare negli intricati sentieri dell’esistenza una sua traccia. Non che non manchino le difficoltà, ma è proprio attraverso esse che si va alla ricerca con la lanterna di Diogene del vero, dell’identità, della legge fuori dal tempo che rende il tempo riconoscibile.

E alla fine il ritrovarsi, tanto inatteso e tanto imprevedibile, speculare al perdersi, pareggerà i conti, ma basterà tutto questo per dire di essere vissuti in piena autonomia e libertà? Forse, no, sicuramente no, proprio per il fatto che è la vita stessa a prendere il sopravvento con le sue impennate, le sue false partenze e infine con la ricomposizione di tutto. Purché si sappia riconoscerne la legge suprema che è quella dell’accettazione dei suoi ritmi, dei suoi spezzettati doni che intervallano sentieri ardui e spinosi.

“La vita non è un intero, è fatta di porzioni, piccole fette che ogni tanto ci è concesso di assaporare... è crudele, lo so, ma ci sono altri pezzi di vita che ti attendono”

Nelle parole del vecchio libraio è condensato il messaggio, secondo me, del romanzo.

Riflessione donata al protagonista Manù, distintosi fin da piccolo, nell’ombra del collegio che lo ospitava con bambini poveri e abbandonati oppure orfani, per le sue doti che lo avevano condotto a districarsi tra il bisogno di un padre inesistente e le delusioni di una madre troppo debole nel costruire con lui un vincolo forte d’amore vissuto e alla fine l’aveva vista allontanarsi per effetto della lusinga di avere un amore esclusivo, quello maritale. Finalmente il giovane protagonista troverà nel giardiniere Gennarino chi gli consegnerà con bontà e dedizione l’unico senso che possa dare stabilità alla struttura interiore di ciascuno, il senso delle radici, soprattutto quando il passato è senza storia. “

“l’unico maestro e confidente, quello a cui porre domande e da cui ricevere risposte”.

Non si dovrebbe mai tornare indietro. Non quando il tuo è stato un passato senza storia. Non c’è più tana, pietre, soltanto pietre”

Eppure è un’operazione necessaria questa per avere gli strumenti per crescere e andare avanti. E l’incontro con Gennarino gli aveva disvelato questa verità che alla fine si rivelerà una realtà e non una pura invenzione.

E, dopo tante traversie e vicende vissute come passaggi di vita con vari personaggi, alla fine Manù ritrova insperatamente le sue radici e la sua stabilità economica. Manca solo una cosa: l’amore e questo non tarderà a venire, ma per breve tempo. La vita esige altro sacrifico, impone di pagare altro scotto non previsto, ma evocato inconsapevolmente, a guardar bene, dal continuo ripetere “arrassusìa”, una sorta di scongiuro che nella lingua napoletana significa “non sia mai” che avvenga quello che non si desidera. Tale morfema esprime bene nella saggezza popolare partenopea il senso della precarietà dell’esistenza che affonda le sue radici nella formazione filosofica di derivazione ellenica che in quella terra proliferò.

E Napoli è presente nel romanzo con la particolarità dei monumenti, strade, chiese, vicoli, fondachi, con la suggestione del cimitero delle fontanelle, con la possente musicalità delle voci e dei suoni, con la fragranza dei sapori e del profumo dei fiori, con la meraviglia del mare azzurro, degli scogli, delle imbarcazioni dei pescatori, ma anche con tanto buio, tanta fatiscenza, tanta decadenza, tante dure salite, tanto chiasso e confusione, tutto uno sfondo su cui si dipanano, oltre a quella del protagonista Manù, anche vite altre e altri accadimenti, altre atmosfere, tutte intrecciate insieme, da quelle del collegio, luogo di tristezza ma anche di grandi amicizie, alle avventure sentimentali, agli incontri affettivamente significativi, al disagio di non poter essere militante attivo insieme ai suoi amici nella lotta contro lo status quo per non compromettere il suo futuro, all’affermazione personale negli studi e nella professione e infine il riconoscimento di grande scrittore di romanzi.

Manca dunque solo l’amore, scivolato via in una tragica circostanza, ma ancora una volta la vita lo sorprende. E non solo lui, al punto che non si sa bene se sia la vita a manipolare gli esseri umani o essi realizzino se stessi quando capiscono e accettano le dure leggi dell’esistenza. Certo è che tutti i personaggi che non si sono persi per un motivo o per l’altro alla fine appaiono come ricomposti, pacificati nella nuova condizione che il destino o la volontà ha imposto loro.

Anche per il nostro protagonista arriva la gioia della famiglia e dell’amore coniugale, ma solo dopo che tale gioia sarà stata mondata dal dolore capace di trasformare una perdita in dolce presenza nella dimora del cuore per sempre

Mi ami Manù?

E mi amerai sempre?

Sempre

Mi amerai nel mio esserci e nel mio non esserci?

Nella presenza e nell’assenza?

Sempre!

Un romanzo composito che anche nella struttura procede a tratti, e non è un limite, ma un sottolineare che la vita è fatta di tappe, alcune positive, altre negative che ci vogliono protagonisti sì ma non padroni assoluti, perché….. “ ARRASSUSSIA”…….

Un monito da non dimenticare.

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Il fiume di Eraclito di Adriana Pedicini. Recensione di Nazario Pardini

23 Maggio 2015 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #recensioni, #poesia

Il fiume di Eraclito di Adriana Pedicini. Recensione di Nazario Pardini

Adriana Pedicini

Il fiume di Eraclito

Poesie

RECENSIONE DI NAZARIO PARDINI

Siamo il fiume che invocasti, Eraclito.

Siamo il tempo. Il suo corso intangibile…

Jorge Luis Borges

Istantanee di vita

a fermare il tempo,

amore della vita

che lenta scivola nel rimpianto,

timore della morte

e nessun rimedio per fermarla.

Crogiuolo di mille domande

sulle ali di una farfalla.

Partire da questi versi dal sapore di vita, dalla visione di un tempo che scorre veloce senza darci la possibilità di palpare il presente irrequieto e inafferrabile, significa andare a fondo di una poesia complessa e inquietante. Di una plaquette che tocca i tasti più dubbiosi del fatto di esistete e che mette in campo i dati della realtà fenomenica e quelli di un ripiego escatologico di grande complicanza esistenziale. Sta qui il polemos tra gli opposti eracliteo; il pascaliano dissentire tra rien e tout. Sì, c’è la vita con tutta la complessità dei suoi ricami: saudade, mistero, nostos, melanconia, inquietudine, memoriale come fonte di amore, come tuffo in profumi di acacie:

Dietro il lento oscillare delle acacie

sale la filigrana del ricordo

del lungo ramo

che sbatteva alla finestra

e tra i fiori acri sfiorito il volto

e immobile lo sguardo.

Anche oggi

tra i passi lenti

di questa primavera

solo si spande nell’aria

il profumo dolceamaro

delle acacie.

Ai cigli delle vie fuori città

sui terrapieni corrono,

nei giardini e nelle aiuole cittadine

i fiori bianchi fluttuano sgranandosi

al vento gelido di fine marzo

che ora come allora

asciugandole rapina le mie lacrime.

Di te

solo il profumo dolceamaro

delle acacie (Le acacie di marzo).

Si nota fin dagli inizi il disagio della Nostra di fronte al confronto tra l’esistere e l’infinitezza degli spazi che ci circondano. E’ troppo umano questo esserci; troppo limitato, troppo precario:

Ho pianto il mio dolore

ho pianto la gioia

l’odio ho pianto

di quest’effimera vita.

Tutto sembra inutile

e il vivere sia fatto invano

in attesa del tempo senza tempo.

Eppure più forte è il desiderio

di questa precaria vita

come di assetato

che mai estingua alla fonte

nel cammino

la bramosia di lunghi sorsi,

di conservare sulle labbra

e in ogni fibra

della fresca estasi

il brio (Vita),

ed è per questo che allunghiamo sguardi in lontananze sperdute con la speranza di trovarvi la soluzione ai tanti perché dei nostri irrisolti e irrisolvibili dilemmi. C’è in ognuno di noi il desiderio di fermare la clessidra, di arrestarne l’ingordigia che fagocita le cose più preziose della nostra terrenità. Forse è ricorrendo proprio ai ricordi o al sogno che si cerca di riportare alla luce ciò che resta di questo sacro patrimonio nel tentativo di prolungarne la storia:

A brace spenta

bruciano

le mani del sogno

caldo in cuore.

Neri rami s’elevano

sterile fumo

alla neve del cielo.

Di pioggia le nuvole

s’ammassano dense

segni fatali di sorte.

Pace o segno di

nero silenzio

questa assenza di voce (Sogno),

nel tentativo di placare il dolore delle sottrazioni, rifugiandoci in una alcova di volti rassicuranti, di primavere innocenti troppo presto sparite, chiedendo collaborazione ad una natura profumata e umanizzata per configurare e dare corpo a forti emozioni. D’altronde il nostro sguardo è limitato e incapace di andare oltre gli orizzonti che ci limitano. E si rischia di sperderci in mondi sovrumani, in ambiti d’infinita estensione per le nostre flebili forze; per noi che viviamo l’”amore della vita/ che lenta scivola nel rimpianto,/ timore della morte/ e nessun rimedio per fermarla”. Thanatos e eros, vita e morte, speranza e rimpianto, rimpianto e nostalgia per parole non dette, per cose non fatte, cosciente, la Nostra, della precarietà dell’esistere e della sua definitiva ultimazione:

Scivola ancora

di nuovo

più fitta la pioggia

lungo i muri e le pozze riempie

porta suoni lontani di voci

sopite per sempre,

la nostalgia porta di una vita

che non è quella da vivere.

Sfilza le ore

e grava l’aria di cupi ricordi.

Tutte son morte le foglie

e la vita è un desiderio

strozzato nel cuore.

All’orizzonte

il nulla di questo giorno.

Sull’impiantito della mente

disegno il mio larario antico

e di ghirlanda adorno

il posto vuoto (Nostalgia),

una dualità, una contrapposizione di estremi la cui simbiotica fusione si fa alimento della scioltezza eufonica del poema, i cui versi, combinandosi con quelli che sono gli input vicissitudinali, si risolvono in brevi e apodittiche soluzioni; in un linguismo che fa della metaforicità la base d’appoggio per verticalità meditative; per confessioni di ontologica complessità emotiva. E’ qui il nocciolo della substantia di questa poesia; sta tutto in una versificazione stretta e monoverbale, anche, incisiva e redditizia, per il valore etimo-fonico e comunicativo dei significanti. La parola è sufficiente a se stessa, si fa unità morfosintattica e risolutiva per un pensiero di intensità epigrammatica sul rapporto della vicenda umana col tempo; tanto che, dal polimorfismo di accostamenti inconsueti, emerge, con nettezza parenetica, che la vita è il tempo prestato dalla morte. “La vita è un naufragio, ma nelle scialuppe di salvataggio non dobbiamo dimenticare di cantare” affermava Voltaire. Anche se illuminista, anche se della ragione faceva il fulcro dei suoi convincimenti, in tale affermazione presagiva uno dei motivi focali del primo ottocento: il mare; quell’immenso spazio che più si avvicina al bisogno di libertà; ma di una libertà vaga, indeterminata di memoria delacroisiana cercata inutilmente dai romantici, anch’essi còlti da quel malum vitae che portava, spesso, a pessimismi o a melanconie congenite di memoria leopardiana. Alfredo Panzini definì i Poeti “simili al faro del mare”: quel faro che illumina una parte di un tutto sommerso dalla notte. E’ in quel mare che si perde l’animo del Poeta incapace di andare oltre quella scia che invita a più ampie navigazioni. Questo è tutto ciò che troviamo nella poesia della Pedicini. Una poesia complessa che fa degli interrogativi esistenziali il cuore del canto; un canto, che, con grande partitura musicale, e con urgente partecipazione panica, ci prende per mano per inoltrarci, al fin fine, in quelli che sono i valori della vita. Sì, perché porsi le tante questioni sulla nostra venuta, non significa altro che amarla questa storia; esserne integrati moralmente, civilmente ed esteticamente; esserne passionalmente avvinti tanto da non dimenticare di cantare sulla scialuppa di salvataggio; perché, in definitiva, sono proprio i dolori a farsi gradini di una scala tramite cui ci eleviamo a cime spirituali le più vicine all’inarrivabile “… E se la costante della vita è, in definitiva, il dolore, in esso è anche il riscatto della dignità umana, oltre che l'unico veicolo possibile della conoscenza (πάθει μάθος). E, inoltre, esso predispone ad una dimensione altra, dove il dolore è anche il veicolo per raggiungere livelli spirituali alti, in cui la Fede e la preghiera risultano essere di significativo impatto sull’animo umano che in tal modo “graziato” produrrà positive energie con ricadute notevoli nella personale vicenda esistenziale” (dalla prefazione dell’Autrice).

Quando il dolore

avrà macerato

le fibre del mio cuore

stilleranno i ricordi

in gocce di parole.

Nazario Pardini

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RESURREZIONE

22 Aprile 2015 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #poesia

RESURREZIONE

POESIA dalla raccolta Il tempo di Eraclito di Adriana Pedicini

Resurrezione

Ti ho cercato lungo i sentieri dell’anima

dal dubbio dilaniata e non Ti ho trovato.

Ti ho visto apparire nei volti depredati

dalla fame, dove a brandelli gli ultimi gridi

preludio di morte si smorzano nell’eco smarrita

della guerra. Ti ho scorto dinanzi alle favelas

e nei vicoli ciechi di periferia ove fiere umane

di oltraggi osano Te schiaffeggiare negli infanti volti

mentre sul mondo nudo si frantumano le tenebre.

E ci lasciamo dormire la vita senza speranza alcuna

fino all’ultimo sonno, con le labbra serrate

fino all’ultimo addio. Mute le parole e sospeso il Tempo.

Nel turbinio del vento della sera prede d’angoscia

le inquietudini quali peccaminose messaline

che nenie di prefiche accigliate non placano

lacerano l’anima mentre fluisce nei muti lucori

delle ortiche, sembianze eretiche del graffio della croce.

Sulla nostra strada leviga i passi il vento sferzante

di maestrale tra le nebbie concubine delle forme

velate degli alberi, e li ricopre la malinconia del tempo

tra le ebbrezze sanguigne dei filari e le spighe di vita pregne

nel meriggiare lento dell’estate alla ricerca di Te, Signore.

Nella breve stagione della vita silenti sono le parole tue

agli ottusi orecchi e tra le tenebre del cuore rari

raggi ardono imperscrutabili prima che sulle labbra

non sia parola il nome tuo ma sospiro che riempie il cuore.

Si aggruma la paura nelle pieghe fugaci dello spirito

di opprimere l’innocenza, sulle gioie come libellule

rapide della fantasia l’anima teme l’incedere torvo

delle pene, e nel dormiveglia della coscienza enfatiche

le voglie della colpa antica verranno da sé incontro

ai nostri sguardi fin quando fino alle ignote stelle un’orbita

biancheggiante come l’alba risplenderà sulla divelta pietra

dopo l’orrore dell’ora nona della parasceve.

RESURREZIONE
RESURREZIONE
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Riflessione sui fondamentalismi nel mondo di Antonio Conte (a cura di Adriana Pedicini)

26 Marzo 2015 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #il mondo intorno a noi

Riflessione sui fondamentalismi nel mondo di Antonio Conte (a cura di Adriana Pedicini)

Quando il discorrere è intriso di emozione, di tensione ideale e di onestà intellettuale è una lezione da non dimenticare e una gratificazione per l’anima di chi ascolta. Si può anche non concordare su tutto, ma è sempre utile il confronto. Con tale convinzione abbiamo ascoltato giovedì 30 gennaio, presso l’Auser sez. di Benevento, in viale Mellusi 68, il prof. Antonio Conte, già docente di storia e filosofia e più volte parlamentare italiano.

Il tema, molto gravoso e di tragica attualità, verteva sui fondamentalismi nel mondo tra cui l’ISIS, sigla che sta per “Stato islamico dell’Iraq e del Levante” e indica un gruppo terrorista - di matrice islamica - attivo in Iraq e in Siria, il cui attuale leader, Abu Bakr al-Baghdadi, ha unilateralmente proclamato la rinascita di un califfato nei territori caduti e che cadranno sotto il suo controllo. Complesso sintetizzare il variegato fenomeno che non è limitato a poche zone nel mondo, ma è presente, sebbene con caratteristiche proprie, in numerose terre del continente africano e del medio oriente. Esso è la punta dell’iceberg di scontri e violenze intestine, nonché di trasformazioni causate dall’agire umano che non sempre ha intrapreso la via giusta della cooperazione, dell’integrazione effettiva e del rispetto reale dei diritti altrui. Spesso interventi ammantati da belle intenzioni come favorire i processi democratici hanno nascosto o almeno si sono rivelati solamente un mezzo per interessarsi a fonti di arricchimento e risorse per il proprio tornaconto economico. Pertanto, sebbene non in un sol caso si auspichi perfino l’intervento armato sovranazionale, sotto l’egida dell’Onu, soprattutto bisogna convincersi che altre sono le strade per spegnere questa temibile avanzata degli integralisti, che non fanno altro che seminare terrore, anzi attraverso il terrore cercano di indurre i “non credenti” alla conversione, pena ritorsioni economiche e morte. Di qui anche la spettacolarizzazione delle loro cruente azioni militari. Bisogna osteggiare la loro politica intrisa di religione o la loro religione intrisa di politica con l’accoglienza e l’integrazione reali dei cittadini che per decisione personale o per accadimenti altri si trovino in realtà sociali lontane dal loro paese d’origine, estendendo ad essi le prerogative dei paesi di accoglienza e determinandone la crescita culturale. Bisogna consentire a tutti le stesse opportunità e una vita decente perché non si sentano sfruttati e dunque desiderosi di trovare sfogo e appagamento nell’azione di guerriglia. Bisogna intervenire con la diplomazia cercando di andare incontro ai governi che, vessati in casa, cercano appoggi per uscire da situazioni estreme. Bisogna intuire e agire in tempo perché non si realizzi la “guerra santa” che davvero sconvolgerebbe gli assetti storici e geografici dell’Occidente.

Adriana Pedicini

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Tramonto in montagna

4 Febbraio 2015 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini

Tramonto in montagna

Ancora un pezzo inviatoci da Quirino Riccitelli

Tramonto in montagna: lo sfrutto per ricaricare le pile di una nuova giornata spesa nel solito di paese. Raggiungo il lago, farò una foto al crepuscolo e scriverò qualcosa sul paese, dove soffia un forte vento… clima natalizio, freddo e scialbo nei vichi, mentre attorno sbiadiscono pian piano le nitidezze… riflessione finale sulla politica e poi torno a casa. Ricopio senza modificare nulla, col vento fuori che pretende ascolto e spunti…

<< Ogni sera un tramonto avanza al cielo. Dura poco, quindi approfitterò di quel breve, stasera. Quel cielo sta per fare la muta, immerso nell’imbrunirsi, e io, addentrato nell’apatico sopravvivere, lo osservo con un briciolo di stupore; superstite unico, e un po’ frastornato, della tormenta che mi rimescola, poi scombina, gli stimoli. Imbrunisco di crepuscolo e mi brunisco pure le sopportazioni più arcuate, limandomi l’istinto prioritario di piangermi addosso, almeno una parte, dell’insoddisfazione provata. La provo e, senza approvarne l’esistenza, provato, riesco a eluderla… nonostante sussista incessante. Quella sensazione maligna mi cavalca l’istinto. Un uccello imita il suo rumore di zoccoli galoppanti, e picchia forte sulla corteccia della conifera. Sbatte alle mie spalle, mentre attorno sbiadisce il paesaggio e ne perdo gradualmente particolari. Poc'anzi, il canneto pareva più giallo e, dentro, ci contavo gli steli agilmente. Disperato di giornata vacua, stasera tengo fuori quel solito sentire e avvertire ogni giorno. Insoddisfatto in cerca di prove, di stimoli in questo lento spegnersi del giorno. Lascia poco d’immortale la disillusione che colora giornate di un’impropria gioia incolore. Resto qui, a godermi solo, il rossastro sfumato di nuvole rosse adesso, ma ancora per poco… a breve subentrerà la notte, col buio a pittare paesi e natura. Freddo pungente e penna che graffia su un foglio che stride reazioni. Un quadro negli occhi miei, alterati da un rosso divino, assuefatti come di vino, e barcollanti sul viola d’un cielo incantante. A me, tremola la mano, ma se vado via, poi perdo sfumature e frangenti. Ora v’imprimo un nuovo rumore, là dietro la frasca… cela e preserva un animale quel ciuffo a sei metri, ma pare esitante d’identità; mi sforzo ad attribuirgliene una consona, poi nudo sporge e mi rivela una familiare sembianza nel soma. La logica batte nei set lo spavento, poi sospira vittoriosa nei setti, e lo riconduce, senza sforzi, al “Mus Musculus”. Voglio restare solo, qui dove c’è tanto spazio… ma non per la confusione. Natura pretende ascolto e ribadisce la forza che usa per strapparmi attenzione. Perde il nome questa realtà antropica, nel ciclo che detta l’avvento del buio più vero. Si veste di freddo l’aria e i pipistrelli accalappiano insetti distratti. Ne schivo uno d’istinto, ma non mi avrebbe preso comunque: scartandomi all’ultimo. Un po’ come fa l’Italia con me, che ne ha di paradisi suggestivi. T’illude per poco di farne parte ma è passeggera quella sensazione di benessere. Tipo questo tramonto in montagna… il difettato son io, se mi mancano quei santi, incollocati nei miei paradisi. Appartenenze a risonanti parentele non ne posseggo, ma quei santi di prima, stupido, li ricordo spesso. Blasfemo, quando invoco il loro nome per rafforzare uno sfogo. Me ne sto lontano dal paese, rinnegandone temporaneamente l’appartenenza. Ruba attenzione l’efferatezza con cui, spietata, subentra la notte. Qui, io escludo l’asfalto grigio, perché attorno s’è fatto scuro… tutto quel verde, dettame di vita, cede pezzi di speranza alla notte ingorda. Mi sento piccolo nel solitario oscurare, come quando in aereo scavalchi le Alpi e sei minuscolo, vulnerabile. Come quando hai dinanzi l’orizzonte piatto del mare, col sole a sormontarlo, dove cauto entrerai per salarti la pelle d’estate. Qui da me, non c’è mare, ma male… l’inficiare gratuito, deturpa sovente l’udente nel vico, cinico nel favellare i fatti d’ogni civico. Inevitabile quell’affiorarmi della gente, in mente distratta da un inalienabile imbrunire, ma ripeto: son solo! Poco fa ho mollato il paese, dove folate improvvise scoperchiavano contatori, mentre gli infissi applaudivano. Carnevale in provincia da me, c’è un po’ tutto l’anno, soprattutto a Natale, quando s’indossano vesti sfarzose d’apparenza. Torna a casa il paesano con l’accento ammaccato e l’ego pompato; rincasa anche lo straniero da poco, che pavoneggia, fuori al bar, conquiste nelle disparate zone umide dei “porti varcati”. I Porci casertani, più di lui, lo stanno a sentire, io a dissentire… ritorna in paese il coetaneo esausto, come l’olio di gomito che spreca per costruirsi un futuro difficile, lontano da qui. Io vivo vicino Caserta, laddove s’erge la rinomatissima Reggia. Ogni paese è famoso per qualcosa, il mio no. Sopravvivo come altri sotto ai monti, ed è questa l’unica nostra caratterizzazione. Per il resto, beh, prevale l’utopico al tipico… indosso un velo eludente, cosicché possa esser io, schivo. Schifo taluni paesani, eppur concedo tregua e parola a disparati conoscenti; disperati nei vichi, mentre è sulle basole che scivolano i tacchi delle “milf”. Poco attrito, come il mio, a muovere passi instabili su saponette di sogni. Il paese cosparge le strade strette del centro storico, con mestolate di gente. Le rimescola, a mo’ di riso in una paella, e lascia stupire i chicchi che là dentro s’insaporiscono. E’ una pentola ‘sto buco, in cui si mette sempre troppo sale nell’altrui sfera privata. In tutti i tempi, da che esiste memoria, a ribollirci dentro, ci sono i mai cotti cazzi altrui... c’è chi cucina il “quinto quarto”, poi noi, che nemmeno con la crisi odierna risparmiamo sui cazzi di terzi. Ubiqui nel proferire calunnia, cospargiamo di falso faccende riportate da vicinanze prossime alla fonte. Farsi i fatti? Farsi di fatti, strafarsi… strafatti! Estrometto fiero commenti, in cui mi spingono taluni… centellino pareri e viro su altri discorsi: questa la tattica elusiva vincente. Sfuggente alle storie riportate, resto attendista e sto sulle mie. Non conto poi tanto e prevale, un po’ in tutti i paeselli d’Italia, quella fregola d’arsura d’indiscrezioni. Nelle piazze si fanno scorpacciate di etica e perbenismo, s’etichetta e affibbia l’appartenenza di un tale e, in fine, non sussiste alcuna lietezza nel condannare gesta di ciascuno. Mi capita di scambiare mezza “chiacchiera” con alcune persone, ma, in quel Carnevale di paese prima menzionato, non accetto dolcetti, né scherzetti. Oggi, scontro e cozzo su nervosi disillusi di tutte le età: dall’infante neonato al pensionato duro a morire. Ognuno ha da sputare lo sdegno che infiamma quel covo di velenose serpi; ovviamente, semmai l’interlocutore dovesse pure degnarti d’una manciata di secondi d’apparenza forzata. Si fa finta di non vedere, ma il seguito è un inevitabile parlarne… quando, poi saremmo veramente più buoni anche fuori Natale, se solo evitassimo di sparlarne. Omertosi di un frustrante “sentito dire”, tutti spiattellano e puntano al target dello “spettegolezzo perpetrato”. Spetta un tanfo e non “olezzo” a quel rinnovarsi indiscrezioni, conseguentemente al saluto. Indiscreti di tutte le fratrie per strada, dal sangue blu alla “creme” delle multiple famiglie, col nomignolo distintivo. Certi sono brave persone, semplicemente imbastarditi dall’Italia, un po’ come fanno certi bastardi veri coi cani in gabbia. L’Italia li invecchia e m’invecchia… io, all’alba della trentesima primavera, è in ciò che prima v’era, ch’io compia stasera, una mia “prima e vera realtà”… lontano e assorto nella notte ora giunta, appurandomi al ritorno in auto come distante, da un resto dispari di paesani al crepuscolo. Ben più di quello appena trascorso… ho provato a mangiare di passioni, ma i talenti muoiono di fame. Deprezzato e fuorimoda resistetti ai “resi stretti”, allorquando realizzai che un sogno costa troppo. Taglierò un traguardo forse, o forse mai. Scapperò, questo è certo, da una mentalità chiusa a doppia mandata… perché un po’ ti esilia la politica e, di quel che resta, se ne occupa il sottoscritto. Volerò consapevole via da qui e lo farò presto. Esiste una ricetta per me e ci condirò le giornate, non appena avrò il coraggio per leggerla. E’ già scritta, come il destino che mai t’ostini a seguire. Lo costruirai da te, e su quella strada ci passerà una persona mandata dallo stesso cielo spento di poco fa. Dev’esserci un futuro per ciascuno, ed aspetta sotto un cielo diverso e una sagra bizzarra la sua metà. A me basterà una meta, perché di accenti ho quelli delle mie orgogliose radici. E mai li sradicherò. Porterò nel cuore l’infanzia, i ricordi, la famiglia, gli amici e gli attimi dalla puzza d’eterno. Avrò fierezza nel dichiararmi italiano, nonostante sia stata proprio l’Italia, da conformazione a stivale, a darmi un calcio ben assestato. A se, Stato, proprio uno Stato a sé sul futuro dei giovani. Qui in provincia, sorde le orecchie dirigenziali e reticenti, nel non degnarmi di risposta. Indegno di nota, io che manco quelle sui registri beccavo. Rigavo e rigo dritto ancora, eppure farsi mantenere in prigione parrebbe una soluzione conveniente. Ti versano i contributi, poi avrai la famosa “seconda chance”, quella che non si nega a nessuno… è con le prime che abbiamo difficoltà, soprattutto quando sui curricula le traducono in inesperienza. Per loro, dovresti forse inventartene una, ma ho provato pure a percorrere questa elementare soluzione… poi è come alle elementari: dove t’erudiscono all’insussistenza di prove… riprova che il risultato non cambia! Se ne sbattono di concedere uno straccio d’opportunità, e si lavano quelli sporchi con cui ci inquinano. Io antipolitico, v’auguro egregi politicanti, d’ingozzarvi di “Belpaese” fino al punto di rimettere. Scellerati, Voi, poi, che cosa ci rimettereste? Nulla, impuniti e, pure se condannati, immuni, pertanto indenni, alla pena da scontare. Poi noi, a mantenere i nervi, anzi a mantenervi le doppie scorte: di privilegi, più quelle affollate, a proteggere proprio voi “privi in ligio”… poi mettiamo in cella il pensionato che ruba il pacco di pasta perché gli manca l’euro, mentre le vostre falle mai verranno a galla. Buona vita all’Italia, da parte di uno che ha provato a restarci. Sono appena arrivato a casa, giusto il tempo di ricopiare lo scritto… Eolo fischietta sotto l’infisso e smuove le chiome di piante e passanti. Non voglio rileggere i pensieri che vanno dal tramonto a questo momento, sarebbe come privare d’autentico il puro istinto. Vorrei solo che a qualcuno arrivassero, perché non c’è dialetto alle richieste e non c’è lingua all’amore. E’ un po’ come dare del venduto a ciò che è inestimabile. Sono solo uno dei tanti, sull’orlo di una crisi di inermi, coi nervi a fior di pelle. Ma pronto a disegnare un futuro… discosto da qui. Disposto da qui in avanti a realizzare senza rimpiangere, abolendo la piaga di un fastidioso e protratto piangermi addosso… Spengo qui il mio scritto. Qui, spengo in prima persona, è “astuto”… non credo d’esserlo chissà quanto, ma chiudo cauto, con l’augurio spassionato che giunga a qualcuno arguto,

Quirino Riccitelli
(disoccupato trentenne di provincia. E non per scelta… con la penna in fiamme, mentre fuori l’inverno esige freddo.) >>.

Questo è il mio inutile e lo scrivo quotidianamente

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IERI COME OGGI La ferocia della guerra

15 Gennaio 2015 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #saggi

  IERI COME OGGI  La ferocia della guerra

Nel 415 a. Ch. Euripide, mentre infuriava in Grecia la guerra del Peloponneso, con lo spirito probabilmente turbato per la ferocia mostrata dai contendenti, presentava al pubblico ateniese la tragedia Le Troiane. Si tratta di un’appassionata denuncia degli orrori delle guerre, che sono rovina per i vinti ma anche causa di degradazione morale per i vincitori, facilmente trascinati ad abusare della vittoria. La vecchia regina Ecuba, davanti all’uccisione del piccolo Astianatte, precipitato dalle torri di Troia, dirà rivolta ai vincitori:

…Greci/che siete pieni di orgoglio per le fortunate/vostre imprese guerresche, certamente/ voi non potrete gloriarvi mai/d’essere saggi, se compite tali/inconsueti terribili delitti.

La madre Andromaca effonde dolorosi lamenti:

Andròmaca:
   O carissimo, o tu sopra ogni cosa
   adorato figliuolo, or la tua madre
   misera lascerai, morrai per mano
   dei tuoi nemici; e ucciso la grandezza
   di tuo padre t'avrà: che agli altri suole
   recar salute; e fu quel suo valore
   per te retaggio inopportuno. O letto
   mio sventurato, o nozze, o casa d'Ettore,
   dove un giorno entrai sposa, e non perché
   vittima un figlio procreassi ai Dànai,
   ma un sovrano alla fertile Asia. O figlio,
   tu piangi: intendi la sciagura tua?
   Perchè t'afferri con le mani a me,
   stringi le vesti mie, come uccelletto
   ripari sotto l'ali mie? Dal suolo
   Ettore fuor non balzerà, stringendo
   la sua lancia tremenda, a tua salvezza,
   non del padre i parenti, e non la forza
   dei Frigi: un salto luttuoso, senza
   pietà, col capo in giù, spiccar dovrai,
   spirar l'alito estremo. O dilettissimo
   tenero amplesso per la madre, o dolce
   fragranza delle membra! Invano, dunque,
   te nelle fasce il sen mio nutricò,
   invano mi travagliai, mi macerai
   nelle fatiche! Or, la tua madre abbraccia,
   ché più non lo potrai, sèrrati a me
   che t'ho concetto, al collo mio le braccia
   serra, la bocca alla mia bocca stringi.
   O inventori di pene orride, o Ellèni,
   questo fanciullo, d'ogni colpa scevro,
   perché mai l'uccidete?

La descrizione della crisi dei valori in guerra è così descritta dallo storico Tucidide nella sua opera.(libro III, 82-83)

Le interne scosse segnarono a fondo le città con le infinite tracce del tormento e del sangue, che sono state e saranno sempre la dolente e cupa eredità di quei moti (finché non si converta la natura umana), più o meno temperata o convulsa, svariante da caso a caso, in armonia con il fluire ininterrotto e cangiante delle occasioni particolari. Quando splende la pace e l'economia è florida, le città e i privati godono di più limpidi intelletti, poiché non sono ancora inchiodati a fronteggiare ristrettezze implacabili. La guerra invece, che strappa dalla vita il quotidiano piacere della prosperità, è una maestra brutale e sa porre a modello, per orientare e accendere le passioni della folla, le circostanze del momento. Così non solo s'inaspriva lo strazio delle città sconvolte ma anche quelle in cui, per qualche motivo, esplodeva più tardi il seme della discordia, educate agli esempi del passato, si ingegnavano di spiegare all'eccesso il già sfrenato ventaglio d'originali e fantastici piani, per raffinare l'ingegnosa tecnica degli assalti a tradimento, per scoprire i più perfezionati e strani modelli di rappresaglia. L'ordinario rapporto tra i nomi e gli atti rispettivamente espressi dal loro significato, cioè l'accezione consueta, fu stravolto e interpretato in chiave assolutamente arbitraria. La temerità irriflessiva acquistò valore d'impeto eroico al sacrificio per la propria parte; la cautela accorta di maschera decorosa, per panneggiare uno spirito vile. La prudenza fu ritenuta un ripiego per celare la paura, spregevole in un uomo; l'intelligenza sollecita a scrutare ogni piega di un problema fu spacciata per totale inettitudine all'azione. Si valutò la furia selvaggia e folle qualità veramente degna di un ingegno virile; il ponderare guardinghi gli elementi di un'iniziativa, per dirigerla sicuri, onesto schermo per ripararsi nell'ombra. Il sordo ringhio della critica, del malcontento, ispirava sempre fiducia; ma la voce che si levava a contrastarlo si spegneva ogni volta nel sospetto. Operare un tradimento con mano pronta e felice pareva indizio di svelta mente, e prevenirlo un traguardo di destrezza anche più fine. Sulla meditata rinuncia a uno di questi metodi s'addensava l'accusa d'essere un fattore d'eversione per il proprio partito, e il frutto dello spavento di fronte all'avversario. In una parola, anticipare il collega di parte in una triste impresa era alta lode come eccitarvelo, se non ne aveva ancora concepito il progetto. Perfino al vincolo del sangue si riconosceva minor vigore che a quello di parte, poiché questo concedeva più sconfinato agio ad un ardimento senz'altro sciolto dall'obbligo d'accampar pretesti. Giacché sodalizi di tale carattere non sorgono con filantropici intenti, nel rispetto dell'ordine legale, che anzi calpestano per dissetare l'immorale febbre di potere. E le affermazioni di lealtà scambievole non si radicavano nel benedetto terreno delle leggi rese sacre dalla volontà divina, ma nella complicità cosciente d'innumerevoli soprusi. Le proposte del partito avverso, pur quando apparivano immuni da obliqui scopi, venivano accolte, ma solo per premunirsi su concrete basi nell'eventualità che entrassero in vigore, non in ossequio a un senso di liberale fiducia. Era più gradito merito avere un'ingiuria da vendicare che non averne subita nessuna. Se mai si perveniva a un'intesa, fondata su giuramenti, il loro valore si esauriva in quell'istante, costituendo l'unica soluzione per una parte e l'avversaria, quando lo stato attuale dei loro rapporti era troppo scottante e pareva non consentire sbocchi: ma chi, in questa corsa di sfrontata audacia, sapeva cogliere primo l'attimo propizio, scorgendo l'avversario allo scoperto, con più vivo piacere lo trafiggeva, poiché ingannava la sua fiducia più che assalirlo con leale slancio. Esercizio che si basava su un calcolo di sicurezza, ornato e impreziosito dal decoro del futuro vanto d'ingegno, giacché si avrebbe atterrato il nemico con l'insidia. Infatti i più scelgono d'esser chiamati astute canaglie che valent'uomini scipiti: reputazione questa che induce alla vergogna, quella all'orgoglio. L'avidità di potere era l'origine di tante perversioni: per furore di guadagno o d'onori. Istinti da cui si sprigiona, al primo nascere delle lotte faziose, la vampa ardente della passione politica. Chi, infatti, nelle varie città, emergeva dai conflitti impugnando il potere sulle ali prestigiose di una qualifica politica del pari protetta da una nobile, seducente patina, sia che per interessi di partito, proclamasse la sua fede nella eguaglianza di tutti di fronte alle leggi che reggono la convivenza sociale, o nella necessità di restringere a pochi, i migliori, i più saggi, il governo dello stato, pretendeva sempre, a parole, di aspirare al pubblico bene come a un premio ambito, ma in realtà, senza esclusione di colpi, combatteva una lotta spietata per un personale dominio. Vi impiegavano intrepidi gli strumenti più sanguinosi, e replicavano con rappresaglie anche più orrende senza intravedere nell'ordine legale e nel beneficio dello stato un limite invalicabile. L'orizzonte delle atrocità s'ampliava ad abbracciar via via quanto potesse spegnere per un attimo la brama di ciascuno. Occupavano il posto di comando appoggiandosi a un illegale verdetto di condanna o a un atto violento: nessuna bassezza era loro d'ostacolo a soddisfare l'attacco improvviso e sconvolgente della loro frenesia: il potere! Nessun partito praticava la pietà religiosa.

La più amabile stima circondava colui al quale sorrideva la fortuna in qualche impresa funesta sorretta da una rete abile e splendente d'illusori discorsi. I cittadini che preferivano una posizione d'attesa e d'equilibrio si esponevano come bersagli a entrambe le parti: sia per l'acredine che suscitava il loro sottrarsi all'adesione e all'appoggio, sia per il geloso rancore acceso dalla loro neutralità.

Dunque, al seguito delle sommosse civili, l'immoralità imperava nel mondo greco, rivestendo le forme più disparate. La semplicità limpida della vita che è il terreno più fertile per uno spirito nobile, schernita, s'estinse. Dilagò e s'impose nei personali rapporti, in profondo, un'abitudine circospetta al tradimento. Non valeva il sincero impegno verbale a distendere i cuori, né il terrore di violare un giuramento. Ognuno, quando aveva dalla sua la forza, vagliando volta per volta il proprio stato, certo che nessuna garanzia di sicurezza era degna di fiducia, con fredda meticolosità si disponeva piuttosto a munirsi in tempo d'adeguata difesa che concepire, sereno, d'aprir l'animo suo agli altri. Ed erano gli intelletti più rudi a conquistare di norma, il successo. Attanagliati dalla paura che il loro breve ingegno soccombesse all'acume dei propri antagonisti, alla loro destrezza di parola, nell'ansia d'esser trafitti prima d'avvedersene, dalla loro insidiosa mobilità inventiva, si slanciavano all'azione, con disperato fervore. I loro avversari invece, colmi di sdegnoso sprezzo, certi di prevenire ogni mossa nemica con una percezione istintiva, ritenevano superflua ogni concreta tutela fondata sulla forza fisica, e così scoperti perivano, fitti di numero.

Nel mondo romano la pax era una pace imposta con la forza e volta al dominio e alla sottomissione di un popolo conquistato. I romani giustificano la loro spietatezza definendosi i “migliori” e in quanto tali a loro si devono sottomettere i popoli più deboli.

Tacito (57 d.C.-120 d.C.) fu un grande storico dell’età imperiale di Roma.
Nell’Agricola, opera dedicata, per l’appunto, al generale Giulio Agricola, impegnato sul fronte della Britannia, lo storico parla di Càlgaco, un capo che riuscì a riunire sotto il suo comando tutte le tribù della Caledonia (l’attuale Scozia). Prima di combattere Càlgaco cerca di infondere coraggio ai suoi uomini e pronuncia un discorso in cui propone due alternative: la libertà o la morte. I romani, infatti, sono visti come insaziabili dominatori. Significativa è la frase che Tacito fa pronunciare al capo caledone a proposito della pax romana: “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”, che vuol dire, "là dove fanno il deserto gli danno il nome di p
ace".

Questa frase è stata anche oggi utilizzata per definire la politica imperialista delle grandi potenze.

Già Sallustio (85 a.C. - 35 o 36 a.C.) prima di Tacito aveva scritto nelle Historiae "I romani fanno la guerra a tutti, ma sopratutto a quelli la cui disfatta promette spoglie opime: osando, ingannando, passando da una guerra all'altra si sono ingranditi".

Sono le parole che Sallustio fa pronunciare a Mitridate, re del Ponto, per convincere il re siriano Arsace ad un’alleanza.

Ma, sebbene a pronunciare quelle parole nelle Historiae sia Mitridate, a scriverele è pur sempre Sallustio il quale è cosciente della decadenza dei "boni mores" sostituiti ormai dalla "potentiae cupiditas" dei Romani.

Dunque tanto Sallustio quanto Tacito sembrano schierarsi contro la avida politica imperialistica di Roma. In realtà Tacito non fu un critico dell’Imperialismo romano sic et simpliciter.

Il suo merito principale fu quello di porsi dal punto di vista altrui, ossia dei nemici e degli sconfitti. Seppe cioè dar voce anche alla posizione non ufficiale. Gli storici più "pluralisti", almeno a partire da Sallustio, esplicitavano le denunce contro gli eccessi imperialistici della politica estera romana facendo pronunciare un discorso di accusa ad un nemico di Roma, riprendendo, in tal modo, un modello narrativo che risaliva alla storiografia greca. Lo stesso fa Tacito in più di un caso.

Tuttavia Tacito, pur sembrando condividere il punto di vista del nemico, non intende porre in discussione l'imperialismo romano, in quanto ritiene che l'ordine di Roma (la "pax romana") sia l'unica garanzia di sopravvivenza per tutti. Fa infatti pronunciare al generale Petilio Ceriale un’apologia dell'imperialismo romano. In conclusione, secondo Tacito, non è realistico prescindere dalla "pax romana" nonostante i suoi difetti. Il suo merito è stato comunque quello di metterli in luce dando voce alle vittime della missione universale di Roma.

Discorso di Calgaco

«Quando ripenso alle cause della guerra e alla terribile
situazione in cui versiamo, nutro la grande speranza che questo giorno, che vi
vede concordi, segni per tutta la Britannia l’inizio della libertà. Sì, perché
per voi tutti qui accorsi in massa, che non sapete cosa significhi servitù, non
c’è altra terra oltre questa e neanche il mare è sicuro, da quando su di noi
incombe la flotta romana. Perciò combattere con le armi in pugno, scelta
gloriosa dei forti, è sicura difesa anche per i meno coraggiosi. I nostri
compagni che si sono battuti prima d’ora con varia fortuna contro i Romani
avevano nelle nostre braccia una speranza e un aiuto, perché noi, i più nobili
di tutta la Britannia - perciò vi abitiamo proprio nel cuore, senza neanche
vedere le coste dove risiede chi ha accettato la servitù - avevamo perfino gli
occhi non contaminati dalla dominazione romana. Noi, al limite estremo del mondo
e della libertà, siamo stati fino a oggi protetti dall’isolamento e
dall’oscurità del nome. Ora si aprono i confini ultimi della Britannia e
l’ignoto è un fascino: ma dopo di noi non ci sono più popoli, bensì solo scogli
e onde e il flagello peggiore, i Romani, alla cui prepotenza non fanno difesa la
sottomissione e l’umiltà. Predatori del mondo intero, adesso che mancano terre
alla loro sete di totale devastazione, vanno a frugare anche il mare: avidi se
il nemico è ricco, arroganti se povero, gente che né l’oriente né l’occidente
possono saziare; loro soli bramano possedere con pari smania ricchezze e
miseria. Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero;
infine, dove hanno fatto il deserto, quello chiamano pace.»

Effetti della guerra e della pace in Tibullo, un poeta romano del I secolo a.C

Liber I,10

Guerra e pace

Chi fu il primo ad inventare le terribili spade? quanto davvero ferino e ferreo egli fu! Da allora sono nate le stragi per il genere umano, da allora i combattimenti, ed è stata aperta una via più breve alla morte terribile. O forse quel miserevole non ebbe nessuna colpa: noi abbiamo volto a nostro male ciò che egli inventò contro le terribili bestie? Questo è colpa dell'oro che arricchisce, e non c'erano guerre quando una coppa di faggio stava davanti alla mensa, non c'erano rocche, né trincee, ed il pastore faceva sogni sicuro fra le pecore dai vari colori. allora sarei vissuto felicemente, non avrei conosciuto le tristi armi e non avrei udito il suono di tuba con il cuore in tumulto. ora sono spinto di forza alle guerre, e già forse un nemico porta le frecce destinate a piantarsi nel mio fianco. Lari patrii, salvatemi: voi stessi mi avete anche allevato, quando bambinello sgambettavo davanti ai vostri piedi. Non vergognatevi di essere fatti di legno antico: così abitaste la dimora del mio antico avo.

Allora tennero meglio fede, quando un dio di legno era in una piccola nicchia con modesto culto; quest'ultimo era pago sia che qualcuno gli avesse fatto offerte d'uva, sia che gli avesse posto sulla sacra chioma coroncine di spighe; e qualcuno di persona gli portava - esaudito nel voto - focacce: e dopo di lui veniva la piccola figlia portando come compagna un favo puro. E da me scacciate i dardi di bronzo. (per voi) ci sarà un maiale (tolto) dal ricolmo porcile come offerta rustica; io la seguirò con una veste pura, porterò un canestro cinto di mirto, anch'io col capo circondato di mirto. Così io possa piacervi, qualcun altro sia forte nelle armi ed abbatta i comandanti avversari con il favore di Marte, perché possa raccontarmi mentre bevo le sue imprese di soldato e dipingere con il vino l'accampamento sul tavolo. Quale pazzia è affrettare con le guerre la morte terribile? Incombe già e viene con piede silenzioso di nascosto. Laggiù non ci sono campi seminati e coltivazioni di vigne, ma Cerbero feroce e lo squallido nocchiero della palude Stigia; lì erra per le acque oscure una folla spettrale con le gote lacerate ed i capelli ustionati. Quanto piuttosto si deve lodare chi, dopo essersi procurata una prole, la lenta vecchiaia raggiunge nella propria casa! Egli stesso accompagna le sue pecore, ed il figlio gli agnelli, e la moglie prepara l'acqua calda per lui stanco. Così possa essere io! e mi sia concesso incanutire nel capo con i capelli bianchi, e da vecchio raccontare fatti del tempo antico. Nel frattempo la Pace renda fecondi i campi; la candida Pace per la prima volta condusse ad arare i buoi sotto i gioghi ricurvi; la Pace fece crescere le viti e ripose i succhi d'uva, affinché l'anfora del padre possa versare vino per il figlio; quando c'è pace la marra ed il bidente splendono, mentre la ruggine si impadronisce delle tristi armi del duro soldato nelle tenebre.

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Amarcord di un giorno di festa

14 Gennaio 2015 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini

Amarcord di un giorno di festa

Quirino Riccitelli ci invia ancora le sue originali riflessioni sul mondo e sulla vita.

Pomeriggio festivo. Assurda nostalgia, mista alla voglia di rivivere ricordi. Ho uno scopo: ritrovare la forza di una vita che pretende d’essere vissuta al massimo. Eppure resto spento…credo ancora nelle mie memorie, intatte nella pellicola integra che gira in VHS, dove un ricordo è senza tempo. Ricordi affiorano, poi torno alla realtà. Poi ancora… è un continuo ricordare e perdere il contatto col resto. Rivivo per ravvivarmi, oggi è tempo…
Ci sono episodi brevi nella vita di ognuno, memorie che, di tanto in tanto, affiorano. Momenti magici, al punto di puzzare d’impareggiabile. Il più nitido è quello di nonna, che non baciava, ma mordeva la guancia, come a dimostrare un amore provato, così tanto forte, da imprimertelo sul viso sotto forma di dolore. Salta in mente, come un bimbo sul lettone, un ricordo… e se ne sbatte del perché, nella mia logica imponente di ricondurgli un motivo. Quello del vecchio sulla bici ad esempio; la sequestrò al nipote, col quale spesso giocavo. Quel giorno se ne stava lì, a pedalare incerto, nel cercarsi, nostalgico, un frangente di giovinezza da ritrovare. In quella pedalata. Chissà quanto dura è, per un anziano privarsi di quel senso d’istinto, perso ed estinto, sulla strada della saggezza. Rammento poi me sulla bici, a rischiare la virilità sul tubolare della “mountain bike”. Spesso, a quel rischioso aggeggio, ci legavo le canne da pesca e raggiungevo il fiume, con gli amici oggi lontani da qui. Li rivedo in queste feste alcuni di loro, ma, un po’ la distanza, un po’ gli anni, hanno congelato i rapporti, oggi freddi e apparenti. Penso, e mi balza ancora quel bimbo in mente. Ero io su quel lettone, a sbirciare silenzioso, dietro una porta, i discorsi in cucina dei miei.. . ed è più rumorosa d’allora, la risata d’amore che Papà restituiva a Mamma, mentre in tv Corrado lo faceva di gusto sui dilettanti allo sbaraglio. Io, timido a capire cos’era quell’amore, per cui avrei anche sofferto. Quanti ricordi. Trattengo, anche ora che scrivo il fiato, schivo nel ripensare a quei sospiri in famiglia. Poi annuisco col capo alle belle notizie. Stappammo alla fine del mutuo una bottiglia, poi altre, in certe e rare occasioni. Guardo ancora con stupore i miei, un po’ delusi, dal rappresentare, forse e forzati, l’odierna classe media in via d’estinzione. Loro sono comuni, senza risonanti parentele… e se gli dici “nepotismo” o “mala fede”, in buona fede, pensano ai figli dei fratelli. Mio padre è puntuale a lavoro, e, da più di trent’anni, continua a riservare a Mamma le medesime attenzioni. D’amore, annaffia ogni giorno e m’imprime un valore. Ci crebbi allora, ci crebbi ancora sino ad oggi, ancor fermo io, ma a contemplare con quanta tenacia e forza, il padre di tutti i sentimenti e il mio, s’ostinino a rinnovarsi. Eclettico l’amore nel conservarsi, solito nel persistere. Così dannatamente puro! Scavalco un nuovo pensiero e mi ritrovo altresì, si… altre storie da rimembrare. Arrivano d’un tratto e maleducate… le mie lacrime di dolore sull’asfalto, a sbucciarci le ginocchia da bimbi, quando con quattro pietre facevamo le porte, e il marciapiede era la linea laterale. Nelle cooperative giocavamo così e, a Carnevale, bussavamo mascherati ai campanelli. Infastidivamo di proposito i residenti, senza metterci la faccia, solo per chiedere qualche spicciolo, con la minaccia dello “scherzetto”… che poi non avresti fatto comunque. Sono come il vecchio di prima, oggi e purtroppo trapassato: nostalgico degli anni ’90. Dei miei ’90, non quelli dell’angolo a cui ti prostra ‘sta vita, avvilita d’odierna fattezza. Erano proprio quegli anni in cui ci si accontentava di poco. Anni d’educazione, quando si anticipava il “Don”, al nome dell’anziano nel palazzo. Il vecchio stampo, quello che oggi, forgia, ma difettato, la corrente generazione. Il resto dell’anno lo passavamo a ficcarci uno stuzzicadenti nei campanelli, oppure a demolire i gerani della zitella al secondo piano, con l’arancione del “Super Santos”. Anni irripetibili, quelli di “Come mai” e “Lemon tree”, de “Il mago di OZ" e “Fantaghirò”, mentre “La storia infinita” e “Karate kid”, beh… si contendevano la mia preferenza. Oggi siamo tutti riuniti in famiglia, per questo giorno di festa. Mi mancano i nonni, e manca la spensieratezza. Ansia e preoccupazione oggi. E’ adesso, che mi sale la più vera delle nostalgie. Una febbre da placare, immergendomi in vecchi reperti. Cerco assetato sul mobile, e ne trovo una serie assestati. Soffio sulla polvere di quei rettangoli neri, che proteggono memorie sbiadite come fanno le scatole dello stesso colore. Che poi, in verità, sono arancioni, come il pallone di prima. Forse perché l’autentico ha un solo colore, ed è quello della verità. Oggi voglio riscoprire qualche sorriso mai scaduto, eppure distillerà in lacrima. Ne nutro ennesima consapevolezza; perso io, che ho preso adesso una vecchia VHS e, il videoregistratore, un po’ datato, l’ha pure sputata tre volte, prima di riprodurne il contenuto. Le cassette stanno lì, su uno scaffale così inutilizzato che una ragnatela è scontata. Col tempo poi, s’è staccato nel contempo il pezzetto di carta, dove, a penna, riportavamo ciò che, malamente e tremolante, riprendeva Papà. Il contenuto insomma, lo stesso che sarà: a sorpresa; sorpreso io, nel rivedermi così vivo e pimpante. In quel filmato, girato a casa vecchia, saltellavo verso l’obbiettivo, ancora e ripetutamente. Nel frattempo mi teneva a bada mio padre, almeno ci provava e, con paternali, promesse punizioni e calci volutamente a vuoto, talvolta adempieva allo scopo. Riprendeva Papà, e come… impartiva educazione proprio così, quello stesso uomo che, stamattina, stava sul letto con tanto d’occhialino, a spulciare sul libretto dello smartphone regalatogli per Natale. “Informazioni utili al corretto utilizzo dell’apparecchio” appariva sul cartaceo, ancora con la plastica attorno. Guai a rovinare cose mio padre; orgoglioso, s’impegna a stare al passo con le innovazioni, eppure ci mette del suo per personalizzarne le attuali comprensioni. Un po’ come quando ha un sito da controllare, che appunta a penna su un pezzetto di carta, e comunque sia… va prima su “google” per cercarlo, senza scorciatoie troppo moderne, come quella di scriverlo direttamente nella barra per accedervi. Il “Philips”, dopo un attimo d’esitazione, ha schiarito le quattro linee orizzontali d’incertezza, e poi, l’immagine s’è stabilizzata. Ero proprio io l’attore frenetico e, fluidamente, spostavo le sedie in soggiorno. Pretendevo il “primo piano”, guarda caso… la casa era proprio a quell’altezza; io, invece, avevo qualche centimetro in meno, ma non stavo affatto al “piano terra” come oggi… casa vecchia, infanzia e poi adolescenza. Non resta che disillusione, come retrogusto del tempo passato, forse passato troppo bene. In fretta, oggi che è troppo tardi, tanto che un po’ “tardi” ci si è proprio. Costretti e ristretti, e già di prima mattina negli stimoli. E, un po’, ci sa eccome d’amaro, quel primo caffè di ciascuna mattina. Come quando, in certi giorni, t’ingozzi e t’avanza solo la nausea del buono ingerito. Malamente digerito. Mi serviva ricaricarmi di ricordi concreti, rintanando incertezze, per rimediare un barlume della stessa forza che, spesso, dimentico d’avere. Sono sempre io quel bimbo di ieri, un po’ pasciuto e disilluso forse… ma ci somiglio ancora. Mi chiedo se mai torneranno dei giorni come quelli, semmai le lacrime spontanee di quel rivivere, che da adesso mi condiranno il resto della giornata, bagneranno la terra che s’arricchisce di fertile, o se, quel rivedermi gioioso, sia solo un frangente stonante d’irripetibile. Dubbioso, per ora ci bagno il foglio… poi si vedrà…

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Buon Natale!!!!!!

25 Dicembre 2014 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #unasettimanamagica

 Buon Natale!!!!!!

Con un racconto e una poesia di Adriana Pedicini, la Redazione tutta vi augura:

BUON NATALE!!!!!!

E' di nuovo Natale

Sulla tavola la tovaglia in canapone di Maratea, su di essa le testine ricamate di babbo natale al centro scuotono i berretti tintinnanti, all’orlo campanule e rametti di pungitopo e nodi rossi di nastro. Tutto sembra vivo e non effetto di vivide stampe tra il luccichio ambrato delle stoviglie.

Nel tinello, in attesa Mara e Fabrizio, seduti a guardare il monitor del televisore. Mi giunge in cucina il suono scrosciante del riso di mio figlio che ridiventa fanciullo alle sequenze dei cartoni animati: noto con disappunto che non si stende più come una volta sulla poltroncina di vimini con i piedi poggiati sul ripiano del cassetto.

Sulla poltroncina siede la sposa dal volto di adolescente. Il pranzo è in tavola.

Alla sinistra del padre siede oggi come una volta Fabrizio: è uomo e bambino. Gli altri due sono ospiti delle fidanzate.

Per me i bambini appaiono e scompaiono; sono scomparsi... non spunta alcun angolo bianco di buste natalizie dalle pieghe dei tovaglioli. Ora solo i miei occhi malinconici di anni ammucchiati le scorgono … lontane, velate dai vapori dietro i vetri color ghiaccio. Solo i miei occhi rivedono i miei righi affrettati e i volti di mio padre, di mia madre, delle sorelle, dei fratelli, le sedie su cui ognuno di noi all’impiedi doveva recitare la poesia natalizia se voleva il regalino agognato. Sento ancora sul viso il bruciore delle guance arrossate per la vergogna puerile.

Squilla il telefono. Risponde il capofamiglia: “Antonio, Lorenzo, come state? Affettuosi auguri. Vi passo Pina”.

“Oh, Lorenzo, ci hai preceduto. Buon Natale, ti passo Mara, Fabrizio. Oggi sono con noi”.

- Ho sognato che era nato un maschietto con gli occhi neri…. Ma non sono più mia madre, mio padre. Un Natale in quattro, non più in sei, non più in cinque - vado rimuginando da sola in silenzio.

Seggo all’angolo del tavolo, verso la porta. Sorrido dolcemente a Mara, l’esorto a mangiare: ora deve mangiare per due.

Cerco di spostarmi sempre più verso l’angolo, per prendere meno posto, vorrei che il mio viso sparisse dietro il vapore profumato delle pietanze e un altro ne apparisse per lei noto e amato, svanito e rimpianto. Sono una madre, ma non la sua.

I miei sguardi carezzano il giovane viso di mio figlio, di mia nuora, un’altra figlia. La mia voce ha toni di parca allegria.

Bisogna telefonare agli zii in America. Glielo abbiamo promesso.

Se ne incarica mio marito “Oh, sì…vi sento benissimo, Merry Christmas e Buon Natale a tutti, la piccola Sonja come sta? Auguri, auguri! Qui c’è tutta la famiglia Brambilla, ti passo Pina…Fabrizio…Mara…; James, cari auguri… grazie, Billy… il mio amico cane? Sì, sta bene”.

Fabrizio: ”Sono l’ultimo, passo e chiudo”.

“Aspetta, passami Lizzie” si precipita il capofamiglia ad afferrare la cornetta del telefono.

“Lizzie, il Palazzo di vetro (di New York) è ancora a posto? Se dovesse muoversi, mandami subito a chiamare…ci penso io”.

Il nostro spumante forse non è ottimo, tuttavia si brinda. Di tempo ce n’è, non lo abbiamo sprecato a parlare tra di noi. Ognuno ha dialogato o con la nostalgia o con il dolore o con la speranza. Il capofamiglia con la noia di sicuro.

Un altro Natale!

L’anno venturo saremo in cinque.

Bisognerà lavare la tovaglia, vi sono parecchie macchie.

Sera di Natale

Stupore antico nell’aria
Il cielo
in attesa
nevica tenebre silenti
intenerisce i cuori persi
all’innocenza.
Brilla una cometa
sul sentiero smarrito
per antiche colpe.
Semi di speranza nel sorriso
del Bambino divino
sceso dalle stelle.
Tutto è possibile
se il silenzio più della parola
stillerà nei cuori
il desiderio di un mondo
che non tornerà mai più
se il vento o la pioggia
scioglieranno le angosce
e la coscienza si aprirà all’Amore
in questa notte santa.

A.P.

 Buon Natale!!!!!!
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